L’Italia vivace che non si legge nel Contratto di governo di Agnese Moro La Stampa, 26 maggio 2018 Per una di quelle strane coincidenze che a volte si verificano sono usciti, praticamente negli stessi giorni, il testo del Contratto di governo tra Lega e MoVimento 5 stelle e il calendario definitivo delle 600 iniziative del Festival dello sviluppo sostenibile. Promosso, dal 22 maggio al 7 giugno, dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis) con oltre 180 organizzazioni e reti della società civile per fare il punto sulla attuazione della Agenda 2030 e degli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’Onu nel 2015. La coincidenza crea la curiosità di un confronto tra gli obiettivi del probabile nuovo Governo e quelli di tante, e tanto varie, realtà della società italiana. Varie davvero: università, Comuni, associazioni, organizzazioni professionali e scientifiche, industrie, fondazioni bancarie e non, scuole, reti, artisti, parrocchie, organizzazioni civiche e sportive, Ong. Le somiglianze nei temi non mancano, soprattutto per quanto riguarda ambiente, green economy, acqua, sport, clima, rifiuti, trasporti e turismo. Non mancano anche le differenze, la principale delle quali è il valore da attribuire alla diversità, meritevole di tutela nel programma di governo solo per la disabilità e da rifiutare e combattere per quanto riguarda tutto ciò che non è italiano; mentre nelle iniziative del Festival torna continuamente in termini di interdipendenza, accoglienza dei migranti, sostegno ad Africa, Asia, Sud America, protezione delle biodiversità. Altre divergenze: quelle delle diseguaglianze e della povertà. Nel programma di Governo sono assorbite dalla questione del reddito e della pensione di cittadinanza, mentre nel Festival trovano spazio con numerose esperienze e tematizzazioni. Festival nel quale sono declinate in mille modi esperienze di innovazione sociale, scientifica, industriale, agricola, manageriale, culturale, paesaggistica, ambientale, urbanistica e architettonica, che suonano un bel po’ diverse dalle prospettive protezionistiche di confini, espulsioni, carceri, sensazioni di assedio così presenti nel Contratto di governo. Una vivacità che mette di per sé in discussione l’idea ottocentesca di popolo, così cara a tutte le componenti del prossimo Governo, per riportarci a un più reale Paese fatto di persone (è il fondamento della Repubblica), partner capaci di pensare, creare, sperimentare. Giustizia, profilazione vietata. Stop al trattamento automatizzato dei dati personali di Giovanni Galli Italia Oggi, 26 maggio 2018 In G.U. il decreto che riguarda indagati, imputati, condannati, testimoni. Vietata la profilazione massiva di indagati, imputati, condannati, parti civili e testimoni. Le autorità giudiziarie dovranno astenersi dal trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati per valutare affidabilità, comportamento o spostamenti della persona interessata. Il mancato rispetto della normativa a tutela della privacy comporterà l’applicazione di sanzioni penali nonché di pesanti sanzioni amministrative (che nei casi più gravi possono andare da 50 mila a 150 mila euro) per le violazioni inerenti alle modalità del trattamento. Lo prevede tra l’altro il decreto legislativo 18 maggio 2018, n. 51 di “Attuazione della direttiva (Ue) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativa alla protezione delle persone fi siche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fi ni di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/ GAI del Consiglio”, pubblicato sulla G.U. n.119 del 24 maggio 2018 e in vigore dall’8 giugno prossimo. Il provvedimento, parallelo a quello (ancora in viaggio) sull’adeguamento dell’ordinamento italiano al regolamento Ue sulla protezione dei dati (il cosiddetto Gdpr, in vigore dal 25 maggio) mette al bando le decisioni dell’autorità giudiziaria basate unicamente su un trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che producono effetti negativi nei confronti dell’interessato, salvo che siano autorizzate dal diritto dell’Unione europea o da specifiche disposizioni di legge. Le disposizioni di legge devono prevedere garanzie adeguate per i diritti e le libertà dell’interessato. Ed è vietata la profilazione finalizzata alla discriminazione di persone fi siche. In generale il decreto regolamenta il trattamento dei dati personali per finalità di prevenzione e repressione di reati, esecuzione di sanzioni penali, salvaguardia contro le minacce alla sicurezza pubblica e prevenzione delle stesse, da parte sia dell’autorità giudiziaria, sia delle forze di polizia. Esso supera e sostituisce in gran parte quella attualmente contemplata nei titoli primo e secondo della parte seconda del Codice sul trattamento dei dati personali di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, dedicate a specifici settori, in particolare quello giudiziario e quello dei trattamenti da parte delle forze di polizia. In particolare, il testo prescrive che i dati siano conservati per il tempo necessario al conseguimento delle finalità per le quali sono trattati, sottoposti a esame periodico per verificarne la persistente necessità di conservazione e cancellati o anonimizzati una volta decorso tale termine e introduce una nuova disciplina riguardo alla differenziazione tra categorie di dati (fondati su fatti ovvero su valutazioni) e di interessati, in ragione della loro specifica posizione processuale. Inoltre, riguardo ai diritti dell’interessato (ricezione di informazioni, accesso, rettifica, cancellazione, limitazione del trattamento), il testo prevede che rispetto ai dati personali contenuti in una decisione giudiziaria, in atti o documenti oggetto di trattamento nel corso di accertamenti o indagini, nel casellario giudiziale o in un fascicolo oggetto di trattamento nel corso di un procedimento penale o in fase di esecuzione penale, l’esercizio di tali diritti è regolato dalle disposizioni normative che disciplinano tali atti e procedimenti. In materia di sicurezza del trattamento, si prevede come obbligatoria anche per l’autorità giudiziaria la nomina del responsabile della protezione dati, in ragione dell’ausilio che tale fi gura può fornire nella gestione di trattamenti complessi e spesso inerenti dati sensibili, quali appunto quelli svolti in sede giurisdizionale. Per quanto riguarda i trasferimenti di dati personali verso Paesi terzi o organizzazioni internazionali, si stabilisce che esso sia consentito solo nei confronti delle autorità competenti e per le finalità di pubblica sicurezza oggetto della direttiva e in presenza di specifiche condizioni, tra cui l’adozione, da parte della Commissione dell’Unione europea, di una decisione di adeguatezza o, in mancanza, vi siano garanzie adeguate. Burocrazia e certificati, così il boss è riuscito a eludere il carcere duro di Enrico Bellavia La Repubblica, 26 maggio 2018 Polemica su un capomafia ergastolano, passato dal 41bis ai domiciliari. Il Dap lancia l’allarme: “Troppi permessi e visite, così si snatura l’isolamento”. Dai rigori del 41 bis al G8 di Rebibbia con i detenuti comuni e poi a casa. Tutto in pochi mesi, giocando sulle leve di istanze, buchi normativi, burocrazia e certificati medici. Il salvacondotto perfetto è riuscito all’ergastolano Raffaele Bevilacqua, 69 anni, avvocato, politico dc andreottiano, capomafia di Enna, benedetto da un pizzino di Bernardo Provenzano (“è una brava persona”) e in rapporti tanto con l’ex presidente della Regione siciliana Raffaele Lombardo che con il pd Mirello Crisafulli. Alla guida del territorio in cui si tenne il summit che decise la campagna stragista di Cosa nostra nel 1992, Bevilacqua, in cella per mafia e un omicidio da 15 anni, ha ottenuto i domiciliari per problemi cardiaci. Un braccialetto elettronico ne controllerà i movimenti. Dopo la morte di Totò Riina, in tanti tra il popolo dei 742 ristretti in regime di carcere duro in 13 carceri italiane si stanno dando un gran da fare, dosando anche larvate ammissioni, per ottenere che un giudice metta fine all’attualità del pericolo di rapporti mafiosi con l’esterno. Un presupposto indispensabile per lasciare il 41 bis. Molto si gioca al tavolo dei tribunali di sorveglianza. Perché il carcere duro è ormai oggetto di un martellante succedersi di colpi tesi a ridurne l’efficacia. La norma che permette al garante nazionale dei detenuti di far visita a chiunque e avere colloqui riservati, ha autorizzato, per esempio, i garanti regionali e comunali, di nomina politica locale, a muoversi nella stessa direzione e a ottenere l’ok dai magistrati di sorveglianza. Una pratica che al Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, guardano con preoccupazione avvistando il rischio che si trasformi nell’ennesima testa d’ariete contro l’isolamento assoluto dei boss. È accaduto per il camorrista, Umberto Onda, reggente del clan Gionta di Torre Annunziata che ha ottenuto il via libera dal giudice di Spoleto. E quando il Dap si è opposto, la magistratura di Perugia ha confermato. Nell’attesa di un parere della Cassazione, il colloquio si è tenuto. Non è andata bene a Salvino Madonia, l’assassino di Libero Grassi, dell’omonimo clan palermitano. Prima Viterbo e poi Roma hanno opposto un doppio no all’incontro con il garante del Lazio. Ma a Sassari, il garante locale è arrivato a un passo dall’incontro con il camorrista Francesco Schiavone, nel carcere più blindato d’Italia. Le pronunce difformi complicano una situazione già molto elastica. “Mi chiedo cosa accadrà quado anche a Corleone nomineranno un garante comunale dei detenuti”, ironizza un alto dirigente delle carceri. Le maglie si allargano anche sul fronte dei permessi di necessità. Ovvero quelle visite blindate ai familiari morenti o alle tombe di congiunti. Domenico Gallico, ‘ndrina di Palmi, 7 ergastoli all’attivo, all’inizio di quest’anno ha avuto il via libera per un colloquio con la madre, ergastolana come lui ma con pena sospesa per motivi di salute. Sarebbe bastato andare con la memoria al 2012 quando era riuscito a ottenere con il pretesto di una diffamazione di farsi interrogare da un magistrato di Reggio. Gallico lo massacrò a calci e pugni in un agguato in piena regola. E il 41 bis smotta anche quando di mezzo ci sono i figli. Il tentativo di evitare l’allontanamento dei minori da una famiglia mafiosa, ha portato un boss della ‘ndrangheta a impegnarsi in un progetto educativo. Che almeno per qualche ora nei fatti cancella il carcere duro. Verona: fece una rapina da 35 euro, si impicca in cella di Enrico Presazzi Corriere di Verona, 26 maggio 2018 L’uomo (38 anni) è morto giovedì in ospedale. Avesani: riforma urgente. È stato trovato con le lenzuola annodate attorno al collo, R.Z., marocchino di 38 anni in carcere a Montorio per una rapina con resistenza di un paio di scarpe da 35 