Carcere e sicurezza, dobbiamo difendere il lavoro fatto finora di Walter Verini* Il Dubbio, 23 maggio 2018 Scriviamo queste considerazioni alla viglia della formazione di un Governo che sui temi della sicurezza e della giustizia presenta aspetti e intenzioni inquietanti. A noi spetterà presidiare il lavoro riformista di questi anni, per evitare che vengano smantellati atti rilevanti, che vengano introdotti contenuti ai limiti della convivenza civile. Dovremo farlo in Parlamento e nel Paese. Mentre partecipavo al convegno su “Madri e bambini in carcere” e sulla bella esperienza di “A Roma Insieme - La Casa di Leda”, riflettevo sul danno di non essere riusciti a condurre pienamente in porto la riforma dell’ordinamento penitenziario. E riflettevo su quelle timidezze e incertezze anche nel nostro campo che hanno portato una grande riforma a fermarsi a pochi metri dal traguardo. Ma pensavo anche a responsabilità di altri. Non mi riferisco tanto a quelle di chi come Salvini - sulle paure ha cinicamente fondato un progetto politico e un successo elettorale. Mi riferisco ai 5 Stelle, divisi a suo tempo tra chi guardava la riforma con gli occhi della civiltà e chi con occhi criptoleghisti e securitari, che hanno prevalso. E penso anche a quelli che una volta si sarebbero definiti “benaltristi”: da una certa vetero-sinistra a certi maître a penser fino a settori della magistratura, accaniti contro una riforma (quella del processo penale) per motivi specularmente opposti a quelli della destra becera. Ma uniti in una sorta di eterogenesi dei fini. Era, pensandoci, lo stesso copione che venne messo in scena in occasione dell’approvazione della legge sulla tortura che poi approvammo tra aspre critiche da destra e da “sinistra”. Fu il Garante nazionale dei detenuti e fondatore di Antigone - il professor Palma a pronunciare allora parole di verità: pur definendo non entusiasmante la norma - disse in sostanza - meglio averla nell’ordinamento che non averla. Tagliandi e cambiamenti migliorativi potranno essere fatti solo se una norma esiste. Se vogliamo, possiamo chiamarlo riformismo. Facciamo queste considerazioni alla viglia della formazione di un Governo che sui temi della sicurezza e della giustizia presenta aspetti e intenzioni davvero inquietanti, coerenti del resto con la campagna elettorale e con cinque anni di opposizione a riforme che su questi temi hanno prodotto fatti, leggi e innovazioni di notevole portata civile, culturale, giuridica. Non giriamoci intorno: c’è un nesso di pesante restaurazione che lega i proclami sulla legittima difesa, l’intenzione di far saltare ogni proporzionalità tra offesa e difesa, di considerare - per dire - sempre legittimo il comportamento di chi spara ad un ladro entrato in casa mentre questi di spalle, magari fugge. C’è un nesso, con le intenzioni legate alla politica carceraria, dove sparisce, nella forma e nella sostanza, ogni riferimento all’articolo 27 della Costituzione. La pena - è vero - deve esser certa e oggi non sempre lo è. Questo è un problema. Da risolvere Ma questo non può voler dire calpestare principi civili e costituzionali per i quali la pena non deve essere solo punitiva e afflittiva, ma ispirata a principi di umanità, tesa alla rieducazione e al reinserimento sociale. Chi viene sottoposto a pene alternative al carcere, legate a esperienze di formazione- lavoro o chi negli istituti svolge attività sociale, prende un diploma, impara un mestiere, una volta scontata la pena non torna a delinquere. E questo è anche un grande investimento per la sicurezza di tutti. La verità è che rischia di prevalere la linea del ' buttare la chiave', cavalcando nel peggiore dei modi tensioni, insicurezze e paure che pervadono la società. Che vanno vissute, comprese, affrontate: guai a snobbarle o sottovalutarle, come è stato fatto. Ma con le armi della civiltà e della democrazia. Si sta prefigurando (e penso anche alle ricette - sic - sul tema dei rimpatri) una idea di sicurezza dove è del tutto assente il tema della vita sociale, delle luci (reali e culturali) nelle periferie e nei quartieri, delle città come antidoto efficace al degrado, alla criminalità diffusa, ai reati. Più poliziotti e più volanti e più telecamere, certo (ma è quello che anche i governi di centrosinistra in questi anni hanno favorito) ma insieme occorrono fatti per rendere quartieri e periferie vivibili, ricchi di iniziative, di luce e di punti-luce. Di lavoro e di luoghi di aggregazione: sportivi, sociali, culturali, musicali. Non dobbiamo consentire che passi l’idea che la difesa della sicurezza consista in una risposta che abbia i tratti di uno Stato di Polizia. Potremmo allargare il discorso - e lo faremo - ai temi della lotta alla corruzione e alle mafie, che in questi anni hanno visto portare a casa risultati legislativi importantissimi. Che però non hanno mai messo in discussione i principi della presunzione di innocenza, che qualcuno vorrebbe ora scardinare. L’altro ieri Gustavo Zagrebelsky ha rilasciato una intervista di grande importanza e autorevolezza su questi temi. A noi spetterà presidiare il lavoro riformista di questi anni, per evitare che vengano smantellati atti rilevanti, che vengano introdotti contenuti ai limiti della convivenza civile. Dovremo farlo in Parlamento e nel Paese, cercando di tenere alti e ben visibili valori che possono sembrare “impopolari”, ma ai quali forze democratiche non possono rinunciare, pena irrilevanza e subalternità. *Deputato del Partito Democratico Resistere alla deriva giustizialista di Stefano Anastasia Il Manifesto, 23 maggio 2018 Onestamente quanto tardivamente Andrea Orlando, in occasione della Festa della polizia penitenziaria, ha ammesso l’errore di non aver portato a compimento la riforma dell’ordinamento penitenziario. Avrebbe dovuto farlo, il Governo Gentiloni, nel febbraio scorso, all’indomani dei pareri favorevoli delle Camere, se solo non avesse temuto di perdere quel che aveva già perso: il voto dei penultimi, solleticati dagli imprenditori politici della paura alla guerra incivile contro gli ultimi, quelli che stanno in carcere, quelli che arrivano dal mare. Avrebbe potuto farlo anche nelle scorse settimane, se solo si fosse sottratto alla vergognosa melina istituzionale che ha tenuto bloccato il Parlamento per due mesi, in attesa della formazione di un Governo, come se il primo dipendesse dal secondo e non il contrario. Nel corso della Assemblea nazionale del Pd Orlando ha accusato Renzi e Gentiloni del fallimento. Ma tant’è, così è andata, e bisognerà ricordarsene quando tornerà l’occasione di scegliere tra la scommessa di un riformismo radicale e la prudenza dei minimi ritocchi. Intanto, però, si deve fare i conti con il contratto sottoscritto da Di Maio e Salvini, nelle loro funzioni di leader della nuova maggioranza di governo. Sapevamo dell’opposizione mantenuta fino alla fine dai 5 Stelle e dalla Lega alle pur misurate proposte del Governo Gentiloni in materia di carcere. E d’altro canto se il Movimento ha tra i suoi tratti costitutivi la confusione della giustizia sociale con la giustizia penale, la Lega di Matteo Salvini è da tempo il principale imprenditore della paura sulla scena politica italiana. Dunque ci si poteva aspettare il peggio, e il peggio è arrivato: la riforma penitenziaria non è solo abortita, ma se ne promette una riscrittura che garantisca la rivisitazione di tutte le misure premiali (nel senso, immaginiamo, della limitazione o abrogazione di qualsiasi beneficio o alternativa al carcere). Ma questo è solo l’approdo finale di un programma che si apre con la declamazione della “difesa sempre legittima”, senza più vincoli di proporzionalità con l’offesa minacciata, e che prosegue con l’inasprimento delle pene, la revoca di vecchie depenalizzazioni, l’abrogazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto o dell’estinzione del reato a seguito di condotte riparatorie. Inevitabilmente, l’approdo non può che essere quello di un bel “piano per l’edilizia penitenziaria”. Per non dire dell’iperbolico proposito di chiudere in centri di detenzione tutti gli immigrati irregolari, stimati in 500mila persone: non basteranno gli stadi, come nella memoria più buia dei Paesi latinoamericani. Non sappiamo in Germania, ma in Italia un programma di governo è un elenco di propositi più o meno generici di cui alcuni (forse) saranno attuati, (molti) altri resteranno sulla carta: a decidere sarà la contingenza e le scelte che, solo allora, faranno le forze politiche. E la forma contrattuale dell’accordo tra Lega e 5 Stelle non cambierà le regole non scritte della politica. Dunque, molto di quello che oggi viene proposto non sarà messo in pratica. Ma ciò che inquieta non è solo il punto di incontro giustizialista tra forze politiche che si rappresentavano così diverse tra loro, ma il fatto che questo punto di incontro rischia di essere ciò che di questo contratto potrà più facilmente essere messo in pratica. Non sarà facile tradurre in legge e atti concreti le proposte in materia economico-sociale, e dunque l’alleanza si cementerà nelle misure carcerofile e contro i migranti, fino a quando le carceri non saranno di nuovo piene come uova e i contraenti scopriranno che le nuove, in Italia, non si fanno in meno di trent’anni. Nelle carceri, nei tribunali e nei centri per stranieri toccherà reagire e resistere, in nome dei diritti umani e della Costituzione. La riforma è morta e in carcere ci si suicida di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 maggio 2018 Le nuove norme avrebbero inciso soprattutto sulla concessione di misure alternative, che non sarebbero state applicabili ai condannati a una pena superiore ai quattro anni. Il 16 maggio scorso c’è stato l’ultimo Consiglio dei ministri e ha si è persa l’ultima occasione che il governo aveva per dare il via libera definitivo alla riforma dell’ordinamento penitenziario. Il ministro Orlando nei giorni precedenti aveva detto che avrebbe fatto di tutto per portarlo all’ordine del giorno, ma non c’è l’ha fatta. Il 19 maggio, durante l’assemblea nazionale del Pd, ha scoperto le carte e ha denunciato: La riforma è stata ferma un anno perché c’era la campagna per il referendum costituzionale. La fiducia è stata posta dopo uno scontro durissimo nel Pd. Dentro al governo sono solo io a sottolineare l’esigenza dell’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ora l’ho detto”. Così svanisce una riforma che non sarebbe stata epocale, ma avrebbe inciso soprattutto sulla concessione di misure alternative al carcere. In particolare, si innalza da tre a quattro anni il limite massimo di pena che consente di accedere alle misura alternative alla detenzione. Contrariamente a quanto hanno denunciato i detrattori che ora governeranno il Paese, la misura non si applica a tutti i condannati a una pena superiore ai quattro anni. Per accedere alle misure alternative al carcere, infatti, è necessaria una decisione in tal senso del giudice. Non ci sono automatismi. Riguardo l’affidamento ai servizi sociali, ad esempio, il secondo comma dell’articolo 47 della legge sull’ordinamento penitenziario dice così: “Il provvedimento è adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”. Il periodo di osservazione di un mese può non essere necessario se il condannato, dopo la commissione del reato, ha tenuto un comportamento tale da renderlo. Dunque se fosse stata approvata la riforma, sarebbe stato possibile che persone condannate e pene inferiori a quattro anni (ad oggi, fino a tre) possano finire in carcere, se la personalità è ritenuta pericolosa o se la concessione di una misura alternativa al carcere non si ritiene possa servire alla rieducazione del reo e alla prevenzioni di altri reati. Inoltre, chi beneficia di una misura alternativa alla detenzione deve rispettare le prescrizioni del magistrato di sorveglianza, che può in caso contrario revocare le misure alternative e riportare così in carcere il condannato. Si tratta di un istituto che già esiste, solo che ha un limite leggermente inferiore per i casi “normali” (3 anni invece che 4) e lo stesso (4 anni) per una serie di ipotesi particolari. Un istituto che il contratto M5S-Lega vorrebbe addirittura rivedere. Nel frattempo, proprio nel giorno in cui si sancisce la definitiva non emanazione della Riforma tanto voluta da numerosi giuristi, magistrati, avvocati, associazioni come Antigone e, non per ultimo, il Partito Radicale che con l’esponente Rita Bernardini ha attuato lunghi scioperi della fame, si era registrato il diciottesimo suicidio di un detenuto dall’inizio di quest’anno. Un suicidio avvenuto nella Casa circondariale di Viterbo, dove un uomo di trentasei anni, con fine pena tra circa un anno, è stato trovato impiccato nella sua stanza, in isolamento. Per il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa “serve un intervento di sistema, sull’intero ambiente penitenziario, che renda più accettabili le condizioni di detenzione e le relazioni umane all’interno del carcere, che faciliti quelle con l’esterno e che limiti alle estreme necessità l’isolamento, considerato dall’Organizzazione mondiale della sanità