Storia di una legge che portò umanità e diritti nelle carceri italiane di Paolo Delgado Il Dubbio, 22 maggio 2018 È un assedio che dura da decenni. Non è escluso che stavolta, in nome della “certezza della pena”, venga espugnata la legge più odiata dalla demagogia forcaiola ma anche la più necessaria non solo per garantire il rispetto della Carta ma anche, più prosaicamente, per evitare che le galere esplodano. Si parla della legge Gozzini, in vigore dal 1986, e se anche l’assedio dovesse avere successo non è fatto detto che non risorga. È già successo una volta, quando nel 2005 le misure previste dalla Gozzini furono drasticamente limitate dalla legge detta “ex Cirielli”. Poi, piano piano, le misure alternative sono state reintrodotte e anzi ampliate. Perché non è questione d’ideologia ma di realtà. Senza la Gozzini, di nuove carceri ne andrebbero costruite a mazzi, mica quel paio di galere nuove di zecca a cui pensa il futuro ministro degli Interni Matteo Salvini. Ma quando nel 1986 la legge che introduceva le misure alternative fu approvata a grandissima maggioranza, col solo voto contrario dell’allora Msi, l’emergenza non era solo quella delle carcere stracolme. Era anche, forse soprattutto, la violenza assoluta che regnava nelle patrie galere. Le misure alternative riuscirono rapidamente a compiere il miracolo, a pacificare le carceri. Erano, e sono, misure premiali, il che fece storcere il naso a molti garantisti per l’ampia discrezionalità che veniva lasciata ai magistrati di sorveglianza: ma proprio la premialità riuscì dove la repressione dura aveva fallito. Riportò la pace negli istituti penitenziari dove fino a quel momento i “boia delle carceri”, avevano dominato distribuendo ammazzatine a raffica su mandato dei boss e spesso anche senza alcun mandato. Inoltre la Gozzini dimostrava per la prima volta nella pratica che il dettato costituzionale, quello che finalizzerebbe la pena al recupero sociale e non alla vendetta, non era affatto vuota ideologia. Conti alla mano il recupero funzionava e funziona. Il tassi di recidiva colò a picco in pochi anni. Il padre della legge, Mario Gozzini, non era un giurista e non se ne fece mai un problema. Cattolico, di quel cattolicesimo di sinistra che aveva trovato in La Pira e Dossetti i grandi maestri, era convinto che tra la “dimensione umana” e quella “giuridica” non di dovesse essere distinzione. Inoltre amava ricordare che l’art. 102 della Costituzione “dice che il popolo, non solo i laureati in legge, partecipa all’amministrazione della giustizia”. In Parlamento entrò nel 1976, ma non con la Dc. Faceva parte di quel drappello di “indipendenti eletti nelle liste del Pci”, come tra gli altri Stefano Rodotà a cui si deve forse il meglio della vita parlamentare nella prima Repubblica. Si distinse subito, su un fronte se possibile ancora più incandescente di quello delle carceri. Si deve in buona parte a lui, infatti, la legge 194, quella sull’aborto. La aveva scritta da cattolico, pensando alla difesa delle donne e alla possibilità di evitare gli aborti non solo a quella di renderli legali. Dopo la morte del parlamentare, a 79 anni, nel 1999, il figlio segnalò anzi che, nonostante il suo nome fosse legato alla legge sulle carceri, “c’era molto più di mio padre nella 194”. Il vento, nelle galere italiane doveva in realtà essere cambiato già nel 1975, anno che per numero e qualità delle riforme, nella storia repubblicana, è secondo solo all’inarrivabile 1963, l’anno della scuola della scuola media unificata e delle nazionalizzazioni. Tra quelle riforme ci fu anche quella delle carceri, ma rimase lettera morta. L’emergenza terrorismo vanificò ogni miraggio di adeguare il sistema carcerario alle norme costituzionali. Al contrario, quella che doveva essere un drastico cambiamento si tradusse in una stretta senza precedenti. A metà anni 60, il clima era cambiato di nuovo. L’emergenza terrorismo era chiaramente finita. Si trattava di riportare ordine in galere che tra terrorismo