La “certezza della pena” ha dei costi inevitabili, qualcuno ne è consapevole? di Alessandro Gerardi* Il Dubbio, 24 maggio 2018 L’espansione della penalità, in particolare della penalità carceraria (“certezza della pena”), contenuta nel contratto di governo siglato tra M5S e Lega, sembra presupporre la strana idea, molto in voga nel nostro Paese, che gli interventi sui reati e sul sistema delle sanzioni penali siano una specie di elastico che si può tirare all’infinito, tanto non costano nulla. Questa strana idea è figlia, a sua volta, di una curiosa forma di cultura economica che impone al legislatore di coprire con appositi stanziamenti di bilancio ogni spesa prevista dalle sue leggi, ma non i costi che derivano dalla loro esecuzione in via amministrativa o dal funzionamento della giurisdizione, per cui di fronte alla gigantesca domanda di giustizia penale tutto sembra essere rigorosamente gratis. Ma non è così. Il buon senso ci dice che non si possono fare le frittate grandi con poche uova, così come, più in generale, non si può dar vita a nessun prodotto o servizio se prima non si fa un’analisi seria, attenta e rigorosa su tempi e metodi di produzione. Purtroppo queste analisi e queste valutazioni, nel campo dei reati e delle pene, non vengono elaborate mai da nessuno, tantomeno da chi sta al governo, il che è dimostrato dal fatto che, puntualmente, ogniqualvolta si tratta di intervenire sul sistema penale non si parte mai dal budget per arrivare al target, e nemmeno si fa l’operazione inversa: fissare un target e sulla base di quello definire il budget. Si procede invece nel modo opposto ovvero si introducono nuovi reati e si aumentano le pene senza minimamente porsi il problema delle conseguenze che tutte queste misure comporteranno in termini di costi e di incremento della spesa pubblica. Eppure logica vuole che se ci sono 42mila posti disponibili nelle carceri, tu governo devi tarare il sistema repressivo su quei 42mila detenuti (non uno di più). Se proprio vuoi avere più detenuti, devi prima costruire più carceri. Prima, e non dopo (come previsto nel Contratto di governo). Sembra elementare, ed in effetti lo è, ma il genio dell’ovvio, come diceva Pascal, è un genio che hanno in pochi. Non a caso in queste ore si stanno facendo tante belle discussioni su come e dove sia possibile trovare le coperture finanziarie con le quali introdurre il reddito di cittadinanza e la Flat Tax, o attraverso le quali implementare i centri per l’impiego e aumentare le espulsioni degli immigrati, ma gli enormi costi che inevitabilmente deriveranno dell’adozione delle misure proposte dal duo Di Maio-Salvini sul fronte della “certezza della pena” sembrano non interessare gli osservatori e i commentatori politici. È curioso, infatti, che nessun esponente del M5S e della Lega si sia ancora posto il benché minimo interrogativo sull’esistenza delle coperture finanziarie necessarie a realizzare tutti quei provvedimenti elencati nel contratto di governo alla voce “certezza della pena” ; ed è ancora più curioso il fatto che, ad oggi, nessun commentatore abbia pensato di rivolgere a Luigi Di Maio e a Matteo Salvini questa semplice domanda: “Scusate, ma voi che intendete aumentare le pene, introdurre nuove circostanze aggravanti, contrastare ogni forma di depenalizzazione, rivedere i riti premiali e gli sconti di pena, abrogare le misure deflattive del processo e del carcere, estendere l’imputabilità nel campo della giustizia minorile, con quali denari pensate di far fronte alle nuove necessità degli uffici e alle nuove necessità penitenziarie che saranno la inevitabile e diretta conseguenza di tutto questo lungo elenco di misure police correct? Tirate fuori i soldini, altrimenti non vi potete permettere questo lusso, noi abbiamo 42mila posti nelle carceri, e 42 mila sono, se ne volete di più diteci prima dove intendete trovare le risorse finanziarie”. Ecco, se si cominciasse a ragionare in questo modo, forse anche l’opinione pubblica comincerebbe a riflettere sulla necessità di un uso più parsimonioso della sanzione penale, e magari comincerebbe a chiedere al legislatore di usare questo strumento in maniera più proporzionata ai mezzi che si hanno a disposizione. Nel frattempo, qualora il governo giallo- verde dovesse riuscire a far approvare tutti questi provvedimenti carcerocentrici, c’è il rischio che la Corte costituzionale si veda costretta a prendere atto del fatto che nel nostro Paese le sanzioni detentive siano ormai divenute “ineseguibili”, posto che la loro applicazione si è trasformata in un “illecito” a causa della evidente carenza di un numero di posti sufficiente all’interno delle carceri. Di fronte alla inevitabile esplosione del numero dei detenuti nel breve termine, infatti, la mancanza di spazi e del personale amministrativo renderebbe oggettivamente impossibile per l’amministrazione penitenziaria adeguarsi al benché minimo standard di tutela dei diritti umani. *Avvocato, consigliere dell’associazione Luca Coscioni Governo M5S-Lega: la sindrome da assedio e il “difensore del popolo” di Massimo Franco Corriere della Sera, 24 maggio 2018 Assistiamo alla presa del potere centrale da parte di una “periferia” alla quale il vecchio sistema ha regalato un’autostrada verso Palazzo Chigi. Il sollievo per la fine delle trattative e la probabile formazione di un governo non possono cancellare la preoccupazione. M5S e Lega hanno il diritto di guidare l’Italia dopo il netto mandato popolare. E infatti, alla fine il Quirinale ha preso atto dell’indicazione anomala del professor Giuseppe Conte come premier. Il problema è capire dove vogliono arrivare i “diarchi” Di Maio e Salvini; e se l’espressione “avvocato difensore del popolo italiano”, usata dall’incaricato, preluda a uno strappo antieuropeo. Ci sono volute due ore di udienza con il capo dello Stato, Sergio Mattarella, per definire i prossimi passaggi e concordare la dichiarazione finale. Conte si è presentato come simbolo di un cambiamento radicale e baluardo di un Paese implicitamente considerato sotto assedio; e come tutore del “contratto” tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. La loro ipoteca si è percepita chiaramente, al di là delle parole formali di rassicurazione all’Europa, pur significative. Tra l’altro, a impressionare è la rapidità con la quale negli ultimi giorni Di Maio ha rimesso in discussione il profilo europeista e istituzionale che si era faticosamente dato. Gli avvertimenti grevi scagliati da alcuni esponenti del Movimento al presidente della Repubblica, definito in precedenza dai Cinque Stelle “il nostro jedi”, personaggio virtuoso del film di fantascienza Guerre stellari, sono sconcertanti. Sembra quasi che il rispetto verso il Quirinale sia concesso o negato a seconda delle convenienze. Quanto all’Unione Europea, lo scivolamento verso un euroscetticismo aggressivo è stato altrettanto rapido. Il M5S può pure rivendicare di avere stipulato un compromesso a propria somiglianza. Su una questione cruciale come i rapporti con Bruxelles, tuttavia, è apparso subalterno alla Lega. Probabilmente, più che l’euroscetticismo pesa l’assenza di vere convinzioni. Il trasversalismo è un pregio quando ci sono da raccogliere voti. Al momento delle scelte, però, tende a trasformare chi ne è portatore e beneficiario in una sorta di “lavagna” politica, sulla quale finiscono per scrivere gli altri: in questo caso, Salvini. I “due forni” evocati inizialmente da Di Maio, ritenendo interscambiabile un’alleanza col Pd o con la Lega, sono stati senza volerlo l’espressione di un “movimento-pongo”, plasmabile. È possibile che quando sarà pronta la lista dei ministri alcune apprensioni verranno arginate; che l’innesto di qualche figura rassicurante riequilibri un’operazione destinata ad alimentare i pregiudizi su un’Italia dominata dai “populisti”. Il termine è ambiguo e insufficiente a definire lo strappo anche culturale che si sta consumando. Eppure non può essere rimosso: viene usato non solo dagli avversari di Lega e Cinque Stelle, ma anche da suoi ammiratori interessati come l’aspirante demolitore dell’Europa unita, il trumpiano Steve Bannon. Appartiene a una schiera di guastatori che sognano le istituzioni di Bruxelles piegate ai voleri del nuovo governo di Roma e di quelli dell’Europa dell’Est, riuniti nel “gruppo di Visegrad”: tutti contro l’immigrazione. Ma da una chiusura delle frontiere l’Italia sarebbe colpita, non avvantaggiata. Paesi come Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia sono i primi a essersi opposti in questi anni alla distribuzione delle “quote” di immigrati decise dall’Ue per decongestionare nazioni come la nostra. Il loro interesse nazionale confligge con quello di un’Italia che sarebbe condannata a diventare un imbuto delle migrazioni. Gli “alleati” dell’Europa orientale indicati da Bannon, Marine Le Pen, Salvini, ce li lasceranno tutti. E il resto dell’Ue, preoccupata e irritata dalle politiche della Terza Repubblica, offrirà ancora meno sponde di prima. È comprensibile l’entusiasmo, perfino l’ebbrezza con la quale i “diarchi” consacrati dal 4 marzo celebrano l’approdo al governo. È un fatto storico del quale vanno orgogliosi. Assistiamo alla presa del potere centrale da parte di una “periferia” alla quale il vecchio sistema ha regalato un’autostrada verso il cuore dell’elettorato e Palazzo Chigi. Di Maio e Salvini volevano governare anche contraddicendo il mantra del premier “eletto dal popolo”. Ci sono riusciti. Soprattutto, stanno dimostrando che non esiste una vera opposizione. Non li può impensierire il centrodestra di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, che minaccia scomuniche contro Salvini mentre il voto premia la Lega. Né è un ostacolo un Pd che accompagna la sua lunga agonia con un immobilismo sconcertante. Sembra una replica in formato gigante della “sindrome romana”. In Campidoglio, nel giugno del 2016 la grillina Virginia Raggi fu eletta sindaca sulle macerie degli altri partiti. Due anni dopo, un’operazione non molto dissimile si ripete a livello nazionale. Ma la responsabilità non è dei vincitori: semmai, è di chi non ha creato un’alternativa credibile. E ora subisce una “difesa del popolo” che insinua incognite pesanti nel futuro dell’Italia. Il cielo (penta)stellato e la legge morale di Francesco Petrelli* Il Manifesto, 24 maggio 2018 Cosa hanno da dire i magistrati della riforma della giustizia penale tratteggiata nel contratto del “governo del cambiamento”? Libera com’è di parlare della politica, immune da vincoli di tipo disciplinare e da eventuali interdizioni del codice etico, la Magistratura dovrebbe dire a chiare lettere a tutti i cittadini, ovvero a quel popolo nel cui nome amministra la giustizia, se quella riforma interpreti i valori della Costituzione e del giusto processo, della dignità della persona, della presunzione di innocenza e della finalità rieducativa delle pene. Non sarebbe certo la prima volta che la magistratura - da Tangentopoli in poi - nelle sue più disparate declinazioni, prende