e dallo stesso accordo Stato-Regioni una vera e propria condizione a rischio suicidario”. Mancata riforma penitenziaria. Stefano Anastasìa: “a rischio diritti fondamentali” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 23 maggio 2018 Il nuovo Coordinatore dei garanti territoriali fotografa la situazione delle carceri, tra emergenza sovraffollamento e assistenza sanitaria, richiamando gli enti locali a un ruolo di primo piano nel sistema dell’esecuzione penale. La situazione delle carceri italiane, il programma del nuovo governo, il ruolo dei garanti dei detenuti e i rapporti con gli enti locali in un sistema penitenziario che ha bisogno anche di uno stretto contatto con l’esterno per garantire il rispetto dei principi sanciti dalla Costituzione. Stefano Anastasìa, garante dei detenuti per Umbria e Lazio, dal 4 maggio Coordinatore dei garanti territoriali, fotografa il presente, tra impegno e preoccupazione per l’orientamento delle nuove politiche sociali e penitenziarie. Il carcere oggi: quali le emergenze che non possono più aspettare? “Due, in particolare - spiega Anastasìa: il ritorno del sovraffollamento, dopo l’efficace politica di contenimento delle presenze. E la qualità dell’assistenza sanitaria, in particolare nel settore della salute mentale, rivoluzionato dalla chiusura degli Opg. Nell’uno come nell’altro caso bisogna intervenire urgentemente se non si vuole ricadere nella violazione di diritti umani fondamentali. Molti istituti sono già al limite delle capacità di utilizzo e non saranno algoritmi architettonici a inventare spazi che non ci sono, né improbabili costruzioni di nuove carceri. Torna il nodo di fondo che una politica degna di questo nome deve saper affrontare: per quali reati e a quali condizioni prevedere la pena carceraria? Cosa trattare altrimenti e come? Al di là di ogni considerazione umanitaria, che per me è pure importante, il carcere conforme a Costituzione è una pena costosa e, dunque, una risorsa scarsa: bisogna scegliere per cosa non se ne può fare a meno e lasciare il resto ad altre forme di restituzione del debito e di composizione delle controversie”. “Così sulla salute mentale - prosegue il Coordinatore dei garanti: nel regime degli Opg le persone con problemi rilevanti di salute mentale prima o poi finivano lì e lì venivano dimenticati. Oggi questa discarica sociale è stata chiusa e alle persone con problemi di salute mentale che sono state giudicate responsabili e condannate deve essere garantita una efficace presa in carico socio-sanitaria da parte dei servizi di salute mentale già nello stato di detenzione e devono esser loro garantite le alternative terapeutiche già previste per altre patologie, ivi compresa, nei casi di incompatibilità con lo stato detentivo, la sospensione della pena per motivi di salute”. Sulla riforma dell’ordinamento penitenziario possiamo scrivere la parola “fine”? Di chi sono le maggiori responsabilità per la mancata approvazione? “Purtroppo la riforma dell’ordinamento penitenziario è finita su un binario morto. Il nuovo Governo si ripromette di riscriverla, ma è evidente che, sulla base delle prime indicazioni presenti nel contratto di governo, se ci sarà, sarà il contrario della riforma immaginata ed elaborata da quella vasta opera di consultazione promossa dal Ministro Orlando con gli Stati generali dell’esecuzione penale. Capisco la ragione politica che muove Lega e 5 Stelle e non mi sorprende quanto hanno scritto nel programma di governo, eppure penso che, anche dal loro punto di vista, sbaglino: sbagliano a non riconoscere che quel decreto fermato a un passo dalla pubblicazione era il risultato di una forma di partecipazione popolare alla elaborazione politico-legislativa che ha visto sedere e lavorare fianco a fianco operatori del diritto e della giustizia, professionisti e volontari, studiosi ed esponenti della società civile. Chi voglia governare l’amministrazione penitenziaria in questo Paese non può ignorare questo mondo e sbaglia a deluderlo. Il decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario non era il decreto del solo Ministro Orlando, né del solo Governo Gentiloni (che, anzi, ha la grave responsabilità di non averlo portato a compimento quando avrebbe potuto), ma è il punto di incontro di una pluralità di voci e culture che merita rispetto e attenzione da parte di chiunque governi”. Ministro per un giorno: tre provvedimenti che adotterebbe in via prioritaria... “Proporrei al Consiglio dei ministri l’immediata adozione del decreto di riforma dell’ordinamento penitenziario così com’è, innanzitutto per rispetto di quella procedura partecipata che ne ha elaborato le linee fondamentali. Riprenderei le indicazioni della Commissione ministeriale per la riforma delle prassi penitenziarie presieduta da Mauro Palma tra il 2013 e il 2014 e ne farei il programma d’azione delle Amministrazioni dell’esecuzione penale per il prossimo biennio. Proporrei l’istituzione di un fondo per il reinserimento sociale dei detenuti da destinare alle Regioni e, per loro tramite, agli enti locali. Poi, certo, la riforma del codice penale e dei rami più o meno alti della giustizia, ma questi sarebbero dei buoni punti di partenza”. Un commento sul programma di governo Lega-M5S... “Su carcere e giustizia, risente ancora troppo della propaganda elettorale e della cultura di opposizione delle forze che lo hanno sottoscritto. Governare è un’altra cosa e se ne accorgeranno. L’idea di fondo che emerge su giustizia penale, carcere e immigrazione è che il benessere della società si fonda sul principio del terzo escluso, e cioè che le persone perbene, le persone oneste, gli italiani e gli stranieri che vengono per lavorare possano vivere serenamente solo se quel terzo di criminali, devianti, irregolari saranno cacciati, incarcerati, esclusi. Non è un’idea nuova, anzi è stata molto in voga negli ultimi 30 anni, anche in Italia, e ha portato al collasso umanitario di carceri e centri di detenzione, in Italia certificato nel 2013 dalla sentenza Torreggiani. Non credo che le istituzioni di garanzia, nazionali e internazionali, possano consentire che si torni su quella strada”. Coordinatore dei Garanti territoriali: quali sono i compiti del nuovo ruolo e quali saranno i primi provvedimenti che ha mente di adottare? “L’assemblea dei garanti territoriali del 4 maggio mi ha eletto coordinatore al termine di un importante convegno sul ruolo delle regioni e degli enti locali nell’esecuzione penale e nella privazione della libertà, ed è da qui che bisogna partire. Non solo il Garante nazionale ha bisogno di terminali di prossimità per rendere efficace e tempestiva la propria azione su tutto il territorio nazionale, ma le stesse competenze delle regioni e degli enti locali rendono essenziale la presenza dei garanti territoriali. Si pensi alle competenze regionali in materia di assistenza sanitaria e di formazione professionale, a quelle regionali e locali su programmazione e attuazione delle politiche sociali, a quelle anagrafiche dei comuni, oltre a quelle per il diritto allo studio, per il sostegno alle attività culturali e sportive, e così via. Chi dirige un carcere, una Rems o un centro di detenzione per stranieri sa che senza il contributo del territorio e delle sue istituzioni il proprio diventa un mandato meramente reclusorio. A noi tocca non solo verificare le condizioni di vita delle persone private della libertà ma vigilare in modo particolare sulle responsabilità delle regioni e degli enti locali. Per questo penso che, in prospettiva, il coordinamento dei garanti territoriali debba articolarsi anche per i diversi livelli istituzionali che vi sono rappresentati, e che quindi veda al suo interno un coordinamento dei garanti regionali, un coordinamento dei garanti provinciali e un coordinamento dei garanti comunali, che sappiano interloquire con la Conferenza delle Regioni, l’Unione delle Province e l’Anci per contribuire a determinarne gli indirizzi nelle materie rilevanti nell’esecuzione penale e nella privazione della libertà”. Antigone si appella al Capo dello Stato perché si faccia garante dei valori costituzionali di Andrea Oleandri (Ufficio Stampa Associazione Antigone) Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2018 “Nel contratto di governo sottoscritto da Lega e Movimento 5 Stelle c'è un capitolo, l'undicesimo, che desta grande preoccupazione in quanti hanno a cuori la difesa dei valori costituzionali. Per questo abbiamo inviato una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, appellandoci alla sua carica istituzionale di custode dei valori della nostra Costituzione, affinché non si cancellino principi fondamentali che non possono essere nella disponibilità di alcuna forza politica”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che dal 1991 si occupa di garanzie nel sistema penale e penitenziario. Nel capitolo in oggetto, denominato “Giustizia rapida ed efficiente” le pene, che la nostra Carta Costituzionale declina al plurale, vengono interamente schiacciate sul solo uso del carcere, togliendo spazio a ogni misura alternativa alla detenzione che sappia davvero recuperare il condannato alla vita sociale. “Il carcere - si legge nella lettera inviata da Antigone al Capo dello Stato - viene previsto quale luogo di mero contenimento di corpi da sottoporre al solo lavoro carcerario. Viene eliminata ogni forma di responsabilizzazione della persona detenuta, attuata negli scorsi anni attraverso la cosiddetta sorveglianza dinamica e forme di regime detentivo capaci di uscire dall’ozio forzato della chiusura in cella, configurando così una pena contraria al senso di umanità e del tutto incapace di tendere alla rieducazione del condannato”. “Nel campo della giustizia minorile - prosegue la lettera - si intende cancellare i principi ispiratori del codice di procedura penale per minorenni del 1988 e rivedere il modello di esecuzione delle pene, oggi improntati a quel superiore interesse del fanciullo cui la giurisprudenza riconosce unanimemente rilievo costituzionale”. “Le forze politiche democratiche - dichiara ancora Gonnella - hanno sempre guardato a uno sviluppo in senso progressista dell’esecuzione delle pene. Solamente nel periodo fascista l’Italia ha assistito a un netto regresso nell’uso repressivo del carcere. I nostri padri costituenti conoscevano le carceri fasciste quando hanno voluto lasciarci la loro eredità valoriale. Quell'eredità valoriale da difendere e che oggi - conclude il presidente di Antigone - ci spinge ad appellarci al Presidente della Repubblica” La lotta per l’abolizione dell’ergastolo… di Associazione Yairaiha Onlus Ristretti Orizzonti, 23 maggio 2018 Tra populismo penale, voglia di riscatto e Costituzione tradita. Sono più di dieci anni che la nostra associazione, assieme a migliaia di detenuti, loro familiari e tante altre associazioni, lottiamo affinché il mostro dell’ergastolo venga abolito. Raccolte firme, giornate di digiuno, campagne di denuncia e sensibilizzazione a livello nazionale ed europeo, hanno fin ora prodotto conoscenza e condivisione della giustezza di questa battaglia anche tra cittadini comuni. In alcuni momenti si è persino sfiorato questo traguardo. Nel 2008 la commissione per la riforma del codice penale aboliva il carcere a vita dal nostro ordinamento. Anche oggi, nonostante il populismo penale sembra farla da padrone, si percepisce consenso riguardo all’abolizione dell’ergastolo. Diversi sono i disegni de legge abolizionisti presentati anche durante l’ultima legislatura e, per ultimo, dagli Stati generali dell’esecuzione penale era uscita la volontà di superare concretamente l’ostatività indirizzando la commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario verso l’abolizione sia dell’ergastolo che dell’ostatività, salvo poi annullare tale volontà nella legge delega dalla quale prende avvio la riforma dell’ordinamento, varata dal governo uscente ed ancora oggi bloccata per le note vicende politiche che stanno attraversando l’Italia. Testimonial importanti si sono schierati dalla nostra parte sia in ambito cattolico sia tra i familiari delle vittime. E allora ci chiediamo quali siano gli ostacoli alla rimozione di un obbrobrio giuridico disumano e incostituzionale che uccide torturando lentamente il diritto e la speranza di riscatto di chi è condannato a morte fino alla morte. Una delle risposte plausibili è la mancanza di coraggio politico in uno Stato che ha sacrificato i diritti umani, tutti, in una logica di mercato dove il profitto viene prima del benessere collettivo di ognuno e ciascuno, dove la sicurezza è argomento da talk show politici che hanno come unico obiettivo quello di intimorire la società, farla sentire più insicura, farle avere paura. Perché secondo uno schema che va sempre più consolidandosi, attraverso la paura si dominano le popolazioni. E attorno alle paure sociali, reali o indotte che siano, si ingenera la richiesta di sicurezza, di pene esemplari, di più galera per tutti mercificando i diritti e le libertà tramutando la nostra Costituzione in carta straccia. A conferma di questo basta leggere il contratto di governo sottoscritto