euro, si è suicidato in cella. A lanciare l’allarme, mercoledì, è stato il suo compagno di cella che l’ha ritrovato privo di sensi con le lenzuola annodate attorno al collo. I soccorsi sono arrivati subito nel carcere di Montorio, ma per R.Z., marocchino di 38 anni, non c’è stato nulla da fare. Dopo il ricovero all’ospedale di Borgo Trento, è morto nella serata di giovedì. Un suicidio denunciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute che punta il dito contro la mancata emanazione del decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario. Il nordafricano era finito in carcere a dicembre con le accuse di rapina, danneggiamento e resistenza. “Non aveva precedenti, non era mai stato arrestato. Qui a Verona non aveva parenti”, ricorda il suo avvocato Cristiano Pippa che dopo la condanna in primo grado aveva presentato ricorso in appello (ancora in attesa) e aveva chiesto misure di sostituzione del carcere che non erano mai state accolte. L’uomo, ospitato al dormitorio comunale del Camploy e qualche lavoro saltuario da bracciante, quel pomeriggio di metà dicembre aveva esagerato con l’alcol e si era presentato all’interno di un negozio di scarpe di un centro commerciale. Sorpreso a rubare un paio di sneakers da 35 euro, aveva lanciato in aria espositori e scatole spaventando i clienti. Fino a quando non era stato arrestato e portato a Montorio. Un detenuto che non aveva mai mostrato particolari segnali di disagio, secondo la direzione. “Si tratta di un dramma che ha sconvolto tutti quanti - dichiara la direttrice Maria Grazia Bregoli. Ci siamo messi in contatto con il consolato del Marocco per rintracciare i parenti”. Ieri mattina, l’imam e il cappellano del carcere, lo hanno ricordato in un momento di preghiera all’interno della struttura. Un dramma su cui è intervenuta la Camera Penale Veronese. “La riforma è urgente e indifferibile, lasciata a languire nel nulla per motivi incomprensibili - commenta il presidente Claudio Avesani. E intanto in carcere si continua a morire”. “La situazione a Verona è migliore rispetto a molte altre, ma il problema è quello di un sistema non in grado di sopperire alle esigenze psichiatriche e psicologiche dei detenuti” riflette la responsabile della commissione carcere dei penalisti, l’avvocato Elena Pranio. Napoli: detenuto 30enne morto a Secondigliano, la famiglia presenta un esposto Ansa, 26 maggio 2018 La famiglia di Cosimo Caglioti, il trentenne di Sant’Angelo di Gerocarne deceduto mercoledì scorso nel carcere di Secondigliano per cause da accertare, ha presentato un esposto alla Procura del capoluogo campano per chiedere che venga fatta piena luce sul decesso. I congiunti della vittima si sono affidati agli avvocati Vincenzo Galeota e Luca Cianfaroni, che hanno depositato una perizia medico legale disposta dalla Corte d’appello di Catanzaro in cui si sottolineano “le critiche condizioni di salute del giovane” per le quali si era in attesa della decisione del Tribunale in merito alla richiesta di scarcerazione. Caglioti era stato condannato a 30 anni di reclusione in primo e secondo grado per l’omicidio di Michele Mario Fiorillo, da cui era scaturita la faida tra il gruppo di appartenenza del detenuto deceduto, i Patania di Stefanaconi, e quello rivale dei “piscopisani”. Il detenuto deceduto era ritenuto il terminale armato della famiglia Patania, alla quale era legato da vincoli di parentela. Caglioti era detenuto dall’ottobre del 2012, dal giorno cioè degli arresti per la faida eseguiti dai carabinieri su direttive della Dda di Catanzaro, prima nel carcere di Cosenza e successivamente in quello di Secondigliano. Napoli: detenuto 20enne operato d’urgenza al cervello per un’infezione da streptococco di Manuela Galletta giustizianews24.it, 26 maggio 2018 C’è una storia che abbiamo indugiato a raccontare, perché il quadro - al di là delle legittime preoccupazioni di una madre o di un familiare - non era chiaro. E, a fronte di una generale incertezza, abbiamo deciso di fare un passo indietro in attesa che lo scenario si delineasse: la nostra linea è raccontare una storia compiuta, non gettare sospetti, fomentare gli animi. Men che meno alimentare il fuoco che brucia tra i detenuti e chi opera all’interno delle prigioni. Sì, perché questa storia che abbiamo atteso a raccontarvi si è consumata proprio in carcere. Quasi tre settimane fa un ragazzo di 20 anni è passato, nel giro di poche ore, dalla brandina della sua cella nel carcere di Poggioreale alla sala operatoria del Cto ai Colli Aminei. Operato d’urgenza alla testa. Comprensibile lo sconcerto dei parenti, che hanno immediatamente puntato l’indice contro la casa circondariale. Comprensibile il bailamme che si è creato e anche le immediate accuse a mezzo social lanciate all’indirizzo del carcere. Ma più di quello che vi abbiamo rappresentato fino a questo momento nulla si sapeva. Non si sapeva se fosse accaduta una disgrazia, non si sapeva se il 20enne avesse qualche problema che anche lui ignorava. Si sapeva solo che il ragazzo si chiama Antonio Michele Elia ed è il figlio del boss Renato del Pallonetto di Santa Lucia. Si sapeva, infine, che era detenuto a Poggioreale dal gennaio dello scorso anno per traffico di droga a seguito del maxi-blitz del gennaio 2017 che ha fermato il business dello spaccio gestito dalla cosca, fatto per il quale Elia è stato già condannato in primo grado. Ci siamo interrogati a lungo, tre settimane fa, sull’opportunità di lanciare la notizia (benché essa fosse già in ‘circuito’) e alla fine abbiamo deciso di fermarci, perché, a fronte di una verità che non riusciva ad emergere, scriverne avrebbe solo portato ad una inutile esposizione mediatica del ragazzino e ad una inutile polemica. Tanto è vero che sino ad ora, anche i difensori di Elia - gli avvocati Raffaele Chiummariello e Marilù Mellino - hanno responsabilmente scelto di aspettare di comprendere cosa fosse accaduto prima di presentare un esposto contenente fatti concreti. Oggi la situazione è più chiara, e abbiamo la certezza che la notizia che stiamo per rappresentarvi incarni davvero la missione di denuncia propria di un giornale. Antonio Michele Elia, dopo aver subito ben due interventi al cervello, ha lasciato il Cto ai Colli Aminei per essere trasferito al Cotugno dove adesso è ricoverato. E il Cotugno, è un dato notorio, è specializzato anche in malattie infettive. La scelta di trasferire qui il 20enne - che in questi giorni ha ottenuto i domiciliari per le condizioni di salute - non è casuale: dalle cartelle cliniche di cui gli avvocati del giovane sono riusciti ad entrare difficoltosamente in possesso, si è potuto apprendere che Antonio Michele Elia è stato colpito da un’infezione da streptococco (arginata grazie alla delicata operazione) che ha portato al suo progressivo peggioramento nelle settimane che ne hanno preceduto il collasso in cella: Elia soffriva di continui, persistenti e forti mal di testa. Uno dei sintomi tipici di questa infezione. Un’infezione di cui gli avvocati e il gip Colucci - investita del caso - sono venuti a conoscenza in modo problematico. “Dalla casa circondariale di Poggioreale - spiega l’avvocato Raffaele Chiummariello - non erano state trasmesse le cartelle cliniche loro inviate dal Cto. Non erano state trasmesse neppure al gip che è venuta a conoscenza della gravità della situazione su nostro sollecito. E’ in questo modo che in maniera complicata abbiamo ottenuto le cartelle”. Tutto questo mentre il carcere disponeva il trasferimento di Elia al Cotugno. Spetterà adesso all’autorità giudiziaria capire cosa è successo all’interno della Casa circondariale di Poggioreale, se al 20enne sono state offerte tutte le cure del caso per evitare che il ragazzo si ritrovasse a lottare tra la vita e la morte in ospedale. Certo è che il quadro indiziario del ragazzo, impone dei controlli precauzionali - come sempre avviene in questi casi - con tutte le persone che sono entrati in contatto con lui. Fuori ma soprattutto dentro al carcere di Poggioreale. Belluno: detenuti psichiatrici, l’Usl si difende dalle accuse dei Sindacati di PolPen di Alessia Trentin Il Gazzettino, 26 maggio 2018 La direzione replica alle accuse dei Sindacati: “Gli agenti non sono soli”. È tutto sotto controllo nella sezione Salute Mentale del carcere di Baldenich, che ospita 6 detenuti semi-infermi di mente con condanne lunghe (omicidi e altro). È immediata la risposta dei vertici dell’azienda sanitaria alle accuse mosse dai sindacati in occasione della Festa del Corpo di polizia. La direzione dell’Usl 1 Dolomiti interviene a gettare acqua sul fuoco di una polemica che, tra le fila delle sigle sindacali, si è già incendiata tanto da spingere i rappresentanti a non partecipare all’annuale giornata di festa di martedì. Il direttore generale Adriano Rasi Caldogno respinge con fermezza le accuse secondo le quali l’Usl latiterebbe dalla sezione Articolazione per la Tutela della Salute Mentale, lasciando i detenuti psichiatrici abbandonati a sé stessi, in balia di giornate piene solo di noia, totalmente sulle spalle dei poliziotti penitenziari. “Non corrisponde al vero che ai detenuti non sono proposti progetti terapeutici individuali - ribatte l’Usl: ad ogni paziente della sezione è stato redatto in collaborazione tra psichiatra e psicologo il progetto terapeutico individuale che per tali persone, a titolo esemplificativo, consiste nel favorire la socializzazione tra i detenuti, l’assunzione regolare della terapia, favorire l’attività lavorativa e altro. Si respingono fortemente le accuse e si conferma l’impegno profuso da parte della azienda nell’assistere nel miglior modo possibile i pazienti detenuti”. Volendo fugare ogni dubbio l’Usl spiega anche quante siano le persone impegnate all’interno della sezione, quale il loro costo e come sia organizzata l’attività. L’assistenza sanitaria verso i detenuti psichiatrici, per la quale si spendono circa 72 mila euro l’anno, è stata concordata con Regione Veneto e con l’amministrazione penitenziaria di Baldenich e prevede la presenza di uno psichiatra almeno 8 ore a settimana, di un infermiere dedicato 5 ore al giorno, di uno psicologo almeno 4 ore a settimana. “Tutti accessi regolarmente garantiti”, assicurano dalla direzione sanitaria. In aggiunta, insieme alla cooperativa Società Nuova, è stato avviato il progetto a carattere socio-rieducativo-riabilitativo Vaso di Pandora volto a migliorare autonomia e integrazione, personalizzare il programma educativo, sviluppare le capacità manuali, intellettive e relazionali. Iniziativa che, a partire da fine marzo, è stata implementata portando gli accessi settimanali dell’educatore da due a tre. La difesa dell’Usl insomma è dura, tuttavia è facile non servirà a far cambiare idea ai sindacati. Napoli: cuochi, barman, allenatori di calcio e cinema per i detenuti di