Perché nel contratto M5S-Lega si sta più ore chiusi in carcere di Samuele Cafasso lettera43.it, 25 maggio 2018 Previsto un giro di vite su sorveglianza dinamica e regime penitenziario aperto. Che cancella la svolta introdotta nel 2011. Il sindacato di polizia Sappe applaude. Riforma Orlando demolita. Con il nuovo governo di Lega e Movimento 5 stelle i detenuti potrebbero tornare a passare la maggior parte del loro tempo chiusi dentro le celle, senza più la possibilità di uscire lungo i corridoi e incontrarsi con gli altri ospiti. L’annuncio di volersi muovere in questo senso è a pagina 25 del contratto giallo-verde, laddove si dice che “occorre realizzare condizioni di sicurezza nelle carceri, rivedendo e modificando il protocollo della cosiddetta “sorveglianza dinamica” e del regime penitenziario “aperto”, mettendo in piena efficienza i sistemi di sorveglianza”. E il sovraffollamento? L’apertura delle celle fu adottata nel 2011 dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) per rendere le carceri un luogo più rispettoso dei diritti umani in un momento di grave sovraffollamento che, due anni dopo, costò al nostro Paese una condanna da parte della Corte europea dei diritti umani (la sentenza Torreggiani). La circolare del Dap, tuttavia, è stata molto criticata nel corso degli anni soprattutto dal Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria secondo cui l’apertura delle celle è un rischio troppo grande per le guardie, troppo spesso vittime di aggressioni. Promesse assunzioni. In questo senso, le indicazioni contenute nel programma di governo vengono incontro alle richieste del sindacato che, d’altra parte, “incassa” anche la promessa di un piano straordinario di nuove assunzioni. Questo nonostante, come avevamo spiegato in questo pezzo, l’Italia sia tra i Paesi europei con il rapporto più basso tra numero di detenuti e addetti di polizia penitenziaria. Quando si parla di modelli di detenzione bisogna però distinguere tra sorveglianza dinamica e regime penitenziario aperto. Con questo secondo termine si indica, generalmente, la svolta del 2011 quando, anche per allentare il problema del sovraffollamento, si aprirono le celle per un numero limitato di ore, cioè tra le otto e le 14. Spiega il rapporto dell’associazione Antigone: “All’apertura (molto parziale) delle celle non corrisposero però formazione, lavoro, attività nei cortili ed esercizio del diritto alla libertà di culto negli altri spazi detentivi”. Diversa concezione di spazi. E ancora: “Si aprirono semplicemente le celle, permettendo ai detenuti di passare qualche ora in più nei corridoi e nelle celle degli altri, per una partita a carte o anche solo per farsi compagnia. Questa novità, sebbene di portata inferiore rispetto alle aspettative, cambiò il rapporto tra detenuto e spazio detentivo, che fu improntato a una maggiore libertà e personalizzazione, elementi propri del “diritto all’abitare”. A oggi, tuttavia, secondo una stima di Antigone circa il 40% delle case di detenzione non permettono di passare un minimo di otto ore fuori dalle celle. Diversa è la sorveglianza dinamica, un regime di controllo che, nei piani del Dap, dovrebbe riguardare sempre più detenuti, ma che attualmente è invece applicato a un numero esiguo. Nei reparti a sorveglianza dinamica la sicurezza è garantita da pattuglie mobili e videocamere, e i detenuti si muovono liberamente in sezione per molte ore al giorno. Autonomia per i non pericolosi. Si sottostà a questo regime detentivo quando l’amministrazione giudica basso il livello di pericolosità della persona, consentendole una maggiore autonomia nella gestione di tempi e spazi. Secondo l’associazione Antigone, che riporta il giudizio di detenuti e di diverse amministrazioni, la sorveglianza dinamica riduce le tensioni tra polizia penitenziaria e detenuti, che così non devono dipendere dai primi per ogni loro richiesta. Ma diversa è l’opinione del Sappe. In una nota del 19 maggio 2018, a seguito di un’aggressione ai danni di un agente di polizia penitenziaria nel carcere di Mantova, il segretario del Sappe Donato Capece ha spiegato: “Quel che denuncia il Sappe da tempo si sta clamorosamente confermando ogni giorno, ossia che la sicurezza interna delle carceri è stata annientata da provvedimenti scellerati come la vigilanza dinamica e il regime aperto, l’aver tolto le sentinelle della polizia penitenziaria di sorveglianza dalle mura di cinta delle carceri”. “Servono altri 8 mila agenti”. Nel mirino sono finiti anche “la mancanza di personale - servono almeno 8 mila nuovi agenti rispetto al previsto - il mancato finanziamento per i servizi anti intrusione e anti scavalcamento. Pensare che la soluzione ai problemi delle carceri sia l’ipotizzata riforma penitenziaria è un bluff. Avere carceri meno affollate e più moderne non vuol certo dire aprire le porte delle celle”. Dietrofront sulla riforma. La riforma penitenziaria a cui si riferisce Capece è quella licenziata (in parte) dal governo a cavallo tra la vecchia e la nuova legislatura, senza però ottenere il definitivo via libera dal parlamento. Nella riforma uno dei punti qualificanti era l’apertura delle carceri verso l’esterno e il potenziamento delle pene alternative. Una strada che adesso il nuovo governo ha annunciato di voler percorrere in direzione contraria rispetto all’esecutivo Gentiloni. Che forca questo contratto di Annalisa Chirico Il Foglio, 25 maggio 2018 Idee manettare, vaghe e senza coperture nel programma che l’avvocato Conte dovrà portare avanti sulla giustizia. Girotondo di legali sulla “supercazzola forcaiola” Lega-M5S. Del contratto di governo, che il futuro premier Giuseppe Conte sarà chiamato ad attuare, c’è una sezione con le chance maggiori di essere effettivamente realizzata. Se la flat tax a due aliquote con il sussidio di cittadinanza e la riforma pensionistica compongono una pozione allucinogena, i provvedimenti in materia di giustizia invece richiedono soprattutto misure a costo zero e dall’elevato impatto propagandistico. “Sulla giustizia penale-dice al Foglio Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali - il contratto è illiberale e si pone in contrasto con i principi costituzionali. L’approccio è demagogico, nel fornire risposte giustizialiste alle esigenze di sicurezza trascura ogni valutazione su dati obiettivi. La pena è concepita come mera retribuzione, in antitesi con quanto previsto dall’art. 27 della Costituzione che tende alla risocializzazione del condannato. La soluzione prospettata è quella di costruire nuove carceri, trascurando che chi è ammesso a pene alternative al carcere registra un tasso di recidiva di gran lunga inferiore (più della metà) rispetto a chi sconta la pena in carcere. Si vuole modificare il trattamento riservato ai minori, dimenticando le peculiarità che, da sempre, hanno determinato l’attenzione nei confronti dei più giovani, per evitare che intraprendano carriere criminali. Invece di privilegiare il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, si vuole mettere nuovamente mano all’istituto della prescrizione, rendendolo così infinitamente lungo, come se, ad esempio, non bastassero vent’anni per giudicare un politico o venticinque per processare un presunto rapinatore”. Scorrendo le misure annunciate nel programma giallo-verde, l’impianto si conferma carcero-centrico, è tutto un invocare “più pene per tutti”. “Invece di restringere l’area del penalmente rilevante - prosegue Migliucci - si immaginano nuovi reati e si propongono aumenti di pena che, com’è noto, non costituiscono un deterrente. In chiave propagandistica si propone di escludere il rito abbreviato, per alcuni gravi reati, con l’intento di evitare che gli stessi non possano essere sanzionati con l’ergastolo, mentre questo già avviene anche in caso di accesso al rito speciale. In materia di intercettazioni sono previsti nuovi interventi, al fine di potenziarne l’utilizzo, il che corrisponde esattamente al contrario di ciò che si dovrebbe fare, considerato quanto già sia abusato questo strumento di indagine così invasivo. Si vuole ulteriormente rafforzare il procedimento di prevenzione e il cosiddetto doppio binario, che costituiscono deviazioni non garantite rispetto al processo ordinario. Si vuole inserire poi la figura dell’agente provocatore, un pericoloso strumento che, anziché svelare il crimine, ne presuppone l’induzione e la realizzazione. Le ricette proposte si allontanano dal giusto processo e, dunque, comportano un grave arretramento dal rito accusatorio; si abbandona il tema della terzietà del giudice, mentre di converso si privilegia il carcere, e dunque implicitamente anche la custodia cautelare, dimenticando che la percentuale dei detenuti presenti nelle nostre carceri, in attesa di giudizio, e dunque presunti innocenti, supera il trenta percento”. Un giudizio non meno duro viene dall’avvocato Valerio Spigarelli, già presidente dell’Ucpi, che con il grillino Alfonso Bonafede, Guardasigilli in pectore, ha avuto occasione di confrontarsi sui temi giudiziari. “Questo contratto è una supercazzola forcaiola - esordisce Spigarelli - Quando mi sono confrontato con Bonafede, ho intuito che i pentastellati hanno un’idea pericolosa della giustizia. Il documento di governo è infarcito di chiacchiere basate sul tradimento della realtà. Bonafede è un civilista che si occupa di penale facendo una semplificazione assolutamente errata: innalziamo le pene per la corruzione. Evidentemente ignora che già oggi per la corruzione, dopo gli ultimi interventi legislativi, si arriva a vent’anni di carcere. Il programma propone l’esclusione dell’abbreviato affinché l’ergastolo consista effettivamente nel carcere a vita. Ma oggi anche con l’abbreviato vengono comminate pene stratosferiche, e se si limitasse l’accesso al rito speciale la giustizia si bloccherebbe, letteralmente. Quanto alla riforma dell’ordinamento penitenziario, non sanno che a metà degli anni Ottanta ci battemmo a favore della riforma Gozzini perché c’erano le rivolte dentro le carceri. Il carcere non è un lager di contenimento, esso ha una funzione positiva se abbatte la recidiva. A tale scopo servono percorsi che ti portino a trascorrere del tempo anche all’esterno degli istituti penitenziari durante l’espiazione della pena. Soltanto così si ottiene più sicurezza. A metà degli anni Settanta, gli Stati uniti elaborarono una dottrina securitaria racchiusa nel motto “Three-strikes, and you’re out”: se sbagli tre volte, sei condannato al carcere a vita. Eppure, questo irrigidimento non ha fatto registrare un aumento degli indici di sicurezza collettiva. Il vero deterrente è la certezza della pena”. Fa discutere il paragrafo in cui, “a fronte di una progressiva precocità di comportamenti criminali, anche gravi, da parte di minori”, si chiede di “rivedere in senso restrittivo” le norme che riguardano l’imputabilità, la determinazione e l’esecuzione della pena per il minorenne, eliminando la possibilità di trattamento minorile per il giovane adulto infra-venticinquenne. “Anche in questo caso manca una conoscenza della realtà - insiste Spigarelli. La giustizia minorile è forse la sola che funziona in Italia. Certo che esistono le baby gang, come in tutti i paesi avanzati, ma un trattamento speciale per la categoria dei giovani adulti persegue lo scopo di sottrarli al reclutamento da parte degli ambienti malavitosi più strutturati”. In generale, il contratto mira a un radicale “return” in tema di depenalizzazioni, non imputabilità per particolare tenuità del fatto ed estinzione del reato per condotte riparatorie. “Si tratta