autorevolmente posizione su questioni inerenti la politica giudiziaria del Governo e del Parlamento. Il problema, infatti, non è questo. È che ci sembra piuttosto evidente che molti dei tratti che caratterizzano i capitoli dedicati alla giustizia penale del programma di riforma sottoscritto dai “contraenti”, coincidano puntualmente con le esternazioni di alcuni noti magistrati che le hanno sapientemente propalate dagli apici della Corte di Cassazione o da pulpiti consegnati all’esito favorevole di processi clamorosi. Esternazioni rimbalzate sui media e diffusi fra i plausi della sponda populista. Questa circostanza induce a formulare qualche riflessione che tenga insieme i bandoli di un intreccio fra magistratura e politica che sembra oramai insostenibilmente avvinto alla costituzione materiale di questo Paese. Ammesso che magistratura associata o Csm oggi intervengano criticamente, cosa avranno da dire delle posizioni giustizialiste del past President Davigo, delle sue bordate al processo accusatorio e al “codice spaventapasseri”, della definizione degli innocenti come “colpevoli che l’hanno fatta franca”, della necessità di introdurre l’utilizzo di agenti provocatori nelle amministrazioni e di altri strumenti investigativi e repressivi illiberali. Dove erano quando il dottore Di Matteo arringava le folle plaudenti delle forze emergenti propugnando le sue idee autoritarie del processo e della giustizia? Perché Ann e Csm esprimono all’unisono la convinta necessità di chiudere quelle porte girevoli fra magistratura e politica che rischiano di intaccare in radice l’immagine di indipendenza e di imparzialità della giustizia penale, e consentono invece che liberamente si eserciti una attività di propaganda politica con simili formidabili strumenti? Consentono che si faccia politica entrando ed uscendo dalle aule di giustizia, indossando e riponendo la toga e l’imparzialità che essa rappresenta come fossero degli optional irrilevanti per la credibilità dell’intero sistema? Nessuno immagina che esista un mana, uno spirito magico che di volta in volta illumini di sé l’agire del “politico” separandolo da quello del “magistrato”. Ovvio che nel mondo reale vi sia un indistinto brulicare e sovrapporsi di pulsioni. Sta però agli ordinamenti tener distinte quelle diverse passioni civili, e darsi nuove regole deontologiche. Si può, infatti, anche tirare una linea dritta che regoli il “transito” fra Politica e Giustizia, come pure si legge nel “contratto del governo del cambiamento”, ma si dovrebbe allora anche dire chiaramente che questo non basta se, da magistrati, ci si comporta ispirando le proprie condotte pubbliche a quelli che sono gli indicatori tipici e riconoscibili dell’agire politico. L’equivoco va dunque finalmente chiarito, dicendo che se è vero che anche amministrando la giustizia in modo corretto si fa in qualche modo politica, non è affatto vero il contrario, e che cioè facendo politica si possa invece correttamente e plausibilmente amministrare la giustizia. Se non si scioglie questo nodo si finisce con l’assecondare una ambigua legge morale produttiva di una deontologia impermeabile ai vincoli della ragione e sensibile invece ai cieli stellati che la sovrastano. *Segretario dell’Unione camere penali italiane Torna di moda l’ambizioso Robespierre di Lucia Annunciata La Stampa, 24 maggio 2018 Con andamento mite, sia pur con un leggerissimo spessore di pronuncia, l’avvocato Giuseppe Conte mette in moto, nel suo discorso di accettazione dell’incarico, la ruota del cambiamento: “Mi propongo di essere l’avvocato difensore del popolo italiano, sono disponibile a farlo senza risparmiarmi”. Una breve frase che segna in realtà il giro di una pagina nella storia istituzionale della nazione: “Il contratto su cui si fonda questa esperienza rappresenta in pieno le aspettative di cambiamento degli italiani. Voglio dar vita a un governo dalla parte dei cittadini”. Da Avvocato incaricato Presidente del Consiglio ad Avvocato del Popolo, il clima cambia in un secondo. Giuseppe Conte dà voce alla aspirazione neomoderna della politica, ma la suggestione che lancia ha radici profonde. “Tutti i cittadini, di qualunque condizione, hanno diritto di aspirare a tutti i gradi di rappresentanza politica. Ogni individuo ha diritto di partecipare alla formulazione della legge cui è sottomesso e all’amministrazione della cosa pubblica che è la sua, altrimenti non è vero che tutti gli uomini sono eguali nei diritti e che ogni uomo è un cittadino”. Parole pronunciate il 22 ottobre del 1789 da Maximilien de Robespierre, Avvocato per studi e per aspirazione, Avvocato del popolo per eccellenza. La cui figura continua a serpeggiare nell’Olimpo dove abitano i nuovi dei del Movimento 5 Stelle. Il distacco tra “governanti” e “governati” è tema antico. L’ossessione della politica, da quando l’uomo ha voluto riunirsi per decidere insieme del proprio destino comune, è stata quella del divario tra i detentori del potere e coloro che ne subiscono la volontà e, forse, gli abusi. Da Sparta, a Roma, gli avvocati del popolo sono stati una forte istituzione, e i più famosi sono di sicuro i Tribuni plebis, il cui ruolo fu così vitale che Cicerone affermò che senza il Tribunato non vi sarebbe stata neppure la Repubblica e la democrazia. Da allora ad ogni svolta ambiziosa della storia, l’uomo che prende nella sue mani i diritti dei cittadini fa la sua ricomparsa. Soprattutto negli Stati moderni: nella Rivoluzione francese, in età napoleonica e nella Repubblica romana risorgimentale. Compare in Locke, Rousseau ma anche in Lenin. Nel nominare questo titolo il colto avvocato Conte certamente sapeva quali echi avrebbe lasciato sotto le volte del Palazzo dei Papi sul Colle: è stato l’annuncio di un ribaltamento di ordini. Di cui il giuramento di fedeltà europeista non ha ammorbidito lo strappo. Ma, appunto, come si legano, se si legano, la fede nell’Europa delle nazioni, e quella di un esercizio diretto della voce del popolo? O, più semplicemente, come sta un avvocato del popolo dentro la pelle di un premier? Domanda maliziosa ma non oziosa. Il premier, nel senso della Costituzione italiana, è figura tipica della modernità democratica che ha forma rappresentativa. Segna l’accordo e i programmi convergenti di uno o più partiti; è uomo di servizio che opera a quell’incrocio rappresentato dal bene particolare di un partito con il bene generale di tutti i cittadini. Un premier è per definizione negoziatore, equilibratore di interessi, esponente di un accordo che esiste nel tempo e nelle condizioni date; e che per questo è necessariamente deperibile, non rinnovabile. Sicuramente senza eccessivi poteri se non quelli che valgono fino a che vale il voto che lo ha eletto. Sembra poco, ma è moltissimo. La moderna democrazia lega la rappresentanza dei cittadini alla deperibilità dei politici. L’avvocato del popolo, con tutto il suo vigore da riscatto, è fascinosa figura forte, spesso destinata nella storia a trasformarsi, come abbiamo visto ripetutamente, da difensore dei deboli a oppressori dei molti. Ovviamente, non è possibile vedere nella mite ed elegante figura che si è recata oggi al Quirinale, nulla di questi pericoli. Nei fatti l’Avvocato Conte se proprio deve ricordare qualcuno, somiglia in realtà più che a Robespierre al suo predecessore Gentiloni. Uomo per eccellenza espressione di mediazione e servizio. Ma tant’è. Quando nasce un governo, come quello che sta andando oggi al potere in Italia, il cambio è la regola. E nei periodi di cambio è bene cominciare a esercitarsi fin da subito intorno a ogni possibile significato delle parole e dei ruoli. Sugli atti giudiziari la grande truffa dei bolli contraffatti di Ivan Cimmarusti Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2018 Sul 90% degli atti depositati in tribunale da un avvocato di Napoli erano apposti contributi unificati falsificati. Bolli da migliaia di euro, per iscrivere a ruolo il processo, erano stati creati da quelli che possono essere definiti degli ingegneri della contraffazione. Ogni carattere e segno era stato riprodotto nel minimo dettaglio e con le stesse caratteristiche di quelli stampati dai rivenditori autorizzati dal Monopolio dello Stato. Si stima che gli uffici giudiziari italiani - da Milano a Palermo - siano invasi di documenti con marche ricreate in “laboratorio”, utilizzando bobine prodotte in Cina, ma anche sottratte dal Poligrafico dello Stato grazie a dipendenti compiacenti. Contributi unificati per 2 milioni di euro sono già stati sequestrati. Oltre 106mila rotoli in bianco - pronti per essere trascritti - sono stati trovati a organizzazioni di falsari. Così è venuta alla luce una delle più grandi frodi erariali italiane, che - sulla base di una stima basata sul numero delle bobine in bianco confiscate - va da un minimo di 30mila euro fino a un massimo di oltre 1 miliardo. Un danno non solo per lo Stato, ma anche per i clienti degli avvocati che usano queste marche, vittime inconsapevoli che si trovano a dover pagare due volte per non rendere nullo il proprio processo. “È un’emergenza nazionale” spiega il colonnello Francesco Ferace, a capo del comando dei carabinieri Antifalsificazione monetaria, un pool di investigatori dell’Arma altamente specializzato nel contrasto a questo tipo di crimini. Ferace ritiene che si tratti di un “fenomeno non quantificabile: è impossibile compiere una analisi di tutte le pratiche depositate in tutti i tribunali italiani. Abbiamo fatto accertamenti a campione, scoprendo in una sola indagine il coinvolgimento di ben 600 studi legali che utilizzavano queste marche da bollo false”. Nessun ufficio giudiziario è esente da questa vasta frode: “Abbiamo individuato contributi unificati irregolari nei tribunali di Milano, Torino, Palermo e Bari. A Roma in una cancelleria penale sono stati trovati 6mila documenti con marche da bollo contraffatte”. Una piaga nei tribunali - Una piaga che investe i tribunali civili e penali, ma soprattutto i giudici di pace dove “è stata riscontrata una larga diffusione di pratiche con marche da bollo false”. In misura ridotta ne sono state individuate anche nei tribunali amministrativi: a Milano, Roma, Napoli, Salerno, Catanzaro e Catania sono stati trovati documenti con contributi unificati fasulli. Uno solo, invece, è stato sequestrato al Consiglio di Stato. La falsificazione delle marche ha origine in Campania, tra le province di Napoli e Caserta, ma il mercato è spalmato su tutto il territorio nazionale. “Agiscono falsari di livello, con competenze tecniche di alto profilo - spiega il colonnello Ferace. Si tratta di tipografi e grafici che operano con attrezzature tecnologicamente avanzate. È impossibile riconoscere a occhio nudo una marca da bollo falsificata: anche un esperto, dotato di strumenti professionali, impiega comunque del tempo prima di avere la conferma che si tratti proprio di valori bollati fasulli”. Esistono due diverse tecniche di falsificazione: una utilizzando una marca da bollo originale (solitamente