da Lega e 5 Stelle che seppellisce definitivamente lo Stato di Diritto a favore dello Stato penale. Negli scorsi mesi ci siamo messi in gioco sostenendo un progetto politico partito dal basso, Potere al Popolo, che ha accolto e condiviso nel programma elettorale alcune delle battaglie che da anni ormai portiamo avanti. Non era scontato che una formazione giovane ed eterogenea come questa accogliesse punti tanto spinosi e controversi. Al di là del risultato elettorale è stata una occasione costruttiva che ci ha permesso innanzitutto di sfatare la retorica securitaria ed emergenziale che da oltre un quarto di secolo impera attraverso decine di incontri formali e informali dove si è discusso di ergastolo e 41bis fuori dai circuiti di “addetti ai lavori” che solitamente affrontano questi temi. Abbiamo avuto la possibilità di trovare nuovi interlocutori e di intessere relazioni positive per il futuro perché riteniamo che queste battaglie, per essere vinte, devono essere portate nella società. È necessario, oggi più che mai, provare a far nascere una nuova sensibilità diffusa affinché si superi non solo l’ergastolo ma la necessità della segregazione fisica, della privazione della libertà, come dispositivo correttivo dei mali sociali. Ritornare ad essere “comunità sociale” contro lo Stato penale. Pretendere la certezza dei diritti prima della certezza della pena. Il prossimo 26 giugno, in occasione della giornata mondiale delle vittime di tortura, assieme all’Associazione Liberarsi, a Ristretti Orizzonti e all’Associazione Fuori dall’Ombra, sosterremo la terza giornata di digiuno nazionale per l’abolizione del fine pena mai con la consapevolezza che può siamo in una fase storica e politica in cui i Diritti sembrano scomparsi. E a maggior ragione non si deve mollare. Non solo Stefano Cucchi, tutte le morti assurde nelle carceri italiane The Post, 23 maggio 2018 Suicidi in cella con dinamiche mai pienamente chiarite, sospetti pestaggi e omissioni di soccorso. Ecco le storie di persone morte mentre erano sotto la custodia delle istituzioni- Il 17 maggio 2018 Rudra Bianzino, figlio di Aldo Bianzino, morto nel carcere di Perugia nel 2007, ha lanciato una petizione online per chiedere la riapertura delle indagini sulla morte di suo padre, ma anche la creazione di una Commissione d’inchiesta parlamentare sui casi di presunti abusi da parte delle forze dell’ordine. “Sembra giusto, se non imprescindibile, allargare la mia battaglia a sostegno di tutte quelle persone che stanno lottando per avere verità e giustizia, in particolar modo quando sono le stesse istituzioni ad essere chiamate in causa”, ha scritto Rudra in un post. “Un primo passo in tal senso era già stato fatto dall’On. Alessandro Bratti nel 2014, depositando un ddl presso la Camera dei Deputati, nel quale era previsto la formazione di una commissione di inchiesta proprio su questi temi. Oggi chiediamo che venga preso seriamente in considerazione dalla classe politica la proposta già presentata all’epoca, per far luce su una moltitudine di casi rimasti irrisolti”. TPI ha raccolto le storie di persone morte in carcere in circostanze sospette o mai pienamente chiarite, oltre a quella di Aldo Bianzino, che vi abbiamo già raccontato qui. Aldo Scardella Il 24enne Aldo Scardella viene arrestato alla fine del 1985 con l’ accusa di omicidio a scopo di rapina. Il suo arresto avviene a seguito della rapina che aveva portato alla morte di Giovanni Battista Pinna, titolare dell’ emporio Bevimarket di Cagliari, sulla quale però il giovane si dichiara ripetutamente innocente. Secondo la ricostruzione di Acad (Associazione Contro gli Abusi in Divisa), ad Aldo viene impedito di incontrare anche l’avvocato scelto dalla sua famiglia per difenderlo e non viene mai neppure interrogato dal giudice istruttore. Il 2 luglio 1986 Aldo si impicca nel carcere di Buoncammino, dopo sei mesi di isolamento, ribadendo la sua estraneità al delitto. Accanto al suo corpo un biglietto con scritto “Muoio innocente”. Nel 2002 vengono incarcerati i veri responsabili dell’omicidio. Mario Scrocca Mario Scrocca è un infermiere di 27 anni, padre di un bambino di tre anni. Viene arrestato il 30 aprile 1987 e accusato di un pluri-omicidio avvenuto nel 1978, quando due ragazzi di destra erano stati uccisi a colpi di pistola a via Acca Larenzia, a Roma. Il giovane aveva espressamente richiesto durante l’interrogatorio di essere sottoposto a vigilanza a vista. La sera del primo maggio, approfittando di un momento in cui la guardia carceraria di turno si era allontanata, Mario si toglie la vita impiccandosi nel carcere di Regina Coeli. Secondo Acad, nel caso di Scrocca ci sono state “irregolarità nella carcerazione, nella morte del giovane e nei referti autoptici”. “Nessuno ha mai dato risposte se il giovane sia “stato suicidato” o se sia stato istigato al suicidio, reato che all’epoca non esisteva”, scrive l’associazione sul suo sito. Riccardo Boccaletto Arrestato per reati legati alla droga, Riccardo Boccaletto muore nel carcere di Velletri il 24 luglio 2007. “Dopo il suo ingresso in carcere ha cominciato ad accusare inappetenza, vomito, astenia e progressivo peggioramento anoressico, arrivando a perdere oltre 30 chili di peso in pochi mesi”, denuncia l’associazione Acad. “Nonostante le sue scadenti e precarie condizioni di salute, nei suoi confronti non sono state approntati tutti quegli interventi specialistici che il grave e disperato quadro clinico avrebbe richiesto”. Le indagini dei familiari hanno fatto emergere che la causa del decesso è “la diretta conseguenza di un’acuta insufficienza cardiocircolatoria da verosimile aritmia cardiaca in un soggetto con sindrome del QT lungo”. Questa sindrome tuttavia non era stata segnalata nel corso della visita cardiologia effettuata in carcere il 18 aprile 2007, quindi Riccardo non aveva ricevuto l’assistenza che occorreva dato il suo stato di salute. Giuseppe Uva L’artigiano 43enne Giuseppe Uva non muore in carcere, ma all’ospedale di Circolo di Varese, dopo essere stato fermato dai militari Stefano Dal Bosco e Paolo Righetto mentre cercava di spostare delle transenne dal centro della città insieme a un amico. È il giugno 2008. Uva viene portato in caserma e infine trasportato all’ospedale, dove muore la mattina successiva. La corte d’assise di Varese, il 15 aprile 2016, ha assolto i 6 poliziotti e 2 carabinieri accusati di averlo picchiato. Lo scorso 16 maggio il sostituto pg di Milano Massimo Gaballo ha chiesto di condannare a 13 anni i due carabinieri e a 10 anni e 6 mesi i sei agenti imputati nel processo di appello. Secondo l’accusa, la morte di Uva è stata causata dalle “modalità particolarmente violente” dei carabinieri e poliziotti che lo avevano in custodia e che, sia in caserma che in ospedale, lo avrebbero colpito ripetutamente con “percosse e calci”. Al punto da suscitare in lui quella “situazione di stress” indicata dai periti come “fattore scatenante” della “fibrillazione ventricolare” che ha portato alla sua morte. Niki Aprile Gatti Il 24 giugno 2008 Niki Aprile Gatti, 26 anni, muore nel carcere di Sollicciano, a Firenze, apparentemente suicida. Niki lavora per la Oscorp, un’azienda informatica di San Marino coinvolta, insieme ad altre società, nell’inchiesta Premium. La mattina del 19 giugno Niki ha un colloquio con l’avvocato della Oscorp, Marcolini, e successivamente viene arrestato con l’accusa di frode informatica e portato nel carcere di Firenze. La madre di Niki, Ornella Gemini, apprende fortuitamente dell’arresto del figlio, e prova a contattarlo ma viene a sapere che è in isolamento. La signora Gemini inizia a questo punto a ricevere una serie di telefonate e pressioni, da parte di amici e colleghi del figlio, affinché si affidi a un altro avvocato, e non all’avvocato Marcolini. Nel frattempo, nonostante Niki sia in isolamento, gli viene recapitato un telegramma, spedito dalla sua abitazione, in cui gli viene indicato un altro legale da nominare. Lui, che non sa della determinazione della madre, accetta il consiglio. All’indomani dell’udienza di convalida dell’arresto, il 24 giugno, Niki Aprile Gatti muore. La ricostruzione ufficiale è che quella mattina, dopo l’ora d’aria, Niki tornato in cella avrebbe preso un paio di jeans, il laccio di una scarpa e si sarebbe impiccato. Tuttavia emergono numerose contraddizioni sulla dinamica e sull’orario della presunta morte, con testimonianze discordanti (qui i dettagli nella ricostruzione dell’associazione A Buon Diritto). Ornella Gemini chiede la riapertura del caso insieme al Comitato Verità e Giustizia per Niki Aprile Gatti. Stefano Brunetti Arrestato dopo un tentativo di furto in un garage di Anzio l’8 settembre del 2008, Stefano Brunetti, 43enne, muore il giorno dopo all’ospedale di Velletri. Ai medici racconta di essere stato picchiato dagli agenti. Brunetti aveva prima aggredito il proprietario del garage che lo aveva sorpreso e poi gli agenti accorsi sul posto. Dopo essere stato portato in commissariato, avrebbe commesso atti di autolesionismo e sarebbe stato necessario l’intervento della guardia medica per sedarlo. Brunetti viene poi condotto in carcere. Nel processo sulla sua morte, i poliziotti che lo ebbero in custodia sono stati assolti. Nel 2015 il procuratore generale ha chiesto alla Corte d’Assise d’appello la condanna a 10 anni di carcere per i due agenti. Carmelo Castro Carmelo Castro muore nel carcere di Piazza Lanza, a Catania, il 28 marzo del 2009. Ha appena 19 anni. Era stato arrestato alcuni giorni prima per aver fatto il palo in una rapina. Secondo la ricostruzione ufficiale si è suicidato legando un lenzuolo allo spigolo della sua branda, ma la madre Grazia La Venia è convinta che non sia andata così. La sorella di Carmelo e alcune zie, infatti, recatesi alla caserma di Paternò, dove il ragazzo era stato condotto prima di essere portato in carcere, hanno detto di aver sentito “le urla e il pianto di Carmelo provenire dal piano di sopra” e di aver visto poi il ragazzo passare all’esterno con “diversi lividi e segni in faccia”. La madre di Carmelo ha coinvolto l’associazione Antigone per chiedere che fosse fatta chiarezza. Il caso, però, è stato archiviato. Stefano Frapporti Stefano Frapporti muore il 21 luglio 2009 in una cella del carcere di Rovereto. Stava andando in giro in bicicletta quando è stato fermato da due carabinieri in borghese per un’infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio, viene trovato impiccato nella sua cella. Familiari, amici, parenti e solidali si riuniscono in un’assemblea permanente e propongono una controinchiesta, ritenendo che non ci fossero gli estremi per un arresto. Il 18 febbraio 2010 il caso è stato archiviato. Stefano Cucchi La storia di Stefano Cucchi è probabilmente la più nota tra quelle riguardanti i presunti abusi delle forze dell’ordine in carcere, grazie alla battaglia portata avanti dalla sorella Ilaria. Il geometra romano Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre 2009, sei giorni dopo essere stato arrestato per detenzione di stupefacenti. La famiglia di Cucchi ha vissuto ben sette anni di processi, che hanno visto oltre 40 udienze, insieme a perizie, maxi perizie, centinaia di testimoni e decine di consulenti tecnici ascoltati. Lo scorso 15 maggio, il maresciallo dei carabinieri Riccardo Casamassima, principale testimone nel processo contro cinque carabinieri, tre dei quali accusati della morte del geometra romano, ha ribadito in aula le sue accuse ai colleghi. Simone La Penna Il 26 novembre 2009 Simone La Penna, 32enne di Viterbo, è morto di anoressia nel carcere Regina Coeli di Roma, dove stava scontando una condanna per droga. Simone è morto dopo aver perso più di quaranta chili. Sono stati condannati in primo grado per omicidio colposo due medici del carcere che lo ebbero in cura. Carlo Saturno Carlo Saturno ha 22 anni quando nell’aprile del 2011 viene trovato agonizzante in una cella del carcere di Bari. Muore dopo una settimana di coma, il 7 aprile. Era stato arrestato per furto ed era finito in isolamento dopo uno scontro con gli agenti, degenerato probabilmente in un pestaggio. Saturno si era costituito parte civile nel processo contro 9 poliziotti del carcere minorile di Lecce, accusati di aver compiuto violenze sui detenuti tra il 2003 e il 2005. La terza richiesta di archiviazione al gip per l’inchiesta sulla sua morte è arrivata a luglio 2016. Per i fratelli di Carlo, Anna e Ottavio Saturno, il ragazzo potrebbe essere stato istigato o, addirittura, potrebbe non essere stato lui a togliersi la vita. Cristian De Cupis Cristian de Cupis viene trovato morto in un letto nel reparto protetto dell’ospedale Belcolle di Viterbo il 12 novembre 2011. Aveva 36 anni. Tre giorni prima era stato arrestato dalla Polizia ferroviaria alla stazione Termini di Roma, dopo aver aggredito degli agenti. “Dopo alcune ore in cui viene trattenuto in stato di fermo al posto della Polfer, Cristian viene portato al pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito”, si legge sul sito dell’associazione A Buon Diritto. “In effetti, il giovane presentava sul corpo diverse escoriazioni, a