di misure deflattive pensate per ridurre il carico di lavoro dei tribunali, evitando di ingolfarli con fascicoli inutili e dispendiosi per l’intera collettività. Purtroppo prevale lo slogan secondo cui chi sbaglia deve pagare, e paga soltanto se finisce dietro le sbarre. Invece inondare i giudici di procedimenti inutili consente ai più pericolosi di farla franca”. Per l’avvocato Giandomenico Caiazza, noto penalista romano e voce autorevole sulle frequenze di Radio Radicale, “il contratto di governo contiene affermazioni di carattere generalissimo, tutte nel segno della iper-carcerizzazione, aumento delle pene e inasprimento della risposta punitiva dello stato. Si tratta di un documento di natura simbolica, dunque tipicamente populista, le misure prospettate hanno il valore di evocare qualcosa più che fornire soluzioni effettive. I redattori del contratto si rivolgono alla pancia del paese. Basti pensare alla legittima difesa: in presenza di un omicidio, anche la più retriva delle ipotesi tecniche non può sottrarsi alla valutazione del giudice circa la sussistenza o meno dei requisiti per la esimente. Una presunzione assoluta di difesa legittima in quanto tale è impensabile. Se venissero attuati anche soltanto alcuni dei provvedimenti annunciati, dopo sei mesi le carceri italiane, dagli attuali 58 mila, arriverebbero a ospitare 70 mila detenuti. S’intendono colpire le misure alternative alla detenzione ma è solo un annuncio: esiste una sentenza, la Torreggiani, dalla quale non si può tornare indietro, e a Strasburgo esiste una Corte europea che vigila su questo. Si annuncia la costruzione di nuove carceri ma già oggi alcune carceri hanno intere sezioni inutilizzate perché manca il personale. Quanto al trattamento dei giovani adulti, si può anche discutere della maturazione dei quattordicenni di oggi, non è un tabù, ma io domando: sono questi i problemi della giustizia italiana? L’avvocato del popolo e i clienti preferiti di Marco Ruffolo La Repubblica, 25 maggio 2018 Se non fosse stata preceduta da una poderosa ondata demagogica che ha fatto credere a molti italiani che gli ultimi governi non avevano fatto nulla per risarcire i risparmiatori truffati dalle banche, e che avevano fatto molto al contrario per i loro manager, la decisione di Giuseppe Conte di incontrare ieri sera i rappresentanti di quelle vittime apparirebbe come una mossa tutto sommato normale e anche doverosa, comunque priva di particolari significati politici. Invece non può non scorgersi il filo rosso che lega gli incontri di ieri del; presidente incaricato, così come il suo previsto faccia a faccia di oggi con il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, alla campagna populista degli ultimi anni. Solo pochi giorni fa, il responsabile economico della Lega, Carlo Borghi, distintosi per le dichiarazioni irresponsabili su Montepaschi, che in una sola seduta ha perso 1’8 per cento, ha gridato all’assenza di strumenti di rimborso per gli azionisti delle banche, non potendo denunciarne la mancanza per gli obbligazionisti. Peccato per lui che il fondo per le vittime di reato bancario esiste, ed è esteso tanto a chi ha obbligazioni quanto a chi possiede azioni. Nell’ultima legge di bilancio sono stati stanziati a questo scopo 100 milioni in quattro anni. Una cifra insufficiente? Sicuramente sì, ma intanto Io strumento è stato attivato. È tuttavia da anni che Lega e Cinque Stelle cercano di far passare la tesi dei governi Renzi e Gentiloni “amici dei banchieri e nemici dei risparmiatori”. I fatti, però, non avvalorano questa accusa, Nel marzo scorso, il Fondo interbancario di tutela dei depositi ha concluso l’attività di indennizzo forfettario in favore degli investitori in obbligazioni subordinate delle quattro banche poste in risoluzione: Etruria, Banca Marche, CariChieti e CariFerrara. Complessivamente ha liquidato 15.443 richieste di indennizzo per 181 milioni di euro, interamente a carico del settore bancario. Per gli altri, invece, c’è l’arbitrato. Lo stesso Fondo proseguirà la procedura di indennizzo per gli investitori di Popolare Veneta e di Veneto Banca. Il 90 per cento degli indennizzi è andato a piccoli risparmiatori. Nessun trattamento di favore verso i manager di quelle banche. Saprà e vorrà Giuseppe Conte, del quale sono note finora consulenze non tanto a piccoli risparmiatori quanto a raider della finanza come Raffaele Mincione, interrompere il circuito della demagogia bancaria? Ministro della Giustizia, Berlusconi chiede garanzie di Barbara Acquaviti Il Mattino, 25 maggio 2018 Il leader incontra il premier incaricato, poi faccia a faccia con Salvini anche sulle Tlc. La linea di opposizione resta netta: no alla fiducia. Ma per chi ha fatto dell’empatia una delle sue più formidabili armi politiche, non c’è da stupirsi che anche la sensazione a pelle abbia un peso. E l’impressione che Silvio Berlusconi ha avuto del premier incaricato, Giuseppe Conte, è stata positiva. “Mi è sembrato simpatico, una persona perbene”, ha confidato subito dopo essere uscito dalla sala dei busti alla Camera. Il problema non è, quindi, umano, anche se restano intatti i dubbi sui suoi margini di autonomia, corroborati anche da quel contratto lasciato in bella vista sulla scrivania. Il leader di Forza Italia, prima di lasciare Montecitorio, si infila in una stanza per parlare con Matteo Salvini, chiedendo a tutti i suoi collaboratori di restare fuori. Il governo giallo-verde non lo avrebbe mai voluto veder nascere ma ora tocca minimizzare i danni. Con il segretario leghista i rapporti da giorni sono di tensione ma l’unica chance è pretendere che mantenga gli impegni presi in nome dell’alleanza. “Devi farti sentire da Di Maio”. Sono due le caselle su cui Berlusconi ha chiesto a Salvini di farsi garante: giustizia e telecomunicazioni. Già, perché i boatos sul toto ministri che si rincorrono non lo hanno affatto tranquillizzato: un grillino, Alfonso Bonafede, a viale Arenula e le Tlc incorporate in quel maxi ministero con Sviluppo economico e Lavoro che Di Maio rivendica per sé. Uno spartito che non è suonato affatto tranquillizzante alle orecchie del leader azzurro, che ha chiesto rassicurazioni al segretario della Lega e, a quanto viene riferito, anche al premier incaricato. Dal Carroccio riferiscono di un incontro positivo, alla presenza anche di Giancarlo Giorgetti, in cui tra l’altro Salvini avrebbe ribadito che se salta Savona come ministro dell’Economia “salta tutto”. Non è dunque un caso se, al termine delle sue consultazioni, il leader leghista si sia rivolto con parole di miele ai suoi antichi alleati. “Siamo convinti che nelle prossime ore si possa partire con soddisfazione di tutti, anche di coloro che non voteranno la fiducia, anche di coloro che magari cominceranno all’opposizione, penso agli amici del centrodestra”. La linea politica di Forza Italia, però, non cambia. A dominare è ancorala diffidenza. Prima, è il ragionamento, vediamo che squadra di ministri viene fuori. Giudizio sospeso, insomma. Per questo dopo aver incontrato Conte, Berlusconi evita di fare dichiarazioni e si chiude a palazzo Grazioli dove riunisce i big del partito per confermare la linea. L’ordine di scuderia è attaccare i pentastellati, giudicati “incompatibili” e i punti del contratto “gravemente insufficienti a dare una risposta ai bisogni degli italiani”. “Non possiamo che confermare la nostra scelta di votare no alla fiducia e di stare all’opposizione di un governo che, al di là dei nomi, porta chiarissimo il segno dell’ideologia pauperista e giustizialista dei grillini”, fa sapere Berlusconi ancor prima di incontrare Conte. Niente affondi, al momento, verso Salvìnì, perché lo si attende alla prova dei fatti. “Faremo una opposizione intelligente, costruttiva. Voteremo a favore di quei provvedimenti che riteniamo utili perii Paese, come la fiat Tax e la legittima difesa, mentre ci opporremo a quei provvedimenti che riterremo dannosi”, sintetizza Mara Carfagna. Gli azzurri al momento voteranno no e lo hanno ribadito anche a Conte scegliendo di stare all’opposizione ma, come spiegato in precedenza anche da Giorgia Meloni, disponibili a sostenere provvedimenti che la coalizione aveva inserito nel proprio programma come ad esempio la flat tax. Bonafede, il suo maestro e l’esame sul giustizialismo di Paolo Ceccarelli Corriere Fiorentino, 25 maggio 2018 In un altro mondo, anni e anni prima del terremoto politico del 4 marzo scorso e anche della nascita del Movimento Cinque Stelle, Alfonso Bonafede si avvicinò al suo professore e gli disse timidamente: “Posso andare a fare un po’ di esami da assistente volontario con il professor Giuseppe Conte?”. Fiuto politico? Intuizione? Fortuna? Di sicuro era un’onda, anche se non ancora gialloverde. “In tanti volevano fare l’assistente a Conte, un collega preparato, intelligente, molto bravo con i giovani”, racconta Giorgio Collura, allora ordinario di Diritto Privato all’Università di Firenze, relatore della tesi di laurea di Bonafede (“Il danno esistenziale”, anno 2002: il 31 dicembre 2001 Beppe Grillo aveva pronunciato il suo ultimo “Discorso all’umanità” dagli schermi di Tele+). Chissà se ieri, festeggiando nei corridoi di Montecitorio l’incarico conferito da Sergio Mattarella a Giuseppe Conte - “Ce l’abbiamo fatta!”, pare abbiano gridato abbracciandosi con la vicepresidente della Camera Maria Edera Spadoni e la deputata Giulia Sarti - Bonafede ha ripensato a quel momento e alla risposta pronta di Collura. “Gli dissi: certo Alfonso che puoi fare gli esami con Conte... se continui anche a farli con me”, racconta il professore. Si dovrà preparare a ben altre risposte e ben altre prove, questo avvocato 41enne fiorentino d’adozione (è originario di Mazara del Vallo), se davvero diventerà come si mormora da giorni il nuovo ministro della Giustizia. Un’ascesa, quella di Bonafede, inimmaginabile fino a pochi anni fa. Entra nel meet up fiorentino “Amici di Beppe Grillo” nel 2006, quando i Cinque Stelle somigliano più a neo-carbonari un po’ naif che a una forza politica che rappresenta oltre un terzo degli italiani. Fanno le riunioni nei bar o nelle case private, parlano dei “beni comuni” e sono vicini allo sparuto movimento No Tav fiorentino. Ed è proprio la battaglia contro il sotto-attraversamento di Firenze a rappresentare la scintilla per Bonafede. Da avvocato, lavora ai “testimoniali” sulle case di alcune famiglie che abitano lungo il futuro tracciato dell’Alta Velocità e vogliono tutelarsi da eventuali danni provocati dagli scavi. L’incontro con il meet up grillino, racconterà qualche anno dopo Bonafede, “è stato un colpo di fulmine (...) ho capito che ogni cittadino nell’ambito della propria competenza può dare un contributo alla vita della propria città”. E ancora: “Invece che lamentarci continuamente della società in cui viviamo non ho problemi a dire che è arrivato il momento di alzare il “sedere “ dalla sedia e dare proposte e la propria partecipazione”, dirà al sito Firenzedabere che lo intervista in qualità di candidato sindaco della lista Cinque Stelle alle elezioni del 2009. Già, perché nel frattempo l’avvocato affezionato alla massima di Cicerone “La giustizia è uno stato morale, osservata per l’utilità comune, che attribuisce a ciascuno la sua dignità” - la frase apre il sito del suo studio e accompagna il suo profilo Twitter, qui preceduta da “Cittadino eletto con il M5S alla Camera dei Deputati” - è diventato il punto di riferimento dei Cinque Stelle fiorentini. Alle Comunali che incoronano Matteo Renzi sindaco di Firenze, Bonafede raccoglie meno del 2% dei voti. Ma non