da 0,26 centesimi), l’altra con bobine prodotte in Cina o - come svelato da una indagine - provenienti direttamente dal Poligrafico. In entrambi i casi, però, la falsificazione si perfeziona attraverso una sorta di “ingegneria” della contraffazione: la clonazione di un codice a barre identificativo di una marca da bollo reale. Una sorta di duplicato. Il falsario, partendo dal codice a barre della marca da bollo originale, cerca sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate (c’è una sezione per la ricerca dei codici delle marche da bollo già stampate) un nuovo numero distintivo di un valore più alto, fino a un massimo di 12mila euro. Il lavoro finito è di pregio: una riproduzione fedele delle marche stampate dalle macchinette del Poligrafico dello Stato in dotazione ai tabaccai. I carabinieri dell’Antifalsificazione monetaria, inoltre, hanno scoperto che per la clonazione sono coinvolti, in parte, gli stessi tabaccai. Si è accertato, infatti, che era stato creato un mercato parallelo dei codici a barre di bolli già stampati, che consentiva ai falsari di ottenere costantemente codici di alto valore per clonare nuovi contributi unificati. E così, marche da bollo con lo stesso numero sono state trovate a Milano come a Napoli. Il giro d’affari - I guadagni per le organizzazioni che gestiscono il business sono enormi. La vendita di queste marche risulta ramificata, al punto che dalle località di produzione partono vere e proprie spedizioni per coprire la domanda sempre più crescente di questi valori illeciti. “È capitato di imbatterci in professionisti consapevoli di rivolgersi a falsari, altre volte - conclude il colonnello Ferace - erano inconsapevoli dell’acquisto, fatto magari all’ultimo momento prima di entrare in aula”. L’effetto è un danno erariale di enormi proporzioni che si trascina da svariati anni. Caso Uva. La sorella chiede 4 euro e l’abbandono della divisa da parte degli agenti di Manuela Messina La Stampa, 24 maggio 2018 I fatti risalgono al 2008. Giuseppe Uva, 43 anni, venne fermato mentre spostava delle transenne. In caserma si sentì male e venne portato in ospedale dove morì per infarto. Quattro euro di risarcimento simbolico. E via per sempre le divise dei due carabinieri e sei poliziotti accusati di avere provocato la morte di Giuseppe Uva. Non chiede il carcere per quelli che considera responsabili della tragedia, Lucia Uva, sorella del 43enne morto in ospedale per arresto cardiaco a Varese nel giugno 2008 dopo essere stato prima fermato e poi trattenuto in caserma. Anche oggi la donna, costituitasi parte civile, era presente all’udienza del processo per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato che si sta celebrando davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Milano. “Lotto da dieci anni - ha detto ai cronisti fuori dall’aula - continuerò a farlo fino alla fine. Mio fratello era in mano allo Stato ed è morto”. La proposta di risarcire la sorella della vittima con un euro per ogni capo di imputazione contestato originariamente agli imputati (omicidio preterintenzionale, sequestro di persona, abbandono di incapace, abuso di autorità) era già stata avanzata in primo grado dagli avvocati Alberto Zanzi e Fabio Ambrosetti al Tribunale di Varese, che nel 2016 ha assolto gli imputati da tutte le accuse. Giuseppe Uva fu fermato da due militari mentre stava spostando alcune transenne nel centro di Varese. Fu poi trattenuto in caserma per alcune ore e trasportato all’ospedale di Circolo, dove morì per arresto cardiaco la mattina successiva. Secondo i legali di parte civile, l’operaio quella sera fu “arrestato illegalmente” per un reato di lieve entità, ovvero disturbo della quiete pubblica. “Se fosse vivo - hanno spiegato in aula - oggi Uva avrebbe risposto per i fatti di quella notte con una contravvenzione da 150 euro”. Poi, durante il loro intervento davanti alla Corte d’Assise d’Appello hanno continuato, sottolineando che “nel processo di primo grado nessuno ha voluto scoprire la verità, tutti quelli che dicono qualcosa contro le forze dell’ordine sono considerati falsi testimoni”. La parola è quindi passata alle difese degli imputati. “Otto famiglie sono andate in frantumi sulla base di un’indegna invenzione”, ha detto durante la sua arringa Duilio Mancini, difensore di quattro degli otto imputati nel processo. Secondo il difensore, i militari che fermarono Uva “hanno solo fatto in modo che una bagattella non si trasformasse in qualcosa di più serio e non arrivasse a conseguenze peggiori”. E ancora: “Se Uva non fosse morto, avrebbe sicuramente dovuto affrontare un processo per resistenza a pubblico ufficiale”. Tentativo di estorsione se chi minaccia è membro di una famiglia nota come clan di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2018 Corte di Cassazione - Sezione II - Sentenza 23 maggio 2018 n. 23075. Scatta la condanna per il tentativo del reato di estorsione se a sostegno di una richiesta di denaro un membro di una famiglia nota per agire come clan e per utilizzare metodi mafiosi minaccia un male ingiusto alla vittima della pretesa. La Corte di cassazione con la sentenza n. 23075/2018 di ieri ha respinto il ricorso dell’imputato che sosteneva che la brevità della chiacchierata con la vittima della minaccia e la “spontaneità” con cui era entrato nella sua macchina dimostravano l’assenza di coercizione. La minaccia - La Cassazione spiega che per il tentativo estorsivo è sufficiente la potenzialità della minaccia a incutere paura, al di là se la vittima in quella prima circostanza si sia effettivamente intimidita E l’appartenenza dell’imputato a una famiglia nota per praticare estorsioni ai danni degli esercenti commerciali, condita dalla minaccia di incendiare il locale del malcapitato, è sufficiente a porre nello stato di vittima chi ne è consapevole e riceve l’ordine “mafioso”. La coercizione - L’imputato inoltre, sosteneva che non fosse stata provata la natura di clan della propria famiglia e ancor meno di farne parte lui stesso. Ma i giudici fanno notare che invece la vittima della richiesta illecita riteneva sussistenti i due dati di fatto e che ciò è di per sé sufficiente a far scattare lo stato di coercizione. Accettare di salire a bordo dell’auto dell’autore delle minacce - al contrario di quanto sostenuto nel ricorso - conferma l’idoneità del comportamento dell’imputato a coartare la volontà di chi ha dichiarato di avere accettato l’invito al fine di “togliersi quella che per lui era una spina nel fianco”. Lazio: istituito l’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria Il Velino, 24 maggio 2018 Opererà in sinergia con il Referente medico regionale che si occupa dell’appropriatezza dei trasferimenti per il ricovero dei detenuti presso altri Istituti anche rispetto alle esigenze di sicurezza. La Regione Lazio ha approvato una delibera di Giunta che prevede l’istituzione dell’Osservatorio permanente sulla Sanità Penitenziaria una struttura molto attesa dagli operatori che avrà il compito di monitorare la situazione della popolazione carceraria segnalando avvenimenti di interesse sanitario o eventuali problematiche e criticità negli Istituti penitenziari del territorio regionale. “L’Osservatorio - spiega l’Assessore alla Sanità e l’Integrazione Socio-sanitaria della Regione Lazio, Alessio D’Amato - avrà un ruolo importante e oltre ad esercitare un’azione di monitoraggio proporrà programmi di formazione dedicati al personale sanitario e sociosanitario che opera all’interno delle carceri. Verrà elaborato un report annuale che fotograferà la situazione sanitaria della popolazione carceraria e saranno acquisite le conoscenze epidemiologiche sulle patologie prevalenti ed i fattori di rischio”. L’Osservatorio opererà in sinergia con il Referente medico regionale che si occupa dell’appropriatezza dei trasferimenti per il ricovero dei detenuti presso altri Istituti anche rispetto alle esigenze di sicurezza. Sarà composto dall’Assessore regionale alla Sanità e l’Integrazione Socio-sanitaria, dal Direttore Sanità e Integrazione socio-sanitaria, dal Garante dei Detenuti del Lazio, dai referenti di ciascuna Azienda Sanitaria Locale, dal Dirigente del Centro di giustizia minorile del Ministero di Giustizia, dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza, dal Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria e dal Referente regionale al Tavolo nazionale di consultazione permanente sulla Sanità penitenziaria. Calabria: è iniziata l’attività dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere di Ilaria Quattrone strettoweb.com, 24 maggio 2018 È iniziata l’attività dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere voluto dal Consiglio regionale con le prime sedute che sono servite a focalizzare le funzioni ed obiettivi che l’organismo dovrà perseguire. “In particolare - spiega il coordinatore Mario Nasone- vogliamo essere punto di riferimento per chi opera a vario titolo su questo fronte che rappresenta una vera e propria emergenza sociale anche nella nostra regione, partendo da un lavoro di monitoraggio sui bisogni e sulle risorse che ci sono in campo e che vanno messe in rete. L’organismo intende svolgere un ruolo di stimolo per colmare i ritardi della politica su questo fenomeno, ad iniziare dalla verifica dell’attuazione della legge regionale n. 20 del 2007. Una normativa che si proponeva di sostenere i centri anti violenza con diverse attività di prevenzione e di sostegno alle donne che denunciano la violenza subita. Una normativa datata e che andrebbe aggiornata partendo dal progetto di legge che su questo tema è stato proposto e che è all’esame del Consiglio regionale”. Per Nasone “anche i protocolli stipulati negli scorsi anni con le più importanti istituzioni interessate hanno bisogno di una verifica e di una eventuale attualizzazione. Tra le priorità dell’Osservatorio - rilancia il coordinatore- vi sono quelle di creare un sistema centralizzato per raccogliere i dati sulle denunce in atto dispersi in vari canali, sbloccare l’apertura ed il funzionamento dei nuovi centri anti violenza e case rifugio utilizzando i fondi ministeriale già assegnati alla regione, ripensare e potenziare azione di prevenzione in particolare nelle scuole svolgendo un lavoro culturale con i giovani per costruire nuovi cittadini. L’Osservatorio deve essere operativo e produrre risultati e per questo si elaborerà un piano di lavoro mirato da realizzare entro la fine della legislatura regionale. Il metodo sarà quello della collegialità e della valorizzazione delle competenze di tutti i componenti dell’osservatorio anche attraverso l’attivazione di gruppi di lavoro tematici ai quali anche altre associazioni ed esperti nel settore interessati potranno contribuire con indicazioni e proposte. Importante sarà - conclude Mario Nasone - anche la stretta collaborazione che sarà attivata con la Commissione regionale sulle pari opportunità, con l’assessorato regionale alle politiche sociali e con il Garante regionale sull’infanzia e l’adolescenza”. Napoli: detenuto 30enne muore nel carcere di Secondigliano lacnews24.it, 24 maggio 2018 L’avvocato: “Una morte che si doveva evitare, caso gravissimo”. È deceduto ieri sera nel carcere di Secondigliano Cosimo Caglioti, 30 anni, di Sant’Angelo di Gerocarne, detenuto per i procedimenti nati dalle operazioni antimafia della Dda di Catanzaro denominati “Gringia” e “Romanzo criminale”. Condannato a 30 anni di reclusione dalla Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro il 20 febbraio scorso al termine del processo “Gringia” ed a 13 anni in primo grado dal Tribunale di Vibo nel processo “Romanzo criminale”, Cosimo Caglioti era stato trasferito da qualche mese nel centro clinico del carcere di Secondigliano proveniente dall’istituto penitenziario di Cosenza. Intenzionati a volerci vedere chiaro sulla morte del congiunto sono i familiari di Cosimo Caglioti appena appresa la notizia del suo decesso. L’esame autoptico servirà a capirne di più sulla scomparsa del giovane, coinvolto nella faida che ha visto il clan Patania di Stefanaconi (a cui Cosimo Caglioti era ritenuto legato avendo sua sorella Caterina sposato Nazzareno Patania) schierato contro il clan Bartolotta da un lato ed i Piscopisani. Per l’avvocato Luca Cianferoni del foro di Roma, che ha assunto la difesa di Cosimo Caglioti affiancando il collega Enzo Galeota del foro di Catanzaro, ci si trova dinanzi ad un decesso che “impone rispetto e silenzio sin quando non verranno chiarite le cause della morte. Il caso Caglioti - ha però affermato l’avvocato Cianferoni, in passato legale anche di Totò Riina - è comunque gravissimo e da tempo come difensori aspettavamo la consegna di una consulenza medica che non è stata però ancora depositata. Il decesso in carcere di Cosimo Caglioti impone una serie riflessione da parte di tutti su uno Stato di diritto che non garantisce il diritto alla vita e fa di tutto per lasciare in galera anche persone con gravi problemi di salute. Il “prigioniero” è sempre sacro - ha concluso il legale - e la morte di Caglioti reclama una ragione”. Napoli: la direttrice di Poggioreale “Roberto Leva ha avuto un malore ed è caduto a terra” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 maggio 2018 La dirigente dell’istituto napoletano ha chiarito la vicenda del detenuto finito in coma. Dopo il servizio di Fanpage che ha riportato il racconto drammatico Roberto Leva, il detenuto del carcere di Poggioreale finito in ospedale il 26 aprile scorso in grave condizioni tanto di finire in coma, se ne è occupato anche il programma televisivo Le Iene per le presunte violenze che si sarebbero svolte all’interno del carcere di Poggioreale. Il giornalista Giulio Golia ha intervistato l’attuale direttrice della casa circondariale, Maria Luisa Palma, che per oltre 10 anni aveva diretto, fino allo scorso dicembre, il carcere beneventano di Capodimonte. Nel servizio Golia ha intervistato alcuni ex carcerati di Poggioreale che hanno dipinto una situazione estrema. In particolare si è parlato della “cella zero” luogo in cui, nel racconto dei detenuti, avrebbero avuto luogo Le Iene hanno anche ricostruito la vicenda di Roberto che, dopo esser uscito dalla casa circondariale, ha denunciato di essere stato picchiato selvaggiamente dagli agenti penitenziari. Su questa vicenda la direttrice Palma però ha chiarito che la vicenda denunciata dal detenuto non corrisponde al vero: “Il detenuto è stato portato in infermeria, ha avuto un malore ed è caduto a terra. A causa dell’impatto col suolo si è rotto il setto nasale e si è procurato una contusione frontale. Non è assolutamente possibile che qui succedano cose al di fuori della legge. Ho le prove di quello che sostengo, è caduto e si è ferito. I media devono comunicare notizie vere altrimenti minano la fiducia nelle istituzioni anche quando queste si comportano in maniera corretta. Questo carcere è ricordato solo per le cose negative, qui lavorano persone che rispettano la legge”. Le cose negative alle quali fa riferimento, è la storia della famigerata “cella zero” in cui, negli anni passati, avvenivano maltrattamenti nei confronti dei detenuti ad opera di alcuni agenti. C’è un processo in corso e gli imputati sono stati allontanati dalle sezioni detentive e trasferiti negli uffici amministrativi in maniera tale di non essere più in contatto con la popolazione detenuta. Ora, per quanto riguarda, la denuncia di Roberto Leva (“Mi hanno portato nella cosiddetta cella “zero” per picchiarmi fino a farmi andare in coma, mi hanno colpito per tutto il corpo, anche ai testicoli per farmi perdere i sensi. Non è vero che il carcere di Poggioreale è cambiato!”, ha raccontato), i familiari nei giorni scorsi avevano presentato un esposto in procura per sollecitare accertamenti su eventuali negligenze dei medici e sulla causa delle lesioni. Quindi sarà la magistratura a verificare la veridicità del racconto. Maria Luisa Palma è da qualche mese direttrice di Poggioreale, fino ad un anno fa c’era stato il direttore Antonio Fullone, giunto nel 2014 proprio per cambiare radicalmente le condizioni del carcere, reduce appunto dell’intervento della magistratura sui presunti pestaggi nella cosiddetta “cella zero”. Da lesioni aggravate a violenza privata, da sequestro di persona ad abuso di autorità: i reati inizialmente ipotizzati per le violenze subite e denunciate dai detenuti tra il 2012 e il 2014. Poi, l’anno scorso, il rinvio a giudizio di 12 agenti penitenziari. L’accusa nei loro riguardi, derivante dai racconti di sei detenuti, è di percosse ai danni degli ospiti della struttura penitenziaria. Proprio nei giorni scorsi è iniziato il processo. Resta il fatto che da allora la direzione è cambiata, sia Fullone che l’attuale direttrice Palma hanno ricevuto attestati di stima. Però rimane aperto il caso di Roberto Leva, dipendente da metadone per il suo trascorso da tossicodipendente, sul quale bisogna necessariamente far luce. Racconti frutto della sua fantasia, oppure c’è qualche fondo di verità? Napoli: Poggioreale, è sbagliato guardare solo al passato di Antonio Mattone Il Mattino, 24 maggio 2018 Il racconto fatto dalle Iene sulle presunte violenze subite dai detenuti all’interno del carcere di Poggioreale, suscita parecchi dubbi e perplessità. Un detenuto del padiglione Roma, sarebbe finito in coma dopo il pestaggio subito da parte di quindici agenti, tra cui quattro donne. Sarà l’indagine condotta dalla magistratura ad accertare l’accaduto, soprattutto dopo la creazione di un pool specifico che si occupa proprio degli abusi di potere all’interno delle carceri, una struttura voluta dal Procuratore Melillo. Il servizio tv, incentrato prevalentemente su fatti avvenuti anni addietro, fa nascere un grande interrogativo. Perché andare a ripercorrere episodi e circostanze che appartengono al passato e riproporle come attuali in un momento in cui nel penitenziario napoletano si è avviato un processo di cambiamento che proprio oggi sta dando i primi frutti? Il rischio è quello di vanificare un rinnovamento radicale che con grande fatica e con enormi sacrifici gli operatori penitenziari, con la collaborazione della società esterna, stanno portando avanti. Sulle pagine di questo giornale abbiamo sempre denunciato e raccontato le vicende oscure che avvenivano all’interno di quelle mura: il sovraffollamento, le carenze strutturali, il clima di brutalità, senza mai fare omissioni. Tuttavia, bisogna riconoscere che Poggioreale non è più quell’inferno di violenza che sistematicamente veniva esercitato su chi ci entrava. Frequento questo luogo, venendoci tutte le settimane, da quasi dodici anni. E ci vengo anche nelle tarde ore pomeridiane, quando il carcere si chiude come un’ostrica, e si nasconde ancora di più all’esterno. Oggi si respira un’aria nuova. Conosco tanti agenti che con grande sacrificio e fatica fanno un mestiere duro e difficile, penso soprattutto a quelli che hanno a che fare con i detenuti che hanno patologie psichiatriche, che sono in grande aumento e di difficile gestione. Ebbene non riconoscere questi progressi con una narrazione tutta orientata al passato mi sembra ingeneroso, dannoso e funzionale a qualche interesse speculativo. Sui fatti della cella zero da pochi giorni è cominciato il processo, e non possiamo accettare che sia un tribunale mediatico ad emettere una sentenza di condanna che così coinvolge indistintamente tutti gli operatori penitenziari. Le responsabilità sono personali e come tali andranno accertate e giudicate. Bisogna anche dire che tante resistenze al cambiamento provengono proprio dall’interno del carcere, per cui va sostenuto chi sta cercando di imporre un cambio di passo e una nuova mentalità. È una trasformazione culturale che ha bisogno di una incubazione lunga e di tanta pazienza per modificare impostazioni consolidate. Va anche detto che alcune scene dalla trasmissione delle Iene sembrano tratte da una sceneggiata napoletana, una commedia recitata ad arte che cozzano con la drammaticità dei temi trattati. Tagliare e incollare le parole senza far ascoltare il senso compiuto di una frase non è esercizio di un corretto giornalismo. Tuttavia, bisogna pur dire che nel carcere di Poggioreale permangono ancora tanti problemi. Nessuno si sognerebbe mai di descriverlo come un eden. Ritorno del sovraffollamento, scarsità e formazione del personale, mancanza di attività lavorative, di mediatori culturali e su tutti il problema della salute, rappresentano le criticità maggiori. Abbiamo più volte sottolineato la necessità di stabilizzare il personale sanitario per creare quel rapporto fiduciario tra malato e medico che è alla base di ogni trattamento terapeutico. Chiunque vorrebbe essere curato sempre dallo stesso medico, cosa che non è sempre possibile per il continuo turn-over. Occorre inoltre superare i lunghi tempi di attesa per visite, esami specialistici e ricoveri. E poi c’è la grande presenza di malati psichiatrici, un vero e proprio Ospedale psichiatrico giudiziario all’interno del carcere, senza la figure professionali che operavano all’interno di quelle strutture. Un numero non quantificato di detenuti, su cui gli ultimi dati ufficiali risalgono a circa due anni fa. Tra questi, quelli in cura presso i Dipartimenti di salute mentale, sono trattati dagli psichiatri, mentre quelli che manifestano patologie durante la carcerazione sono curati dalla medicina di base. In più ci sono internati che dovrebbero stare nelle Rems, ma che sono parcheggiati in carcere, in attesa che si liberino i posti. Una condizione di evidente illegalità. Una cosa che si potrebbe fare subito è quella di uniformare le cartelle cliniche per i detenuti in carico sia al Sert che alla medicina psichiatrica. Non è possibile che una persona abbia fascicoli separati e che non ci sia uniformità e univocità di indirizzo nel trattamento terapeutico. Da alcuni anni il carcere di Poggioreale ha cambiato anche il nome, ed è stato intitolato a Giuseppe Salvia, il vicedirettore ucciso dalla camorra il 14 aprile 1981. Il funzionario integerrimo