Valentina Stella Il Dubbio, 26 maggio 2018 “In carcere non si fa nulla!? Falso”: questo è il messaggio che accoglie gli utenti che arrivano a visitare la pagina Facebook del Dap - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria -, dove si raccontano “progetti, delle tante attività, della vita che scorre “lì dentro”, di chi nel e per il carcere lavora, degli operatori penitenziari, dei volontari, delle associazioni, di quella parte della società che non si volta dall’altra parte”. E proprio grazie alle segnalazioni di questa vetrina virtuale vi raccontiamo tre buone notizie che giungono da Napoli. La prima arriva dal carcere di Secondigliano dove qualche giorno fa sono stati consegnati ai detenuti dall’assessore regionale Chiara Marciani e dal Garante per i diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello, attestati per cuoco e per operatori di servizio di bar. Alla cerimonia di consegna erano presenti anche il direttore dell’istituto Giulia Russo, il comandante dell’istituto Cicala, il personale educativo e Luciano Mattina, direttore dell’Adim srl, con cui erano state stipulate due convenzioni per la realizzazione di altrettanti corsi di formazione destinati a detenuti tra i 19 e i 29 anni appartenenti al circuito detentivo dell’Alta sicurezza. Si tratta di “una opportunità” - ha dichiarato Luciano Mattina “che può reintegrare i giovani e dare una reale alternativa di lavoro, una formazione che forma al lavoro”. Per il garante Ciambriello “una qualifica professionale, lo studio, la valorizzazione del tempo in carcere, tra poco un polo universitario, accanto alle numerose iniziative di volontariato laico e cattolico, sono reali momenti di reinserimento, così come recita la Costituzione”. Invece sono circa trenta i detenuti del carcere di Poggioreale che si sono iscritti al corso per allenatore con patentino Uefa B, organizzato dall’Associazione Italiana Allenatori Calcio (A.I.A.C.), con il beneplacito della direttrice Maria Luisa Palma. Tutti i corsisti hanno ricevuto il kit tecnico ufficiale dell’Assoallenatori e l’attestato di partecipazione ai corsi consentirà loro di ottenere crediti utili per l’accesso ai corsi ufficiali Uefa. Tanti gli argomenti affrontati: tecnica, tattica, le metodologie di allenamento e ovviamente le regole illustrate dagli arbitri. Il campo di allenamento e di lezioni, che si terranno fino a luglio, è il Padiglione Genova del carcere, dove di solito si svolgono la maggior parte delle attività trattamentali. Sempre il carcere di Poggioreale accoglierà la rassegna “Il Cinema ci racconta: L’Italia tra ieri, oggi e domani”, organizzata da Arci Movie e dalla scuola serale del Cipia2 di Napoli. Gli incontri saranno venti e saranno dedicati ad una serie di classici del cinema italiano dagli anni 50 ai giorni nostri, che raccontano il nostro Paese e i suoi malesseri economici e sociali. Inoltre quattro docenti e due volontari di Arci Movie lavoreranno fino al 12 luglio su due laboratori paralleli con due gruppi diversi di detenuti: il giovedì sempre nel padiglione Genova e il venerdì negli spazi della scuola del carcere. Tra gli ospiti previsti Marzio Honorato regista, produttore, e interprete della storica fiction di Rai 3 Un posto al sole, lo storico Guido D’Agostino, Rosaria Troisi, sorella del compianto Massimo. Carinola (Ce): detenuti “utilizzati” in attività di manutenzione nel territorio casaledicarinola.net, 26 maggio 2018 Venerdì 25 maggio, presso la Casa Comunale di Carinola (Ce), Sindaco del Comune (Antonio Russo) e il Direttore della Casa Reclusione di Carinola Dott. Carlo Brunetti) hanno sottoscritto il protocollo d’intesa che prevede l’utilizzo di detenuti in attività di pulizia e manutenzione in aree pubbliche. Tale atto regola l’impiego di detenuti per lavori di pubblica utilità; dopo una attenta selezione basata sui requisiti giuridici e sull’affidabilità personale, i detenuti saranno autorizzati a svolgere lavoro all’esterno (secondo l’articolo 2 dell’ordinamento penitenziario), a titolo gratuito, in giorni ed orari definiti, contribuendo a restituire alla collettività la fruizione di beni di grande valore sociale e culturale. Le aree pubbliche che saranno, a rotazione, manutenute anche giazie al contributo dei detenuti sono: campo di calcetto di via Platani, scuola media, ex Tribunale di Corso Umberto, Palazzo Marzano, auditorium di via Platani, cimitero della frazione di Nocelleto, Piazza Alberata di Nocelleto, scuola elementare e materna della frazione di Nocelleto, area giochi di Piazza Struffi e parcheggio di via Cavelle della frazione di Casale di Carinola, scuola elementare della frazione di Casale di Carinola, villa comunale e parcheggio comunale della fazione di Casanova, scuola elementare e cimitero della frazione di Casanova, scuola elementare e Piazza Padre Pio della frazione di Santa Croce. L’iniziativa in argomento riveste una particolare importanza nel percorso di reinserimento sociale delle persone detenute, le quali hanno cosi la possibilità di poter rendere un servizio alla collettività, dimostrando la loro motivazione al cambiamento. Attraverso queste azioni, la persona detenuta, che ha commesso un reato del quale tutta la società ha risentito e ne risente, ha l’opportunità di ricucire uno strappo, rinsaldando a pieno titolo il patto di cittadinanza, violato con la commissione del reato. In una ottica di giustizia riparativa, questi percorsi tendono a cercare di rimediare il danno subito a livello collettivo e sociale. C’è poi un altro aspetto da sottolineare, secondario ma non di minore importanza e risiede nella possibilità di avvicinare il territorio, e la popolazione tutta, al mondo del carcere, percepito spesso come distante e minaccioso. Queste iniziative di avvicinamento tra carcere e società civile permettono di superare pregiudizi attraverso la conoscenza e la condivisione, orientando gli sforzi verso obiettivi comuni e restituendo simbolicamente al territorio quanto sottratto con la commissione del reato. Grazie all’azione di stimolo e sensibilizzazione della Direzione Casa Reclusione di Carinola anche altri Enti Pubblici e Organizzazioni no profit hanno sottoscritto convenzioni in materia di pubblica utilità da parte di detenuti. Essi sono: Convento di San Francesco di Casanova in collaborazione con l’Archeoclub locale; il Comune di Teano; la Reggia di Caserta; il Comune di Francolise (Ce); il Comune di Sparanise (Ce); la parrocchia di Falciano del Massico (Ce); il Comune di Mondragone (Ce); l’Acli Campi Flegrei. Torino: continua il viaggio di “Codice a sbarre”, promosso da Si-LeU e Radicali Italiani radicali.it, 26 maggio 2018 Questa mattina la delegazione composta dal consigliere di Liberi e Uguali Marco Grimaldi e dall’esponente dei Radicali Italiani Igor Boni ha effettuato un sopralluogo alla Casa Circondariale Lorusso - Cutugno di Torino e contestualmente partecipato alla celebrazione annuale del Corpo di Polizia Penitenziaria che si svolgeva presso la struttura. In tale occasione il Direttore Domenico Minervini ha fornito importanti dati e fatto valutazioni critiche, denunciando in particolare “la visione carcerocentrica in contrasto con la Costituzione” delle attuali proposte sul sistema carcerario, la mancata approvazione della riforma in materia e “l’inumano sovraffollamento” delle strutture penitenziarie, benché il cambiamento avviato nel 2013 dopo le condanne della Corte di Strasburgo avesse prodotto buoni risultati. Al carcere delle Vallette - la struttura più complessa d’Italia, con tutti i circuiti tranne il 41bis - i detenuti hanno infatti superato in modo stabile le 1400 unità (erano meno di 1300 al 30 gennaio 2017), a fronte di un personale di 871 unità, di cui solo 735 in servizio. Vi sono poi 11 educatori (-1 su 100 detenuti). Nonostante ciò, il direttore ha riferito di 19 tentativi di suicidio sventati e nessun episodio eterolesivo grave nell’ultimo anno. A scapito delle difficoltà, la gestione della Casa circondariale sta sperimentando un modello dinamico, al fine di presidiare le sezioni che ospitano detenuti pericolosi, ma anche di garantire le attività di recupero in cui i detenuti sono coinvolti. Tuttavia in alcune sezioni, in particolare quella di alta sicurezza, si è dovuto tornare alla chiusura serale e notturna delle celle. Lo scorso anno un aumento dei fondi ha potenziato i progetti di lavoro nel penitenziario, che però quest’anno hanno subito tagli perché i fondi riconfermati dovranno coprire i 12 mesi. Grazie a un finanziamento di 100mila euro della Compagnia di San Paolo è partito il “Progetto Lei” di sartoria per detenute. Vi è poi il lavoro esterno in semilibertà, con più di 100 detenuti inseriti, di cui 30 in lavori di utilità sociale per il verde pubblico con un progetto del Comune di Torino. Inoltre i detenuti della Casa Circondariale portano avanti la cooperativa Libera Mensa al’ interno del carcere e il progetto di riapertura del bar del Palagiustizia. Subito dopo la convalida dell’arresto, i detenuti sono inseriti in un’attività scolastica che include un incontro mensile con i Garanti, ed esiste inoltre un percorso di formazione professionale certificato dalla Regione. Ha avuto poi luogo una modernizzazione delle biblioteche dell’istituto, oggi cinque (una per padiglione) ampliate nelle dimensioni. Per i detenuti di fede islamica viene organizzata la preghiera collettiva ogni venerdì con imam accreditati dal Ministero. Il servizio Asl viene garantito con il supporto di Compagnia di San Paolo e Farmaonlus e 65mila euro sono stati investiti in protesi dentarie. Molti detenuti denunciano tuttavia una carenza di assistenza medica, con alcune situazioni di grave incuria. Nel corso della visita di alcuni settori della Casa Circondariale, la delegazione ha potuto constatare le condizioni fatiscenti della struttura, con perdite e infiltrazioni di dimensioni cospicue in tutte le docce, nei corridoi di passaggio e nelle celle stesse, tanto che dall’esterno dell’edificio è possibile vedere vere e proprie “stalattiti” di calcare. “Siamo alle Vallette, ma abbiamo attraversato un corridoio chiamato “corso Francia”, che dall’86 collega i vari blocchi e dalla sua inaugurazione presenta infiltrazioni d’acqua che lo rendono simile ai locali doccia, ovunque pieni di muffa e alghe” - dichiarano Grimaldi e Boni. - “Purtroppo non è la prima volta che denunciamo le condizioni di fatiscenza del blocco A e delle docce, in particolare nel settore femminile”. Dei più di 1400 detenuti, poco meno della metà è in attesa di giudizio. Troppe sono le misure di custodia cautelare, troppo poche le opportunità di reinserimento. In un Paese in cui si dovrebbe sempre di più parlare di sovraffollamento delle carceri, della mancanza di operatori ed educatori, di pene e misure alternative, il Governo nascente prospetta l’ennesima deriva