si dà per vinto, e nel 2013 vince con 227 preferenze le parlamentarie M5S. Diventa deputato e si avvicina a Luigi Di Maio, scegliendo l’ala governista del Movimento rispetto a quella ortodossa di Alessandro Di Battista e a quella movimentista di Raffaele Fico. Passa ancora un po’ di tempo ed eccolo lì, uno degli uomini più fidati del capo politico dei Cinque Stelle, che gli affida questioni scottanti come Roma con le défaillance della giunta Raggi. Resta il punto di riferimento del movimento in Toscana, nonostante i malumori e le critiche per le mancate certificazioni delle liste Cinque Stelle alle Amministrative di Siena e Campi. L’esame più difficile sarà quello da Guardasigilli, se sarà. Ma anche rispondere alle domande del suo vecchio prof non sarà facile. “Qualche volta con me - dice Collura - ha posto l’accento sulla necessità di pene più severe e io devo aver fatto una faccia un po’ dubbiosa, perché lui mi ha subito detto: “Professore, io non sono giustizialista eh. Ma evasori e corruttori vanno combattuti con durezza”. Collura se l’è letto tutto, il contratto di governo Lega-Cinque Stelle. “La parte sulla difesa sempre legittima francamente mi lascia molto perplesso. Ci sento molto la mano della Lega: credo che la formulazione della norma, così come è anticipata nel patto, vada resa meno rigida”. Capito, assistente Bonafede? L’evasione fiscale? Si potrebbe cancellare con un clic, ma in Italia sono tutti contrari di Stefano Vergine L’Espresso, 25 maggio 2018 Una legge semplicissima e a costo zero, che fa emergere il nero grazie al digitale. In Portogallo l’hanno fatta e funziona benissimo. Da noi però ha troppi nemici. Lisbona, quartiere di Alfama, undici di sera. Fuori, il vento dell’Atlantico spazza via le ultime nuvole della giornata. Dentro, una donna siede al tavolo della cucina. Accende il tablet, si collega al sito dell’agenzia delle entrate portoghese e inserisce la password. Sul video appaiono alcune scritte colorate: salute, educazione, familiari, affitto, lavori di casa, trasporti, ristoranti, supermercato, veterinario, parrucchiere, automobile, motociclo. Sotto ogni scritta c’è una cifra. “Indicano quanto ho speso l’anno scorso per ciascuna di queste voci, e di conseguenza quanto potrò detrarre dalla mia dichiarazione dei redditi”. Catarina Pinto da Silva, 40 anni, commessa dei grandi magazzini El Corte Inglés, può contare su quattro vantaggi rispetto a una sua collega italiana alle prese in questi giorni con il 730. Il primo è che risparmierà 3.753 euro di tasse, traduzione pratica di quelle detrazioni che appaiono sul tablet. Il secondo è che per ottenere questo sconto non c’è stato bisogno di accumulare in qualche cassetto di casa centinaia di scontrini, come invece succede da noi a chi vuole scaricare le spese sanitarie: perché ogni volta che è andata a comprare qualcosa, a farsi la messa in piega o a pagare l’idraulico, Catarina ha fornito il suo codice fiscale ricevendo in cambio uno scontrino identificativo caricato direttamente sul sito dell’agenzia delle entrate. Il terzo vantaggio è che alla commessa di Lisbona per compilare la dichiarazione dei redditi basterà schiacciare il tasto invio per spedirla al Fisco. Il quarto e ultimo beneficio dipende invece dalla fortuna. Ogni volta che la donna spende 10 euro, lo scontrino riporta un codice numerico che le permette di partecipare a una lotteria con premio massimo di 50 mila euro. “Di tutte le persone che conosco nessuno finora hai mai vinto la lotteria”, racconta la signora Pinto da Silva, “ma la speranza di farcela, e soprattutto la certezza di poter risparmiare qualche migliaio di euro all’anno, ha portato a un cambiamento radicale nell’atteggiamento di noi portoghesi: mentre prima era un’abitudine di pochissimi, oggi qui si fa a gara per farsi fare lo scontrino”. Il nome dato a questo programma è “e-fatura”. Significa fatturazione elettronica ed è stato introdotto a partire dal 2013 per combattere l’evasione. Una piaga devastante per l’economia lusitana. O almeno così era fino a cinque anni fa, quando l’allora governo di centro destra, nel pieno della crisi finanziaria che ha portato a Lisbona i tecnici della Troika, decise di adottare questo metodo basato su una piccola rivoluzione tecnologica: collegare tutti i registratori di cassa del Paese all’agenzia delle entrate, così da tenere traccia di ogni fattura o scontrino emesso. I dati dell’istituto di statistica portoghese dimostrano che la riforma ha prodotto risultati invidiabili. Racconta Monica Paredes, portavoce del ministro delle Finanze Mario Centeno, da poco diventato anche presidente dell’Eurogruppo: “Da quando è partito il programma e-fatura, le entrate fiscali sono aumentate in modo significativo, molto di più rispetto a quanto è cresciuto il pil e i consumi delle famiglie. Tutto questo significa una cosa: è calata l’evasione fiscale”. Detta dal rappresentante di un governo di sinistra, che la riforma l’ha ereditata senza cambiarla di una virgola, l’affermazione assume un valore ancor più significativo. Soprattutto se osservata da casa nostra, dove l’economia nera sottrae ogni anno decine di miliardi alle casse dello Stato. Gli studi più attendibili calcolano che in Italia vengono evasi ogni anno tra i 110 e i 140 miliardi di euro. Soldi con cui, tanto per dire, si potrebbe raddoppiare la spesa sanitaria nazionale. O dare una netta sforbiciata alle tasse in un Paese in cui, calcola l’Ocse, la pressione fiscale è la sesta più alta al mondo. Il problema è come recuperarli, questi soldi, cioè come far sì che tutti paghino le imposte. Questione talmente popolare da aver convinto diversi partiti a concentrare le loro promesse elettorali proprio su questo punto. Prima fra tutti la Lega di Matteo Salvini con la proposta della flat tax: cancellazione di tutte le detrazioni fiscali e introduzione di un’aliquota uguale per tutti, persone e imprese, fissata al 15 per cento (a cui, pare di capire dalle ultime dichiarazioni, se ne aggiungerà un’altra al 20 per cento per i redditi familiari superiori agli 80 mila euro). La tesi leghista è semplice: se abbassiamo le imposte ci saranno molte più persone disposte a pagarle. Scommessa che comporta però conseguenze pericolose. Soprattutto per uno Stato, l’Italia, che ha già il quarto debito pubblico più alto al mondo in rapporto al pil. Lo stesso consigliere economico di Salvini, Armando Siri, ha stimato che l’introduzione della tassa piatta causerà un calo iniziale delle entrate fiscali pari a 63 miliardi all’anno. Siri sostiene però che già nei primi mesi, grazie al fatto che il prodotto interno lordo crescerà e molte più persone verseranno le imposte, il buco verrà in parte compensato da 37 miliardi di nuovi introiti. Risultato: nel primo anno dell’ipotetica applicazione della flat tax, ha calcolato la stessa Lega, il costo netto della misura per la casse pubbliche sarà di 26 miliardi di euro. Quanto è costata invece la riforma portoghese? Zero. I commercianti si sono infatti limitati ad aggiornare i loro sistemi di fatturazione, permettendo a ogni registratore di cassa di trasmettere direttamente le ricevute al Fisco, e il nuovo sistema è partito. Spiega Diogo Ortigão Ramos, avvocato di Lisbona esperto in diritto tributario e partner dello studio Cuatrecasas: “L’unico aiuto pubblico messo a disposizione consiste nella possibilità offerta ai commercianti di recuperare più velocemente del passato i costi sostenuti per aggiornare i registratori di cassa. Anche per questo credo che la riforma abbia avuto un successo clamoroso a livello popolare. Ha permesso di ridurre l’economia sommersa e ha modificato la percezione della gente nei confronti delle tasse”. Il tutto senza aumentare la spesa pubblica né la pressione fiscale. Viene da chiedersi allora perché l’Italia non abbia ancora seguito il modello lusitano. E per quale motivo, invece di proporre riforme che secondo molti esperti rischiano di mandare a picco i conti del Paese, i partiti che si apprestano a governarlo non prendano in considerazione una riforma magari meno allettante della flat tax, ma decisamente più praticabile. Indagando sul tema si scopre che in realtà l’idea di prendere spunto da Lisbona era stata seriamente considerata dai governi guidati da Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Ma alla fine non se n’è fatto niente. Lo racconta un alto funzionario del ministero dell’Economia, che in cambio dell’anonimato spiega chi finora si è opposto alla rivoluzione. “Va detto che un piccolo passo in avanti è stato fatto con le detrazioni per le spese mediche, visto che i registratori di cassa delle farmacie sono già collegati all’agenzia delle entrate. Premesso questo, esistono evidentemente alcune categorie che guardano con preoccupazione una riforma simile a quella portoghese. Ci sono i commercianti, i quali vedrebbero diminuire sensibilmente la possibilità di fare nero, ma anche i commercialisti, i sindacati e tutte quelle associazioni che attraverso i Caf incassano parecchio denaro ogni anno assistendo pensionati e dipendenti alle prese con la dichiarazione dei redditi”, racconta la fonte del ministero dell’Economia. Di certo alla fine ne è venuta fuori una riforma che porta lo stesso nome di quella portoghese (e-fattura), ma ha caratteristiche piuttosto diverse. Dal 2015 in Italia i fornitori della pubblica amministrazione devono emettere fatture elettroniche, obbligo che dal prossimo luglio dovrebbe essere esteso a tutte le cessioni di carburante e dal gennaio dell’anno prossimo sarà allargato a ogni operazione commerciale tra imprese. La differenza fondamentale rispetto al Portogallo è che da noi gli scontrini elettronici non arriveranno ai consumatori finali. I quali non potranno scaricare dalla dichiarazione dei redditi spese come l’idraulico, il gommista o il parrucchiere. Proprio i settori in cui, dice l’agenzia delle entrate, l’evasione fiscale è più diffusa. Secondo Andrea Parolini, docente di diritto tributario all’università Cattolica di Milano e partner dello studio Maisto e Associati, “è un peccato non aver ancora deciso di dare queste opportunità ai contribuenti. Sebbene queste ipotesi facciano spesso sorridere i puristi della materia, l’esperienza portoghese dimostra che nella lotta all’evasione dell’Iva gli strumenti premiali possono essere efficaci quanto quelli restrittivi”. La tesi è condivisa anche da alcuni esponenti della cultura umanistica. Spiega ad esempio Gabriele Giacomini, ricercatore di Neuroscienze cognitive e Filosofia della mente all’università di Udine: “Come sosteneva Foucault, lo Stato non deve limitarsi a punire, deve anche premiare i comportamenti virtuosi perché così li incentiva. Quella portoghese è una soluzione dove vincono tutti: lo Stato, che incassa più denaro, e il singolo cittadino che risparmia e può sperare di vincere la lotteria”. Una spiegazione sul perché la soluzione portoghese non sia invece la migliore possibile la fornisce Vincenzo Visco, più volte ministro delle Finanze con il centro sinistra, oggi schierato con Liberi e Uguali, uno che della lotta all’evasione ha fatto il suo tratto distintivo, tanto che i suoi nemici lo hanno soprannominato Dracula. Visco condivide buona parte della strategia fiscale adottata da Lisbona, a partire dal collegamento dei registratori di cassa con l’agenzia delle entrate. “Lo avevo suggerito a Renzi quattro anni fa”, racconta l’ex ministro, “ma non se n’è fatto niente e credo che la ragione sia semplice: si è creduto che in un Paese di piccole imprese la tolleranza sull’evasione portasse consenso”. Ciò che Visco non condivide del