detta degli agenti causate dal tentativo violento di sottrarsi all’arresto. Ai medici del pronto soccorso, però, de Cupis riferisce di essere stato vittima di un pestaggio durante il fermo”. Cristian viene trasferito nel reparto protetto dell’ospedale Belcolle di Viterbo, collegato al carcere Mammagialla, dove viene sottoposto a una serie di esami clinici, tra cui una Tac. Le sue condizioni di salute appaiono discrete. Dopo la convalida del suo arresto e la disposizione del gip, che prevede il trasferimento ai domiciliari, il 12 novembre alle 5 del mattino, Cristian viene trovato morto. Francesco Smeragliuolo Il ventiduenne Francesco Smeragliuolo era stato arrestato il 1° maggio 2013 per una rapina. Dopo aver perso 16 chili, è morto nel carcere di Monza sabato 8 giugno 2013. Nel suo caso è stata esclusa l’ipotesi del suicidio, dal momento che in una lettera alla fidanzata scriveva dei futuri progetti insieme. Dall’autopsia risulta che la sua morte è avvenuta per un arresto cardiocircolatorio, ma la madre del ragazzo, Giovanna D’Aiello, sostiene che suo figlio stava bene e vuole vederci chiaro. Così il “contratto” devasta l'umanizzazione della giustizia di Gaetano Insolera Il Mattino, 23 maggio 2018 Leggo l'ultima versione diffusa del “Contratto per il governo del cambiamento”, nelle parti dedicate alla giustizia penale e, quindi, ai diritti di libertà di tutti coloro che sono sottoposti alla legge italiana. Dell'argomento si è già parlato su questo giornale (articolo di Giovanni Verde del 18 maggio), ma aggiungerei qualche ulteriore osservazione. Il “contratto”, in una grottesca veste legale, tale da generare obbligazioni - ma tanto risarebbe da dire sulla incompatibilità costituzionale di varie altre parti dell'atto - se adempiuto implicherebbe un processo di vera e propria devastazione del lento, faticoso, processo di umanizzazione della feroce giustizia penale ereditata con il codice Rocco del 1930 e dalla legislazione fascista, un processo di adeguamento a principi e regole previste dalla Carta costituzionale. Dopo alcuni interventi urgenti adottati già dal governo di Salerno e quelli successivi sul codice inquisitorio di procedura, penso, ad esempio, a un decreto legge del 1974 che consentì di evitare pene e cumuli di pena indecenti e, a proposito delle onnipresenti aggravanti del furto, punizioni esemplari, spesso nei confronti di fatti di minima entità lesiva. Nel 1975 la cosiddetta legge Gozzini, seguita qualche anno dopo dalla cosiddetta legge Simeone-Saraceni, prevedendo alternative al carcere, fu coerente con la tendenza rieducativa delle pene, in base all'art. 27 della Costituzione, ma soprattutto, con indicazioni volte ad attribuire, anche a chi soffre il carcere limitati diritti fino ad allora negati Ma, progressivamente, con pause e timidezze, al fallimento di riforme organiche, supplì la Corte costituzionale. Tra gli anni 70 e 80 il volto del nostro sistema penale comunque si modificò, con una forte flessione della popolazione detenuta. E proprio alla fine degli anni 80, l'approvazione di un nuovo codice di procedura, che voleva abbandonare la millenaria tradizione inquisitoria, sembrò suggellare un virtuoso, seppure lento, percorso di civilizzazione del diritto penale. Ma le cose, purtroppo, non andarono in questo modo. In quello scorcio temporale, terrorismo politico e mafia diedero il via ad una legislazione di emergenza che riempì il sistema di deroghe a dirime garanzie previsti per imputati e condannati (il cosiddetto doppio binario). Al progressivo, generale, ritorno all'inquisitorio contribuirono larghi settori della magistratura - il vecchio sistema era rimasto nel cuore - e, ahinoi, anche la Corte costituzionale. E poi, senza qui ipotizzare nessi tra causa ed effetto: Tangentopoli, la liquefazione dei partiti politici costituenti, l’entrare in scena di attori politici trasformati o del tutto nuovi, ancora, con il maggioritario, 1' affermarsi di un bipolarismo, che tuttavia aveva contenuti ideologici incerti, incapaci di determinare un' azione politica dotata di coerenti disegni. È in questo contesto che la logica dell'emergenza si installa stabilmente nel sistema, talvolta con scarse differenze nelle iniziative degli schieramenti contrapposti. Rispetto ai fenomeni criminali che la giustificarono, poco importa che il terrorismo politico sia stato sconfitto, così come la mafia che mise in scacco lo Stato per anni. Certo esistono ancora organizzazioni criminali ricondotte a quel nome, ma sono oggi fronteggiate con strumenti normativi sempre più penetranti. Quel diritto penale di lotta si è poi esteso ininterrottamente nei confronti di altri fenomeni criminali. Oggi la vedette è soprattutto la corruzione: nel “contratto” colta in tutti i reati contro la Pubblica amministrazione. Con un'assunzione del concetto di tipo morale, quasi religioso. Breve, già prima dei risultati del 4 marzo, nessun precedente governo poteva chiamarsi fuori dall'accusa di aver utilizzato la questione della criminalità in quello che è stato definito un marketing politico, rivolto alle più svariate insicurezze sociali rappresentate dai media, per ottenere consensi elettorati, divenuti imprevedibili sulla base di promesse economiche e sociali realistiche e coerenti. Realismo assente, ad esempio, a proposito dei dati sulla corruzione dilagante: rappresentata e niente affatto percepita, sulla base di autorevoli ricerche empiriche; ma, si dirà, gli autori saranno i soliti “specialisti” della casta. Chiarito tutto ciò - il populismo penale giustizialista del “contratto” non è nato come un fungo - il punto è che quella che vuole essere la magna carta grillino/leghista della Terza Repubblica, rende solo più brutale, rozza ed incerta una pan-penalizzazione, il cui humus era già predisposto e dissodato. Al parossismo illimitato col quale si immagina la difesa legittima domiciliare, corrisponde la risposta dura nei confronti della delinquenza minorile, un ulteriore passo verso l'abolizione della prescrizione, una indefettibilità della pena che travolge tutti gli istituti deflattivi del processo e alternativi al carcere. Per il processo, revisioni del rito abbreviato, escludendone i benefici per i reati più gravi, aumento nell'uso delle intercettazioni. Ovviamente lotta alla corruzione (“per tutti i reati contro la Pubblica amministrazione di tipo corruttivo”) con il potenziamento del potere dell'Anac, l'uso di agenti provocatori, maggiore tutela degli whistle-blower (cioè la regola del sospetto e della delazione nei luoghi di lavoro). E poteva mancare il potenziamento degli strumenti normativi e amministrativi di contrasto alla mafia? Come se i governi precedenti fossero stati con le mani in mano! Ho dimenticato sicuramente qualcosa. Ma è certo: le clausole esprimono con immediatezza le intenzioni e sono talmente generiche da consentire qualsiasi brutalizzazione del sistema e dei diritti di tutti coloro che, a torto o a ragione, avranno la sventura di incontrare il Leviatano giallo-verde. Francesco Nitto Palma: “giustizia, l’argine allo scempio sarà Mattarella” di Errico Novi Il Dubbio, 23 maggio 2018 La sintonia panpenalista di Lega e M5S non sorprende Nitto Palma, che da presidente della commissione Giustizia l’aveva già notata. “Mattarella rinvierà le leggi alle Camere”. “Si certo, nella scorsa legislatura la Lega ha assunto posizioni sulla giustizia che non sempre coincidono con i propositi inseriti nel contratto di governo. Però potrei citare vari casi in cui la convergenza con i Cinque Stelle è stata chiara, e allo stesso tempo ispirata a una visione non ragionevole del diritto penale: ad esempio, l’innalzamento delle pene per i reati di corruzione”. Francesco Nitto Palma è stato guardasigilli e, nella legislatura precedente, ha presieduto la commissione Giustizia di Palazzo Madama: pochi meglio di lui possono avere idea di quale fosse il mood leghista sulle norme penali, e dire fino a che punto sia sorprendente il sì alla stretta che il programma annuncia. Palma non si stupisce ma neppure si spaventa: “Si possono annunciare le leggi più restrittive, ma tra proclami e produzione legislativa c’è di mezzo un bel po’ di ostacoli”, ricorda il magistrato che ha retto il dicastero di via Arenula nel 2011, “e c’è soprattutto il presidente della Repubblica. Che su norme non proprio equilibrate potrà esercitare il suo vaglio ed eventualmente rimandare le leggi alle Camere”. Onorevole Palma, siamo nel pieno di una dialettica non semplice tra il Quirinale e le due forze che si accingono a governare. Lei dice che in ogni caso non finisce qui. E che i programmi bellicosi sulla giustizia di Lega e M5S dovranno fare i conti con il Quirinale... Voglio attenermi a quanto leggo nel contratto di governo. Vogliamo considerare la prescrizione? Si pensa di riformarla, evidentemente con un ulteriore allungamento. Già nella scorsa legislatura si è agito su tale istituto in modo da innalzare la durata possibile di un processo per corruzione oltre la soglia dei 21 anni. Vogliamo arrivare a 35? A 40? Scherza? No. Non escludo niente. Ricordo solo una cosa: sia la nostra Costituzione che la Convenzione europea dei Diritti dell’uomo sanciscono il principio secondo cui un processo deve avere una durata ragionevole. Ecco, un ulteriore allungamento dei termini di prescrizione, mi chiedo, sarebbe costituzionale? Ove non lo fosse, Mattarella potrà rinviare la legge alle Camere, con un messaggio. La nostra Carta glielo consente. Vado avanti? Prego. Un secondo punto notevole mi pare quello dell’agente provocatore. Il nostro ordinamento conosce la figura dell’agente sotto copertura, nata a partire da un processo per reati di riciclaggio di cui mi sono personalmente occupato. La figura dell’agente provocatore ci è invece sconosciuta. Si tratta di qualcuno che dovrebbe incitare qualcun altro a commettere un reato, e che dunque andrebbe perseguito. Si può anche prevedere che l’autorità giudiziaria autorizzi per esempio l’agente a promettere denaro. Ma si configurerebbe un reato in concorso e che può essere ripetuto nel tempo: i problemi di costituzionalità sarebbero di fatto insuperabili. Anche qui spetterebbe a Mattarella valutare la manifesta illegittimità. La dialettica tra nuova maggioranza e Colle insomma non potrà limitarsi alle questioni del bilancio... E no. Basti pensare, ancora, alla legittima difesa. Oggi, perché la reazione a un tentativo di rapina possa essere considerata legittima, deve esserci attualità del pericolo. Si vuole riscrivere la parte del Codice penale relativa a quest’ambito in modo da evitare, in pratica, che il fatto generi un processo. Ma si sottovaluta che la fattispecie deve essere abbastanza generica da inglobare la miriade di casi possibili, e che è il giudice, inevitabilmente, a dover valutare la rispondenza di un certo evento alla fattispecie: ora, se a introdursi in casa non è un commando di rapinatori armati ma una zingarella 12enne, davvero si pensa di poter evitare che nasca un processo? E con quale giustificazione? Se ci si sforza di trovarne una, sarà Mattarella, di nuovo, a valutare se tale giustificazione ponga o no un problema di manifesta incostituzionalità. E siamo a tre possibili over rule del Colle sulla giustizia. Se ne potrebbe prevedere un altro qualora si mettesse mano alla legge Gozzini? Vedo che nel programma di Lega e Cinque Stelle si ipotizza un’abrogazione di norme che nella precedente legislatura hanno ampliato l’accesso ad alcuni benefici. È vero che tali modifiche, due in particolare, scontano a mio giudizio un limite: generalizzano e rendono poco selettivi i meccanismi premiali. Tanto è vero che la riforma di cui Lega e M5s già cantano il de profundis introduce una maggiore personalizzazione del trattamento e dunque del diritto a beneficiare di tali istituti... Quello che è certo è che se si arriva, come prefigura il contratto, anche alla compressione di tutti quei precedenti istituti che tendono alla rieducazione del condannato, compresa la legge del 75 e la Gozzini, ci si mette apertamente contro l’articolo 27 della Costituzione, che sancisce il fine rieducativo della pena, e di nuovo si dovrà mettere in conto un possibile rinvio alle Camere da parte di Mattarella. Insomma, il piano draconiano sulla giustizia non è così semplice da realizzare. Le ho elencato quelle voci del programma per ricordare che una cosa sono i proclami da campagna elettorale, altro è tradurre le ipotesi in testi di legge: a prescindere da quanto possa essere solida una maggioranza, bisogna sempre fare innanzitutto i conti con la Costituzione. Ma non è stupefacente la virata della Lega su posizioni che, rispetto al processo penale, non aveva mai manifestato? Mai? Ricordo cosa è successo, nel periodo in cui ho presieduto la commissione Giustizia, con l’innalzamento delle pene per i reati contro la pubblica amministrazione: tra Lega e il Movimento di Grillo vi fu pieno accordo. E si pensò bene di ritoccare non solo i massimi edittali ma anche i minimi. Nel caso della corruzione propria, la pena più bassa è salita a 8 anni. Vuol dire che, pur con tutte le attenuanti generiche e l’abbreviato, anche un vigile