carcerocentrica, come denunciato esplicitamente oggi anche dal direttore di Torino”. Firenze: carcere di Sollicciano, un dibattito per tutelare lo stato di diritto di Associazione radicale “Andrea Tamburi” gonews.it, 26 maggio 2018 “Tra qualche giorno inizierà il gran caldo e nel carcere di Sollicciano l’aria diventerà irrespirabile. Per le persone detenute comincerà il periodo peggiore dell’anno, la temperatura raggiungerà livelli insopportabili e dormire sui materassi infiltrati sarà impossibile, così come trascorrere venti ore chiusi nelle celle torride e malsane. Insomma, una vera “tortura” che, tradotta nella lingua delle sentenze internazionali che condannano l’Italia per le condizioni delle carceri, significa “trattamenti disumani e degradanti”. Come si potrà immaginare, a pagarne le conseguenze saranno proprio le persone detenute e i percorsi di rieducazione e risocializzazione, così come tutti coloro che dentro il carcere lavorano. L’anno scorso tentammo di dare una mano convincendo la Regione Toscana a fornire un centinaio di ventilatori, mentre altri furono donati dall’Opera della Madonnina del Grappa, ma niente da fare: l’impianto elettrico non reggeva il carico. Difficoltà strutturali, segnate dall’assurdo di un edificio concepito meno di quaranta anni fa come avveniristico e funzionale, sono all’ordine del giorno dentro Sollicciano, oggi già vetusto e assai ammalorato. Nel carcere fiorentino è solo possibile sopravvivere, male, mentre i principi costituzionali del rispetto e tutela della dignità della persona sono messi a dura prova ogni giorno. Le direzioni che si sono succedute nel tempo hanno cercato sempre di migliorare la situazione, a volte mettendoci una pezza, altre volte con progetti di largo respiro che però raramente hanno visto la luce. Per queste ragioni, riassunte qui succintamente, non vogliamo voltare la testa dall’altra parte e intendiamo aprire un dibattito con la città, nella città, per il futuro del penitenziario fiorentino. Perché se dovesse risultare che niente si può fare e che il destino di Sollicciano è solo quello di peggiorare, allora non resterebbe altro che prenderne atto e chiudere l’istituto. Per tutelare innanzitutto la nostra dignità e i nostri diritti e anche perché far finta di nulla equivarrebbe a perdere il senso costituzionale dello Stato di Diritto”. Milano: “Gruppo della trasgressione”, gli uomini dei clan parlano di legalità a scuola di Luisiana Gaita Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2018 “La nostra vera galera era mentale. Il carcere? Una liberazione”. Roberto Cannavò, Alessandro Crisafulli e Adriano Sannino sono ergastolani ed ex membri del crimine organizzato. Insieme ad Antonio Tango, anche lui detenuto, fanno parte del “Gruppo della trasgressione”, un progetto nato nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore per il reinserimento nella comunità. Ai ragazzi della scuola professionale Galdus di Milano hanno parlato della loro libertà dietro le sbarre. “Ho polverizzato la mia coscienza per dare spazio a un delirio di onnipotenza”. A parlare è Roberto Cannavò, che sta scontando l’ergastolo nel carcere di Opera, a Milano. La sua è una storia di mafia, di morte e di rinascita. Lo spiega in un’aula piena di ragazzi. Alle sue spalle l’immagine ormai diventata icona di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e la scritta “Gli uomini passano. Le idee restano”. L’occasione è un evento organizzato alla scuola professionale Galdus di Milano per ricordare la strage di Capaci e parlare di legalità ai giovani studenti. Soprattutto attraverso le testimonianze di quattro detenuti, tre dei quali condannati al fine pena mai: sono gli ergastolani Cannavò, Alessandro Crisafulli e Adriano Sannino, condannati per reati commessi quando erano parte del crimine organizzato e Antonio Tango, a cui mancano invece da scontare 5 anni, dopo aver girato 20 carceri in tutta Italia. “Eppure io dietro le sbarre mi sono sentito libero per la prima volta, perché la vera galera per me è stata quella mentale”, dice. Questi uomini fanno parte del Gruppo della trasgressione, un progetto nato nelle carceri di Opera, Bollate e San Vittore e seguito dallo psicologo Angelo Aparo per il recupero di detenuti e il loro inserimento nella comunità. Ma come si è arrivati a questo? Come può un uomo sentirsi “libero per la prima volta” dietro le sbarre? Il ricordo di Falcone - Per capirlo si parte proprio dal ricordo dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, dal ruolo che nella storia hanno avuto nella difesa della legalità, dello Stato e nella lotta alla mafia. Sono morti per difendere ciò che altri volevano distruggere. Sono morti parlandone ai giovani, combattendo l’omertà. Così questi detenuti che ieri distruggevano oggi vogliono ricostruire e vogliono dare continuità a quel messaggio che, in alcuni casi, loro stessi hanno cercato di fermare. Un messaggio vivo tuttora. Lo ha ricordato il giornalista del Corriere della Sera Paolo Foschini, che ha moderato l’incontro: “La verità è che la storia di Falcone e Borsellino non finisce quando muoiono”. E non è finita anche perché oggi c’è molta più consapevolezza tra i giovani di quello che rappresenta la mafia. Come diceva Borsellino “se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. Melania Rizzoli, assessore all’Istruzione della Regione Lombardia, ha raccontato ai ragazzi di quando, in una serata in una casa romana dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, a un certo punto arrivò Falcone a bordo di una Fiat 500 gialla. Erano le 22 e il giudice aveva liquidato la scorta dicendo che sarebbe andato a letto. Invece aveva raggiunto gli amici perché aveva bisogno di staccare la spina. Non sarebbe stata l’ultima volta. Quando lei stessa gli chiese come mai l’avesse fatto e se non avesse paura di andare in giro da solo, lui le rispose con una frase che poi avrebbe ripetuto anche in altre occasioni: “L’importante non è stabilire se si ha paura, ma saperci convivere e non farsi condizionare. Se non si ha paura si è incoscienti e io non sono né incosciente né vigliacco. Perché chi è vigliacco non muore una sola volta, ma 100 volte al giorno”. La rinascita dopo il fine pena mai - E sono morti più volte al giorno, nella loro precedente vita, anche Roberto Cannavò, Alessandro Crisafulli, Adriano Sannino e Antonio Tango. È stato lo stesso Cannavò, in una lettera inviata ai magistrati di Torino nel 2014, a confessare di essere l’esecutore materiale dell’omicidio del venditore ambulante Agatino Razzano, avvenuto alle porte di Torino l’8 giugno 1992. Lo uccise per un regolamento di conti a colpi di pistola, scatenando il panico tra le bancarelle del mercato di Moncalieri. Razzano avrebbe rubato 150 milioni di lire al clan del boss catanese Santo Mazzei, in carcere da 25 anni in regime di 41 bis. Quei soldi erano stati raccolti dagli affiliati dell’area torinese per il mantenimento in carcere di un detenuto. A quei tempi a Torino gli “affari” erano gestiti dal clan dei Cursoti Catanesi, prima che arrivassero la ‘ndrangheta e i processi. Cannavò uccise Razzano e tornò in Sicilia tre giorni dopo. Una volta arrestato Cannavò ha scontato due anni di isolamento diurno ed è lì che è iniziato un percorso nuovo. Poi, dopo una serie di corsi di formazione, nel 2012 è arrivato il Gruppo della trasgressione. Ne fa parte anche l’ex boss di Quarto Oggiaro Alessandro Crisafulli, che fino agli anni Novanta ha controllato le piazze dello spaccio milanesi. In cella ha già trascorso quasi un quarto di secolo ed è stato condannato all’ergastolo per due omicidi, associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga e altri reati. “Mio padre sosteneva che bisognava prendersi con la forza quello che si voleva - racconta -. Sono cresciuto assaporando il male di vita e io ho contribuito ad alimentarlo”. Anche per lui, incredibilmente, l’arresto è stata una liberazione: “Ero stanco di quella vita maledetta, mentre nel carcere ho sentito che potevo ritrovare quella parte di me sepolta dall’immondizia”. Nel carcere di Opera c’è anche Adriano Sannino, un passato nel clan Formicola di San Giovanni a Teduccio, alla periferia di Napoli. È accusato dell’omicidio del boss Salvatore Cuccaro, avvenuto nel 1996 scatenando una guerra di camorra che culminò nell’omicidio del 14enne Giovannino Gargiulo. “Vivevo come uno scarafaggio, oggi apprezzo il fatto di stare con le persone e trovo che non ci sia cosa più bella di poter lavorare. Per questo è importante il sostegno al Gruppo della Trasgressione” spiega. Uccidere e uccidere se stessi - Uno dei ragazzi della scuola Galdus, Riccardo, fa una domanda: “Quanti ne avete ammazzati?”. Forse a certe domande saranno anche abituati, ma pesano come un macigno. Infatti nessuno risponde con un numero, perché il dolore procurato non si può contare. E c’è chi a stento trattiene l’emozione. Tutti hanno ucciso più volte (lo dicono), tranne Antonio Tango. “Ho ucciso più volte me stesso e quelli a cui ho fatto del male, anche se non ho tolto loro la vita in modo fisico”, spiega. Crisafulli ha scritto più volte alla sorella di Roberto Messina, ucciso nel 1989 in un regolamento di conti a Novate Milanese. “Non si può ripagare una vita umana - sottolinea Silvio Di Gregorio, direttore del carcere di Opera - ma noi facciamo di tutto per ricucire quello strappo con la società. D’altro canto lo scopo del carcere è quello di favorire un cambiamento e anche la nostra costituzione parla di pena come rieducazione in vista di un reinserimento nella società”. C’è chi ha passato tutta la vita a lottare per il cambiamento, cercando di dimostrare che nella vita è sempre possibile scegliere, anche qualora si sia nati e cresciuti in una famiglia malavitosa. Non solo Falcone e Borsellino, ma anche i giornalisti Mario Francese, Giancarlo Siani e Carmine Pecorelli, Peppino Impastato, Pio La Torre e molti altri. Con il titolo “I nemici del silenzio”, gli studenti di Galdus hanno realizzato volantini monografici di approfondimento su questi uomini, ricordando la frase di Peppino Impastato “La mafia uccide, il silenzio pure”. Livorno: la Giornata del Cuore all’isola di Gorgona Redattore Sociale, 26 maggio 2018 Evento di solidarietà sabato 26 maggio nell’isola carcere dell’arcipelago toscano. Preghiera multiconfessionale e partita di calcio. Evento di solidarietà sabato 26 maggio all’isola di Gorgona, che ospita “La Giornata del cuore” promossa dall’Associazione Onlus Olimpiadi del Cuore in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, gli Enti locali territoriali, sostenuta dal Vescovo di Livorno. Il programma della giornata si apre con un momento di preghiera multiconfessionale e prosegue con la partita del Cuore-torneo Coppa della Pace disputata tra squadre di detenuti presenti sull’isola e campioni dello sport e dello spettacolo. Il