modello lusitano è però la possibilità di detrarre le spese dichiarate: “Da una parte questo toglie gettito potenziale, perché lo Stato rischia di restituire più di quanto incassa, dall’altra non va dimenticato che esiste sempre la possibilità di un accordo tra le parti”. Come dire: pagare in nero è comunque più conveniente che farsi fare la ricevuta, sebbene detraibile. “Sarebbe meglio limitarsi alla lotteria”, è la sintesi di Visco, “così da offrire un incentivo senza perdere gettito”. Alla fine, comunque la si pensi resta un fatto, anzi due. La riforma ha permesso al Portogallo di migliorare i conti pubblici senza alzare le tasse per persone e imprese. E il nuovo governo italiano, quello che va formandosi con Lega e Movimento 5 Stelle al potere, non sembra avere alcuna intenzione di prendere esempio da Lisbona. Loro puntano a cancellare tutte le detrazioni fiscali e a istituire un’unica imposta, al massimo due. Seguendo modelli considerati vincenti: dalla Russia di Vladimir Putin all’Ungheria di Viktor Orbán. L’app che inchioda gli stalker in tribunale di Salvatore Sica Il Mattino, 25 maggio 2018 Arriva la funzione che archivia i messaggi violenti: i vantaggi e i rischi. È stata presentata l’ennesima applicazione di sistema - le cosiddette App, nota come MyTutela, che effettivamente si preannunzia innovativa e potenzialmente di grande utilità. In poche parole e per quanto è dato di sapere, è possibile, scaricando l’applicazione sul proprio smartphone, creare un archivio, si suppone curato dal gestore della App, su cui verranno automaticamente scaricati i messaggi, le foto, le mail ed ogni altro dati relativo ad episodi o comportamenti connessi a bullismo, stalkeraggio, maltrattamento e così via. Ma vi è di più. Per quanto preannunziato, l’archiviazione ha lo scopo di elaborare un database di “prove” da produrre in sede giudiziale, nelle indagini o negli eventuali processi, connessi a tali episodi. La novità va ovviamente salutata con favore, tanto più che prende spunto da un tragico caso di cronaca in cui la vittima, uccisa dal suo fidanzato, aveva il telefono non facilmente accessibile, perché protetto da password (è stato impiegato molto tempo per accedervi), ed ovviamente il sospettato aveva cancellato ogni traccia dei messaggi “incriminati” dal proprio apparato. Ma qualche chiarimento è indispensabile e va richiesto agli ideatori dell’applicazione. Innanzitutto c’è un sottinteso “culturale”: chi opta per l’archiviazione dei dati tramite la App diventa “giudice” della qualificazione degli altrui comportamenti; per intenderci, ci sono state già troppe tragedie, in danno di minori e donne, principalmente, perché si possa eccedere in garantismo. Tuttavia è legittimo domandarsi: ogni messaggio “concitato” di un fidanzato abbandonato diventa automaticamente “sospetto” così da giustificarsene l’archiviazione? Il momento di equilibrio, si intuisce, è delicato; v’è il punto di vista delle vittime, ma non va trascurato che è sempre preoccupante l’attribuzione unilaterale alla presunta vittima della valutazione della condotta altrui. Sicché si può plaudire all’uso dell’applicazione alla sola condizione - del resto, l’unica coerente con la disciplina di tutela della riservatezza, anche in vista dell’entrata in vigore del Regolamento europeo in materia - che l’interessato sia messo a conoscenza che i propri dati (messaggi, mail, fotografie) non sono trasmessi soltanto al destinatario ma “deviati” verso un terzo “incaricato” della loro archiviazione e con la esplicita finalità di possibile utilizzo processuale. Tra l’altro, una simile previsione avrebbe l’ulteriore effetto di deterrenza, atteso che l’autore dell’illecito dovrebbe essere dissuaso dall’invio, conoscendo la potenziale destinazione dei messaggi. Sull’utilizzabilità dei dati stessi in termini di prove, francamente non pare possano esservi dubbi: essi provengono dal titolare dei medesimi, che liberamente li invia al terzo: più chiaramente, se una persona spedisce mail o whatsapp offensive o persecutorie sceglie deliberatamente dimetterle in circolazione e legittimamente il destinatario può avvalersene per l’esercizio delle proprie prerogative di difesa o per far valere un proprio diritto. Dunque, più luci che ombre nella nuova iniziativa, ma con una perplessità di fondo: la vicenda è un caso paradigmatico delle contraddizioni della società della comunicazione spinta. Pensateci bene: si può avere stalking o mobbing o ingiuria molto più che in passato per l’effetto “amplificativo” degli strumenti comunicativi; ci si può difendere molto di più grazie all’evoluzione della tecnologia della comunicazione! Ancora una volta il prezzo da pagare è la comunicazione didatte notizie a “terzi” gestori, in una spirale infinita. Ecco perché - e forti delle lezioni del passato recente- forse è bene essere inflessibili da subito sul livello di tutela della vita privata di tutti i soggetti coinvolti, anche di coloro che, fino a prova contraria ed a giudizio passato in giudicato, non sono ancora “mostri” da sbattere in prima pagina. Illegittimi limiti troppo rigidi di accesso degli extracomunitari ai servizi sociali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2018 Corte costituzionale, sentenza 24 maggio 2018, n. 106. Suona un po’ come un monito, in giorni in cui molto si discute sulle condizioni di accesso ai servizi sociali previste dal contratto di governo Lega-5Stelle, la sentenza della Corte costituzionale di ieri che ha bocciato la legge della Regione Liguria sulle condizioni di accesso agli alloggi di edilizia popolare. La legge, la n. 13 del 2017, aveva infatti modificato il requisito previsto per i cittadini di Paesi extracomunitari: prima era richiesta la titolarità della carta o del permesso di soggiorno almeno biennale abbinato all’attività lavorativa, dopo, per effetto della legge dell’anno scorso, veniva invece richiesta la regolare residenza da almeno 10 anni consecutivi in Italia. Nell’affrontare la questione, sollevata dalla Presidenza del Consiglio, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 106, depositata ieri, sottolinea come la direttiva 2003/109/CE riconosce lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di paesi terzi che risiedono regolarmente in uno Stato membro da almeno 5 anni; prevede poi che i soggiornanti di lungo periodo sono equiparati ai cittadini dello Stato membro in cui si trovano per il godimento dei servizi e prestazioni sociali, tra i quali rientra l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica. La direttiva, ricorda la Corte, è stata recepita nel 2007: così, anche nell’ordinamento italiano, il cittadino di Paese terzo, che sulla base di un valido permesso di soggiorno risiede nello Stato per almeno 5 anni, può acquistare lo status di soggiornante di lungo periodo, ed acquista, così, anche il diritto all’assegnazione degli alloggi di edilizia popolare pubblica in condizioni di parità con i cittadini. Richiamando una precedente sentenza del 2014, la n. 168, che già aveva bocciato la Val d’Aosta, la quale prevedeva allora un minimo di 8 anni di residenza nella Regione, la Consulta adesso osserva che la valutazione di irragionevolezza e di mancanza di proporzionalità (che si risolve poi in una forma dissimulata di discriminazione nei confronti degli extracomunitari) è tanto più riferibile alla legge della Liguria che “ai fini del diritto sociale all’abitazione che è diritto attinente alla dignità e alla vita di ogni persona e, quindi, anche dello straniero presente nel territorio dello Stato” richiede un periodo di residenza ancor più elevato (10 anni consecutivi). “E ciò (diversamente dalla legge valdostana) - conclude la pronuncia -, senza neppure prevedere che tale decennale residenza sia trascorsa nel territorio della Regione Liguria, facendo non coerentemente riferimento alla residenza nell’intero territorio nazionale, ancorché sia poi la stessa legge impugnata, per quanto riguarda la prova del “radicamento” con il bacino di utenza a cui appartiene il Comune che emana il bando, a fissare un requisito di residenza di “almeno cinque anni”. Esclusione dalla gara in caso di condanna con una sentenza patteggiata Il Sole 24 Ore, 25 maggio 2018 Tar Calabria - Sentenza 17 maggio 2018 n. 1063. “In materia di appalti pubblici, la sentenza di applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. rileva quale debito accertamento delle condotte ivi sanzionate ai sensi di quanto previsto dall’art. 80, comma 5, lett. a), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50; infatti, non solo l’art. 445 c.p.p. stabilisce l’equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, ma è lo stesso art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 a recepire esplicitamente la detta equiparazione sia pure in riferimento alla distinta ipotesi di cui al comma 1, che tuttavia, sul piano della ratio di tutela, non presenta sostanziali differenze”. Questo il principio espresso dal Tar Calabria con la sentenza 17 maggio 2018 n. 1063. Il caso esaminato dai magistrati amministrativi riguardava una società che aveva omesso di dire di aver patteggiato una pena per la violazione di norme sulla sicurezza lavoro. Ha ricordato il Tar che le misure di self cleaning non possono essere apprezzate dalla stazione appaltante in funzione “sanante”, allorché vi sia una dichiarazione non veritiera resa, a monte, dal concorrente in ordine alla assenza di violazioni delle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Palermo: i Radicali “il carcere Pagliarelli è una bomba che potrebbe esplodere “ di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 maggio 2018 Visita del Partito Radicale che ha incontrato l’eritreo in cella per scambio di persona. Mercoledì scorso, la delegazione del Partito Radicale composta da Rita Bernardini, Donatella Corleo e Gian Marco Ciccarelli, ha compiuto una visita di 6 ore al carcere palermitano del Pagliarelli. Diverse sono le problematiche che hanno potuto riscontrare. Hanno anche incontrato il detenuto eritreo Medhanie Tesfamariam Berhe. Questo è il suo vero nome, anche se per la Procura di Palermo lui si chiamerebbe Medhanie Yehdego Mered Mered, il pericoloso trafficante che sulla pelle dei migranti ha guadagnato una fortuna. Una storia che potrebbe essere definita il “caso Tortora straniero”. Il procedimento contro il 29enne eritreo si sta svolgendo davanti la Corte d’Assise di Palermo presieduta dal giudice Alfredo Montalto, la stessa Corte che recentemente ha condannato al processo di primo grado gli ex vertici dei Ros e l’ex senatore Marcello Dell’Utri per la presunta trattativa Stato- mafia. Diverse sono le prove che dimostrano un clamoroso scambio di persona. L’ultima, come già riportato da Il Dubbio, è stata la prova del Dna: il figlio del vero Mered che è stato ritrovato in Svezia, non ha un Dna compatibile con il giovane eritreo detenuto. Ma niente da fare, i Pm palermitani non chiedono l’archiviazione e vanno avanti con l’accusa. La delegazione ha incontrato il ragazzo che fisicamente sta bene, anche se purtroppo ha il problema della lingua. Per questo motivo ha come compagno di cella un suo connazionale che parla fortunatamente l’italiano. Quello che Berhe vorrebbe è almeno frequentare un corso di alfabetizzazione. L’attivista radicale Donatella Corleo denuncia soprattutto carenze dell’assistenza sanitaria all’interno del carcere, appellandosi al Garante nazionale e alla Regione affinché battano un colpo “perché c’è gente che muore di malattie serie”. Rita Bernardini ricorda di aver più volte denunciato le problematiche che hanno