che non si piegò al potere di Raffaele Cutolo e, nello stesso tempo, aveva una grande umanità verso i detenuti. Il nome è come un biglietto da visita. La figura di Giuseppe Salvia possa essere un esempio per chi opera nel più grande penitenziario dell’Europa occidentale. Un luogo che se nel passato è stato un inferno, oggi può e deve essere trasformato sempre di più in uno spazio dove si creino opportunità di riscatto e di rinascita. Firenze: i Radicali fiorentini “il carcere di Sollicciano va chiuso” Corriere Fiorentino, 24 maggio 2018 L’intervento dell’attore Paolo Hendel e di Massimo Lensi (Associazione per l’iniziativa radicale “Andrea Tamburi”). “Visitare il carcere di Sollicciano è un’esperienza penosa, dopo la quale a chiunque sarebbe impossibile giustificare la presenza al suo interno di persone detenute e di operatori al servizio dello Stato. Sollicciano andrebbe chiuso. Sono ormai troppi gli anni trascorsi ascoltando promesse non mantenute. I pochi tentativi, che pur ci sono stati, di migliorarlo sono finiti nel nulla. Per ripristinarvi condizioni minime di civiltà, idonee a consentire l’esecuzione della pena e il lavoro degli operatori non servono i piccoli ritocchi, sparsi qua e là a tappare temporaneamente le continue emergenze. Urgono misure strutturali e organizzative, ampie e funzionali, per realizzare quanto la nostra Costituzione prescrive: la rieducazione del reo. Ecco, un carcere dovrebbe essere una struttura che eroga servizi importanti per tutti: per chi ha commesso un reato e per la società, a cui la persona può tornare perché ha compreso gli errori commessi e cominciato a costruire un percorso per non ricadere in errore. Come accade in un ospedale: vi si entra con qualche malattia, anche grave, e la struttura è disegnata per offrire le migliori possibilità di cura e ritorno alla vita normale. A volte la cura fallisce, ma non per questo si abbandona l’ospedale al degrado e all’incuria; semmai ci si interroga sulle cause del fallimento e si investe per migliorarne il servizio. Il paragone con l’ospedale non è casuale o retorico, perché, oltre al lavoro e alla dignità di una cella pulita e salubre dove stare rinchiusi per 20- 22 ore al giorno, a chi è detenuto a Sollicciano man- ca anche una assistenza sanitaria adeguata. Chiedendo la chiusura di carcere fiorentino, sappiamo di andare controcorrente: oggi, infatti, non corrono tempi facili per chi considera la giustizia nella sua filigrana più intima come un’attività necessaria a una comunità per tutelare l’applicazione e il rispetto delle leggi. Attenzione però: anche chi considera il carcere come una forma di vendetta sociale, a uso e consumo della pancia rumorosa del Paese, è bene che rifletta sul fatto che esiste un limite, superato il quale, l’amministrazione della giustizia perde legittimità. Quel limite è, appunto, il rispetto che lo Stato deve garantire, prima di chiunque altro, alla proprie leggi. Noi a questo gioco allo sfascio della giustizia non ci stiamo. E non vogliamo che questo luogo dell’infinita conservazione del degrado che è Sollicciano trovi cittadinanza proprio a Firenze, nella città che, per la sua storia, dovrebbe essere la più attenta alla civiltà giuridica. Chiediamo quindi a Firenze e ai fiorentini di aprire gli occhi su Sollicciano, guardando bene fino all’ultima cella ammuffita, e di interrogarsi in un dibattito aperto e approfondito su quale futuro dare a questo nostro carcere, perché non sia più scuola di disperazione e crimine, ma apra a un futuro di civiltà”. Busto Arsizio: “A manetta”, le t-shirt dei bikers le produrranno i detenuti varesenews.it, 24 maggio 2018 Il Garante comunale dei detenuti lancia un’associazione culturale che aiuterà alcuni carcerati di Busto a reinventarsi stampando magliette per motociclisti e non solo. Matteo Tosi lo aveva promesso: “Mi dimetto da consigliere comunale per svolgere al meglio il mio ruolo di garante dei detenuti” aveva detto nell’ultimo consiglio comunale al quale ha partecipato. Ed ecco che dopo qualche settimana ricompare con un nuovo progetto per dare lavoro a qualche detenuto in modo da sopperire alla cronica mancanza di proposte di impiego per chi è dietro le sbarre: “Tra le funzioni del garante c’è anche quella di favorire i rapporti tra il carcere e la città e creare occasioni di eventi e lavoro. Così mi sono inventato “A manetta”. Proprio per questo nasce l’associazione culturale “A manetta” con tanto di partita Iva perché nel suo statuto è prevista la possibilità di svolgere attività commerciali: “L’obiettivo è quello di garantire un assunzione a tempo determinato e un contratto a progetto (a rotazione)”. Grazie alla donazione di una società di Sacconago, la Plotterflims by So.l.ter., l’associazione potrà stampare abbigliamento per qualsiasi tipo di realtà del territorio: “Ci proponiamo a tutte le realtà associative, sportive, alle scuole, agli enti che hanno bisogno di magliette per piccoli o grandi eventi”. Il nome e il logo uniscono la sua passione per il motociclismo e l’esigenza di trovare un nome “di impatto” che svelasse la provenienza della forza lavoro grazie all’assonanza tra il termine motociclistico di chi gira tutta la manopola del gas e le tristi manette. Grazie al plotter e alla pressa donate dall’azienda e soprattutto grazie alle ore di formazione che la stessa Plotterfilms ha messo a disposizione, potrà formare un gruppo di detenuti che verranno impiegati poi nel progetto lavorativo. Le prime t-shirt hanno fatto la loro comparsa all’autodromo di Monza per l’evento “The Reunion” dedicato agli appassionati di moto preparate e subito ne sono state vendute un numero sufficiente da permettere l’acquisto di altre t-shirt da stampare: “Agli amici bikers è piaciuta molto anche perché la filosofia che sottende il motociclista ha a che fare con la libertà e la strada, due elementi molto importanti per la maggior parte dei detenuti - racconta ancora Tosi - quindi spero che questo progetto possa continuare a crescere e a garantire lavoro e dignità per i detenuti”. Milano: esperienze di verde in carcere, apre anche il giardino a San Vittore di M. Cristina Ceresa greenplanner.it, 24 maggio 2018 Verde in carcere: anche il penitenziario di San Vittore a Milano avrà il suo giardino interno. Lo ha annunciato l’assessore al verde, Pierfrancesco Maran che conferma che sarà inaugurato durante la Green Week di settembre. I lavori sono iniziati circa un anno fa, come ci racconta Franco Beccari di Legambiente. Verde in carcere, varie esperienze in tutta Italia Il progetto milanese si inserisce tra le buone pratiche già adottate da diversi istituti penitenziari in giro per l’Italia. A Oristano, per esempio, si coltivano ortaggi che poi vengono venduti in città. A Bollate, altro carcere milanese, il verde in carcere è ormai un progetto virtuoso incontestabile. E ora il vivaio, che qui ha vita, ha attivato un circuito virtuoso che prevede anche una sorta di bacheca dell’usato per le piante in esubero e che, quindi, si possono acquistare inviando una mail a info@cascinabollate.org. I responsabili del servizio avvisano: “concorderemo insieme numeri, prezzo e modalità di ritiro”. Il servizio è gratuito per i giardini condivisi e tutte le altre attività socialmente utili. Perché il verde per prima cosa fa bene. E non fa eccezione se si parla di verde in carcere. “La presenza, all’interno delle carceri, di orti e spazi verdi” fa notare Alessandra Gorini, Ph.D. Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia & Centro di Ricerca e Intervento sui Processi Decisionali “è di grande giovamento al detenuto. Da una parte, la presenza di verde è un toccasana per il corpo e per lo spirito tanto che, dice la letteratura scientifica, coloro che vivono a contattano con il verde hanno circa il 30% di probabilità in meno di soffrire di depressione. Dall’altra, la cura dell’orto è di per sé un’attività che fa bene e gratifica per svariati motivi”. Fine educativo/formativo a valenza occupazionale convivono nella seconda fase del giardino sinergico-terapeutico avviato nel carcere di Taranto, dove una grande aiuola si è trasformata da spazio incolto e per niente utilizzato, ad area dedicata alla coltivazione, sia di piante officinali (origano, lavanda, maggiorana…), che di ortaggi. A Ferrara tanti giardini sono da scoprire perché nascosti. Non fa eccezione L’orto segreto coltivato dai detenuti che abitano il carcere dell’Arginone e che da qualche tempo apre in contesti speciali le porte al pubblico. Avviene in particolare durante il festival di Interno Verde dedicato ai giardini più suggestivi e curiosi della città - che quest’anno si è tenuto a metà maggio. Nei carceri di Arezzo e Pistoia, i giardini sono stati creati con tante piantine e fiori per far incontrare i figli dei detenuti in un ambiente sereno, dove anche gli animali sono ammessi. Ed è quello che avverrà anche al carcere di San Vittore di Milano. Perché il progetto prevede proprio una seconda fase che si occuperà di gestire un nuovo giardino dedicato alle visite dei parenti. Il consiglio della psicologa a riguardo del verde in carcere è che “promuove il movimento e l’attività all’aria aperta e stimola il raggiungimento di obiettivi (la crescita del seminato) che aumentano l’autostima e riducono lo stress. Attività di questo tipo, quindi, migliorano la salute mentale, dando a chi le pratica uno scopo e un desiderio di realizzazione che riducono la sensazione di isolamento e malumore tipicamente ingenerata dall’ambiente carcerario”. Roma: l’ipocrisia della “legalità” contro la Casa internazionale delle donne di Marco Bascetta Il Manifesto, 24 maggio 2018 Roma e non solo. L’autonomia di queste imprese politico-culturali dalla governance delle istituzioni e dei mercati va difesa a oltranza. In tutta Italia, dopo gli sgomberi dei sindaci è sempre seguito un deserto di iniziative che a stento ha nascosto un vero e proprio furto proprietario. L’attacco sferrato dalla giunta pentastellata di Roma contro la Casa internazionale delle donne è il segnale inequivocabile di che cosa ci dobbiamo attendere: una guerra senza quartiere contro ogni forma di autogestione e autorganizzazione. Questo si cela dietro la bandiera della “legalità” che costituisce il collante più forte tra le due forze politiche che si accingono a governare il paese. Non è un caso che il capitolo dedicato all’ordine pubblico, alla repressione, all’inasprimento delle pene e allo smantellamento di ogni cultura garantista rappresenti la parte più concreta e dettagliata del contratto di governo. Il primo passo consiste nel ricondurre alla categoria burocratico-amministrativa di “servizi alla cittadinanza” esperienze e pratiche politiche che non si limitano a soddisfare in forma sussidiaria una domanda esistente, ma creano e alimentano desideri e potenzialità fino a quel momento inespresse. E per farlo non possono che forzare il quadro delle procedure legali stabilite. Non vi è, insomma, “bando” adeguato a svolgere una simile funzione che solo la storia materiale dei movimenti