urbano che intasca una piccola mazzetta e sorvola su una multa deve scontare una condanna non inferiore a tre anni e mezzo. Un po’ troppo. Scompare quel margine che consente di modulare la pena sul fatto e sulla personalità del soggetto: si finisce per calibrarla solo sulle aspettative della gente. Un approccio irrazionale, opposto a quello dei nostri Costituenti, e al quale credo che il presidente della Repubblica si riferisse, quando in uno dei suoi ultimi discorsi ha citato Einaudi. Lega e Cinque Stelle avranno pure il diritto di governare ma hanno il dovere di farlo senza provocare sconquassi. E se non fossero così attenti, ci sarà il Capo dello Stato a garantire l’equilibrio. Gennaro Migliore: “sarà il governo più giustizialista della storia d’Italia” di Giulia Merlo Il Dubbio, 23 maggio 2018 “Il governo Lega-5 Stelle ha un programma giustizialista che ci farà fare un passo indietro di almeno quarant’anni”, avverte il sottosegretario alla Giustizia del governo Gentiloni, Gennaro Migliore, il quale però ammette che “nel Pd c’è un problema e serve un Congresso che faccia chiarezza”. Tra meno di qualche giorno, potrebbe nascere il primo governo giallo-verde... E’ un governo che nasce sotto auspici decisamente negativi, anche perché Di Maio e Salvini ci hanno fatto aspettare 82 giorni ma fin dall’inizio era chiaro che questo sarebbe stato l’unico esito possibile. Del resto i segnali erano chiari: il consulente di Trump, Steve Bannon, lo aveva previsto immediatamente dopo il 4 marzo e le prime felicitazioni arrivate sono state quelle di Marine Le Pen. Insomma, siamo di fronte a un impianto sovranista e sfascista, tipico della natura dei 5 Stelle e in parte anche della Lega. Teme che realizzino il loro programma? Il contratto di governo è la conferma plateale del pericolo al quale andiamo incontro. La loro proposta programmatica è la più giustizialista della storia della Repubblica e, se verrà realizzata, fa- rà fare un salto indietro alla cultura giuridica del nostro Paese. Mi riferisco alle misure sul carcere e all’abbassamento dell’imputabilità dai 14 ai 12 anni, per esempio. Anzi, mi faccia dire che sono sorpreso che non ci sia stata alcuna mobilitazione da parte dei giuristi: il nostro governo ha subito scioperi perché non era celere nell’approvare alcune norme, che questo governo punta a cancellare in tronco. Come andrà a finire, secondo lei? E’ un esperimento con due possibili conclusioni: o sarà un completo disastro, anche in relazione alle scelte di ministri e di premier inesperti. Oppure sarà il laboratorio di un progetto sovranista che punta a mettere in discussione l’essenza stessa dell’Unione Europea. Partiamo dalla prima conclusione. Sul premier in pectore, Giuseppe Conte, già impazza la polemica... Io mi chiedo, onestamente, perché una persona che si vanta di essere molto titolata senta il bisogno di introdurre nel suo curriculum titoli che non ha. Serviva davvero scrivere di aver frequentato la New York University, per poi farsi correggere maldestramente dall’ufficio stampa dei grillini? C’è da dire, però, che i 5 Stelle hanno una lunga tradizione di curriculum taroccati, compreso quello del presidente della Camera Roberto Fico. A me, però, preoccupa di più ciò che nel cv non è indicato: Conte è stato uno dei sottoscrittori di una fondazione che finanziò la Fondazione Stamina, cioè una truffa ai danni nei malati. Ecco, questo mi sembra tipico di una modalità di scelta opaca da parte dei 5 Stelle, che nascono con lo streaming e muoiono nelle sedi nascoste dove si spartiscono le sedie di improbabili governi. E Sul fronte dell’Unione Europea? Sono già arrivate forti e chiare le critiche che arrivano da tutto il mondo istituzionale europeo e mondiali. Il contratto di governo mette in pericolo i risparmi degli italiani, come è evidente dall’andamento della Borsa e dello spread. La flat tax favorisce smaccatamente i ricchi, mentre il reddito di cittadinanza è già stato dato per irrealizzabile. Di Maio ha già detto che è una misura subordinata alla riforma dei centri per l’impiego, peccato che il maggior consulente 5 Stelle, Domenico De Masi, abbia già detto che solo per fare questa servono 5 anni. In pratica il reddito di cittadinanza sarà argomento anche della loro futura campagna elettorale. Eppure il Pd, in questa fase, sembra essere davvero stato messo a margine. Io non nego che il mio partito abbia un problema ad elaborare la sconfitta. Non manca tanto l’analisi delle cause della bocciatura della nostra proposta di governo, c’è invece difficoltà nel riconoscere il fatto che il fallimento non è stato solo di Matteo Renzi, ma anche di tutti gli ex ministri del governo Gentiloni che certo non possono davvero considerarsi innocenti. E come si esce da questa impasse? Dobbiamo aprirci di più all’esterno, costruendo un’idea di società diversa da quella proposta da Lega e 5 Stelle e ripartendo dai nostri punti identitari: la difesa della giustizia sociale e la necessaria riforma delle istituzioni. Sul fronte interno, invece, è assolutamente fondamentale fare un congresso, in modo da rispondere in modo adeguato alle esigenze del Paese. Il congresso sarà un momento in cui con la massima franchezza elaboreremo la linea politica e sceglieremo la nostra leadership, spero dimenticando le scene da stadio dell’ultima assemblea nazionale. In effetti nell’assemblea di sabato scorso sono volati stracci. Lei come ha vissuto quella giornata? La situazione è stata a dir poco imbarazzante. Lo dico a quelli che hanno voluto fare gazzarra: bisogna darsi uno stop, perché all’esterno non ci capiranno. C’è stata una polemica assurda, tutta volta a non far parlare Renzi come se far esprimere qualcuno fosse un problema: le discussioni sono ben accette, ma non si può pensare che la legittimità a parlare la decida una curva. Ho assistito a interruzioni aggressive agli interventi che non si condividevano, come è successo a Roberto Giachetti. Non è un caso che tantissimi se ne siano andati: non due persone risentite e permalose, ma ben 500 membri della nostra comunità. Ora la domanda è, cosa faranno i renziani? Non ci siamo ancora mai strutturati come area: essendo noi espressione della maggioranza, abbiamo scelto la via della responsabilità di non frammentare ancora il partito. Sono stati altri ad organizzare correnti, alcune legittime perché frutto di una componente congressuale come quelle di Orlando ed Emiliano, altre meno legittime. Ora, in vista del congresso, decideremo cosa fare. E nel frattempo? Nel frattempo il Pd deve investire in iscritti, militanti ed elettori. Il nostro errore dopo la sconfitta è stato quello di rimanere troppo seduti, anche a fronte di tanti che volevano iscriversi al Pd e sono rimasti frustrati perché il partito era fermo. Questo è un dato preoccupante a cui porre rimedio. Martina è davvero ancora legittimato a parlare a nome del Pd? Per me valgono le decisioni assunte dall’assemblea. Maurizio Martina è il segretario reggente e come tale è una figura di garanzia, in vista di procedere al congresso e scegliere un leader con piena legittimazione. Per ora, Martina ha piena autonomia rispetto a quello che è il suo mandato. L’antimafia autocertificata e i nuovi giustizialisti di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 23 maggio 2018 Oggi cade l’anniversario della strage di Capaci e, come ormai da anni, arriveranno a Palermo centinaia di ragazzi da tutta l’Italia per testimoniare la consapevolezza di un evento drammatico e la pericolosità delle varie mafie che ormai si sono insediate anche nelle loro regioni di provenienza. Non è un rito inutile e stucchevole, almeno non per loro, anche se bisognerebbe renderlo più comprensibile con esempi concreti che però non sono troppi ed anzi spesso nella vita di tutti i giorni, nel tanto decantato sociale, sono di segno contrario. La fase discendente dell’antimafia “sociale” infatti sembra non avere fine e il recente arresto ai domiciliari di Antonello Montante assesta un ulteriore colpo alla credibilità di un fronte che, comunque, svolge uno strategico ruolo complementare alla repressione giudiziaria. Ferma restante l’ovvia attesa di tutte le verifiche processuali per Montante, non si possono ignorare i precedenti casi di mala antimafia e di tutte le compiacenze o, ad essere buoni, le distrazioni istituzionali, che li hanno accompagnato. Forse è stato già dimenticato l’arresto di Roberto Helg che pretendeva tangenti nella sua qualità di presidente della Camera di commercio di Palermo, organo al quale era stato preposto nonostante fosse stato dichiarato fallito in una sua precedente attività imprenditoriale: da quel pulpito però tuonava contro la mafia e la corruzione. È poi in corso a Caltanissetta il processo a Silvana Saguto per la mala gestione della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Anche in questo caso tutti sapevano, dentro e fuori il palazzo di giustizia, ma nessuno ha mosso un dito, anche perché l’interessata, “dura e pura”, inflessibile nei sequestri e nelle confische, era diventata una delle icone antimafia e punto di riferimento per le tante associazioni che si occupano dei beni confiscati. Neppure era un mistero che Antonello Montante, personaggio di primo piano di Confindustria, e delegato al settore legalità e antimafia della stessa pur essendo indagato per concorso esterno aveva un notevole peso politico nel governo regionale presieduto da Rosario Crocetta e ora si ritrova investito da una bufera giudiziaria per dossieraggio non certo finalizzato al contrasto alla mafia. La triste realtà è che questo mondo, fatto soprattutto di associazioni e di grandi personaggi, ha puntato sulla quantità più che sulla qualità dell’impegno antimafia e così tutti si sono sentiti legittimati a rilasciare patenti di anti mafiosità a chiunque la richiedesse, previa adesione o autocertificazione, senza andare troppo per il sottile. I danni maggiori però si sono avuti nel campo della legislazione, che nel corso degli anni si è sempre più “incarognita”, apparentemente contro la grande criminalità ma per la quale, come sempre, ne pagheranno le conseguenze i più deboli specie se Di Maio e Salvini realizzeranno il capitolo giustizia del loro contratto. Il fronte antimafia, pur pagando ossequio formale al garantismo, è stato prevalentemente giustizialista con richieste di sempre maggior rigore per tutti e in ciò ha ben presto incontrato le complementari pulsioni manettare della Lega e dei grillini. Questa possente spinta giustizialista, propugnata anche da magistrati molto in vista, ha investito innanzitutto il Pd che ha iniziato con l’estendere ai reati di corruzione la legislazione antimafia sulle misure di prevenzione, misure fuori dalle regole del giusto processo e tollerate a stento dalla Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, solo perché applicate a una criminalità specifica e altamente pericolosa, per finire con l’affossamento doloso della riforma penitenziaria. E così a Di Maio e Salvini è stato facile programmare un capitolo giustizia che azzera tutte le conquiste di civiltà giuridica, a partire dalla legge Gozzini in poi. Esempio: costruire nuove carceri per sfoltire l’affollamento delle vecchie strutture e poi abolire le misure alternative, dimenticare la depenalizzazione e aumentare le pene vuol dire solo riempire il più rapidamente le nuove carceri creando nuovi affollamenti, con la solita prevalenza degli emarginati. Ai ragazzi che verranno a Palermo per ricordare Falcone e Borsellino bisognerebbe dare l’esempio di regole ispirate alla giustizia e alla tolleranza, con il rispetto del prossimo, sia esso anche deviante o migrante, come Costituzione comanda, altrimenti il loro viaggio sarà solo una gita scolastica. Spartizione tra correnti e zero meritocrazia: il “libro nero” del Csm di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 23 maggio 2018 C’è un documento contro il sistema nomine del Csm nella mailing list dei magistrati che mette nero su bianco, con tanto di esempi, quanto pesino correnti e politica nella scelta dei capi degli uffici giudiziari. L’ha scritto Autonomia e Indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo, in vista delle elezioni per il rinnovo del Consiglio previste l’8 e il 9 luglio. Nel documento ci sono decine di esempi di nomine “lottizzate”. Tutte senza nomi, ma per chi segue questo mondo sono intuibili: Giovanni Melillo, diventato procuratore di Napoli dopo essere stato capo di Gabinetto del ministro Andrea Orlando “per oltre tre anni e fino a pochi mesi prima della nomina. L’esperienza fuori ruolo viene ampiamente valorizzata anche al fine di determinarne la prevalenza sul piano del merito e delle attitudini”. Donatella Ferranti, ex deputata Pd ed ex presidente della Commissione Giustizia della Camera, approdata direttamente in Cassazione, come giudice, “senza alcuna valutazione della Commissione tecnica”, senza concorso come. invece, prevedono le norme ma “facendo leva sull’attribuzione, meramente formale, delle funzioni di legittimità all’atto della sua nomina a Segretario Generale del Csm”. Lanfranco Tenaglia (Unicost) ex parlamentare Pd, diventato