riscontrato. Ma precisa che la responsabilità non è né della direttrice Francesca Vazzana né del comandante capo Giuseppe Rizzo, perché “hanno segnalato da anni tutte le disfunzioni e violazioni dei diritti fondamentali non avendo ottenuto alcuna risposta”. I dati poi li ha elencati il militante del Partito radicale Gian Marco Ciccarelli. Al momento della visita sono risultati 1251, tra cui 60 donne e un bimbo detenuto con la propria madre. La capienza massima è di 1186 posti tra i quali vanno però sottratti 55 posti perché sono celle inagibili. “Detti così - spiega Ciccarelli, questi numeri potrebbero far sembrare che tutto sommato il problema del sovraffollamento non sia un problema eccessivo, ma visitando le celle ci siamo resi conto che sia nel reparto di media sicurezza che alta sicurezza ci sono celle di circa nove metri quadrati in cui sono ubicati due detenuti in letti singoli che riducono la metratura”. Per quanto riguarda l’organico c’è una carenza di polizia penitenziaria perché gli agenti effettivamente in servizio sono 461 rispetto ai 727 della pianta organica. Poi c’è il quadro drammatico della situazione sanitaria: al Pagliarelli la delegazione radicale ha potuto verificare che alcuni detenuti non hanno nemmeno i soldi per acquistare dei farmaci importanti per curare le loro patologie. “Un bomba destinata ad esplodere”, denuncia sempre Ciccarelli. Proprio lo stesso giorno della visita, alcuni detenuti hanno intrapreso lo sciopero della fame per denunciare la problematica sanitaria. E poi non manca il problema psichiatrico. Il comandante capo Rizzo ha riferito alla delegazione radicale che i detenuti affetti da patologie di tipo psichiatrico sono almeno 250 e questo è un problema immenso perché questi detenuti sono ristretti nelle sezioni ordinarie e quindi c’è chi urla e chi rompe sgabelli. A questo si aggiunge il problema che purtroppo affligge tutta la penisola italiana: la presenza di internati psichiatrici che non dovrebbero stare in carcere, ma nelle Rems. Palermo: caso Mered, i Radicali incontrano il giovane detenuto di Gabriele Ruggieri meridionews.it, 25 maggio 2018 “Non può ancora parlare al telefono con la madre”. Una delegazione del partito che fu di Marco Pannella, durante un sopralluogo al carcere Pagliarelli, ha fatto visita all’eritreo accusato di essere uno dei boss della tratta di esseri umani tra l’Africa e l’Europa. Rita Bernardini: “Inizierà a lavorare in carcere tra una settimana, ha tutti i ritagli di giornale che parlano della sua storia”. “Voglio essere chiamato con il mio vero nome”. Con queste parole il giovane eritreo rinchiuso ormai da due anni nel carcere Pagliarelli di Palermo con l’accusa di essere Mered Medhanie Yehdego, uno dei boss della tratta di esseri umani dall’Africa all’Europa, ha accolto gli esponenti del Partito Radicale, tra cui Rita Bernardini, membro coordinatore del partito e Donatella Corleo, durante il loro sopralluogo al carcere palermitano. Una visita fortemente voluta quella al detenuto eritreo che da sempre sostiene di non essere Mered, il trafficante, ma Medhanie Tesfamariam Behre, profugo scappato dall’Eritrea verso il Sudan con l’intento, come molti connazionali, di far rotta verso l’Europa in cerca di maggiori fortune e che si ritrova invece protagonista di un processo che pare senza fine, nonostante diverse prove - ultima delle quali quella del Dna, non compatibile con quello del figlio di Mered - prodotte dalla difesa a carico della tesi del giovane. “Ha quasi trent’anni, ma ha la faccia di un bambino - dice Rita Bernardini. Fortunatamente ha un compagno di cella eritreo che conosce la sua lingua e anche lui ha imparato qualche parola. Ci teneva molto a che lo si chiamasse con il suo vero nome e credo che tutto sommato sia stato contento che qualcuno si stia interessando alla sua vicenda, aveva con sé tutti i ritagli di giornali che riguardano la sua storia”. E finalmente pare che il giovane, prelevato dal Sudan senza documenti né denaro, potrà anche beneficiare di un po’ di soldi. “In tutti questi anni di detenzione - continua Bernardini - non ha mai lavorato e proprio ieri sera, in presenza della direttrice del carcere e del comandante gli è stato detto che tra una settimana avrà finalmente la possibilità di farlo. E questo significa avere anche la possibilità di avere un po’ di denaro, perché non ha di che vivere”. Parole confermate dal legale dell’eritreo, l’avvocato Michele Calantropo, che ha parlato anche della possibilità che il ragazzo possa frequentare all’interno del carcere un corso di italiano. Con gli esponenti del Partito Radicale inoltre il detenuto “si è lamentato del fatto che non può parlare al telefono con la madre - prosegue ancora il membro coordinatore del partito - perché stanno ancora facendo accertamenti sul numero telefonico mentre può parlare con una delle sorelle e lamenta anche il fatto che non gli siano mai arrivate le lettere dei familiari”. Il motivo, secondo Calantropo, potrebbe essere relativo al fatto he le missive sono scritte in tigrino e che quindi necessitano di una traduzione prima di essere consegnate al destinatario. Milano: i docenti di Villa Igea a Opera “i detenuti diventano chef” di Carlo D’Elia Il Giorno, 25 maggio 2018 A scuola di cucina in carcere. Si è quasi concluso il primo anno del corso di Pratica di cucina e sala/bar che da ottobre si sta svolgendo nella casa di reclusione milanese di Opera. Grazie a questa possibilità sessanta detenuti stanno studiando per ottenere un diploma e diventare così cuochi, camerieri e direttori di sala. Per riuscirci hanno bisogno di un luogo attrezzato dove poter sperimentare quanto appreso a lezione, ovvero di una cucina, di un angolo bar e di una sala ristorante. Ma soprattutto di docenti preparati. Per questo, le lezioni sono state realizzate grazie a un accordo di rete tra l’istituto lodigiano Villa Igea e il Calvino di Rozzano. A curare l’attività ci sono anche quattro insegnanti provenienti dalla scuola di Lodi. Si tratta di Francesco Algieri, che è docente di Cucina, il professore di Sala/bar Luigi Balzani, Alessio Della Mura che insegna Accoglienza turistica e Luigia Bertesago che si occupa della parte teorica, con le lezioni di Scienze dell’alimentazione. La collaborazione tra le due scuole è nata grazie all’accordo stipulato dalla dirigente dell’Iss di Codogno (che comprende Ambrosoli, Calamandrei e Villa Igea) Antonia Rizzi e Maria Grazia De Carolis della scuola di Rozzano. “Abbiamo dato il nostro contributo a un corso importante e innovativo - spiega il docente di Villa Igea, Francesco Algieri. Le lezioni hanno accolto sessanta detenuti che hanno così avuto occasione di imparare a cucinare attraverso tante ore di prove pratiche e teoriche. C’è grande soddisfazione da parte nostra”. Nelle prossime settimane si terrà il pranzo finale gestito dal secondo periodo di studio. Ad assaggiare e giudicare le prelibatezze realizzate dagli allievi-detenuti le dirigenti delle due scuole e tutti i docenti dell’istituto. All’evento parteciperanno anche tre studenti del quinto anno di Villa Igea del corso Enogastronomia settore Cucina che prepareranno il pranzo insieme ai detenuti guidati dal docente Algieri. Il menu sarà dalla prima all’ultima portata a base di pesce. “Per i ragazzi sarà un’esperienza nuova e formativa - conclude Algieri. Conoscere una realtà come il carcere di Opera e collaborare con alcuni detenuti è una cosa nuova. L’evento conclusivo doveva svolgersi sabato (domani per chi legge, ndr), ma è stato rinviato dalla direzione del carcere di Opera per un problema tecnico. Di sicuro si farà però nelle prossime settimane”. Catanzaro: la storia della Costituzione, seconda tappa del progetto in carcere cn24tv.it, 25 maggio 2018 Si è svolto nel pomeriggio di oggi, 24 maggio, il secondo degli incontri organizzati nell’ambito del progetto “Studiare la Costituzione in carcere”, portato avanti dalla Casa Circondariale Ugo Caridi, in partenariato con l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia - Comitato provinciale di Catanzaro, in occasione del 70° anniversario dall’entrata in vigore della Costituzione italiana (1948-2018). La storia della Costituzione “rivive” nelle lettere scritte tre generazioni fa dai condannati a morte della Resistenza italiana, rilette in questi mesi dalle persone recluse al carcere di Siano, nell’ambito di uno studio che in questo luogo insolito assume un significato particolare. Al tavolo dei relatori la direttrice dell’istituto Angela Paravati, il presidente dell’Anpi Mario Vallone, lo storico Rocco Lentini, presidente dell’Istituto “Ugo Arcuri” per la Storia dell’Antifascismo e dell’Italia Contemporanea ed il docente Nicola Siciliani De Cumis, coordinatore del laboratorio di lettura e scrittura creativa all’interno del carcere. In platea, molti detenuti che hanno letto in questi mesi molti scritti sulla Resistenza italiana e prodotto a loro volta diversi elaborati sull’argomento. Dopo la visione di un filmato documentaristico sul sacrificio dei partigiani, si è aperto un dibattito che ha visto una grande partecipazione emotiva dei detenuti presenti nella platea della sala teatro della casa circondariale. “Il carcere italiano nel 2018 è un carcere la cui finalità rieducativa è prevista dalla nostra Costituzione, per cui è opportuno che la storia di questo testo venga studiata qui, per non dimenticare che è nato proprio in opposizione alle detenzioni ingiuste nelle prigioni fasciste e grazie al sacrificio di ragazzi anche giovanissimi” ha affermato la direttrice Angela Paravati. Lo storico Rocco Lentini si è soffermato sulla Resistenza in Calabria e nel Mezzogiorno, su tanti episodi spesso trascurati nei libri di storia, sottolineando che a volte è necessario “cambiare prospettiva” per poter vedere le cose in modo completo. La Resistenza a Sud dura dal luglio all’8 settembre 1943, quella nelle regioni settentrionali si prolunga fino al 25 aprile 1945, giorno della Liberazione: anche questa differenza temporale ha pesato spesso nella ricostruzione storica di un movimento che comunque ha visto moltissimi meridionali tra i suoi protagonisti. Vallone ha ribadito la volontà dell’Anpi di divulgare la conoscenza della Costituzione nelle carceri, nelle scuole dei quartieri ad alto rischio sociale, nei posti in cui c’è più necessità di formare coscienze critiche, cittadinanze attive, di acquisire consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri. Oristano: un busto di Falcone nel carcere dei tanti 41bis di Michela Cuccu La Nuova Sardegna, 25 maggio 2018 L’opera dello scultore Giuseppe Maccioni nella casa circondariale di Massama Dietro le sbarre ci sono 175 detenuti in regime di alta sicurezza con 67 ergastolani. È stata una festa dal duplice significato quella di ieri al carcere di alta sicurezza di Massama, dove le celebrazioni per il 201esimo anniversario della fondazione della Polizia penitenziaria è stata fatta coincidere con il 26esimo anniversario della strage di Capaci. Il busto di pietra bianca, opera dello scultore Giuseppe Maccioni e donato dalla Cooperativa Il Seme, scoperto ieri mattina, è un monito al rispetto della legalità. A Massama, dove il giardino di rose dedicato ai giudici Falcone e Borsellino è coltivato dai detenuti, finiscono infatti i condannati per reati di criminalità organizzata, quella contro cui i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno combattuto fino al loro assassinio. Su una popolazione carceraria che attualmente si attesta a 223 detenuti (contro una capienza massima di 300), la maggioranza dei detenuti di Massama, 