è in grado di generare incidendo per via diretta sui rapporti sociali dati. Non è certo compilando moduli e stilando preventivi “convenienti” che si possono introdurre nuove forme della politica e della socialità. Il secondo passo, in piena sintonia con l’ortodossia liberista, consiste nel sottomettere al calcolo costi/benefici e dunque al mercato quella produzione di relazioni e ricchezze extraeconomiche che, per definizione, gli si dovrebbero sottrarre. Il tema degli “sprechi” accomuna singolarmente le vecchie vestali dell’austerità e i nuovi moralizzatori della vita pubblica. Due elementi sottendono questo processo di normalizzazione. Il primo consiste nell’evidente volontà di canalizzare e controllare attraverso precise procedure di partecipazione decise dall’alto bisogni e conflittualità che attraversano il corpo sociale, in una versione caricaturale della democrazia diretta on e off line. Il secondo elemento è rappresentato da una sorta di formalismo giuridico, privato però del rigore logico e delle aspirazioni universalistiche che gli sono proprie, e consegnato paradossalmente a quell’arbitrio ideologico dal quale la “dottrina pura del diritto” aveva la pretesa di difenderci. In buona sostanza ogni elemento di trasformazione sociale finisce sottoposto a una politica dirigista che ben si accompagna con la ritrovata passione per lo stato nazionale. Tutto quello che ricade al di fuori di questi criteri in quanto prodotto da una storia di culture, conflitti e autonomie estranee alle trafile burocratico-amministrative è dichiarato illegale, nemico, da cancellare. Bisognava pur aspettarsi che le minacce ripetutamente rivolte alle realtà occupate e autogestite presto sarebbero state estese, nelle parole e nei fatti, anche a chi si era conquistato una qualche patente di riconoscimento politico e istituzionale. Gli sgomberi, nei quali le amministrazioni del Pd da Roma a Bologna non hanno mancato di mettersi in luce (salvo la vigliaccheria dei sindaci che non sapevano, non volevano o non potevano farci nulla) sono la conseguenza pratica e militare dell’ideologia “legalitaristica” e delle regole di mercato che la ispirano. Agli sgomberi non segue altro che il ritorno al silenzio e all’abbandono dei luoghi che gli occupanti avevano fatto rivivere e aperto alla città. Due soli esempi, tra tanti possibili, per restare nella capitale: il teatro Valle e il cinema America. Tra finte trattative, false promesse, fantasmatici progetti di restauro e riqualificazione, gli sgomberi non sono stati altro, possiamo ben dirlo a distanza di anni, che la riaffermazione astratta del principio di proprietà libero da ogni riferimento all’utilità sociale o anche solo al semplice valore d’uso. Da queste vicende converrebbe trarre qualche insegnamento. Gli spazi autogestiti devono essere difesi materialmente e in prima persona perché rappresentano un punto di rottura tra logiche confliggenti. Quella di una storia politica autonoma generatrice di idee e relazioni proprie e quella dei “servizi” messi a bando, o della concessione amministrativa, come se si trattasse di lucrosi stabilimenti balneari. Per la medesima ragione conduce a sicura disfatta il carosello dei distinguo, la competizione sui meriti culturali e sulla rispettiva utilità sociale, alla rincorsa di una amnistia normalizzatrice. Laddove la difesa del proprio prevale su quella del comune principio di autorganizzazione. Per loro natura queste imprese politico-culturali devono sapersi però rinnovare, non certo nel senso di una razionalizzazione concordata tra governance e mercato, ma in quello di una riformulazione della propria autonomia attraverso il mutare dei contesti, riaffermando le ragioni di una rottura e di una diversità capaci di mettere in campo nuove idee e giovani energie. Con le ruspe è problematico discutere, ma non mancano gli strumenti per spaventare chi le guida e fargli cambiare strada. Venezia: evento sull’architettura penitenziaria di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2018 Il giorno 31 maggio prossimo si svolgerà all’Università Iuav di Venezia, nell’ambito del Master dedicato alle neuroscienze applicate al campo dell’architettura Naad - Neuroscience applied to architectural design, una giornata tematica sull’Architettura della prigione, coordinata da Cesare Burdese, architetto esperto di edilizia penitenziaria. Parteciperanno in qualità di relatori Davide Ruzzon, architetto esperto di Neuroscienze applicate all’ Architettura e responsabile scientifico del Master, Pietro Buffa Direttore generale del Personale e delle Risorse dell’Amministrazione Penitenziaria , criminologo, Sibyl von der Shulemburg, psicologa. L’obiettivo è quello di introdurre al tema della progettazione dell’edifico carcerario gli studenti del Master per una corretta progettazione del carcere alla luce dei bisogni del suo generico utilizzatore, vuoi perché privato della libertà personale in quanto carcerato, vuoi perché costretto in quanto addetto penitenziario e vuoi perché limitato in quanto visitatore. Questi bisogni sono quelli di tipo fisico e fisiologico e di carattere psicologico-relazionale che nel carcere possono essere ricondotti al fatto di vivere, lavorare e permanere in un ambiente fisico umanizzato, ovvero confacente alla natura dell’essere umano. Utilizzando i risultati più significativi delle indagini sistematiche e sperimentali sugli effetti psicofisici cagionati dall’ambiente costruito condotte negli ultimi decenni, le testimonianze dei protagonisti e le realizzazioni architettoniche più avanzate in ambito penitenziario, verranno tratteggiate le linee guida per l’edificio carcerario umanizzato, considerando l’insieme fisico, emotivo e spirituale del suo utilizzatore. Il quesito di fondo, ma anche la sfida, è quello di come in contesto detentivo sia possibile realizzare l’esperienza dell’abitare, dell’apprendimento, dell’incontro, del coltivare affetti, del convivio, del gioco ecc., nonostante la condizione negativa derivante dalla privazione della libertà, la rabbia, il dolore. La risposta sarà ricercata con l’ausilio della neuroscienza, nella convinzione della necessità di creare un ponte tra gli studi scientifici sul funzionamento del sistema corpo & cervello e lo sviluppo della progettazione architettonica, con l’obiettivo di ricostruire una nuova sintonia tra l’uomo e le sue azioni, le sue esperienze e l’ambiente costruito, ancorché detentivo. Anche nel progettare l’edificio carcerario è doveroso sviluppare una maggiore attenzione a tutti quegli aspetti che grande influenza hanno sul benessere e sulla salute della persona: le forme dello spazio, l’uso dei colori e della luce naturale, il controllo del rumore, la gestione degli odori, l’inserimento del verde e dell’arte negli ambienti, la qualità delle viste verso l’esterno, ecc. Una rinnovata attenzione al rapporto fra spazio e uomo si impone, per passare da un’architettura “che mortifica ed annienta”, a un’architettura “che valorizza e riabilita “, in grado di offrire opportunità e dignità tanto ai fruitori ed ai prestatori del servizio penitenziario, quanto al servizio stesso. Vasto (Ch): “Parole e colori”, l’istruzione nel carcere ha un valore dirompente di Maria Napolitano histonium.net, 24 maggio 2018 “Parole e colori”: l’open day del Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti a Vasto. Anche se siamo nel 2018, l’istruzione non è per niente scontata e spesso c’è una stretta relazione tra chi ne è privo e il disagio sociale. Anche in età adulta la scuola può diventare la chiave di svolta per un futuro migliore per chi vive situazioni socio-economici difficili. E questo è ciò che è emerso durante l’open day “Parole e colori” del Centro Provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia) che si è svolto a Vasto presso la Scuola media Rossetti il 17 maggio scorso. Grazie a un permesso speciale hanno avuto l’occasione di partecipare all’incontro anche 11 rappresentanti degli ospiti della Casa Lavoro di Vasto che avevano seguito il corso sulla legalità tenutosi all’interno della struttura. Dopo la presentazione delle attività del Cpia di Vasto della prof.ssa Manuela Fusilli e il saluto della Dirigente prof.ssa Antonella Ascani, sono intervenuti il dott. Pierluigi Evangelista, dirigente della ditta Del Giudice e Claudio Pracilio titolare della fattoria didattica e azienda agricola biologica “Il bosco degli ulivi”. Entrambe le aziende hanno ospitato studenti dei corsi per adulti per l’alternanza scuola lavoro. La dottoressa Giuseppina Rossi educatrice della Casa Lavoro di Vasto, ha sintetizzato quella che è la realtà della struttura. “Attualmente ci sono 156 ospiti che hanno già scontato la loro pena e sono sottoposti a questo periodo di riabilitazione che dovrebbe agevolare il ritorno a una vita normale. L’utenza ha un’età media di 45-50 anni. Spesso sono analfabeti e anche se hanno seguito i percorsi di studi delle elementari e delle medie, il loro titolo di studio non corrisponde al livello delle loro competenze. In carcere il valore della scuola ha davvero un valore dirompente più di quanto lo possa essere all’esterno. I tempi di permanenza nella struttura sono stabiliti dal giudice. Capita anche che ci sono ospiti in attesa di andare in una comunità di recupero o che non hanno un luogo dove tornare. Tanti sono i disagi e le paure che questi ospiti vivono giorno per giorno, il primo dei quali la lontananza da casa e dai propri affetti quando ce l’hanno. Non solo come operatrice del carcere, ma anche e soprattutto come cittadina, vedo la Casa Lavoro sì come un posto complicato ma anche come una potenziale risorsa sia per gli ospiti che per il territorio”. Erano presenti anche alcune comunità per persone che vivono situazioni di disagio. Paolo Palumbo ha presentato la comunità “Il sentiero” utilizzando anche un video, realizzato da alcuni loro ospiti, con cui hanno descritto le caratteristiche e le differenze delle scuole dei propri paesi. Ha presentato l’autore di alcuni quadri esposti durante l’open day. “Questo ragazzo ha un talento naturale nell’arte pittorica. Quando è arrivato qui non sapeva né leggere e né scrivere. Dipinge i suoi quadri utilizzando mani e colori per elaborare qualcosa che è presente nel suo cervello”. Un contributo per l’avvio a quest’arte l’ha avuto grazie a Valentina Di Petta, l’arte-terapeuta della comunità. “L’arte ha un potere comunicativo molto forte che riesce ad arrivare là dove le parole non possono arrivare”. Dopo i vari interventi, Claudio Pracilio ha risposto alla domanda di un rappresentante degli ospiti della Casa Lavoro (“Lei come imprenditore assumerebbe un ex carcerato?”) La risposta è stata: “Non ho nessun tipo di pregiudizio tant’è che ne ho assunto uno otto mesi fa”. A seguire, il titolare dell’azienda “Il bosco degli ulivi” ha fatto sperimentare ai presenti le tecniche di assaggio dell’olio e ha offerto una piccola degustazione dei prodotti della sua azienda. Genova: “La Barchetta rossa e la Zebra”, incontro con 100 detenuti di Marassi e