pranzo del Cuore è preparato da chef stellati con la partecipazione degli studenti della scuola alberghiera di Massa Carrara e di detenuti interessati a partecipare ai corsi di formazione per cuochi e camerieri che prossimamente saranno attivati presso la casa di reclusione dell’isola, grazie al protocollo siglato dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Ufficio scolastico regionale. Presenti il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Santi Consolo, il Vescovo di Livorno e numerose autorità istituzionali del territorio, l’evento di solidarietà offre l’occasione per presentare il “Progetto Gorgona” attivato dalla Struttura Organizzativa di Coordinamento delle Attività Lavorative del Dap per la riqualificazione dell’isola con finalità turistico ricettiva, attraverso il lavoro dei detenuti. L’isola di Gorgona, dal lontano 1869, è sede di un complesso penitenziario che consente un impiego significativo di detenuti in attività lavorativa all’aperto legate all’agricoltura, alla pastorizia e alla vinificazione. Il Progetto Gorgona, quindi, mira a creare professionalità che si traducono in una serie di lavorazioni e di servizi per l’accoglienza turistica, la ristorazione e un centro soggiorno. Le strutture deputate all’accoglienza e alla ristorazione sono state ristrutturate con la mano d’opera dei detenuti. Busto Arsizio: Casa Onesimo in festa di Gigi Marinoni sempionenews.it, 26 maggio 2018 Casa Onesimo in festa a Busto Arsizio. Domenica 27 maggio dalle ore 16.00 musica e incontri, teatro, buffet e… falegnameria. Casa Onesimo è una struttura di accoglienza che offre ospitalità e accompagnamento a richiedenti asilo, rifugiati, titolari di protezione sussidiaria e umanitaria; detenuti in pene alternative, in fine pena ed ex detenuti. Con l’obiettivo di proporre un percorso di inclusione sociale, mediante la costruzione condivisa di un progetto individualizzato. Domenica 27 maggio sarà una giornata di festa con animazione e giochi per bambini, il concerto di Junior Sprea alle ore 16, il teatro d’improvvisazione alle ore 18.30 e alle 19 un incontro interreligioso. Dalle 21 poi ancora musica e buffet etnico. Alle ore 17.30 focus su “le cose buone che escono dal carcere”, tra cui i prodotti della falegnameria frutto del corso promosso da Cpa (Centro di prima Accoglienza) e Enaip (Ente Acli Istruzione Professionale) Lombardia. Il mobile in carcere - “Costruire con il legno” è un corso partito nel mese di Febbraio che si conclude a maggio, cui partecipano una decina di allievi sotto la guida del falegname ebanista castanese, Gianni Gambalonga, cui abbiamo chiesto di spiegarci di cosa si tratta. Tra gli aspetti che più mi intrigano della mia professione di falegname, c’è che a ogni richiesta corrisponde un’esigenza particolare che porta in sé i tratti psicologici del committente, così ogniqualvolta mi ritrovo a dover costruire in funzione di un determinato tratto caratteriale. C’è chi ama l’open space, chi l’ambiente classico o il rustico. Altri prediligono gli aspetti creativi, e poi c’è chi mette a fuoco solo l’aspetto economico. Ho accettato di insegnare falegnameria nella casa circondariale di Busto, certo di trovare qui una dimensione diversa del progettare e costruire. La condizione di chi vive all’interno di un carcere implica, come ho potuto riscontrare, una diversa esigenza del costruire: qui l’approccio al lavoro ha il sapore di un’esigenza interiore, la creatività come autoterapia, un sondare se stessi in rapporto con la progettazione e la costruzione. Questo fa sì che il lavoro assuma una valenza particolarmente umana, e creativa, un approccio più in sintonia con l’introspezione e “meno materiale”. Il che dona, a mio avviso, una luce particolare al prodotto finale, poiché il manufatto porta con sé il vissuto di chi ha accettato la sfida con se stesso. Abbiamo poi chiesto a due partecipanti com’è andata. Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Questo corso mi ha permesso di sentirmi libero, perché lavoro in laboratorio a tempo pieno, come una normale giornata lavorativa; questa è sempre stata l’attività dei miei sogni che facevo solo per piacere, in famiglia già i miei nonni costruivano attrezzi da lavoro e strumenti musicali. Ora, il realizzare qui oggetti e mobili mi fa sentire utile. Mi auguro che questo laboratorio, che mi ha permesso di uscire dalla cella e di imparare a usare strumenti che non conoscevo, non si chiuda con la fine del corso, perché se prima non ci pensavo ora mi accorgo che è davvero una bella opportunità di lavoro. E, conclude Gianni, “questo è un laboratorio che si può autofinanziare, grazie alla possibile vendita dei manufatti che permetterebbe l’acquisto del materiale. È auspicabile quindi che da questo semplice progetto si arrivi a creare un’attività, all’interno della struttura carceraria, che sia stabile e duratura. Coi fondi a disposizione abbiamo prima attrezzato il laboratorio e poi siamo partiti con le idee e l’entusiasmo necessario. In questi mesi il Padiglione Socialità che ospita l’attività didattica ha incominciato a diffondere fragranze di legno e di cere e dalle mani di Edmound, Jolly, Tete, Alessandro hanno incominciato a uscire seggioline per bimbi, giocattoli in legno, oggetti per il giardino, librerie. “Educarsi alla libertà”. L’infanzia dell’Alta Sicurezza di Luciano Del Sette Il Manifesto, 26 maggio 2018 Teatro-carcere. Mimmo Sorrentino per il progetto “Educarsi alla libertà” nel suo spettacolo fa raccontare tragiche storie di bambine alle detenute di alta sicurezza. L’applauso fatica ad arrivare. Nel piccolo teatro, quando le luci si accendono, è un suono timido, scandito da poche mani. Poi cresce, diventa forte, corale, convinto. Se l’applauso fosse rivolto a uno spettacolo qualsiasi in un teatro qualsiasi, potrebbe far pensare a un pubblico scarsamente entusiasta, trascinato dalla claque. Non è così. Almeno qui, nel teatro del carcere di Vigevano, al termine dei quarantasei minuti di L’infanzia dell’alta sicurezza, testi e regia di Mimmo Sorrentino; sul palco Rosaria, Micaela, Maria, Marina… Detenute per reati associativi. Quelli che hanno a che fare con mafia, ‘ndrangheta, camorra. L’applauso non poteva arrivare subito, perché prima occorreva tornare alla realtà, uscendo dalla stretta delle emozioni, dello smarrimento; del giusto disagio che avvolge lo spettatore ascoltando storie tragiche di bambine, raccontate da chi, oggi donna, sconta la sua pena in regime di Alta Sicurezza. Nessuna di loro, sul palco, racconta, però, la propria storia. Ciascuna mette in scena la storia di un’altra: il sogno di un Natale insieme al padre visto poche volte in parlatorio o nelle ore troppo brevi di un permesso, l’assenza perenne di una madre contrabbandiera di sigarette per le strade di Napoli, gli anni dei giochi consumati in mezzo ai riti e all’arroganza del crimine, il consenso del fratello in galera per venir ‘autorizzata’ a vivere la propria omosessualità. Non essere interpreti di sé stesse rientra fra le tante, inusuali scelte fatte da Mimmo Sorrentino all’interno del progetto “Educarsi alla libertà”, nato cinque anni orsono su sollecitazione del direttore del carcere, Davide Pisapia: “In precedenza avevo realizzato un’esperienza analoga con i detenuti per reati comuni. Nel 2013, Pisapia mi chiese se fossi disposto a riproporla con le donne del regime di Alta Sicurezza. Accettai, decidendo che il passo iniziale da compiere lungo il percorso sarebbe partito dalla loro infanzia. Quando a tre anni vieni portata in parlatorio a visitare genitori e congiunti, quando ti abitui fin da piccola a vedere le armi circolare per casa, delinquere assume i caratteri di un fattore ereditario, di una condizione di normalità. Spetta al teatro aiutare a scoprire che invece, tutto questo normale non lo è”. Un uomo libero entra all’improvviso nel tuo mondo. Ma chi lo conosce, che vuole da me? Mimmo ricorda bene cosa gli risposero Rosaria, Micaela Maria, Marina dopo averlo ascoltato, “Io, i fatti miei non li racconto”. I provini Lui sceglie la risposta come unica battuta da recitare durante i provini iniziali, trasformandola in una sorta di mantra capace di rompere il ghiaccio. È un percorso difficile, ma via via la confidenza cresce. I testi di L’infanzia dell’alta sicurezza devono poggiare sulle parole, la memoria, le vite delle donne che ne diverranno attrici. E le parole, la memoria, le vite prendono ad affiorare, insieme a qualche consapevolezza: “Una donna, del marito condannato a vari ergastoli mi disse che era un uomo di carattere. Un’altra che, nella vita privata, il suo compagno era molto amorevole con lei e con i figli. Obbiettai che se essere di carattere significava uccidere, io uomo di carattere preferivo non esserlo; che un marito e padre amorevole in casa e spietato fuori, forse del tutto amorevole non era. Alla fine lo ammisero, ‘non hai tutti i torti’. Un’altra donna ancora confessò di aver sempre saputo che prima o poi sarebbe stata arrestata, e che una volta ‘dentro’ si era finalmente rilassata, si era sentita protetta”. In tournée Da Vigevano, lo spettacolo, grazie a un’importante decisione della magistratura di cui diremo poco oltre, ha preso a girare nei teatri italiani. Sorrentino rammenta la felicità di una detenuta al ritorno da una data torinese. Il personale penitenziario di scorta aveva infatti deciso di accompagnare il gruppo in un breve giro turistico “Al di là di Torino, scoprii dai suoi discorsi che non conosceva nulla neppure di Napoli, la sua città. La famiglia possedeva auto e moto di lusso, era gente ricca, di potere. Eppure, lei non aveva mai messo piede fuori casa”. La funzione riabilitativa di “Educarsi alla libertà” ha portato la magistratura a includere il progetto nei casi in cui rientra il Permesso di necessità, normalmente concesso per gravi problemi di salute o in caso di eventi luttuosi. Facile comprendere quanto sia stata e sarà fondamentale in futuro tale decisione applicata a un’iniziativa di carattere culturale e sociale. Altrettanto facile, seguendo i monologhi che compongono L’infanzia dell’alta sicurezza, comprendere quanto ne siano state coinvolte le protagoniste, alcune dotate di notevoli capacità recitative. Forte e sprezzante, fragile e amara, sa essere la ‘principessina’ figlia di un camorrista, incarnata da Micaela. Dolente, malinconica, sconfitta, appare Rosaria nella cronaca sognata onirica di un albero di Natale “grande più di questa stanza”; di un padre messo a fuoco soltanto nei dettagli delle mani, delle gambe sulle quali immaginare di potersi sedere. A una madre e a un padre è rivolta la lettera di Marina, aperta da un interrogativo colmo di strazio ‘Madre, perché non hai visto mia sorella farmi bere lo smalto? Voleva farmelo bere perché tu ci vedessi. Biancaneve Dov’eri, padre mio, quando mia sorella mi ha