175, sono in regime di alta sicurezza, altri 39 sono ex 41 bis e 67 sono gli ergastolani, buona parte dei quali, sconta una condanna che mai gli permetterà di usufruire di alcun beneficio o sconto di pena. In altre parole, sono carcerati a vita. Il numero dei detenuti sottoposti a regime di media sicurezza si ferma a 48 e soltanto otto di questi hanno la possibilità di uscire durante il giorno per recarsi al lavoro. I dati ufficiali li ha forniti il comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Oristano, il commissario capo Salvatore Cadeddu, che illustrando il bilancio di un anno di lavoro, ha parlato della complessità di una struttura, dove 160 agenti in 12 mesi hanno effettuato 786 traduzioni (per 1.240 detenuti), delle quali 110 fuori Sardegna, ma hanno anche stilato 62 atti di polizia giudiziaria, trasmesso sei notizie di reato e arrestato il familiare di un detenuto scoperto a tentare di introdurre stupefacenti in carcere. Il commissario Cadeddu non ha nascosto le difficoltà di lavorare in un carcere dove, l’anno scorso ci sono state due aggressioni ai danni di agenti in servizio. Gli sforzi per creare comunque le condizioni di una detenzione con fini di recupero però non mancano. Ad esempio la scuola, che con il sostegno dell’amministrazione comunale ieri rappresentata dal sindaco Andrea Lutzu e dall’assessore alla Cultura Massimiliano Sanna, permette a 80 detenuti, divisi in 9 classi, di frequentare corsi di studio che comprendono anche le scuole superiori. Il direttore della struttura Pier Luigi Farci ha riconosciuto il notevole lavoro degli agenti e ha parlato di “un buon rapporto con la realtà locale che ci ha permesso, per primi, di realizzare progetti importanti all’esterno”. Fra questi, la ricerca archeologica con detenuti impegnati in scavi importanti, dal ponte romano di Santa Giusta alla zona dei giganti di Mont ‘e Prama, passando per Forum Trainai, le antichissime terme di Fordongianus. Il direttore ha poi lanciato l’idea: “Ogni istituto carcerario adotti un sito archeologico”. E l’archeologo Raimondo Zucca ha aggiunto: “Solo la dedizione dei detenuti archeologi ha permesso scoperte eccezionali, fra cui il ritrovamento del primo frammento di bronzetto nuragico a Monti Prama”. Il lavoro dunque, come opportunità di reinserimento sociale. A questo proposito Pierluigi Farci, rivolgendosi alla consigliere regionale Anna Maria Busia, intervenuta per consegnare al carcere la bandiera con i 4 mori, dono del presidente del consiglio regionale, Gianfranco Ganau, ha chiesto che esperienze come quelle di Massama vengano messe a sistema: “Da soli, non ce la facciamo”. Roma: dal pane nasce la birra, la producono i detenuti cronachedigusto.it, 25 maggio 2018 Il Rome Cavalieri, A Waldorf Astoria Resort, in collaborazione con Equoevento e il Birrificio “Vale La Pena”, presenta RecuperAle, la birra artigianale che combina la solidarietà sociale e il contenimento degli sprechi alimentari. Questa birra, infatti, viene prodotta da detenuti che desiderano apprendere un mestiere allo scopo di rientrare nella società a fine pena, e viene realizzata secondo un antico procedimento di fermentazione del pane. Il pane in esubero dell’hotel viene consegnato al birrificio che lo utilizza per produrre la birra; questa, viene imbottigliata con un’etichetta speciale per il Rome Cavalieri, e venduta all’interno dei bar e ristoranti dell’albergo, tra cui La Pergola, il tristellato di Heinz Beck. Si crea così un circolo virtuoso in cui il Rome Cavalieri fornisce la materia prima e nello stesso tempo diventa fonte di fatturato, vendendo il prodotto. I benefici dell’operazione sono semplici ed efficaci. Dal punto di vista sociale, si propone il reinserimento in società dei detenuti, insegnando loro un mestiere, e cercando, così, di evitare che tornino a delinquere una volta in libertà. Il progetto quindi non ha solamente un effetto benefico per i detenuti che si stanno riabilitando, ma anche per la comunità intera. Dal punto di vista della sostenibilità ambientale, il progetto di RecuperAle verte sul contenimento degli sprechi alimentari: l’albergo affida ad Equoevento il pane in esubero, evitando inutili sprechi e riducendo lo smaltimento dei rifiuti organici. A sua volta, Equoevento consegna il pane al birrificio Vale La Pena, dove viene prodotta questa birra “socialmente utile” e “sostenibile”. Ogni lotto di produzione della birra - definito “cotta”- richiede l’impiego di 80 chili di pane e genera 3.600 litri di birra. Questo prodotto viene venduto dallo stesso Rome Cavalieri, generando un fatturato in grado di sostenere lo stipendio di una persona per un anno. Questo progetto innovativo è stato sposato con entusiasmo da tutto il Management del Rome Cavalieri, che ne ha riconosciuto la forte carica innovativa, e la sua capacità di veicolare i solidi valori della sostenibilità e della solidarietà, a beneficio della comunità locale. Alessandro Cabella, Managing Director del Rome Cavalieri, ha così commentato questa splendida iniziativa: “Siamo orgogliosi di contribuire ad un progetto così importante, che ha un impatto positivo sia sull’ambiente che sulla società. Grazie alla collaborazione di Equoevento e del birrificio Vale La Pena, oltre che alla disponibilità del nostro team, abbiamo potuto concretizzare l’iniziativa e siamo orgogliosi di aver realizzato una birra Rome Cavalieri”. Augusta (Sr): detenuti e studenti del liceo “Einaudi” insieme per scrivere un libro augustanews.it, 25 maggio 2018 L’iniziativa si inserisce nell’ambito del progetto di alternanza scuola-lavoro avviato dagli studenti della IV B e VB del liceo scientifico di Siracusa e detenuti che studiano in carcere È nato dal progetto di alternanza scuola-lavoro degli studenti del liceo Scientifico dell’istituto di istruzione superiore “Luigi Einaudi” di Siracusa con i detenuti della casa di reclusione di Augusta il volume “Fine penNa mai”, che verrà presentato domani alla casa di reclusione e sabato pomeriggio nell’auditorium della scuola di via Nunzio Canonico Agnello. Il volume, realizzato all’interno della collana “Selfie di noi - Righe oltre le grate” della casa editrice Gemma Edizioni, ha coinvolto alcuni detenuti seguiti da Assunta Tirri, docente di lettere e referente dell’istituto penitenziario e due classi del liceo, la V B e IV B che sono state affiancate, lungo tutto il percorso formativo, dai tutor della casa editrice e dalla docente Maria Grazia Guagenti, referente del progetto per la scuola. Gli studenti hanno dichiarato di aver vissuto un’esperienza forte e diversa, “di incontro e scambio reciproco e di scoperta di una realtà come quella che si vive dietro le grate”. La IV B si era già cimentata nella partecipazione allo stesso progetto nel corso dell’anno scolastico 2016-2017 pubblicando il volume “Selfie di noi 11 - Ti vivo in un mondo che so solo io”. La presentazione di domani nella casa di reclusione non è aperta al pubblico e sarà preceduta dalla celebrazione della festa del Corpo di polizia penitenziaria 2018, in programma a partire dalle 9,15. Terni: “Intrecci”, mostra delle opere pittoriche dei detenuti umbriacronaca.it, 25 maggio 2018 È organizzata dalla Caritas. L’inaugurazione il 26 maggio al Museo diocesano. “Intrecci” è la mostra di opere pittoriche, disegni, versi poetici realizzate dai detenuti nell’ambito del progetto “Arte in carcere” promosso dalla Caritas diocesana e associazione di volontariato San Martino, in collaborazione con la direzione della Casa Circondariale di Terni. La mostra, allestita presso il Museo Diocesano e Capitolare di Terni, sarà inaugurata sabato 26 maggio alle ore 17 alla presenza del direttore della Casa Circondariale di Terni Chiara Pellegrini e degli operatori e rappresentanti della polizia penitenziaria, del direttore della Caritas diocesana Ideale Piantoni, del presidente dell’associazione di volontariato San Martino Francesco Venturini, dei volontari che prestano il servizio in carcere e di alcuni detenuti autori delle opere a cui è stata data la possibilità di seguire la mostra. L’esposizione, che propone 70 opere pittoriche realizzate dai detenuti e 12 poesie scritte da altrettanti detenuti, resterà aperta dal 26 maggio al 2 giugno dalle 10 alle 12.30 e dalle 17 alle 19.30. Le opere potranno essere acquistate con una offerta in denaro e il ricavato sarà utilizzato per l’acquisto dei materiali per il laboratorio artistico, per le necessità del detenuto autore dell’opera e per un fondo comune. Il progetto “Arte in carcere” è un laboratorio artistico, attivo da quasi quindici anni all’interno del carcere, che è un’opportunità di socializzazione ed evoluzione relazionale, mentre si apprendono le tecniche del disegno e del colore, e che rappresenta una delle varie modalità di solidarietà che, grazie all’associazione di volontariato San Martino che gestisce le opere segno della Caritas diocesana, vengono portate a favore dei detenuti durante tutto l’anno sia con aiuti di beni di prima necessità che con i colloqui nei centri di ascolto e altre attività. “Per i detenuti che lo frequentano, il laboratorio artistico è diventato un punto di riferimento per socializzare - spiega la coordinatrice del progetto Gisella Manuetti Bonelli, per intraprendere un percorso di introspezione e crescita personale acquisendo elementi tecnici sul disegno e sul colore. In questo luogo passano e si incontrano individui di varie culture e per tanti motivi, alcuni sostano più a lungo di altri. Nello spazio di questo laboratorio artistico, le diversità si intrecciano come a formare un unico ordito perché la finalità è uguale per tutti: cercare in se stessi, al di la del reato per cui stanno scontando la pena, qualcosa di bello, realizzarlo e dimostrarlo. Creando disegni e pitture e scrivendo versi, esposti in questa mostra, trapela il loro impegno, per ritrovare una sensibilità, sopita da tempo e il desiderio di riallacciare una nuova alleanza con se stessi e con gli altri”. “La mostra rappresenta la conclusione di un percorso umano e formativo che la Caritas ha avviato con i detenuti nel segno di una grande attenzione alla dignità umana, del riscatto umano e sociale e della speranza - spiega Nadia Agostini responsabile del settore carcere della Caritas diocesana -. Un anno intero dedicato all’approfondimento di questo percorso umano che si esprime visivamente nelle opere dei detenuti”. Paradosso privacy: la nuova normativa è la prima legge-spam di Massimo Sideri Corriere della Sera, 25 maggio 2018 Entra in vigore la norma europea che cambia i diritti di circa 500 milioni di cittadini digitali. Intanto siamo tutti inondati di mail che nessuno ha tempo e pazienza di aprire. Entra oggi in vigore la nuova normativa della privacy europea che cambierà - almeno dovrebbe - i diritti di circa 500 milioni di cittadini digitali. Dentro ci siamo, dunque, anche noi: 60 milioni di italiani. La Gdpr, il regolamento per il trattamento dei dati personali, ha già subito anche qualche critica per il suo impianto troppo conservatore ma, come hanno dimostrato i casi recenti, va nella direzione giusta: con le nuove regole Facebook avrebbe rischiato di pagare il 4 per cento del suo fatturato mondiale (oltre un miliardo) per lo scandalo della vendita dei dati a Cambridge Analytica. C’è però da interrogarsi su come ogni applicazione di una nuova norma si trasformi in burocrazia, non più cartacea ma digitale: chiunque abbia dato il proprio indirizzo elettronico, fatto un’acquisto online negli ultimi anni, attivato un servizio, prenotato un ristorante o comprato i biglietti del cinema via app sta ricevendo