Pontedecimo genovapost.com, 24 maggio 2018 Si è svolto il 22 maggio il primo incontro informativo dedicato al progetto “La barchetta rossa e la zebra”, che intende contrastare la povertà educativa e favorire la relazione tra figli e genitori detenuti nelle C.C. Marassi e Pontedecimo di Genova. Il progetto è finanziato dal Bando Prima Infanzia (0-6 anni) ed è approvato dall’Impresa Sociale Con i Bambini. La Fondazione Francesca Rava N.P.H Italia Onlus è il promotore, la Cooperativa Sociale Il Cerchio delle Relazioni, ne è capofila. La barchetta rossa e la zebra è una iniziativa sviluppata in sinergia con l’Amministrazione penitenziaria locale e dell’esecuzione penale esterna, il Comune di Genova e le Associazioni territoriali del Terzo Settore: la Cooperativa Sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, il Centro Medico psicologico pedagogico LiberaMente, ARCI Genova e CEIS Genova. Si avvale inoltre del supporto dell’Associazione Bambini Senza Sbarre Onlus, impegnata nella tutela dei diritti dei figli dei detenuti. L’evento si è tenuto presso il Teatro dell’Arca, all’interno della C.C. Marassi, dove Enti, Autorità, Istituzioni e Partner, hanno illustrato ad una platea composta anche di circa 100 detenuti provenienti delle C.C. Marassi e Pontedecimo, le finalità del progetto il cui obiettivo è duplice. Da una parte, la Comunità educante attiverà nuove strategie per contrastare la povertà educativa. Dall’altra, si intende facilitare la relazione e l’incontro dei figli di genitori detenuti. Per questo saranno riqualificati alcuni spazi all’interno delle C.C. Marassi e Pontedecimo, che diventeranno luoghi di ascolto e di accoglienza a misura di bambino. In questi spazi, i bambini saranno seguiti dagli educatori in diverse attività ludiche e formative, in attesa dell’incontro con la mamma o il papà. L’incontro informativo è stato moderato da Maria Chiara Roti, vice-presidente Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus, che ha dichiarato: “Creando spazi protetti, sarà possibile sostenere e tutelare i bambini, evitando loro lunghissime attese prima di poter accedere all’interno delle strutture penitenziarie e offrendo attività formative e ludiche che favoriscano l’incontro e la relazione con il genitore”. La Vice-Presidente della Fondazione Francesca Rava, ha dato poi la parola ad Elisabetta Corbucci, coordinatrice Cooperativa Sociale Il Cerchio delle Relazioni e capofila del progetto, che ha asserito: “Il nostro obiettivo è quello di creare una rete con tutti gli operatori che lavorano a stretto contatto con i detenuti e le loro famiglie. In questo modo sarà possibile non solo mettere a disposizione la nostra esperienza ma, nello stesso tempo, acquisire informazioni e strumenti indispensabili per intercettare e gestire eventuali conflitti nelle relazioni familiari”. Per il Comune di Genova presente Francesca Fassio, assessore alle Politiche Educative e dell’Istruzione, alle Politiche Socio-Sanitarie e alla Casa, che ha affermato: “Questo progetto rappresenta l’opportunità di integrare e rafforzare la rete tra servizi, associazioni e le complesse realtà penitenziarie. È un vero e proprio strumento educativo e di riconoscimento della dignità del rapporto tra figli e genitori detenuti, nonché del loro nucleo familiare”. Il progetto è stato sostenuto anche da Liana Burlando, direzione Politiche Sociali del Comune di Genova. Fondamentale la presenza di Maria Milano, direttore C.C. Marassi: “La riqualificazione di alcuni ambienti all’interno delle Case Circondariali, è necessario non solo per una adeguata accoglienza dei bambini in attesa dell’incontro con il genitore detenuto, ma anche per il personale penitenziario che potrà lavorare in maniera più consona e decorosa”, ha sottolineato Maria Milano, che ha concluso: “Il progetto è anche strutturale e educativo, grazie alla rete intessuta con le varie Associazioni territoriali. Quindi, una grande ricchezza per il nostro territorio”. Parole sostenute da Isabella De Gennaro, direttore C.C. Pontedecimo, che ha aggiunto: “Per quanto possibile, auspichiamo che il carcere diventi un ambiente capace di accogliere adeguatamente il bambino, per consentire una certa serenità nel momento dell’incontro con il proprio genitore. Sappiamo perfettamente quanto per le detenute, ma anche per i detenuti, sia fondamentale non recidere il legame genitoriale. Del resto il nostro ordinamento penitenziario considera le relazioni con i familiari, con i congiunti e con i conviventi un elemento imprescindibile del trattamento, per offrire una autentica opportunità di riflessione sul proprio passato e dare una speranza per il futuro”. Per l’Amministrazione penitenziaria, è intervenuta anche Bianca Berio, direttore Ufficio Distrettuale Esecuzione Penale Esterna (UDEPE), di Genova. Di grande rilevanza anche la presenza di Stefano Tabò, Consigliere Amministrazione Impresa Sociale Con i Bambini e Presidente di CSVnet, che ha sottolineato: “L’aspetto interessante di questo progetto è il concetto di rete e corresponsabilità, al fine di garantire ai figli di genitori detenuti una comunità più coesa sia nel presente che nel futuro”. Gli fa eco Giovanni Di Mento, ufficio attività istituzionali Impresa Sociale Con i Bambini: “Abbiamo selezionato questo progetto perché rappresenta due obiettivi chiave: il potenziamento dei servizi educativi, il rafforzamento e il coinvolgimento della genitorialità, che sarà sostenuta in un’ottica di presa in carico globale dei minori e delle loro famiglie”. La barchetta rossa e la zebra è sostenuta anche dalla consolidata e preziosa partnership con Andrea Giustini, presidente del Gruppo EcoEridania e Corporate-Partner del progetto, che da sempre affianca le numerose iniziative dalla Fondazione Francesca Rava. “Abbiamo condiviso subito questo progetto, perché profondamente convinto di donare alle carceri della nostra città spazi che permettano alle madri detenute di salvaguardare il proprio ruolo genitoriale. La pena, seppur imprescindibile, deve essere considerata secondaria rispetto ai diritti del minore”, ha specificato Andrea Giustini: “Siamo orgogliosi di destinare, insieme alla Fondazione Francesca Rava, la beneficenza della nostra raccolta natalizia a questa azione concreta di sostegno all’infanzia. Il sodalizio con la Fondazione è per noi un punto imprescindibile della nostra vita aziendale”. Contenuti degni di nota sono stati esposti anche da Lia Sacerdote, presidente dell’Associazione Bambini Senza Sbarre Onlus, leader nella promozione dei diritti dei figli dei detenuti. “La barchetta rossa e la zebra è un esempio tangibile di come determinati processi possano cambiare, pur trattandosi di una realtà complessa e articolata come quella del carcere”, ha spiegato Lia Sacerdote. Secondo la Presidente, infatti, il progetto rispecchia perfettamente “i principi contenuti nella Carta Italiana dei Diritti dei figli dei detenuti, che comprende 9 articoli in cui vengono declinati i bisogni imprescindibili per il mantenimento di questa complessa relazione”. L’evento è stato arricchito da un monologo incentrato sulla relazione tra figli e genitori detenuti, scritto e interpretato da Igor Chierici, attore teatrale e drammaturgo. L’incontro è terminato con la consegna di un premio di partecipazione per i detenuti iscritti al corso scolastico di Grafica Pubblicitaria condotto dall’Istituto Vittorio Emanuele Ruffini presso la C.C. Marassi, che hanno preso parte al Concorso di Idee per la produzione di spunti creativi finalizzati alla creazione del logo del progetto. Pesaro: nel carcere di Villa Fastiggi presentato “Il silenzio è la mia voce” ogginotizie.it, 24 maggio 2018 Volume con le poesie scritte dai detenuti. Alla presentazione del volume hanno preso parte il presidente del Consiglio regionale, Antonio Mastrovincenzo, gli operatori dell’associazione culturale “L’Officina” e una cinquantina di detenuti. Oggi, all’interno del carcere di Villa Fastiggi, si è tenuta la presentazione del libro “Il silenzio è la mia voce”, una raccolta di poesie scritte dai detenuti della Casa circondariale. Il titolo decisamente evocativo sembra richiamare la condizione di isolamento nella quale vivono i detenuti, che troppo spesso si rifugiano nel silenzio perché non hanno più la forza di far sentire la propria voce. Alla presentazione del volume hanno preso parte il presidente del Consiglio regionale, Antonio Mastrovincenzo, che della raccolta ha curato la prefazione, gli operatori dell’associazione culturale “L’Officina”, che realizzano laboratori di scrittura e poesia nel penitenziario, e una cinquantina di detenuti, tra cui anche gli autori dei componimenti. “La poesia contenuta in questa raccolta - ha affermato Mastrovincenzo durante la presentazione - è colma di umanità, perché nasce da situazioni estreme. La poesia è arte e, anche attraverso l’espressione artistica è possibile riflettere su se stessi, ricostruire il rapporto con gli altri, ripensare il proprio futuro”. Sono stati gli stessi autori delle poesie a leggere sul palco i loro versi, ai quali si è alternata la voce di Alberto Ramundo, responsabile del progetto di laboratorio di scrittura e poesia de “L’Officina” che ne ha sottolineato l’alto valore creativo ed espressivo. Con questa raccolta edita da Pellicano e a breve disponibile nelle librerie, si tratta dell’ottavo volume che l’associazione realizza dal 2011 grazie al lavoro svolto in carcere con i detenuti. La copertina nasce, invece, da una intuizione della disegnatrice Daniela Ciapparone, ispirata dalla lettura dei testi poetici. Il presidente Mastrovincenzo, nel ricordare le attività che Consiglio regionale e Garante dei Diritti portano avanti da tempo per connettere sempre più cultura e riabilitazione, ha auspicato di poter portare questa raccolta o quelle a venire alla prossima edizione del Salone internazionale del Libro di Torino. La marijuana light ora è davvero legale: produzione e commercio riconosciuti dal Governo di Giacomo Talignani La Repubblica, 24 maggio 2018 Il ministero dell’Agricoltura con una circolare precisa le regole del mercato delle infiorescenze. E chi è nel business festeggia. “Dopo un anno dal lancio della cannabis light questa è la nostra grande vittoria. Adesso tutti i lavoratori e i coltivatori potranno festeggiare: la produzione e il commercio delle infiorescenze è stato finalmente riconosciuto anche dal ministero”. Festeggia Luca Marola, ideatore e fondatore di Easy Joint, fra i primi esempi di cannabis light - la marijuana “legale” in commercio con un limite di Thc inferiore allo 0,2% - che nell’ultimo anno ha rivoluzionato il mercato. La notizia arriva direttamente dal ministero dell’Agricoltura, il Mipaaf, che con una circolare - dopo un anno di richieste incessanti da parte dei coltivatori e i lavoratori dell’indotto - si è espressa sulle regole della legge in vigore dal gennaio 2017: produrre e vendere l’erba legale è possibile, senza più dubbi per le migliaia di italiani che negli ultimi mesi hanno investito in questo business con