strappato l’abito di Biancaneve che mi stava benissimo? Me l’ha strappato perché tu non c’eri’. Cinquantadue repliche nella casa di reclusione dal 2015; tra il 2016 e il 2018, rappresentazioni all’Università Statale e alla Scuola di arte drammatica Paolo Grassi di Milano, al Teatro dell’Argine a Bologna, al Cagnoni di Vigevano, al Palladium di Roma, allo Stabile di Torino. Un pubblico che dalla ristretta cerchia dei parenti è andato ampliandosi e ha raggiunto finora le seimila presenze. Un pubblico, nelle parole di Sorrentino: “Stupito e commosso di fronte a storie crudeli e al medesimo tempo espressioni di una grandissima apertura di amore”. Amore che gli occhi e le voci di Micaela, Rosaria, Maria, Marina, stanno imparando a non nascondere più. Terra e acqua, uno spettacolo per riuscire a cambiare Se oggi Davide Pisapia, direttore del carcere di Vigevano, è uno dei più convinti sostenitori del progetto di Mimmo Sorrentino, sei anni fa l’idea suscitò in lui qualche perplessità. Lo racconta ricordando il primo incontro con il regista, nel 2012 “Sorrentino mi fu presentato da un comune amico, un formatore che da tempo lavorava con noi. Parlammo del suo teatro partecipato, e lui mi chiese di poterlo sperimentare all’interno della struttura. Risposi positivamente, perché mi interessava che le attività qui in istituto, soprattutto quelle provenienti dal territorio, si moltiplicassero. Però non capivo bene dove saremmo andati a parare”. In una ventina di giorni, Mimmo mette a punto un testo, Terra e acqua, destinato ai detenuti comuni del reparto maschile, e chiede di rappresentarlo nel Cortile passeggi, con la partecipazione di pubblico esterno “Rimasi un po’spiazzato. Nonostante a livello regionale e nazionale alcune iniziative ‘di rottura’ ci fossero già state, per la storia del carcere di Vigevano l’idea suonava strana, quasi una bestemmia. Tuttavia, grazie anche alle discussioni con i miei collaboratori, diedi l’assenso”. Terra e acqua va in scena. Tre repliche, accesso massimo consentito una quarantina di spettatori esterni ogni volta. Un successo che Pisapia non identifica tanto nell’interesse e nella risonanza mediatica suscitati dallo spettacolo, ma in un aspetto assai più rilevante “Quello che notammo subito a livello rieducativo, fu che quel tipo di teatro, quella forma di recitazione, costringeva chi aveva commesso un reato a fare i conti con la propria coscienza, Non sto parlando di pentimento, di collaborazione. Ma di una seria riflessione su sé stessi. Decidemmo allora di continuare il progetto. Mimmo trovò il nome, Educarsi alla libertà, divenuto un concetto profondo; una forma di sinergia con chi di libertà vive, ma non si sa quanto alla libertà sia stato davvero educato; un fattore che accomuna la popolazione cittadina alla popolazione detenuta”. Il trasferimento del progetto sulla sezione femminile dell’Alta Sicurezza, sottolinea Pisapia, ha dovuto misurarsi con donne appartenenti alla criminalità organizzata, e dunque trovare una calibratura mantenendo le proprie prerogative e le proprie finalità “Qui l’impatto è stato ancora più potente. Non scaviamo, non mettiamo in discussione l’aspetto giudiziario. Seminiamo. E qualcosa è stato raccolto. Basti pensare che alcune donne sono state declassificate, vale a dire ritenute non più pericolose; altre hanno usufruito di pene alternative”. Veniamo al Permesso di necessità con scorta e alla nuova valenza che ha assunto rispetto a interventi come Educarsi alla libertà. “Pioniera in tema è stata la magistratura di sorveglianza di Milano, che negli ultimi anni ha avvertito l’esigenza di avvicinare il contesto sociale ai carcerati. Il Permesso di necessità, ad esempio, è stato utilizzato a Milano per spalare le strade dopo nevicate abbondanti, con l’ausilio dei detenuti. Così facendo, la magistratura ha iniziato ad affermare che la gravità, base della concessione del Permesso, non doveva riguardare soltanto un evento luttuoso, e quindi negativo, ma eventi unici e rilevanti ai fini di un percorso educativo del condannato. Da parte nostra, nel caso specifico, abbiamo convinto i magistrati di Pavia ad adottare lo stesso strumento; le corti di appello delle detenute non ancora definitive hanno risposto in modo positivo”. Cosa ha restituito a lei, ai suoi collaboratori, al personale di polizia penitenziaria, Educarsi alla libertà? “La collocazione dell’Istituto, lontano da Milano e da Pavia, in campagna, rappresenta un serio ostacolo nell’avvicinare il territorio e il contesto sociale. Questa esperienza è servita a darci visibilità. Ma non esiste soltanto l’aspetto professionale, non si può rimanere sempre distaccati, nei rapporti quotidiani con chi sta scontando una pena. Assistendo agli spettacoli, ci siamo convinti che anche i colpevoli di crimini efferati conservano quel briciolo di umanità per poter cambiare. Magari il cambiamento riguarderà i figli, i nipoti. È un processo cui la cultura, nell’amministrazione penitenziaria, può dare un grande contributo”. Sezione femminile, storie dietro le sbarre Terzo pezzo di L.D.S. - Da fine 2013, quando ha iniziato a prendere forma all’interno della sezione femminile di Alta sicurezza, Educarsi alla libertà ha prodotto tre spettacoli. Del primo, L’infanzia dell’alta sicurezza, si è detto. Gli altri due, ugualmente scritti e diretti da Mimmo Sorrentino, si intitolano Benedetta e Sangue. Il primo, con Federica Ciminiello e Margherita Cau, mette in scena la figura di una donna che, a dispetto dei crimini subiti e provocati, è convinta di ottenere solo del bene dalla vita, ritenendosi perciò una figura sacra. Benedetta si sdoppia per non essere travolta dal reale, dall’incubo della sua condizione. E nello sdoppiarsi si insulta, si detesta, si teme. Ma poiché sdoppiarsi davanti al reale, all’incubo, è una reazione propria del genere umano, la protagonista ‘sdoppia’ anche noi. Facendoci vivere la tensione della separazione, la tendenza naturale a ricomporci. Benedetta svela, raccontandola dall’interno, la condizione femminile nei contesti di criminalità organizzata, e apre le porte della poesia dove la poesia è stata messa all’indice. A interpretare Sangue sono le sei detenute di L’infanzia dell’alta sicurezza insieme a sei agenti di polizia penitenziaria. Vi si racconta dei delitti di cui le donne sono state testimoni, e di come questo pesantissimo vissuto si sia in loro incistato. Le sei agenti di polizia le seguono sul palco, analogamente a quanto fanno scortandole negli spostamenti fuori dal carcere; le illuminano con le torce usate per rischiarare le celle di notte e verificare che non siano evase o si siano fatte del male. Proprio tale convivenza, seppure in un breve arco temporale e dentro una dimensione fittizia, accresce il significato e sottolinea le finalità narrative di Sangue. Come nel caso di L’infanzia, i testi nascono dalle esperienze dirette delle detenute, e allo stesso modo ciascuna detenuta è attrice di una storia altrui. Nel 2017 e nei primi mesi del 2018, i due spettacoli sono stati rappresentati in varie sedi, quali le università Statale e Bicocca di Milano, i teatri Argine di Bologna e Palladium di Roma. Lo scorso aprile, il teatro milanese Elfo Puccini ha ospitato la trilogia. Sempre sulla trilogia, il regista Bruno Olivero sta realizzando un film - documentario. Il 30 maggio prossimo, Benedetta avrà la sua prima nazionale al Sybaris di Castrovillari, nell’ambito di Primavera dei teatri. Info: teatroincontrovigevano.com Bio Mimmo Sorrentino - Napoletano di nascita, figlio adottivo di Vigevano, Mimmo Sorrentino è drammaturgo, regista, docente di Teatro partecipato presso la scuola Paolo Grassi di Milano. Sul suo metodo di lavoro ha pubblicato il saggio Teatro partecipato per la pisana Titivillus Edizioni, adottato in varie università italiane. Lungo il percorso di ricerca, Sorrentino ha coinvolto (elenco in ordine alfabetico da lui stilato) abitanti delle periferie del nord Italia, alcolisti, alpini, anziani, attori, commercianti ambulanti, detenuti, disabili, docenti, extracomunitari, giudici, infermieri, magistrati, malati di Alzheimer, malati terminali, medici, pendolari, persone uscite dal coma, Rom, studenti, tossicodipendenti in recupero, vigili del fuoco. Sul fenomeno dell’Hikikomori, la progressiva autoreclusione dei ragazzi, ha scritto lo spettacolo Lo spazio vuoto del cuore. Ha ricevuto il Premio Franco Enriquez 2009, dedicato al regista teatrale e d’opera, e il Premio Anct (Associazione Nazionale dei Critici Teatrali) - Teatri delle diversità 2014. Fratello Clandestino è stato segnalato al Premio Teresa Pomodoro, un teatro per l’inclusione; Ave Maria per una gattamorta al Premio Ubu e al Premio Ater Riccione (lds) Opinioni su L’infanzia dell’alta sicurezza - A proposito di L’infanzia dell’alta sicurezza, il sociologo Nando Dalla Chiesa ha scritto “Si viene presi da un turbamento fulmineo. Le convinzioni maturate sulla base di fatti durissimi, non di ideologie, si increspano… Che cosa pensare di fronte a queste parole che fluiscono a metà tra la poesia e la scimitarra? Sembra un miracolo. Si è costretti a farsi domande…si è su una strada il cui valore è incalcolabile. Queste donne, anche se non denunciano, non tradiscono, possono diventare un fatto esemplare per il Paese”. Per lo psicanalista Massimo Recalcati, conversando con le detenute attrici dopo lo spettacolo, “Questo testo è una preghiera. Voi nello spettacolo siete una preghiera. La preghiera non è mettersi in ginocchio e pregare. San Francesco alla fine della sua vita diceva ‘Io non prego più, non prego più perché sono una preghiera’. È questo che ho sentito nelle vostre storie”. Così si è espresso il critico teatrale Oliviero Ponte di Pino durante un convegno internazionale di studi “Ci avviciniamo, con queste testimonianze di infanzie mafiose, al nucleo incandescente di esperienze da cui nasce la tragedia. Grumi che, all’interno del carcere, ancora sanguinano e continuano a fare male”. Porto Azzurro (Li): “Non fare come me”, scritti dal carcere quinewselba.it, 26 maggio 2018 Un progetto scolastico del “Foresi” diventa libro, e gli autori sono i detenuti della sezione carceraria del liceo scientifico. “Non fare come me” (Marco Del Bucchia editore) raccoglie gli scritti di detenuti della sezione carceraria del liceo scientifico. Sotto la guida dei docenti Mariateresa Lisco e Nunzio Marotti, 17 studenti hanno riflettuto su importanti argomenti, producendo ventuno testi. “L’idea del progetto - spiegano i professori Lisco e Marotti - è nata nella classe 2 sez.E. Nell’anno precedente, gli studenti avevano partecipato ad un Concorso nazionale del Ministero dell’istruzione e dell’Associazione Biblia, ottenendo il primo posto assoluto per la categoria scuole secondarie di secondo grado. Così, quest’anno hanno dato il via al progetto ‘Comunicazione e prevenzione’, il