in queste ore una valanga di messaggi dalle aziende “preoccupate” per la nostra privacy. Centinaia di messaggi. La Gdpr si sta trasformando nella prima legge-spam della storia perché nessuno di noi ha il tempo e la pazienza di aprire, controllare singolarmente tutti i contratti, depennare alcune voci e controllare poi che tutto ciò avvenga. Alcune società stanno tentando anche la strada di un ridicolo silenzio-assenso (se non rispondi vuole dire che sei d’accordo). Per certi versi sta accadendo quello che già era avvenuto con i famigerati cookies, cioè le stringhe di codici che ci studiano sul web come topi in un laboratorio (forse online questo siamo, in definitiva). Tutto ciò dimostra che si può cambiare la normativa, ma forse bisognerebbe prima cambiare la testa delle aziende per dare veramente una svolta: i diritti non si rispettano solo con email. È come se un Comune con le strade piene di buche pensasse di risolvere la questione spedendo dei messaggi ai cittadini con su scritto: quando esci di casa attento alle buche. Ergo: riparatele. La riforma della privacy parte zoppa di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 25 maggio 2018 L’armonizzazione alla privacy europea può attendere. Scavalca il 25 maggio 2018 (data di inizio di efficacia del Regolamento Ue 2016/679), infatti, l’esame, da parte delle Commissioni speciali di Camera e Senato, dello schema Decreto legislativo (previsto dalla legge delega 163/2017, articolo 13) di coordinamento al Regolamento. La delega in origine sarebbe decaduta il 21 maggio 2018, ma per effetto di ritardi accumulatosi, ai sensi dell’articolo 31 della legge 234/2012, la delega è stata prorogata al 21 agosto 2018. Quindi l’iter parlamentare per il parere sullo schema di dlgs va avanti. Così entro oggi 24 maggio 2018 alle ore 13 è stato fissato il termine per indicare esperti da ascoltare, per proseguire l’istruttoria sullo schema di provvedimento, in senato; mentre la discussione è partita solo ieri alla camera. Il punto della mancata approvazione della armonizzazione italiana è stato discusso in commissione al senato e, pur consapevoli delle criticità derivanti dalla mancata approvazione del dlgs, è stato ritenuto prevalente un approfondimento delle questioni. Anche profittando della proroga della scadenza della delega. L’esigenza di approfondimento deriva anche e soprattutto da un cospicuo numero di richieste di modifica svolte dal Garante della privacy, che ha tempestivamente licenziato il suo parere. D’altra parte, gli operatori devono abituarsi al fatto che ci vorrà ancora tempo per la costruzione del nuovo sistema privacy a tinte europee e lo schema di decreto legislativo rappresenta solo un tassello, anche se importante. In effetti, il Regolamento europeo proprio per la sua natura giuridica deve trovare applicazione immediata nell’ordinamento. Questo significa che sia la pubblica amministrazione sia il garante per la protezione dei dati personali sia l’autorità giudiziaria, quando sono chiamate ad applicare una regola in materia di trattamento dei dati, devono dal 25 maggio 2018 preoccuparsi di applicare direttamente le disposizioni del Regolamento europeo. In mancanza di una norma esplicita di coordinamento, di raccordo e di armonizzazione, il raccordo e il coordinamento dovranno essere trovati di volta in volta da chi si occupa dei singoli casi in un provvedimento amministrativo o in un provvedimento giurisdizionale. Va detto, comunque, che dei 99 articoli del Regolamento europeo, una gran parte è effettivamente auto-applicante. Gran parte del regolamento può comunque trovare applicazione, seppure richiede una maggiore analisi e una maggiore responsabilità interpretativa e applicativa in capo alle imprese ed enti pubblici. Possono partire, senza problemi, tra le altre, tutte le norme su informazioni, consenso, misure di sicurezza, data breach, responsabile della protezione dei dati (Dpo). Certo anche occorre rilevare che avere norme di coordinamento approvate con un decreto legislativo fornirebbe un parametro di riferimento stabile su questioni importanti. Un problema, per esempio, che si pone è quello relativo al comparto sanzionatorio penale: ci si chiede, infatti, in assenza della legislazione delegata, che fine facciano le disposizioni penali previste dal codice della privacy. Queste disposizioni penali sono strutturate nel senso che costituisce reato la violazione di una disposizione del codice stesso; nelle ipotesi, però, che una disposizione del vecchio codice debba considerarsi abrogata, per la sopravvenienza del Regolamento europeo, cesserebbe di esistere il riferimento al precetto sanzionato con la fattispecie penale. Pertanto la mancanza di un decreto legislativo di coordinamento e di raffronto lascerà nelle mani delle procure e del giudice penale la verifica della continuità dell’illecito, anche alla luce del principio del cosiddetto ne bis in idem, in base al quale non possono applicarsi due sanzioni, penale amministrativa, allo stesso illecito. In sostanza si prospetta il fatto che il regolamento diventa efficace senza un decreto legislativo di armonizzazione e, quindi, la nuova privacy parte, ma ci sono più possibilità di interpretazioni contrastanti nella prime prassi applicative. Migranti. In un anno solo settemila rimpatri. “Ecco perché è difficile espellere” di Vladimiro Polchi La Repubblica, 25 maggio 2018 La Fondazione Moressa: “In tutta la Ue rimandati indietro in 200mila”. Nel contratto di governo se ne promettono mezzo milione solo in Italia. “Zero clandestini e decine di migliaia di espulsioni subito”. Promette il leader del Carroccio, Matteo Salvini. Mezzo milione di irregolari da rispedire a casa è l’obiettivo ribadito dal contratto di governo tra Lega e M5S. Ma come stanno davvero le cose? Un dato per tutti: lo scorso anno i migranti effettivamente rimpatriati dal nostro Paese sono stati poco più di settemila. E l’intera Europa non è riuscita a rimandarne indietro più di 200mila. A fotografare le difficoltà della complessa macchina delle espulsioni è uno studio della Fondazione Leone Moressa sugli ultimi dati Eurostat. Gli analisti hanno verificato i numeri, proprio a partire da quanto promesso nel contratto Lega- M5S. Intanto gli irregolari: lo scorso anno nel nostro Paese sono stati rintracciati 36.230 migranti senza documenti. Guardando alla loro nazionalità, si nota come si tratti non tanto di richieste d’asilo rifiutate, quanto di permessi di soggiorno scaduti. Tradotto: non persone sbarcate negli ultimi tempi sulle nostre coste, quanto irregolari già da tempo sul nostro territorio o lavoratori che hanno perso il lavoro e non hanno più i documenti in regola. Le principali nazionalità sono infatti Marocco (oltre il 26% del totale), Tunisia (19%) e Albania (6,4%). Probabilmente solo tra i cittadini nigeriani (2.175), c’è una quota di richieste d’asilo rifiutate. E ancora: nel 2017 gli ordini di allontanamento emanati sono stati 36.240, ma i rimpatri effettivi molti meno, solo 7.045. Di questi, il 25,6% degli espulsi ha eseguito l’ordine in maniera volontaria, mentre per il 70% (quasi 5mila persone) è stata necessaria la procedura coatta. Si tratta per lo più di voli charter su cui vengono imbarcati irregolari e agenti di polizia (due per ogni espulso) diretti verso i Paesi con cui l’Italia ha accordi di riammissione (Tunisia, Egitto, Marocco, Nigeria). Altissimi i costi. Lo dimostra quanto avvenuto il 19 maggio 2016: l’aereo era un charter della Bulgarian Air affittato dal Viminale. Il piano di volo da Fiumicino a Hammamet, con scali a Lampedusa e Palermo. I tunisini da espellere erano 29 e ben 74 gli accompagnatori di cui 69 agenti di scorta. Una spesa stimata in 115mila euro. Fanno quasi 4mila euro ad espulso. Insomma, anche a voler spendere una montagna di soldi (si parla di due miliardi di euro), i numeri reali rendono inverosimile l’obiettivo dei 500mila rimpatri. A questi numeri, vanno aggiunti quanti sono stati fermati nel momento in cui attraversavano il confine. Nel caso dell’Italia, nel 2017 sono stati 11.260 i respingimenti alla frontiera. Dove sono avvenuti? La maggioranza (6.620, cioè il 59%) sono stati effettuati presso gli aeroporti, dovuti a documenti falsi o irregolari. Il 39% è invece avvenuto alle frontiere di mare, cioè i porti: si tratta di 4.395 persone, solo una piccola parte dunque dei 119mila migranti sbarcati nell’anno. Pochissimi i fermati via terra: solo 245. Non va molto meglio nel resto d’Europa. I dati Eurostat illustrano infatti la difficoltà nella gestione dei rimpatri. Su 516mila ordini di allontanamento emanati dai Paesi Ue nel 2017, solo 213mila (41,4%) sono stati effettivamente eseguiti. In termini assoluti, i Paesi con più rimpatri effettuati sono la Germania (22% del totale Ue) e il Regno Unito (18%). Quanto ai respingimenti al confine, l’anno scorso quasi 440mila cittadini Extra Ue si sono visti negare l’ingresso alla frontiera di uno Stato membro. Nell’ 84% dei casi si è trattato di frontiere di terra. Il primato spetta alla Spagna con oltre 200mila respingimenti, quasi tutti nelle enclave africane di Ceuta e Melilla. Migranti. Fuga di massa da un carcere libico, i trafficanti sparano sulla folla di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 maggio 2018 Hanno tentato la fuga di massa dal centro di detenzione di Bani Walib, la più temuta delle prigioni libiche, quella in cui solo nel 2017 sarebbero morte più di mille persone. Ma per fermare i migranti che tentavano di scappare i trafficanti hanno aperto il fuoco ad altezza d’uomo, ferendo gravemente una ventina di persone. Non ci sarebbero vittime. La notizia è stata rilanciata dal Lybia observer che pubblica anche le foto dei feriti portati in ospedale e ancora per terra nel carcere. Etiopi, eritrei e somali per lo più tra i 107 migranti che, rinchiusi a Bani Walid da mesi, hanno tentato il tutto per tutto per raggiungere la costa e provare ad imbarcarsi verso l’Italia. Le ultime 24 ore sono state segnate da numerose partenze dalle coste libiche ma anche dalla Tunisia dove si è spostata la base principale dei flussi. Questa mattina la guardia marittima tunisina, dopo un lungo inseguimento durato circa tre ore, è riuscita a bloccare un peschereccio di 12 metri a bordo del quale erano stipate 128 migranti, tunisini per lo più ma anche siriani e africani a testimonianza di come le organizzazioni di trafficanti stiano spostando il baricentro della loro azione verso la Tunisia vista la difficoltà sempre crescente a far arrivare migranti in partenza dalla Libia. i 128 migranti sono stati portati nella base della marina di Sfax e denunciati. Duecento ventisei invece le persone soccorse in mare in due diverse operazioni: la prima portata a termine dalla nave umanitaria Sea Watch 3 che ha preso a bordo 157 persone che viaggiavano in un gommone mentre altre 69 persone salvate da una nave militare italiana sono state trasbordate sulla nave Aquarius di Sos Mediterranee. Malaysia. Un chilo di metamfetamine in valigia, nonna di Sydney condannata a morte di Francesco Giambertone Corriere della Sera, 25 maggio 2018 Maria Exposto fu fermata nel 2014 all’aeroporto con oltre un chilo di “ice” nella borsa che le avrebbe dato un “fidanzato conosciuto online”. I giudici: “Doveva controllare”. Una donna (e nonna) australiana di 54 anni, Maria Elvira Pinto Exposto, è stata condannata a morte in Malaysia per traffico internazionale di droga: tre anni e mezzo fa fu arrestata all’aeroporto di Kuala Lumpur mentre rientrava a Melbourne con oltre 1 chilo di metamfetamine, meglio note come “ice”, in un