non poche incertezze. “La coltivazione della canapa - si legge nella circolare ministeriale - è consentita senza necessità di autorizzazione, che viene richiesta invece se la pianta ha un tasso THC di oltre lo 0,2% come previsto da regolamento europeo. Qualora la percentuale risulti superiore ma entro il limite dello 0,6% l’agricoltore non ha alcuna responsabilità; in caso venga accertato un tasso superiore allo 0,6% l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa”. L’ultimo paragrafo della circolare ribadisce inoltre alcuni punti su cui produttori e coltivatori spingono da tempo: impedisce ad esempio le importazioni che non rientrano nel catalogo europeo, mettendo un freno dunque a ibridi, incroci ed erbe svizzere. Inoltre, ricorda Marola, “per la prima volta la parola infiorescenze viene inserita in un testo di diritto, riconoscendone così il valore. Adesso tutti i soggetti che hanno investito in questo business sanno di agire legalmente, senza più ombre. È un passo importantissimo. Il prossimo? Riprendere in mano la lotta antiproibizionista”. A raccontare il perché della circolare Mipaaf è poi lo stesso vice ministro Andrea Olivero: “Si tratta di un provvedimento necessario per chiarire i possibili usi della canapa coltivata nell’ambito del florovivaismo in modo da attuare pienamente una buona legge e precisarne il suo campo di applicazione. In questo modo agevoliamo anche l’attività di controllo e repressione da parte degli organi preposti”. La circolare individua inoltre regole precise e paletti da rispettare per i vari settori produttivi dove la cannabis può essere impiegata, ovvero quelli che vanno dall’alimentazione alla cosmesi, dall’industria e artigianato al settore energetico e alle attività didattiche e di ricerca industriale. Quello della “New Canapa Economy” è un settore che nell’ultimo anno ha avuto un boom enorme: si è passati dai 400 ettari di terreno coltivati del 2013 ai quasi 4mila stimati per il 2018. Per la Coldiretti “sono centinaia le nuove aziende agricole che hanno avviato nel 2018 la coltivazione di canapa” in tutti i campi. Il giro d’affari della “marijuana legale” ha un potenziale stimato in oltre 40 milioni di euro. Nel primo anno dal lancio attività come Easy Joint che presentarono l’erba “con CBD ma poco THC” lo scorso anno alla fiera di Bologna (di cui l’ultima edizione si è appena conclusa), hanno fatturato “circa 2 milioni di euro” dice il suo ideatore. Stati Uniti. Riforma delle carceri approvata, ma resta l’ingiustizia per i piccoli reati di Marina Catucci Il Manifesto, 24 maggio 2018 Trump esulta. Sostegno bipartisan alla legge che solo l’ala più a sinistra dei democratici ha provato a contrastare. É passata con sostegno bipartisan la riforma delle carceri, definita da Trump un tema “che unisce le persone di tutto lo spettro politico”. In realtà l’ala più a sinistra dei democratici si è opposta fino alla fine, in quanto anche se dovrebbe liberare 4.000 carcerati federali, la legge non diminuisce le pene per i piccoli reati e quindi potrebbe mettere in atto politiche ancora più discriminatorie nei confronti dei detenuti neri e latinos, la maggioranza. La riforma inoltre non prevede abbastanza finanziamenti per essere efficace e il procuratore generale Jeff Sessions, grande oppositore della riforma della giustizia penale, avrebbe troppa autonomia sui nuovi programmi. La legge, supportata dal genero di Trump, Jared Kushner, non riforma né riduce la durata della pena detentiva, che era l’obiettivo principale degli ultimi anni, ma si concentra sulla riabilitazione delle persone già in carcere, incentivandole a partecipare ai programmi, con la possibilità di accedere a una liberazione anticipata. Ora secondo i difensori dei diritti civili e degli afroamericani, visto che il Congresso ha approvato una legge sulle carceri, è improbabile che i legislatori tornino presto sullo stesso tema, e il problema delle minoranze incarcerate per reati minori con pene sproporzionate, rimarrà. Egitto. Arrestato e poi scomparso il blogger Wael Abbas di Chiara Cruciati Il Manifesto, 24 maggio 2018 Tra i più famosi giornalisti del Paese, ha documentato per anni sotto Mubarak prima e sotto al-Sisi adesso la brutalità della polizia e la repressione di Stato. Nelle stesse ore al Cairo veniva condannato a dieci anni un altro reporter, Ismail Alexandrani. “Mi stanno arrestando”: martedì notte, alle 4.20, è stato lo stesso Wael Abbas su Facebook a dare la notizia del suo arresto. Tra i più noti blogger egiziani, seguito in tutto il mondo arabo, vincitore di prestigiosi premi e collaboratore di testate internazionali, Abbas è da anni nel mirino dei regimi che si sono susseguiti al Cairo: testimone diretto della rivoluzione del 2011, da anni tratta della brutalità della polizia, la repressione delle proteste, la corruzione di Stato sotto Mubarak prima, sotto al-Sisi ora. Fino all’arresto di martedì notte: un nutrito gruppo di poliziotti ha fatto irruzione nella sua casa nella capitale e, come riporta l’Arab Network for Human Rights Information, lo ha bendato, ammanettato e portato via ancora in pigiama in un luogo sconosciuto. Confiscati computer e telefono. L’ennesima mannaia che si abbatte sul giornalismo indipendente egiziano e che aveva colpito Abbas più volte in passato: i suoi visitatissimi profili Twitter e YouTube erano stati sospesi e da mesi riceveva minacce ben poco velate. I servizi non confermano l’arresto né tanto meno danno dettagli sulle accuse. Lo ha fatto una fonte anonima: diffusione di notizie false e appartenenza a gruppo fuorilegge. Al momento non ha avuto modo di contattare un legale, di fatto una sparizione forzata. Ma il mondo fuori si sta mobilitando: sui social in migliaia chiedono il suo rilascio, con l’hashtag in arabo “Dov’è Wael Abbas”. Nelle stesse ore un altro giornalista, Ismail Alexandrani, esperto di gruppi islamisti in Sinai e detenuto dal novembre 2015, veniva condannato dalla corte penale militare di Nord Cairo a dieci anni di prigione. Le accuse: pubblicazione di segreti militari, finanziamenti illegali dall’estero e appartenenza ai Fratelli Musulmani, formazione messa al bando dopo il golpe del generale al-Sisi e sottoposta a una durissima repressione. Eppure, come spiegava ieri il suo avvocato, Tarek Abdel Aal, la procura non ha presentato alcuna prova dei presunti crimini né indicato la natura dei “segreti” rivelati. Sale così a 35 il numero di giornalisti egiziani dietro le sbarre. Iran. Esecuzioni capitali in aumento, sono state 544 nel 2017 di Siria Guerrieri La Repubblica, 24 maggio 2018 In Iran le esecuzioni capitali sono in aumento. Soltanto nel 2017 le impiccagioni di Stato sono state 544: sotto la presidenza di Hassan Rouhani, considerato un moderato dalla comunità internazionale, il numero delle condanne a morte eseguite è stato addirittura più alto di quello raggiunto dall’ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad. L’associazione “Nessuno tocchi Caino” ha pubblicato il Rapporto 2018 sulla pena di morte in Iran: basandosi su fonti ufficiali e sulle denunce della Ong Iran Human Rights, il documento mette in luce i dati. Tra i reati per i quali è stata applicata la pena capitale figurano ad esempio l’adulterio, ma anche la “Guerra a Dio”, formula vaga che indica comportamenti non in linea con i precetti del Corano. In Iran infatti il codice penale è basato sulla Sharia, la legge sacra dell’islamismo. Nell’ultimo anno 5 dei condannati a morte sono stati giustiziati con l’accusa di adulterio. Nel 2017 il numero delle donne giustiziate è salito a 12, a cui si aggiungono 6 ragazzi minorenni, uccisi in violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo. Il regime è “una minaccia ai diritti umani degli iraniani”, conclude il rapporto. Cina. Il riconoscimento facciale stana anche i criminali ai concerti di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 24 maggio 2018 I mille usi dell’intelligenza artificiale. In due anni il Paese avrà 570 milioni di “occhi”. Jacky Cheung è un cantante famoso in Cina, quando si esibisce riempie gli stadi. È noto come il “Dio della melodia”, ma ora lo hanno ribattezzato la “Nemesi dei fuggiaschi” ed è diventato anche un idolo della polizia. Il 7 aprile erano in 60 mila a Nanchang per ascoltarlo e in quella folla gli agenti hanno riconosciuto e arrestato un ricercato; nella città di Zhangzhou, il 5 maggio, Jacky Cheung era di nuovo sul palco, ancora folla imponente nella notte, e un altro criminale in fuga da anni individuato e ammanettato; ultimo episodio domenica 20 maggio a Jiaxing, stesso copione, il latitante era tra gli spettatori quando un poliziotto gli ha messo una mano sulla spalla e ha detto “Ti conosco, sei in arresto”. Non sono stati tre colpi di fortuna, ma tre casi di impiego delle telecamere collegate a un sistema di intelligenza artificiale, la nuova frontiera (ormai raggiunta) dello Stato di sorveglianza cinese. La polizia cinese sta dando molta pubblicità a questi fatti, gli ufficiali. A Nanchang nella rete di telecamere di sorveglianza è finito un ricercato per “crimini economici” che si sentiva sicuro tra la folla nella notte. E invece, quando è passato davanti a un occhio elettronico ai tornelli d’ingresso, nella regia del commissariato si è accesa una lampadina di allarme: quel volto era stato accoppiato alla foto segnaletica nel database dei latitanti. La serie di arresti ha scatenato la fantasia sui social network: uno dei successi di Jacky Cheung s’intitola “Lei è venuta al mio concerto”, la gente lo ha trasformato in “È venuto al mio concerto e gli ho messo le manette”. Le autorità si vantano di aver costituito la rete di telecamere di sorveglianza più grande del mondo. Sono già 170 milioni nel Paese e altri 400 milioni saranno aggiunte entro il 2020. Pechino ha completato la copertura delle sue strade e luoghi pubblici nel 2015: sono 430 mila telecamere a circuito chiuso collegate con le stazioni di polizia, oltre a quelle montate su autobus, metropolitana, taxi. Un “occhio artificiale” ogni 47 abitanti, bambini inclusi. Il governo assicura che si tratta di proteggere la società dal terrorismo e dal crimine, ma la videosorveglianza accoppiata al riconoscimento facciale viene usata per verificare se gli studenti universitari vanno a lezione, per multare i pedoni che attraversano con il rosso. E possono rivelare i movimenti di gran parte della popolazione. Il database in Cina è enorme, perché fin dai 16 anni di età tutti debbono avere una carta d’identità con foto digitalizzata. E le telecamere sono così avanzate che sanno anche stimare l’età e il gruppo etnico di eventuali sconosciuti. Lo Stato ha ottenuto l’appoggio dei grandi gruppi industriali dell’hi-tech, da Alibaba a Tencent, che mettono a disposizione le loro informazioni commerciali, ogni traccia lasciata su Internet per valutare l’onestà dei cittadini, dando un punteggio, un voto finale sulla loro affidabilità. Si chiama “credito sociale” e chi lo perde viene messo nella lista nera. Meglio non avventurarsi al concerto.