cui intento è di comunicare esperienze, sbagli, vissuti nella speranza che errori analoghi non siano commessi da chi è più giovane e si affaccia alla vita. Uno dei modi per restituire qualcosa alla società”. Agli scritti dei detenuti, si aggiungono prefazione e postfazione dei due docenti e l’importante nota introduttiva di Manrico Murzi. Murzi è nato a Marciana Marina ed è una eccellenza elbana, scrittore e giornalista, autore di numerose pubblicazioni. Si consolida, quindi, il suo legame con il “Foresi”, che a settembre scorso lo aveva invitato a tenere la prolusione, per l’inizio dell’anno scolastico, nell’aula magna della sede del Grigolo. E in quell’occasione, il “poeta giramondo”, chiamato così per i suoi molti viaggi in tanti Paesi del pianeta, aveva parlato di “poesia come libertà”. E in questo solco ha subito aderito, con entusiasmo, alla proposta di introdurre questi scritti dal carcere. Con la collaborazione di alcune realtà del territorio, che verranno successivamente ringraziate, il libro verrà distribuito alle classi e diventerà oggetto di riflessione e confronto. E proprio nel pomeriggio di oggi, venerdì 25 maggio, il volume viene presentato nella Casa di reclusione di Porto Azzurro, alla presenza degli scrittori e di tutti gli studenti che frequentano i corsi del liceo e dell’agrario. Seguiranno altre iniziative. La deriva islamofobica del “contratto di governo” di Francesco Chiodelli* Il Manifesto, 26 maggio 2018 In questi giorni si è parlato molto del “Contratto di governo”; tuttavia nessuno si è soffermato sul passaggio dedicato alle moschee. Nel contratto di governo si legge che: “occorre disporre di strumenti adeguati per consentire il controllo e la chiusura immediata di tutte le associazioni islamiche radicali nonché di moschee e di luoghi di culto, comunque denominati, che risultino irregolari”. Queste tre semplici righe rischiano di avere conseguenze nefaste profonde per i musulmani in Italia. Nel nostro paese vivono oggi più di 1,5 milioni di musulmani. Non si tratta di “clandestini” o “profughi”, ma di stranieri regolari, che in molti casi risiedono da svariati anni in Italia. A questo dato vanno poi aggiunte alcune decine di migliaia di cittadini italiani convertiti all’islam. A fronte di queste cifre, però, in Italia esistono meno di dieci moschee ad hoc, ossia edifici costruiti appositamente per funzionare come luoghi di culto islamici. Alla carenza di moschee formali ha fatto da contraltare la moltiplicazione delle sale di preghiera informali (circa 800-1000), ossia spazi destinati originariamente ad altro uso, ma utilizzati, spesso in modo occasionale, come luoghi di preghiera islamica. Sono capannoni, negozi, abitazioni private, sedi di associazioni culturali. Sono queste le “moschee irregolari” a cui il contratto di governo fa riferimento. Le sale di preghiera informali, infatti, sono spesso tecnicamente “irregolari”, perché violano regolamenti edilizi e norme urbanistiche comunali - per esempio, poiché utilizzano come luogo di culto uno spazio che ha una destinazione urbanistica differente, come un magazzino. La loro proliferazione è però solo la conseguenza del fatto che la maggior parte delle amministrazioni comunali impedisce (in modo diretto o indiretto, legittimo o illegittimo) ai gruppi musulmani di costruire moschee legali. Si noti che tutto ciò avviene nonostante la Costituzione italiana non solo garantisca a chiunque la libertà di professare la propria fede religiosa (qualunque essa sia), ma anche il diritto correlato di realizzare luoghi di culto per tutte le minoranze religiose. A ciò si aggiunga che la legislazione urbanistica identifica tutti i luoghi di culto come “opere di urbanizzazione secondaria” - al pari, per esempio, di parchi, scuole e impianti sportivi. In quanto tali, dovrebbero essere realizzati dai comuni in risposta ai bisogni della popolazione insediata nel proprio territorio - dovere però sistematicamente disatteso. È a fronte di ciò che quando scritto nel contratto di governo - versione solo più edulcorata di provvedimenti urbanistici già testati recentemente in Lombardia e Veneto - ha un sapore islamofobo. Se si chiude la maggior parte delle sale di preghiera islamica informali (e, plausibilmente, non si permette la costruzione di nuove moschee ad hoc), dove dovrebbero pregare 1,5 milioni di musulmani in Italia? Se davvero si crede che tutte le moschee in Italia siano fucina di terroristi, non sarebbe forse più sensato fare emergere dall’informalità questi luoghi e legalizzarli, in modo che sia più facile tenerli sotto controllo? Perché si dovrebbero chiudere solo le associazioni radicali islamiche - e non anche la associazioni radicali cristiane o i gruppi politici radicali? Se il problema è l’essere “radicali” (che non significa automaticamente predicare o praticare la violenza), non si capisce perché si debba fare differenza tra musulmani integralisti, cattolici lefevriani o neofascisti di Casa Pound. La verità pare essere che per la Lega - e ora anche per il Movimento 5 Stelle - il problema è, semplicemente, essere musulmani. *Gran Sasso Science Institute, l’Aquila Migranti. La Consulta boccia la legge veneta sugli asili nido di Ernesto Milanesi Il Manifesto, 26 maggio 2018 Incostituzionale imporre la residenza minima di 15 anni per l’iscrizione dei bambini. Il diritto romano (ed europeo) non può mai essere scalfito dalla legge venetista della Lega. Il 10 aprile scorso la Corte Costituzionale ha bocciato la normativa della Regione Veneto che assicurava una “corsia preferenziale” negli asili nido ai residenti da oltre 15 anni. E’ la sentenza numero 107 depositata ieri per la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale. Suona quasi come l’ultima eredità del governo Gentiloni: il premier aveva impugnato il primo comma dell’articolo della legge regionale numero 6 del 21 febbraio 2017 con cui si modificava la disciplina sugli asili nido in vigore dal 1990. Contemplava un “titolo di precedenza all’ammissione”, ma per la legge originale si trattava esclusivamente dei “bambini menomati, disabili o in situazioni di rischio e di svantaggio sociale”. Davanti al presidente Giorgio Lattanzi e alla relatrice Daria De Pretis (ex rettora dell’Università di Trento) il 10 aprile scorso hanno argomentato le opposte ragioni l’avvocato dello Stato Paolo Gentili e i colleghi Ezio Zanon e Luigi Manzi per il Veneto. Su mandato di palazzo Chigi, infatti, l’Avvocatura generale aveva prefigurato l’incostituzionalità della norma approvata a Venezia, in quanto tesa a “privilegiare” alcune famiglie rispetto alle altre. In gioco l’articolo 3 della Costituzione che assicura la pari dignità sociale e l’uguaglianza davanti alla legge. Ma anche il rispetto della normativa europea in materia di libera circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari. La Regione Veneto aveva, invece, depositato il 5 giugno 2017 una memoria, integrata poi il 20 marzo scorso alla vigilia del pronunciamento della Corte Costituzionale. Vi si sosteneva, in buona sostanza, che la norma impugnata “non prevede un criterio escludente, ma unicamente un criterio suppletivo di preferenza a parità di condizioni per accedere agli asili nido”. Ma al di là del contenzioso giuridico, spiccava il risvolto squisitamente politico. La scelta del governatore Luca Zaia combaciava con lo slogan elettorale “prima i veneti” del 2015. E la maggioranza di centrodestra aveva provveduto a votare in aula la nuova normativa. Dietro i 15 anni di residenza si nascondeva il vero bersaglio: figli dei migranti in un’altra lista d’attesa per i pochi posti negli asili pubblici. Ne bastano, invece, “solo” 5 di anni certificati dall’anagrafe per poter accedere ai bandi con cui si assegnano le case di patrimonio pubblico. E’ l’articolo 25 della legge regionale numero 39 varata l’anno scorso insieme alla riforma delle Ater. E paradossalmente in aula Maurizio Conte, ex assessore leghista passato alla Lista Tosi, aveva invocato proprio i 15 anni previsti per l’accesso agli asili. Una tendenza ormai consolidata su più fronti. Sindaci, amministratori, parlamentari della Lega hanno da sempre interpretato l’autonomismo amministrativo come prosecuzione con altri mezzi dell’originale secessionismo della Liga anni ‘90. Di qui il percorso ad ostacoli per i “foresti” negli uffici anagrafe, i controlli negli appartamenti che ospitano i rifugiati, l’utilizzo dei regolamenti comunali per mettere sempre al primo posto gli indigeni. La sentenza del palazzo della Consulta suona, invece, come una categorica affermazione di gerarchia giuridica. Non basta il referendum autonomista dello scorso autunno a guadagnare il diritto su Roma e Bruxelles. Tant’è che al negoziato con il governatore Zaia sulle competenze proprio il governo Gentiloni ha accompagnato il ricorso contro il Veneto sulla legge degli asili. Da piazza Quirinale arriva ora il verdetto. Quel requisito è incostituzionale, “poiché introduce un criterio irragionevole per l’attribuzione del beneficio”. E argomenta: non c’è “ragionevole correlazione” tra la residenza prolungata in Veneto e le situazioni di bisogno o di disagio. Infine, contrasta con la funzione educativa nei confronti dei bambini dell’asilo nido e con quella socio-assistenziale a vantaggio dei genitori privi dei mezzi economici per pagare le rette delle strutture private o religiose. Zaia si è limitato a registrare la sentenza, aggiungendo però: “Nella nostra legge non vedo nulla di oltraggioso, ma contenuti di buon senso. Mi dispiace che, troppo spesso, quando si fa qualcosa per la gente che risiede nei territori scatti, quasi in automatico, un’ingiusta accusa di razzismo, perché così non è”. Cannabis light, il ministero dell’Agricoltura regola il mercato delle infiorescenze di Nadia Ferrigo La Stampa, 26 maggio 2018 Era in vendita in smart shop e tabaccherie, ma senza una legge che ne regolasse la destinazione d’uso. Era un paradosso legislativo, ora risolto. La cosiddetta “cannabis light”, cioè la canapa con un contenuto di Thc inferiore allo 0,2%, si poteva coltivare, ma non era ancora regolato il mercato delle infiorescenze. Una circolare del Ministero dell’Agricoltura ha così sanato un mercato in piena espansione, che si trovava ancora in una zona grigia: pur essendo legali le infiorescenze di canapa in vendita non potevano riportare una destinazione d’uso. “Materiale per uso tecnico - si legge ancora sull’etichetta della cannabis light venduta in smart shop e tabaccherie - non atto alla combustione”. E dire che nell’ultimo anno il settore è cresciuto e parecchio, con un balzo dai 400 ettari di terreno coltivati del 2013 ai quasi 4mila stimati per il 2018. Per la Coldiretti “sono centinaia le nuove aziende agricole che hanno avviato nel 2018 la coltivazione”. “La coltivazione della canapa - si legge nella circolare