e guerre di mafie erano diventate una macelleria. Mario Gozzini, che veniva dalla scuola cattolica più attenta al disagio sociale, si occupava già da anni di carcere e di possibile recupero sociale dei detenuti lavorando a stretto contatto con uno dei magistrati più lucidi e lungimiranti che ci siano stati in Italia, Alessandro Margara. La stessa Dc, con l’emergenza alle spalle, aveva recuperato le suggestioni bruscamente interrotte nel 1975. La somma tra i diversi fattori portò a una legge, quella firmata da Gozzini ma studiata con Margara che nonostante tutto, nonostante i passi indietro e a volte i veri e propri momenti di reazione, ha modificato non solo la condizione dei detenuti ma la cultura giuridica del Paese. Provare a cancellarla sarebbe un delitto. Vogliamo la giustizia per le carceri o vogliamo giustiziare la riforma? di Luca Maggiora* e Serena Caputo** Ristretti Orizzonti, 22 maggio 2018 Ormai è chiaro che l’intento della politica sia quello di non approvare la riforma penitenziaria e tutto ciò dimostra una spinta involutiva della nostra società. La riforma rappresenta un segnale vivo di rinascita intellettuale e morale del nostro Paese; una ricrescita culturale ed una presa di coscienza circa un problema che è serio, grave e che mina le fondamenta della nostra democrazia. I venti che hanno accompagnato le critiche alla riforma, ancor prima della lettura degli esiti dei primi elaborati, hanno di fatto ingolfato un inter che si è rilevato poi evidentemente tortuoso fino a precipitare nella sconfitta. Chi ha demonizzato tale riforma, fin da subito, non conosce e non ha voluto conoscere la realtà. Noi abbiamo visto; con cautela ed umiltà abbiamo cercato di capire perché l’Italia fosse arrivata a tali livelli di dramma sociale. Abbiamo visto ed abbiamo respirato un mondo parallelo, un universo incredibile fatto di ingiustizia, sociale personale, fisica, morale; un’ingiustizia inumana che rende la persona schiava di una vita inutile, sterminata dall’inedia e dall’abbandono. Chi entra in carcere perde la propria dignità, perde il diritto ad essere persona, perde il diritto a vivere una vita. Diventa un “detenuto” ed in quanto tale non più destinatario di alcun “vantaggio” sociale. Diventa un “detenuto” privo di nome, di riferimento, di capacità economica di assistenza, di riferimenti familiari. Il carcere come un buco nero, preferibilmente alla periferia delle città, in luoghi anonimi (poi non così anonimi perché è molto facile riconoscere un carcere già da molto lontano). Il carcere è un grande luogo pieno di persone che diventano cittadini del carcere. Varcare la soglia di un carcere significa essere avvolti da una nebbia di lontananza dalla realtà e dalla percezione che il mondo scorda in tempo reale chi entra nel carcere. Il detenuto velocemente assume un colore uniforme tendente al grigio (un colore anonimo; appunto) che rimarca l’insalubrità degli istituti. A tutto questo si aggiunge la solare volontà di molti che ripetono il mantra abusato del “buttiamo via le chiavi”. Le cifre della recidiva del detenuto parcheggiato ed annullato così come le cifre del detenuto a cui è stata concessa una misura alternativa parlano diametralmente chiaro ma neppure tali cifre reali oggettive e conosciute da tutti non bastano. Si vuole una giustizia che sia ingiusta che colpisca i deboli, gli indifesi, gli ultimi, i soliti. Si vuole giustiziare la riforma. Di fronte a questa emergenza, il cambiamento dei nostri vertici, ha ancora una volta lanciato più avanti la patata bollente. E allora altri DUE giorni di protesta e di astensione dalle udienze e dalle attività processuali per gli avvocati penalisti italiani di fronte all’ennesimo DUE di picche presentato dal Parlamento all’effettiva riforma dell’Ordinamento Penitenziario. Scopo della protesta degli avvocati è stata quella di lamentare il mancato inserimento dei tre decreti attuativi della riforma elaborati dai cd. Stati Generali dell’Esecuzione Penale e approvati in