presidente del Tribunale di Pordenone “preferito a magistrati titolati, più anziani e mai fuori ruolo, dei quali uno già ricopriva l’incarico di presidente di Sezione presso il medesimo ufficio”. Viene indicata anche la nomina di Giovanni Ilarda, Mi, come Procuratore Generale a Trento, “votato da Unicost e MI. Era stato Assessore Regionale (in Sicilia con la Giunta Lombardo, ndr) inoltre, non aveva mai svolto funzioni nel distretto di destinazione caratterizzato da oggettive specificità territoriali”. Era stato lo stesso Davigo al congresso dell’Associazione nazionale magistrati, a ottobre, a parlare contro le cosiddette nomine a pacchetto, “una a te, una a me”. Secondo AeI “l’assenza di reali regole oggettive e predeterminate nelle scelte consiliari è la ‘chiave’ di questo super-potere (delle correnti, ndr) che ha creato un solco profondo tra autogoverno e “base” dei magistrati”. Ed ecco l’affondo a questa consiliatura in scadenza: “Si è contraddistinta per la più alta percentuale mai raggiunta di nomine conferite all’unanimità: al marzo 2018 ben 599 su 832 complessive. È inutile dire che frequenti unanimità, spesso deliberate contestualmente, sottendono accordi sui vari posti”. “Atti - visti di corrente” o “provenienti direttamente da incarichi fuori ruolo” hanno “scavalcato magistrati molto più anziani e riconosciuti come più meritevoli dalla comunità dei magistrati”. È pure aumentato il peso della politica: c’è “la chiara sensazione che la politica e i collegamenti con la politica oggi contano, e molto, nelle scelte consiliari. Spesso i componenti laici (di nomina parlamentare, ndr) hanno avuto un peso decisivo e quasi sempre una parte di essi ha votato insieme ad un gruppo consiliare (i laici del centro destra con MI)”. Ed ecco i numeri: “È stata raggiunta la cifra record di ben 18 magistrati” nominati per incarichi direttivi “provenienti direttamente da prolungati incarichi fuori ruolo, alcuni dei quali di rilevante esposizione politica”. Quanto alle nomine in Cassazione, sono state deliberate “se mp re all’unanimità col noto sistema dei pacchetti, che consente una ripartizione dei posti tra i vari gruppi”. Il diritto alla libertà passa per la protezione dei dati di Giusella Finocchiaro Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2018 Non di solo diritto si tratta. Non è solo una questione giuridica. La protezione dei dati personali è un tema culturale, politico ed economico. E la visione complessiva non va persa proprio in questo momento in cui l’attenzione di tutti, considerata la data del 25 maggio in cui il regolamento europeo diverrà applicabile, è concentrata sugli adempimenti. Spesso purtroppo con un approccio formalistico e affrettato, che perde di vista il mutamento di filosofia che informa il regolamento. Non solo di Gdpr si parla nel bel libro di Antonello Soro, presidente del Garante della privacy, in uscita domani, “Persone in rete. I dati tra poteri e diritti”, ma di informazioni e di governo delle informazioni, con più ampio respiro. L’informazione è il bene giuridico, con un valore economico crescente, al centro del mercato digitale. Il nuovo petrolio. Per questo la protezione dei dati personali assume un valore strategico nella costruzione del mercato unico digitale europeo, insieme al riconoscimento dell’identità online. Ciò spiega anche la contrapposizione politica fra Europa e Stati Uniti e il serrato confronto che ha avuto luogo su alcune scelte europee, quali quella del diritto all’oblio. Sono certamente culture, anche giuridiche, diverse, che si misurano, ma al centro ci sono soprattutto interessi economici. Sono le informazioni il bene da proteggere e il valore economico ad esse connesso. La conferma del fatto che il mercato digitale sia l’obiettivo politico europeo è nella forte affermazione contenuta nel regolamento europeo del principio della libera circolazione dei dati, necessaria al mercato digitale europeo. Si tratta di un tema anche politico, che tocca quello della governance di Internet. Come scrive Soro, “gli Over-The-Top, ovvero i giganti del web, intervengono sempre più` spesso, in un regime prossimo all'autodichia, su temi di rilevanza primaria, quali informazione e diritto all’oblio, libertà di espressione, dignità e tutela dalle discriminazioni, veridicità delle notizie diffuse”. Il libro è dedicato “a Stefano Rodotà, un grande maestro, un riferimento indimenticabile per quanti amano la libertà e condividono la cultura dei diritti”. E muove nel suo affresco dalla dimensione di libertà che occorre ridefinire per dare un nuovo senso al diritto di libertà che, secondo la Carta dei diritti fondamentali della Ue, è il diritto alla protezione dei dati personali. E la nuova libertà da conquistare è anche costituita dall’accesso alla conoscenza, mediato ora da motori di ricerca e social network. “E nell’epoca della disintermediazione e delle post-verità-afferma l’autore - le sfide dell’informazione complicano ulteriormente la tenuta e il senso della democrazia”. La disinformazione passa anche per “un’opacità da eccesso di trasparenza, che ostacola, anziché favorire, la conoscenza diffusa delle modalità di gestione della cosa pubblica”, ancora una volta puntando alla quantità piuttosto che alla qualità, alla mole indistinta di informazioni da pubblicare, piuttosto che alla loro qualità. L'attribuzione di sempre maggior valore ai dati personali dovrebbe sempre più rendere evidente la necessità di proteggere, appunto, ciò che ha - quantomeno - un significativo valore economico. Occorre “investire sulla sinergia tra protezione dei dati e cybersecurity - scrive ancora Soro - quale presupposto di libertà e sicurezza, che tornerebbero a essere valori complementari e non antagonisti, quali del resto l’ordinamento europeo li delinea, nella consapevolezza di come la democrazia viva necessariamente di entrambi”. Il libro si chiude sugli interrogativi posti dall'intelligenza artificiale, dai big data e dall'algocrazia. Molto più che un insieme di “scorci”, come li definisce l’autore, ma piuttosto una importante prospettiva, non solo giuridica, sulla protezione dei dati personali. Sanzioni privacy ad alta tensione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2018 Decreto Regolamento Ue 679/2016 Non sarà facilissimo il coordinamento tra penale e amministrativo quando sarà in vigore la nuova disciplina a tutela della privacy. Almeno quella prevista dal decreto che adegua il nostro ordinamento giuridico al Regolamento europeo n. 679 del 2016, a sua volta in vigore tra 48 ore. Il problema è che la miscela tra i due ingredienti potrebbe anche rivelarsi indigesta. Infatti, se è vero che è stato conservato (e accresciuto) un robusto, quanto a sanzioni, presidio penale per le principali violazioni, tuttavia è stato modificato (pur rimanendo reato di danno) l’elemento soggettivo del delitto, che non è più alternativamente la volontà di trarre profitto o di provocare un danno, ma solo la prima. E c’è già chi sostiene che la diffusione di foto “spinte” senza il consenso dell’interessato, ma per vendetta personale, potrebbe uscirne depenalizzata, come pure quella di altri dati critici come quelli sanitari se non sarà provata la volontà di ricavarne un profitto. E qualche problema di tassatività, anche se la Corte costituzionale si è sempre dimostrata molto tollerante sul punto, potrebbero averlo anche le altre due disposizioni penali di nuovo conio, quelle che fanno riferimento al numero “rilevante” di persone i cui dati possono essere acquisiti o diffusi illegalmente. Ma i punti di tensione più forti sono quelli dell’intreccio tra versante penale e amministrativo. Le sanzioni previste dal Regolamento sono fissate solo nel limite massimo, che nei casi meno gravi è individuato in 10 milioni di euro e nei più gravi in 20 milioni di euro. Per le imprese il regolamento prevede sanzioni fino al 2% - 4% del fatturato. Si delinea, dunque, un quadro sanzionatorio potenzialmente molto più severo rispetto all’attuale. La previsione del solo limite massimo della sanzione amministrativa pecuniaria attribuisce poi ampi margini di discrezionalità al Garante, chiamato a infliggere le sanzioni. Sanzioni quindi assai severe e di natura “para-penale”, tanto da fare ritenere già nelle prime valutazioni opportuno un aggiustamento del procedimento davanti al Garante, in adesione peraltro a quanto sancito negli ultimi anni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo quanto a rispetto dei principi del giusto processo. Rispetto che si deve tradurre in una serie di garanzie procedurali anche solo quando il procedimento potrebbe concludersi con sanzioni formalmente amministrative ma di natura assai pesante. Tutto da valutare poi il peso del ne bis in idem, anche qui sul piano sostanziale naturalmente, visto che alcune condotte, dal trasferimento all’estero di dati sensibili, al trattamento di d ati giudiziari, al telemarketing, potrebbero rivelarsi suscettibili di una potenziale doppia sanzione. Andrà cioè valutato il peso della previsione del “nocumento” nell’ipotesi base di misura penale, se cioè basta la sua previsione per considerare la norma penale come speciale e quindi prevalente in caso di sovrapposizione con quella amministrativa. In ogni caso, altri scenari si aprono poi sul Garante, di solito il primo a muoversi di fronte a infrazioni: dovrà evitare di applicare la sanzione e inviare gli atti alla Procura? Oppure dovrebbe essere introdotto un meccanismo di “sonno” della misura amministrativa in attesa di definizione del versante penale? La Consulta, “bene il carcere per chi imbratta” di Andrea Cegna Il Manifesto, 23 maggio 2018 La Consulta ha confermato che carcere e multe a tre zeri sono costituzionalmente accettabili per il reato di imbrattamento. La sentenza, la numero 102/2018 ha considerato inammissibili le due ordinanze di rinvio che sollevavano l’eccezione di costituzionalità dell’articolo 639. Era stato il giudice della Sesta sezione penale del foro di Milano, Alberto Carboni, durante un processo in cui stava difendendo un graffitaro a chiedere l’intervento della Corte Costituzionale poiché il reato di imbrattamento prevede pene più alte di quelle previste per il più grave reato di danneggiamento, che vede come sanzione economica. Questo perché con il Dlgs 7 del 2016 il reato di danneggiamento generico, senza aggravanti, è stato depenalizzato. Alberto Carboni si è ispirato all’articolo tre della costituzione che stabilisce che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. E nell’ordinanza rivolta alla Consulta scriveva “è certamente irragionevole e arbitraria la decisione di sanzionare più severamente le condotte che cagionano un’offesa meno grave (deturpare e imbrattare) rispetto a quelle che pregiudicano il medesimo bene giuridico provocando un nocumento maggiormente significativo (distruggere, disperdere, deteriorare, rendere in tutto o in parte inservibile)”. Per la Consulta, però, il reato di imbrattamento altro non è che una delle aggravanti del reato di danneggiamento, quindi non ci sono elementi di incostituzionalità. “Per dirla in maniera semplice” ci dice l’avvocato Domenico Melillo “la Consulta ha ritenuto che la norma “punisci writer” legittimamente applichi la reclusione in quanto quella pena è stata elaborata e prevista per delle condotte di natura diverse dal danneggiamento e che sembrano opportunamente previste in scelte di politiche criminali”. Melillo, tra i massimi esperti del Foro milanese in materia, non si dice però sorpreso dalla scelta della Corte Costituzionale, perché “l’illegittimità della norma così com’era stata sollevata dal giudice rimettente aveva delle falle nel ragionamento”. Il tema politicamente è molto caldo tanto che il collettivo “Wiola Viola” di Milano già a gennaio aveva lanciato una petizione contro carcere e multe per chi colora sui muri, e aveva raccolto centinaia di firme tra i quali Moni Ovadia, Wu Ming, Caparezza, Ivan il Poeta, Massimo Carlotto, Sandrone Dazieri, Frode, Pao e i 5 membri de Lo Stato Sociale. L’azione del collettivo è nata perché proprio a Milano nel novembre del 2017 è arrivata la prima sentenza italiana di carcerazione per un writer, e già nel marzo dello stesso anno alcuni ragazzi spagnoli furono colpiti da daspo. Videoconferenza esclusa se è finito il “carcere duro” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenze 22039/2018. La partecipazione a distanza, estesa dalla recente riforma del processo penale, è la sola modalità di partecipazione alle udienze per chi è detenuto al 41bis. Ma questa esclusività termina con la conclusione dello stesso regime del “carcere duro”. Non può essere cioè protratta nel tempo, indiscriminatamente. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza della Quarta sezione penale n. 22039. La sentenza mette in evidenza come, anche dopo la riforma della partecipazione attraverso videoconferenza al processo penale, disposta con la legge n. 103 del 2017, la partecipazione al dibattimento avviene sempre a distanza quando si procede nei confronti di un detenuto al quale “sono state applicate le misure di cui all’articolo 41bis comma 2 della legge 26 luglio 1975, n. 354”. Un’espressione che, nella lettura della Corte, rende evidente come non sia possibile ritenere, come invece avevano fatto sia i giudici di primo grado sia quelli di appello, che la partecipazione a distanza deve sempre essere prevista anche nei confronti di chi non è più al 41bis. La Sentenza ricorda allora che il riferimento fatto dalla legge è a una situazione in atto e non, come invece ritenuto, anche a una situazione relativa al passato. In questo senso deve essere considerato fondato il ricorso presentato dalla difesa, con la quale si sottolineava come, in caso contrario, si darebbe vita a un’interpretazione estensiva della norma che non sembra essere in sintonia con le intenzioni della legge, quasi a creare un “marchio” di pericolosità permanente per tutti coloro ai quali è stato applicato il “carcere duro” anche se poi revocato. La riforma, peraltro, ha potenziato, tra le polemiche dei penalisti, la forma a distanza di partecipazione al processo. Il giudice, con decreto motivato, può infatti disporre la partecipazione a distanza quando esistono ragioni di sicurezza oppure quando il dibattimento è di particolare complessità ed è necessario evitare ritardi nel suo svolgimento, anche nei processi celebrati per reati non immediatamente compresi nell’elenco dei più gravi. Stessa sorte spetta alla persona chiamata a testimoniare e che si trova, a qualunque titolo, in stato di detenzione presso un istituto penitenziario. Certo, a mitigare un po’ questa previsione, c’è poi la misura in base alla quale il giudice può disporre, sempre con decreto motivato, anche su richiesta di parte, la presenza alle udienze. E tuttavia è una previsione sempre possibile, almeno in astratto, con una sola eccezione, appunto, quella di chi trova nel regime del 41bis, a evitare ogni rischio di contatto con l’esterno e con le organizzazioni criminali di appartenenza. Viterbo: detenuto di 36 anni suicida si impicca in cella di isolamento affaritaliani.it, 23 maggio 2018 Appello del Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa. Nella serata di lunedì, un uomo di trentasei anni è stato trovato morto nella sua stanza. Il detenuto, in isolamento, si è tolto la vita tramite impiccagione, nonostante la fine della pena tra circa un anno. A denunciare il terribile episodio Stefano Anastasìa, Garante dei detenuti del Lazio, che lancia un appello a migliorare le condizioni di detenzione e le relazioni umane all'interno delle carceri: “A Viterbo, come altrove, non è ancora stato definito il Piano locale di prevenzione del rischio suicidario previsto dall’Accordo Stato-Regioni del luglio scorso - sottolinea Anastasìa. E nel frattempo, come in simili circostanze, si cercheranno le responsabilità ultime: chi dovesse vigilare o perché non fosse stata disposta una adeguata vigilanza. Ma non è questa la soluzione per prevenire tragici eventi come questo. Al contrario, serve un intervento di sistema, sull’intero ambiente penitenziario, che renda più accettabili le condizioni di detenzione e le relazioni umane all’interno del carcere, che faciliti quelle con l’esterno e che limiti alle estreme necessità l’isolamento, considerato dall’Organizzazione mondiale della sanità e dallo stesso accordo Stato-Regioni una vera e propria condizione a rischio suicidario”. Napoli: Poggioreale, “Le Iene” uno spettacolo indegno della vera informazione di don Franco Esposito* linkabile.it, 23 maggio 2018 Qualche anno fa quando nel carcere di Poggioreale alcuni detenuti mi confidavano di aver ricevuto maltrattamenti e anche qualche pestaggio ad opera di agenti della polizia penitenziaria mi sono adoperato a denunciare ciò che mi era stato comunicato alla direzione del carcere, ne parlai con il Garante dei diritti dei detenuti allora la dottoressa Adriana Tocco e anche in un incontro col Cardinale il comandante e la direttrice comunicai ciò di cui ero venuto a conoscenza. Inoltre con una lettera aperta alla polizia penitenziaria invitavo gli agenti a dissociarsi da coloro che commettevano questi abusi. Da allora a Poggioreale sono stati fatti passi da gigante, alcuni agenti sono stati allontanati, altri denunciati alle autorità, infine con l’avvento di un nuovo direttore e un nuovo comandante nel carcere si è incominciato a respirare un aria nuova. E’ iniziato un processo di rinnovamento che attualmente trova continuità con la venuta della nuova direttrice dottoressa Maria Luisa Palma. Credo che sia profondamente ingiusto oggi voler trovare il capro espiatorio per le innumerevoli problematiche che il carcere continua a vivere, la mala sanità, il sovraffollamento, l’inesistenza di spazi per la socialità, la difficoltà a gestire le celle aperte, la presenza di un numero sempre crescente di persone con seri problemi psichici, e non ultimo la carenza di personale : educatori, psicologi, polizia penitenziaria. Credo che oggi sia profondamente ingiusto continuare ad accusare la polizia penitenziaria di abusi nella gestione della sicurezza. Anzi sento il dovere di lodare i tanti agenti che con sacrificio, professionalità e senza risparmio di fatica, gestiscono ciò che sembra tante volte ingestibile. È grazie a loro che oggi possiamo “nonostante Poggioreale” realizzare delle iniziative a favore dei detenuti, spettacoli, attività culturali, religiose, ricreative, sociali, le uniche che possono dare una parvenza di umanità a una istituzione, quella del carcere, che è di sua natura contro l’uomo. Voglio infine sottolineare che oggi proprio grazie a tanti agenti della polizia penitenziaria, anche il servizio del volontariato carcerario può svolgere la sua attività di vicinanza alla persona del detenuto con una attenzione particolare a coloro che vivono in particolare stato di bisogno, spesso segnalati proprio da agenti della polizia che quotidianamente assistono alle sofferenze di una umanità ferita dal male, e tante volte sono i primi a cercare di dare un piccolo sollievo insieme ai volontari. Infine credo che sia profondamente ingiusto oggi soffiare sul fuoco, per creare casi o fare notizia. Poggioreale, visto che purtroppo deve continuare ad esistere, abbia bisogno di chi con la presenza, il sacrificio e l’impegno, cerchi di migliorarlo soprattutto in umanità, non creando divisioni pericolose, sospetti, calunnie, Questo serve solo ad esasperare gli animi e a distruggere quel poco di bene che si cerca di fare. *Cappellano di Poggioreale Roma: detenuti di Rebibbia impegnati nella pulizia delle aree verdi e dei parchi farodiroma.it, 23 maggio 2018 La Sindaco Raggi: “il loro contributo per il verde pubblico favorisce la funzione rieducativa della pena”. Una comunità si costruisce con il contributo di tutti, anche di chi in passato ha potuto commettere degli errori ma che adesso sta scontando una pena; proprio partendo da questa ottica, lo scorso marzo è stata avviata, dal Campidoglio, un’importante iniziativa che vede i detenuti del carcere di Rebibbia impegnati nella pulizia delle aree verdi e dei parchi di Roma. Il progetto, che a giugno vedrà partire il suo secondo ciclo, è partito da Colle Oppio ma è destinato ad estendersi ad altre arre: ieri ad esempio i detenuti hanno lavorato al Parco Schuster, per prendersi cura del verde davanti la Basilica di San Paolo fuori le Mura. “È un’iniziativa che si è sviluppata grazie ad ampie e forti sinergie istituzionali, tramite la sottoscrizione dell’Accordo congiunto Roma Capitale - Ministero della Giustizia e la successiva firma del Protocollo d’Intesa per il progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”. Un lavoro di squadra che ha coinvolto gli assessori Baldassarre, Montanari e Frongia”. La Prima Cittadina ha rivendicato l’importanza e l’essenzialità di questo progetto, aspetto su cui l’Amministrazione a Cinque Stelle si sta spendendo tanto, che rende vivo e concreto l’articolo 27 della Costituzione, ovvero la funzione rieducativa della pena. “Così facendo uniamo due cose: il reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso progetti di pubblica utilità e la tutela del nostro patrimonio ambientale. Una vita fuori dal carcere è possibile. Lo vogliamo dimostrare insieme ai detenuti che per l’occasione hanno voluto scrivere una canzone per raccontare questa loro esperienza”. Milano: al Refettorio Ambrosiano concerto e cena preparati dai detenuti di San Vittore agensir.it, 23 maggio 2018 “La Città InCantata - Storie e canzoni oltre il muro”: è il titolo del concerto-spettacolo dei detenuti di San Vittore, a Milano, con cena solidale preparata dalle detenute della libera scuola di cucina. Una iniziativa a carattere sociale promossa dall’associazione Per il Refettorio Ambrosiano e dalla Caritas Ambrosiana insieme con la direzione della Casa circondariale di Milano San Vittore “Francesco Di Cataldo”, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Provveditorato regionale per la Lombardia e l’Asst Santi Paolo e Carlo. L’appuntamento è per domenica 27 maggio: inizio cena solidale ore 20; spettacolo ore 21. Sede: Refettorio Ambrosiano, piazza Greco 11 a Milano. Il concerto sarà assicurato dal coro “La Nave” di San Vittore e dagli attori di Macrò Maudit Studio; la “cena solidale” preparata dalle detenute della “Marina De Berti A&I onlus libera scuola di cucina” e servita al pubblico dagli ospiti del Refettorio Ambrosiano. Con i testi dei detenuti de L’Oblò interpretati dagli attori di Macrò Maudit Studio e le foto di Nanni Fontana a tradurre musica e parole in immagini, raccolte durante un anno di lavoro in carcere. L’attività del Coro, composto dai detenuti del reparto “La Nave” oltre che da operatori e operatrici del reparto più un gruppo di volontarie e volontari esterni, fa parte del percorso trattamentale contro le dipendenze - oltre che di recupero personale e sociale - a cui i detenuti del reparto aderiscono volontariamente e che fa de “La Nave”, spiega una nota del Refettorio, “un modello finora unico in Italia, modello tradotto quotidianamente in pratica dall’équipe della Asst Santi Paolo e Carlo che allo stesso modo e per le stesse finalità promuove da anni anche la realizzazione de L’Oblò, mensile interamente scritto dai detenuti del reparto”. Turchia. Le purghe infinite, a due anni dal golpe le carceri non bastano più di Marta Ottaviani La Stampa, 23 maggio 2018 Una vera e propria “contabilità del terrore” Sono passati quasi due anni da quel tragico 15 luglio 2016, quando la Turchia ha vissuto il quinto golpe della sua storia, fallito in appena sei ore. Il colpo di Stato fu portato avanti dai reparti delle forze armate legati a Fethullah Gülen, il potente ex imam in auto esilio negli Usa, un tempo alleato del presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, e da qualche anno suo nemico. Quella notte morirono 249 civili, il Parlamento e altri importanti edifici furono bombardati, lo stesso Erdogan scampò alla morte per poco. Sono molti i dubbi che rimangono sulla dinamica di quelle ore, primo fra tutti se i più stretti collaboratori del capo di Stato sapessero quello che stava per succedere o non riuscirono (o non vollero) impedirlo. Di certo, c’è che dal giorno dopo si scatenò un vero e proprio repulisti, che gli osservatori internazionali non hanno esitato a definire “purghe” e che continua ancora oggi. Arresti a raffica Le persone coinvolte a vario titolo nelle purghe, nelle quali rientrano anche quelle in carcere, sono circa 170 mila. Fra queste ci sono anche quelle oggetto di procedimento penale, agli arresti domiciliari, in attesa di giudizio. Per quanto riguarda, nello specifico i curdi, le persone colpite dalle purghe post-golpe, che fanno sempre parte del computo totale di cui sopra, sono circa 10 mila, di cui circa tremila dietro le sbarre. Fra questi ultimi ci sono i due leader del Partito curdo Hdp, Selahattin Demirtas e Figen Yukseldag, 12 deputati, una trentina di sindaci e centinaia di dirigenti locali. In alcuni casi, non ha trovato scampo nemmeno chi stava all’estero. I servizi segreti hanno trovato e riportato in patria 80 presunti golpisti da 18 Paesi. A circa 240 mila persone è stato sequestrato il passaporto, in modo da rendere loro impossibile l’espatrio. Il pugno duro di Erdogan ha creato dei problemi di sovraffollamento carcerario. Nonostante l’amnistia che ha liberato circa 35 mila detenuti per reati minori, i luoghi di detenzione, che sono 384, per una capienza totale di 207.279 persone, ne contengono 228.983. Per questo, entro cinque anni, il ministro dell’Interno Soylu ha annunciato che verranno costruite altre 228 strutture, in grado di contenere un totale di 137.697 futuri carcerati. Carceri piene Gli arresti sono all’ordine del giorno, complice anche lo Stato di emergenza in vigore nel Paese dal 20 luglio 2016. I capi di accusa più frequenti sono adesione o sostegno a organizzazione terroristica oltre a tentato golpe. Le persone che rischiano l’ergastolo sono decine. A essere stati coinvolti sono soprattutto curdi e sospetti appartenenti a Feto, il network che fa capo a Fethullah Gülen e che la Turchia considera un’organizzazione terroristica alla stregua del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan o lo