ministeriale - è consentita senza necessità di autorizzazione, che viene richiesta invece se la pianta ha un tasso Thc di oltre lo 0,2% come previsto da regolamento europeo. Qualora la percentuale risulti superiore ma entro il limite dello 0,6% l’agricoltore non ha alcuna responsabilità; in caso venga accertato un tasso superiore allo 0,6% l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa”. Ma c’è di più. Come spiega Luca Marola, fondatore di Easy Joint e tra i primi a entrare nel mercato “per la prima volta la parola infiorescenze viene inserita in un testo di diritto, riconoscendone così il valore. Adesso tutti i soggetti che hanno investito in questo business sanno di agire legalmente, senza più ombre”. A spiegare la circolare Mipaaf è anche il vice ministro Andrea Olivero: “Si tratta di un provvedimento necessario per chiarire i possibili usi della canapa coltivata nell’ambito del florovivaismo, così da attuare una buona legge e precisarne il suo campo di applicazione. E in questo modo agevoliamo anche l’attività di controllo e repressione”. “Tra i problemi che restano aperti c’è la superficie minima delle coltivazioni, la necessità di impedire che per le semine agricoltori poco scrupolosi utilizzino sementi non certificate di loro produzione, la necessità di garantire la totale tracciabilità - commenta AssoCanapa, associazione che riunisce alcuni coltivatori -. Tra le questioni ancora aperte, c’è il limite di Thc negli alimenti e nei cosmetici”. Turchia. Il candidato Demirtas rimane in carcere di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 26 maggio 2018 La conferma è venuta il 22 maggio. Com’era prevedibile l’appello per la scarcerazione di Selahattin Demirtas, in quanto candidato alle presidenziali del 24 giugno in Turchia, non è stato accolto dalle autorità giudiziarie. L’ex co-presidente del Partito Democratico dei Popoli (HDP), in carcere dal novembre 2016, rimane a Silivfri. Dietro le sbarre. Qualche giorno prima Ayhan Bilgen - portavoce di HDP - aveva annunciato di aver “presentato domanda per il rilascio” in quanto ciò avrebbe rappresentato un “prerequisito indispensabile al fine di elezioni che si svolgano sulle medesime basi per tutti i candidati”. Ossia con la possibilità di condurre liberamente la propria campagna elettorale. In precedenza anche l’avvocato di Demirtas - Mahsuni Karaman - aveva evocato tale possibilità peccando, presumibilmente, di eccessivo ottimismo. Ricordando come non fossero emersi ostacoli alla candidatura dell’ex co-presidente (la sua registrazione era stata approvata immediatamente), Ayhan Bilgen ribadiva la convinzione di HDP che “quello contro Demirtas non è un processo solo giudiziario”. Accusato sia di “propaganda terroristica” che di “insulti alla presidenza” (e addirittura di “appartenenza a organizzazione terroristica”). Demirtas rischia oltre 140 di galera. Analizzandone il programma (il Nuovo “Contratto Sociale” presentato dai due attuali co-presidenti Pervin Buldan e Sekal Temelli) e le liste dei candidati, emerge con evidenza quale sia l’impegno di HDP nel voler scrivere “una nuova Costituzione per una nuova Turchia democratica fondata sul laicismo liberale, sul pluralismo, sul multilinguismo, sulla multiconfessionalità e la cittadinanza eguale”. Una nuova Costituzione democratica basata su tali principi può essere scritta “soltanto da persone provenienti da ambiti diversi della società” - come appunto i candidati inseriti nelle liste elettorali di HDP. Liste che esprimono sia le diverse popolazioni presenti nel Paese, sia le diverse credenze religiose, identità, linguaggi e culture (turco, curdo, armeno, assiro, arabo, yazida, cristiano, alevita, musulmano...). Va poi sottolineata la notevole presenza di donne nelle liste. HDP ha ora in mano una sua “tabella di marcia per la democratizzazione” in grado di affrontare e risolvere “i problemi riscontrati durante il regime di un solo uomo”. Quanto alla fondamentale questione curda, per HDP “la soluzione è collegata al processo di democratizzazione in Turchia. La Pace - si può leggere nel documento - non è solo assenza di conflitto, morte e sofferenze” ma anche allo stesso tempo “un vero lavoro verso la convivenza”. Per questo HDP ha voluto assicurarsi che tutti i settori della società fossero adeguatamente rappresentati nella “Casa comune” anticipata dalle sue liste elettorali (e quindi - un domani - in Parlamento): donne, studenti, giornalisti, politici incarcerati, sindacati, accademici, artisti, esponenti della società civile... Non mancano ragioni per essere speranzosi. Già nel giugno del 2015 HDP aveva conquistato il 13,5% dei voti (provenienti, oltre che dai curdi, da una parte dell’elettorato di sinistra, dal mondo ecologista e dalle minoranze oppresse). Poi era scattata la violenta operazione militare contro le città curde del sud-est e in novembre il partito al potere (l’AKP di Erdogan) aveva imposto le elezioni anticipate. Paradossalmente, anche alcuni dei suoi avversari (Muharren Ince, candidato di CHP e Meral Aksener, candidato di IYI) ne avevano richiesto la scarcerazione. Un appello era giunto, pare, perfino dall’islamista Temel Karamollaoglu (ma - ovviamente - non dal candidato di AKP, Recep Tayip Erdogan). Sempre in merito alla prossima scadenza elettorale, va segnalata la decisa presa di posizione di Wefan Hisen, co-presidente dell’Assemblea di Shebba (cittadina nel Nord della Siria dove avevano trovato rifugio migliaia di persone che non volevano sottostare alla dittatura di Erdogan e che qui avevano contribuito a realizzare l’autogoverno nella prospettiva del Confederalismo democratico). “Come donne arabe siamo pronte a porre fine alla dittatura - ha dichiarato Wefan Hisen, invitando contemporaneamente i popoli della Turchia a “ricordarsi degli attacchi contro Afrin mentre andranno ai seggi il 24 giugno”. A suo avviso “le politiche di guerra e di oppressione dell’AKP stanno trascinando la Turchia sull’orlo della guerra. Non solo i curdi, ma anche le popolazioni arabe sono state sfollate con la forza da Afrin dopo gli attacchi”. Per cui ora “le donne arabe sono arrabbiate e non vogliono Erdogan e i gruppi da lui sostenuti sulla nostra terra”. Honduras. “Detenzioni infernali per i prigionieri politici del presidente Hernandez” di Luca Martinelli Il Manifesto, 26 maggio 2018 Liberi solo 17 dei 23 arrestati nelle proteste post-voto. Parla l’attivista canadese nel paese, Karen Spring: la vita in cella di Edwin e Raul è fatta di poco cibo, due ore d’aria al mese e 5 minuti d’acqua al giorno. Lo scorso martedì una delegazione di cittadini canadesi e statunitensi, osservatori dei diritti umani, è arrivata all’ingresso del carcere di massima sicurezza La Tolva, in Honduras. Volevano vedere i due prigionieri politici lì rinchiusi, Edwin Espinal e Raul Alvarez. Sono due dei 23 arrestati in seguito alle manifestazioni di protesta che hanno scosso tutto il paese dopo le elezioni di sei mesi fa. Era il 26 novembre 2017 quando gli elettori furono chiamati, per la prima volta, a rieleggere il presidente uscente, in una giornata caratterizzata da brogli e strani black-out nel conteggio dei voti. Ci vollero comunque tre settimane per “riconoscere” la vittoria di Juan Orlando Hernandez, confermato alla guida del paese. A guidare la piccola delegazione di attivisti alle porta de La Tolva c’era Karen Spring, una giovane donna canadese che vive dal 2009 in Honduras, dove coordina l’Honduras Solidarity Network. Karen è la compagna di Edwin Espinal, ma anche a lei è stato impedito di vederlo. Di superare l’ingresso della prigione. “La situazione nelle strutture di massima sicurezza è lesiva dei diritti umani fondamentali: Edwin, arrestato a gennaio, e Raul non ricevono cibo a sufficienza e possono uscire all’aria aperta per appena due ore al mese. In pratica, non vedono mai la luce del sole - spiega al manifesto Karen, raggiunta telefonicamente in Honduras - Ci hanno informato che l’acqua corrente c’è per 5 o 10 minuti al giorno e questo non permette loro di usare i bagni, di lavarsi, portando all’insorgere delle malattie”. Un altro prigioniero politico è detenuto nel carcere di massima sicurezza El Pozo, che i media honduregni descrivono come el infierno, e due nella prigione di El Progreso. “Dei 23 complessivamente catturati, di cui uno in Costa Rica, restano reclusi in attesa di processo in cinque. Grazie alla pressione internazionale siamo riusciti a farne liberare 17 e tra questi anche Lourdes Gomez, l’unica donna tra i fermati. Restano tutte le accuse formulate a loro carico che vanno dalla violazione e danneggiamento della proprietà privata alla detenzione illegale di armi, ma in questo modo possono difendersi in libertà”, sottolinea l’attivista canadese. Dei 23 prigionieri politici molti sono leader indigeni, contadini, persone che come Edwin sono impegnate nella tutela dei diritti umani e nella difesa della democrazia a partire dal colpo di Stato del 28 giugno 2009. “Il suo è un caso emblematico e spiega come il governo honduregno approfitti della situazione di crisi post elettorale per lanciare dei messaggi molto chiari a tutti i settori della società civile attivi nella resistenza - spiega Karen - Edwin era già stato torturato nel 2010 e nel 2009 la sua compagna di allora era rimasta uccisa durante la repressione delle proteste popolari intorno all’ambasciata del Brasile, dove si era rifugiato Mel Zelaya, il presidente destituito dai golpisti. Nel 2013, la polizia militare entrò nella sua casa, senza mandato di persecuzione. E oggi è chiuso in un carcere di massima sicurezza nonostante la Commissione Interamericana per i Diritti Umani (Cidh) abbia riconosciuto “misure speciali” di protezione nei suoi confronti”. Edwin rischia la vita, di diventare l’ennesimo martire, seguendo tragicamente il destino della sua amica Berta Caceres, la leader indigena del Copinh uccisa tra il 2 e il 3 marzo 2016 nella sua casa a La Esperanza. “Tra coloro che sono stati arrestati, ci sono anche altri leader comunitari. Ad esempio tra le persone di Pimienta, una comunità del dipartimento di Cortés - sottolinea Karen - Il paese vive una fase di transizione. Per la prima volta dopo molti anni, però, non riesco a capire in che direzione si muoverà. La situazione è molto complicata e quella dei diritti umani, e per i difensori dei diritti umani, è in continuo peggioramento. Una certezza la abbiamo, però: il governo non vuole dialogare e infatti al momento non c’è stato nemmeno un arresto per gli omicidi dopo la crisi elettorale (almeno trenta, secondo il Comité de Familiares de Detenidos Desaparecidos en Honduras, ndr), e non fa nulla per proteggere leader indigeni, contadini, donne. Il governo dipende molto dall’appoggio della comunità internazionale. Crediamo che senza questo riconoscimento non sarebbe legittimato ad andare avanti”.