doppio esame preliminare dal Consiglio dei Ministri, nei lavori delle Commissioni Speciali Parlamentari: in pratica il percorso è stato stoppato a due passi dalla sua realizzazione impedendo in tal modo alla Delega di divenire Legge dello Stato. Questa riforma, pur non ancora perfetta, è stata frutto di un attento studio di magistrati ed accademici oltre che esperti avvocati e avrebbe finalmente consentito la realizzazione di uno Stato di Diritto incentivando la finalità rieducativa della pena e il reinserimento sociale del condannato a discapito della visione punitiva e carcerocentrica che ha solo danneggiato il nostro sistema penitenziario. Nella mentalità comune, e purtroppo anche in quella della nostra politica italiana, persiste l’errata convinzione che la sicurezza della comunità venga garantita soltanto con l’esecuzione delle pene detentive in carcere, quando ci sono precisi dati statistici che dimostrano il contrario. Il nostro Stato fallisce ancora una volta rimandando una riforma urgente ed omettendo di sottolineare che questo ennesimo ritardo non solo non consentirà di collocare il nostro sistema penitenziario nell’ambito dei “moderni” principi comunitari, ma procrastinerà lo stato di ingiustizia ed illegalità in cui versano le nostre carceri, per le quali lo Stato italiano spende in media 3 miliardi di euro all’anno mantenendo un tasso di recidiva tra i più alti in Europa. Eppure pochi mesi fa lo stesso Ministro Orlando, in commento alla riforma, non ha mancato di sottolineare che questo non era certo un provvedimento “salvaladri” come poteva temere la popolazione, ma consentiva al Giudice di valutare caso per caso il comportamento del detenuto e in caso di esito positivo di ammetterlo ai benefici (lavoro, misure alternative). La giustizia è, di fatto, ancora una volta, giustiziata. *Avvocato, Foro di Firenze **Avvocato, Foro di Pisa Riforma della giustizia, gli errori e i luoghi comuni da evitare di Francesco Petrelli* Il Mattino, 22 maggio 2018 Il matematico inglese William Petty, nella seconda metà del 600, mise a punto i fondamenti della moderna scienza statistica, definendola “l’arte di ragionare mediante le cifre sulle cose che riguardano il governo”. Al filosofo francese François-Marie Arouet, meglio noto come Voltaire, quel metodo piacque perché spazzava il campo della conoscenza da vecchi pregiudizi e inutili mitologie. La ricognizione quantitativa dei fenomeni risulta totalmente estranea alla elaborazione della riforma della giustizia penale che è dato leggere nel “contratto” appena licenziato dalle forze politiche candidate al governo del Paese. Ovvio che chi impugni il populismo penale come vessillo ideologico e come strumento politico abbia in odio una simile conoscenza oggettiva dei fenomeni, che non voglia sentir dire che i reati nel nostro Paese sono in diminuzione e tanto meno che tra l’attuale riforma penitenziaria e l’aumento della sicurezza non vi sia alcuna contraddizione. Bene ha dunque fatto sul Corriere della Sera Luigi Ferrarella a far chiarezza m modo inappuntabile sulla realtà inconfutabile dei dati che consentono di affermare che più misure alternative e meno carcere significano più sicurezza per i cittadini. Lo ha chiarito dimostrando sia la serietà dei dati fomiti dal Ministero della Giustizia sui quali la ricerche si fondano che la solidità dei relativi sviluppi statistici aggiornati al 2014. Ma al di là dell’ esperienza del nostro Paese sono disponibili molteplici testimonianze circa l’evidenza del nesso in questione, dal lontano Brasile alla più vicina Svizzera. Ma se le statistiche sono utili per ragionare sulle cose che riguardano il governo dei Paesi ed a sventare le nuove “mitologie del populismo”, occorre ricordare che una democrazia vive soprattutto dei propri valori fondativi e delle proprie leggi. Non solo l’utilità ma anche la coerenza con l’intero impianto costituzionale spingono il sistema nel senso impresso dalla riforma. E la nostra Costituzione, che a volte qualcuno