Stato islamico. Stando al ministro dell’Interno, Süleyman Soylu, lo scorso 18 aprile le persone in carcere erano circa 77 mila. Fra questi, stando agli ultimi dati disponibili, ci sono 3200 militari (fra cui diversi generali), 3000 magistrati, 170 giornalisti e persino 1000 imam. Dietro le sbarre ci sono anche migliaia di impiegati pubblici, provenienti soprattutto dal ministero dell’Istruzione (quindi insegnanti), il ministero dell’Interno, il ministero della Salute e almeno un centinaio fra il personale dei servizi segreti. Vite interrotte Chi non è finito in galera, non è detto che abbia tirato un sospiro di sollievo. In quasi due anni, 150 mila persone sono state rimosse dai loro incarichi. Fra queste ci sono circa 24 mila militari, 23 mila poliziotti, 5.800 accademici, 1.300 membri del personale universitario, 4200 magistrati e, anche in questo caso, migliaia di burocrati. Sono state chiuse centinaia di scuole e di accademie militari. Il massiccio intervento nel settore dell’istruzione. Alcuni corsi universitari sono stati chiusi o spostati in altri atenei. Decine di famiglie sono finite sul lastrico. Economia e giornali Il partito di opposizione, il Chp, il Partito repubblicano del Popolo, ha stimato che, in modo diretto o indiretto, il repulisti post-golpe abbia coinvolto almeno due milioni di persone. Il repulisti del presidente si è abbattuto anche sull’economia. Le testate giornalistiche chiuse fra quotidiani, radio e televisioni, sono state circa 189. Ci sono poi circa mille aziende appartenenti a presunti gulenisti che sono state commissariate. In qualche caso queste imprese sono state costrette a chiudere, in altri la gestione è passata a imprenditori vicini all’esecutivo. Myanmar. Quei massacri dei miliziani rohingya di cui non si parla di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 maggio 2018 In questi mesi, giustamente, il mondo si è commosso per le atrocità subite dalla minoranza rohingya nel Myanmar, le cui forze di sicurezza da fine agosto hanno avviando una campagna di pulizia etnica fatta di uccisioni, stupri, torture, incendi di villaggi, riduzione alla fame e altre violazioni dei diritti umani. Oltre 693.000 rohingya sono stati costretti a fuggire in Bangladesh, dove si trovano tuttora. Nulla potrà mai giustificare i crimini contro l’umanità commessi contro i rohingya. Ma c’è un’altra storia che finora è stata scarsamente raccontata. L’Esercito di salvezza dei rohingya dell’Arakan (Arsa), che pretende di rappresentare in armi la propria comunità, si è reso responsabile di almeno un massacro, e forse di un secondo, appena prima il lancio della campagna di pulizia etnica. Amnesty International è riuscita a ricostruire il tutto. Alle 8 di mattina del 25 agosto 2017, l’Arsa ha attaccato la comunità indù di Ah Nauk Kha Maung Seik, che fa parte di una serie di villaggi di una zona chiamata Kha Maung Seik (a nord della città di Maungdaw), in cui gli indù vivevano in prossimità dei villaggi della comunità musulmana rohingya e di quella rakhine, prevalentemente buddista. Uomini armati vestiti di nero e rohingya in abiti civili hanno rastrellato decine di uomini, donne e bambini indù, li hanno depredati dei loro averi e li hanno condotti bendati fuori dal villaggio. Dopo aver separato le donne e i bambini dagli uomini, i militanti dell’Arsa hanno ucciso 53 persone, a iniziare dagli uomini. Otto donne e otto dei loro figli sono sopravvissuti dopo che l’Arsa ha obbligato le donne a convertirsi all’Islam. Le 16 persone sono state poi obbligate a seguire i combattenti in Bangladesh e sono state rimpatriate nell’ottobre 2017 con il coinvolgimento delle autorità di entrambi i paesi. “Avevano coltelli e lunghi cavi metallici. Ci hanno legato le mani dietro la schiena e bendati. Ho chiesto loro cosa avessero intenzione di fare e uno di loro ha risposto, nel dialetto rohingya: “Voi e i rakhine siete la stessa cosa, praticate una religione diversa dalla nostra, non potete vivere qui!”. Poi hanno chiesto di consegnare tutto ciò che avevamo e hanno iniziato a picchiarci. Io alla fine gli ho dato i soldi e i gioielli d’oro che avevo”, ha raccontato Bina Bala, una 22enne sopravvissuta al massacro. Tutti e cinque i sopravvissuti intervistati da Amnesty International hanno riferito di aver visto parenti uccisi o di aver sentito le loro urla. “Hanno sgozzato gli uomini. Ci dicevano di non guardare. Avevano i coltelli e alcuni anche spade e cavi di metallo. Ci siamo nascosti nella boscaglia, da cui riuscivano a vedere qualcosa. Mio zio, mio padre, mio fratello… tutti massacrati”, ha raccontato Raj Kumari, 18 anni. Formila, 20 anni, non ha visto gli uomini nel momento in cui venivano uccisi ma i combattenti dell’Arsa “tornare indietro col sangue sulle spade e sulle mani”. Mentre con le altre sette donne rapite stava marciando verso il confine, si è girata indietro e ha visto uccidere altre donne e bambini: “Ho visto gli uomini che tenevano le donne per la testa e i capelli e gli uomini con in mano le spade che le hanno sgozzate”. L’elenco delle persone uccise nel villaggio di Ah Nauk Kha Maung Seik consegnato ad Amnesty International contiene i nomi di 20 uomini, 10 donne e 23 bambini, 14 dei quali non avevano neanche otto anni. Questo elenco coincide con testimonianze raccolte in Bangladesh e in Myanmar, da testimoni, sopravvissuti e capi della comunità indù. Sempre il 25 agosto 2017, i 46 abitanti del vicino villaggio di Ye Bauk Kyar sono scomparsi. La comunità indù locale ritiene che l’intero villaggio sia stato assassinato dall’Arsa. Sommando le vittime dei due massacri, il totale è di 99 morti. I corpi di 45 vittime di Ah Nauk Kha Maung Seik sono stati riesumati da quattro fosse comuni alla fine di settembre. Gli altri corpi, così come quelli dei 46 uccisi a Ye Bauk Kyar, non sono ancora stati ritrovati. La settimana scorsa, il rappresentante permanente di Myanmar presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha criticato alcuni stati membri per aver ascoltato “solo una parte” della storia e non aver riconosciuto la violenza dell’Arsa. Se il suo governo avesse consentito l’ingresso nel paese a investigatori indipendenti sui diritti umani, compresa la Missione di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite, sarebbe stata documentata anche “l’altra parte” della storia. Non lo ha fatto perché non si scoprissero fino in fondo le responsabilità delle forze armate di Myanmar. Venezuela: “Maduro è un dittatore, in un Paese distrutto” di Nicolò Canonico L’Espresso, 23 maggio 2018 Il presidente chavista è stato rieletto con quasi il 68 per cento delle preferenze, ma l'astensione è stata altissima. La giornalista Marinellys Tremamunno fa il punto della situazione sullo Stato sudamericano devastato da una profonda crisi economica. Seggi semivuoti e un successo scontato. In Venezuela le elezioni presidenziali sono andate secondo copione: il presidente Nicolás Maduro è stato confermato ottenendo il 67,7 per cento delle preferenze, in un Paese fatto a pezzi dalla crisi economica, scosso da proteste represse nel sangue e sempre più isolato dal resto dell'America Latina. E il risultato in termini di affluenza testimonia la fine del sogno chavista: solo il 46 per cento degli aventi diritto ha votato, per l'agenzia Reuters l'affluenza sarebbe molto più bassa. “Non poteva che andare così, il Venezuela è governato da una dittatura” dice Marinellys Tremamunno, giornalista venezuelana che da diversi anni lavora in Italia come corrispondente della televisione messicana “Imagen Tv”. Come si può spiegare la vittoria di Maduro nonostante la situazione di crisi che vive il Paese? “Alle elezioni gli unici osservatori internazionali invitati erano quelli degli Stati “amici”. È una tornata elettorale senza alcuna credibilità, fatta solo per dare una parvenza di democraticità a un presidente che non ha più l'appoggio del suo popolo. I sondaggi dicono che oltre l'80 per cento dei venezuelani è contro Maduro. Spiegatemi come avrebbe potuto vincere senza brogli. Per le elezioni è stato usato un sistema elettronico di una società inglese che l'anno scorso è stata cacciata dal Paese, perché aveva denunciato delle irregolarità. La licenza del software è scaduta, mi chiedo come abbiano fatto a registrare i voti”. Sulla scheda elettorale la foto del presidente compariva dieci volte e c'erano solo tre altri candidati, nessuno con una reale possibilità di vittoria. Cosa è accaduto all'opposizione? “I leader storici dei partiti che contrastano il governo sono finiti tutti in prigione o sono scappati all'estero. Inoltre l'opposizione si è spaccata: inizialmente tutti erano contrari alla nuova Assemblea costituente e alle elezioni regionali indette nel 2017. Si era creato un fronte unito. Poi qualche partito tradizionale ha cominciato a distaccarsi da questa visione, c'è chi ha deciso di partecipare invece di astenersi e la gente non ha più avuto fiducia in un unico leader”. L'anno scorso il Venezuela era una presenza costante nei mezzi di informazione di tutto il mondo. Ogni giorno c'era una protesta, spesso la polizia sparava e uccideva i manifestanti. Cosa è cambiato da allora? “Le proteste di piazza si sono arrestate perché la polizia e i militari hanno vinto. La gente ha paura: dall'inizio delle manifestazioni ci sono stati oltre 12 mila arresti arbitrari e nelle carceri si contano almeno 330 prigionieri politici. Nel solo 2017 sono state uccise 165 persone. Il Sebin, il servizio bolivariano di intelligence, tiene sotto controllo chi prova a far sentire la propria voce. Basta dire qualcosa contro il governo e ci si ritrova gli agenti sotto casa. Qualche giorno fa c'è stata una rivolta nella prigione chiamata “El Helicoide”, che ospita diversi oppositori politici, la polizia è intervenuta e ha sistemato tutto con i soliti metodi brutali”. Qual è la situazione del Paese dal punto di vista economico? “Un disastro. C'è un'iperinflazione terribile, i prezzi aumentano del 70 per cento ogni mese. Un pollo costa l'equivalente di un mese di stipendio base di un operaio, quasi nessuno riesce a comprarsi da mangiare ogni giorno. I supermercati vogliono denaro contante, quando qualcuno prova a pagare con il bancomat il prezzo di quello che compra viene subito duplicato o triplicato. La mia impressione è che siamo solo all'inizio, il peggio deve ancora arrivare. Sono stata a Caracas tre mesi fa: è sporca e triste, non è la città dove sono cresciuta da bambina”. In quanti sono emigrati? “Le stime dicono che almeno 2 milioni di persone si sono riversate nei Paesi circostanti. Il ponte Simón Bolívar, al confine con la Colombia, viene attraversato ogni giorno da 50 mila persone: alcuni vanno per cercare cibo e medicine, molti altri scappano da una situazione che è diventata insostenibile. In Brasile l'agenzia dell'Onu per i rifugiati ha cominciato a creare dei campi di accoglienza per ospitare chi sta fuggendo”. Alcuni osservatori definiscono il Venezuela un “narco-stato”. Cosa significa? “Il Paese è in mano alle bande criminali di ogni genere, in particolare ai narcotrafficanti che hanno stretto degli accordi con alcuni alti funzionari del governo di Maduro. In questa maniera possono transitare in modo indisturbato nel Paese e portare avanti i loro affari illeciti. Nel 2016 due nipoti della coppia presidenziale sono stati arrestati dall'agenzia antidroga statunitense perché trasportavano sul loro aereo privato 800 chili di cocaina delle Farc”. Maduro non gode del sostegno popolare e tantomeno di quello di buona parte della comunità internazionale. Come riesce a mantenere il potere? “Chi lavora nell'apparato burocratico riesce ad andare avanti grazie al sostegno dello Stato. Le alte sfere militari godono di benefit enormi rispetto al resto della popolazione: sono pochissimi gli ufficiali che hanno provato a fare qualcosa per opporsi e sono finiti molto male. Basti pensare a Óscar Pérez, il pilota di elicotteri ed ex poliziotto che lanciò delle granate sopra il ministero degli Interni e la Corte suprema: a gennaio hanno scoperto dove si nascondeva insieme ad alcuni suoi uomini e li hanno trucidati. Da quel momento nessuno si è più ribellato”. L'attuale presidente non sembra essere riuscito a proseguire sulla strada aperta da Hugo Chávez. La rivoluzione bolivariana ha fallito? “Maduro ha ereditato una situazione che stava cominciando a deteriorarsi. Chávez è salito al potere in una fase economica fortunata per il Venezuela, era uno stratega e si è saputo vendere bene a livello internazionale: il prezzo del petrolio era alto e questo significava tanti soldi che lo Stato poteva usare a proprio piacimento, la sua visione piaceva agli altri leader dell'America Latina. Ma sono stati commessi errori enormi, a partire dal programma di espropriazioni dei terreni e delle aziende, finite tutte sotto il controllo statale e finanziate proprio con i proventi del petrolio. Quando i prezzi di quest'ultimo sono diminuiti non c'era più un tessuto economico in grado di sostenersi in modo autonomo ed è crollato tutto. L'attuale presidente non è all'altezza del suo predecessore, ma anche con Chávez le cose oggi non sarebbero migliori”.