compartimento segreto di una borsa che però, ha sempre sostenuto la difesa, lei non sapeva cosa contenesse. I tre giudici della Corte d’appello della capitale malese l’hanno ritenuta colpevole e per la legge del Paese sul traffico di droga, introdotta nel 1983, chi viene beccato con più di mezzo chilo “dev’essere impiccato”. C’è ancora una speranza per Maria Exposto: che almeno l’ultimo grado di giudizio, come aveva fatto il primo, creda alla sua innocenza. Il raggiro del “fidanzato online” - Sul fatto che nella valigia della signora ci fosse la droga non ci sono dubbi. Ma secondo il giudice di primo grado Maria era stata raggirata: non sapeva cosa trasportava. La valigia le era stata consegnata da un “fidanzato conosciuto online, che sosteneva di essere il capitano Daniel Smith delle forze speciali Usa”. Secondo il giudice la signora si era “ingenuamente innamorata” di quest’uomo incontrato su internet, con cui ha avuto una relazione soltanto online per due anni, prima che lui la convincesse ad andare a trovarlo a Shanghai. Lì l’uomo le ha dato la borsa: “Dentro ci sono dei vestiti che dovresti portare a Melbourne”. Lei ci ha creduto e si è imbarcata per fare ritorno a casa. L’accusa e i documenti per la pensione - Allo scalo di Kuala Lumpur la sua ingenuità ha abbattuto un altro limite: la signora - sottolinea la difesa a sostegno della sua innocenza - si è offerta di passare la valigia nello scanner degli agenti di controllo, quando l’operazione era ancora facoltativa. “Lì hanno scoperto che in una parte nascosta dello zaino c’era la droga”. E così Maria è stata arrestata, ha perso il visto e ha affrontato il processo. Assolta in primo grado a dicembre, sembrava aver evitato la pena capitale. “Siamo di fronte a un caso di adescamento online: volevano trasformarla in un mulo della droga a sua insaputa, è evidente”, ha detto all’Afp la sua avvocata Tania Scivetti. Ma la Corte d’Appello è di un’altra opinione. “Avrebbe avuto tutto il tempo per controllare cosa c’era nella borsa che le aveva dato un uomo conosciuto da così poco. Avrebbe dovuto avere dei sospetti, e sappiamo che la signora prima del volo aveva incontrato qualcuno per ottenere i documenti per la pensione”, come se sapesse che con i soldi della partita si sarebbe sistemata a vita. Ora l’Alta Corte è l’ultima chance che le resta per evitare la fine toccata già a tre australiani in Malaysia negli ultimi 30 anni, tutti impiccati per traffico di stupefacenti. Gli avvocati dicono che Maria “è ancora fiduciosa. Non aveva mai visto della droga in vita sua”. Brasile. “Il discorso è chiuso”, Lula resta in cella. E l’Onu apre un’indagine di Claudia Fanti Il Manifesto, 25 maggio 2018 Il Tribunale supremo elettorale avrebbe già un piano per bloccare l’eventuale candidatura dell’ex presidente per le elezioni di novembre. Ma i sondaggi sono sempre dalla sua parte. Che Lula possa uscire dal carcere prima delle presidenziali di ottobre sembra ormai escluso. Rimandata la discussione sulla costituzionalità dell’arresto dei condannati in secondo grado dopo l’appuntamento elettorale, la Corte Suprema non lascia alcuno spiraglio: come ha spiegato il ministro del Supremo tribunale federale Gilmar Mendes, il discorso sulla carcerazione di Lula “può considerarsi chiuso”. Non è chiuso però per il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite, che martedì ha annunciato ufficialmente l’avvio di indagini sulle violazioni delle garanzie fondamentali di cui sarebbe vittima l’ex presidente brasiliano. Incurante di alimentare nuove polemiche, il potere giudiziario ha intanto sottratto all’operazione Lava Jato l’intoccabile candidato del Psdb (Partito della socialdemocrazia brasiliana) Geraldo Alckmin, accusato di aver ricevuto dalla Odebrecht tangenti pari a 10,7 milioni di reais, e rimesso in libertà, per iniziativa proprio di Gilmar Mendes, l’intermediario finanziario - sempre del Psdb - Paulo Preto, ex direttore della Dersa (un’impresa di infrastrutture stradali) per le cui mani sono passati 130 milioni di reais di tangenti: gli è bastato, per ottenere l’habeas corpus, lasciar intendere di essere disposto a coinvolgere esponenti del suo partito. Ad alimentare la sensazione che il Psdb goda di protezioni speciali è lo stesso Sergio Moro, il quale dopo essere apparso in foto tutto sorridente a fianco del senatore socialdemocratico Aécio Neves, non solo è stato fotografato di nuovo, e sempre di ottimo umore, accanto al sindaco di São Paulo João Doria, ma ha anche preso parte a New York a un evento promosso dal Gruppo Lide, di proprietà della famiglia Doria. Tuttavia, è chiaro che il Psdb un problema ce l’ha, e non è irrilevante: non ha trovato ancora un candidato in grado di aspirare con successo alla presidenza del Paese. L’ultimo sondaggio del Cnt/Mda è al riguardo impietoso, mostrando come Lula, dopo oltre un mese dal suo arresto, possa contare ancora sul 32,4% delle preferenze, contro il 16,7% di Jair Bolsonaro, il 7,6% di Marina Silva, il 5,4% di Ciro Gomes e appena il 4% del socialdemocratico Alckmin, peraltro l’unico di questo gruppo a contare sul sostegno delle forze golpiste. Non solo: il 25,6% dei brasiliani è disposto a votare solo Lula e il 90,3% degli intervistati ritiene che la Giustizia non agisca in maniera imparziale. Alla luce di questi dati risulta senz’altro più complicato contestare al Pt la scelta - criticata anche all’interno del partito - di continuare a puntare fino alla fine sulla candidatura di Lula, rinunciando alla ricerca di un sostituto nel caso più che probabile che l’ex presidente non possa prendere parte alle presidenziali. Se è vero che la legge Ficha Limpa (che proibisce ai condannati in secondo grado di presentarsi alle elezioni) prevede la sospensione dell’ineleggibilità in presenza di ricorsi “plausibili” (come sono certamente quelli di Lula), il Tribunale supremo elettorale sta già pensando a una contromossa: quella di respingere d’ufficio la stessa iscrizione della candidatura dell’ex presidente, senza cioè attendere eventuali impugnazioni e dare via al relativo processo. Ma neppure il rischio dell’ennesima violazione della giurisprudenza in vigore può scoraggiare la presidente del Pt Gleisi Hoffmann, più che mai decisa a scartare qualunque “piano B”, a cominciare da quello che prevede un possibile appoggio a Ciro Gomes, il pre-candidato del Pdt (Partito democratico del lavoro): “Se - afferma - Lula è innocente, se la maggioranza del popolo vuole votarlo, se alla luce della Costituzione i suoi diritti politici sono assicurati, per quale motivo dovremmo rinunciare a presentarlo come candidato? Significherebbe fare il gioco dei suoi persecutori”. Dal carcere lo stesso Lula è tornato sulla questione, spiegando la propria determinazione a candidarsi alle presidenziali: “Altrimenti vorrebbe dire che sto riconoscendo di aver commesso un crimine. Ma non l’ho commesso. Per questo resto candidato finché la verità non appaia sui giornali, finché procura e magistratura non provino la mia colpevolezza o smettano di mentire”. A sostegno dell’ex presidente scendono in campo anche sei ex capi di governo europei - Hollande, Prodi, D’Alema, Letta, Di Rupo e Zapatero -, i quali hanno diffuso un manifesto in cui, denunciando “l’affrettato arresto” di Lula, chiedono che possa liberamente prendere parte alle elezioni di ottobre. Afghanistan. È il talco il nuovo business dell’Isis di Marta Serafini Corriere della Sera, 25 maggio 2018 La denuncia della ong britannica Global Witness: “I maggiori consumatori sono Usa e Ue, i jihadisti cercano di trasportarlo in Pakistan”. Il consumo di talco, la polvere bianca usata in tutto il mondo, sta finanziando l’Isis. Lo scenario è l’Afghanistan dove, secondo una ricerca di Global Witness, il gruppo jihadista, noto come Islamic State - Khorosan Province (Iskp) ha preso il controllo di alcune miniere illegali, strappandole ai talebani e ad altri signori della guerra, già monopolisti nella produzione di oppio. Il talco è un componente di molti prodotti che usiamo tutti i giorni dai cosmetici, passando per le vernici, fino alla polvere bianca, e la domanda del minerale da cui si estrae la polvere è aumentata, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, Italia compresa, tra i maggiori consumatori dell’Unione europea. Maggiore esportatore è il Pakistan che ogni hanno produce 125 mila tonnellate e oltre di talco. Di queste quasi la metà arrivano dall’Afghanistan e dalle sue miniere illegali. Da quando Isis ha perso il controllo dei suoi territori in Siria e in Iraq, ha intensificato la battaglia in Afghanistan per assicurarsi quegli approvvigionamenti economici che gli sono venuti a mancare più a sud. Già nel 2015 un comandante dell’Iskp avrebbe dichiarato di avere intenzione di “prendere il controllo dei giacimenti a qualsiasi prezzo”. Dunque, oltre a fare a gara con i talebani nel progettare attentati, ora l’Isis cerca di strappare le miniere di talco, cobalto e cromite ai talebani. Secondo il rapporto di Global Witness, questa battaglia è in corso roccaforte nel distretto di Achin nella provincia di Nangarhar, la stessa area bombardata negli Stati Uniti nell’aprile 2017 con la madre di tutte le bombe. Diverse fonti hanno confermato alla ong britannica come Isis stia cercando di avviare un commercio con il Pakistan. Il trasporto di minerali dall’Afghanistan “strettamente collegato e reso possibile dalla corruzione dei funzionari del governo afghano”, dice Global Witness. Tradotto, significa tangenti. Secondo Nick Donovan, direttore delle campagne di Global Witness che ha incrociato queste informazioni con le immagini satellitari della regione, il talco rappresenta per l’Afghanistan quello che i diamanti insanguinati sono stati per l’Africa centrale. Un portavoce del ministero delle miniere ha spiegato come sia già istituto un comitato speciale di coordinamento con l’intelligence per risolvere il problema A livello economico l’estrazione di talco potrebbe portare nelle casse dell’Isis 300 milioni di dollari all’anno, un bel gruzzolo che i jihadisti possono usare per finanziare la loro guerra e i loro attacchi. E gli occidentali che acquistano la polvere bianca potrebbero trovarsi involontariamente a finanziare l’Isis. Esattamente come successo per il cotone siriano o il greggio iracheno. Angola. Premiato il cronista sotto processo per le sue inchieste di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 25 maggio 2018 Il giornalista angolano Rafael Marques de Morais è stato nominato “Eroe mondiale della libertà di stampa” dall’International Press Institute, un network globale che promuove il diritto di cronaca. Dopo aver affrontato decenni di attacchi e persecuzioni per aver denunciato corruzione e abusi dei diritti umani nel suo Pase, il reporter ha ottenuto il prestigioso riconoscimento dell’istituto con base a Vienna. “Sono profondamente grato e onorato- ha dichiarato Marques in una nota- Perché questo premio arriva in un momento in cui sono coinvolto in un processo con l’accusa di aver mostrato la corruzione ai più alti livelli, mente il presidente Lourenço dice di volerla combattere”. Il processo, iniziato il mese scorso, è solo l’ultimo di diversi affrontati da de Morais per accuse legate al suo lavoro: questa volta, gli viene contestato un articolo del 2016 nel quale denunciava irregolarità nell’acquisto di terreni da parte del procuratore generale João Maria de Sousa. La sua tesi è che la transazione, in violazione dei piani di sviluppo urbanistico, sarebbe stata possibile grazie alla protezione offerta dell’allora capo dello Stato José Edoardo Dos Santos.