dimentica che è essa stessa una legge, anzi, una super legge, ci impone di darci un ordinamento nel quale le pene siano finalizzate alla rieducazione del condannato. L’intero sistema penitenziario che riguarda l’esecuzione delle pene detentive deve adeguarsi a questa finalità dotandosi di tutti gli strumenti necessari a raggiungere questo scopo: che chi delinque venga sottratto ai codici devianti che hanno determinato il reato e reintrodotto progressivamente nella società attraverso l’adozione di apposite misure. Lo Stato ha l’obbligo di seguire questa strada perché è l’unica che consente la rieducazione: la risocializzazione non può che avvenire attraverso un recupero progressivo e responsabile della libertà, elaborando un percorso che tenga conto delle condizioni socio familiari e delle effettive opportunità di lavoro o di esecuzione di attività socialmente utili. Risocializzare il condannato tenendolo in carcere è impossibile; si tratterebbe - come è stato efficacemente detto - di voler insegnare a qualcuno nuotare stando fuori dell’acqua. Smantellare questo sistema, nato dalla riforma del 1975 e poi affinatosi ed ampliatesi negli anni successivi, non è evidentemente possibile perché si tratterebbe di una iniziativa contraria alla Costituzione. Ed altrettanto insensato sarebbe impedire che la riforma, volta a rendere più efficiente e più accurato l’intero impianto relativo alla irrogazione ed al controllo delle misure ed a conferire al magistrato di sorveglianza maggiori poteri migliori strumenti di conoscenza, venisse promulgata. Sarebbe necessario fermarsi riflettere su questi pochi concetti, per ripensare alcune avventate prese di posizione per impedire che una politica irragionevole affondi l’intera società in un dissennato coacervo mediatico di luoghi comuni e di parole d’ordine, avviandoci verso una nuova frontiera della “banalità del male”, nella quale il disprezzo nei confronti della pari dignità sociale di ogni individuo sia veicolato e propugnato come fosse un apprezzabile e nobile sentimento popolare. *Segretario Unione Camere Penali Lega e M5S vogliono più agenti nelle carceri: ma ci sono già di Samuele Cafasso lettera43.it, 22 maggio 2018 Nel contratto di governo previste nuove assunzioni. Eppure in rapporto ai detenuti le guardie sono più che nel resto d’Europa. Mentre mancano educatori, mediatori culturali e direttori. Il fact checking. L’Italia è uno dei Paesi europei dove gli agenti di polizia penitenziaria sono di più in rapporto ai detenuti, mentre abbiamo numeri inferiori di educatori e mediatori culturali. Nonostante questo, il contratto per il governo stipulato da Lega e Movimento 5 stelle prevede un piano di assunzioni straordinario nei ranghi della polizia penitenziaria, mentre nulla è previsto per educatori e mediatori culturali. Nel contratto per il governo del cambiamento c’è scritto che “bisogna provvedere alla preoccupante carenza di personale di polizia penitenziaria con un piano straordinario di assunzioni”. Tale carenza è misurata sulle piante organiche stabilite dal ministero e che in effetti mostrano una differenza tra personale effettivamente in servizio e organico previsto di 5.189 unità. Per far fronte a questa carenza, il governo Gentiloni ha approvato un piano di assunzioni straordinarie per 1.800 unità nel 2018. Gli organici, inoltre, sono stati ridotti rispetto gli anni precedenti, diminuendo ulteriormente la forchetta tra effettivi e organici teorici. L’associazione Antigone ha però messo a confronto la situazione italiana rispetto a quella del resto d’Europa, da cui si vede che in realtà, in rapporto ai detenuti, l’Italia non ha pochi agenti penitenziari, anzi. Il rapporto in Italia è 1,8, ossia quasi due detenuti ogni agente. In Portogallo il rapporto è del 3,4, in Spagna 3,3, un più modesto 2,5 in Francia e 2,9 in Austria. La Germania, invece, è al 4,2. Fanno eccezione i Paesi del Nord Europa, Norvegia, Svezia e Danimarca, con valori che si attestano tra l’1,2 e l’1,6. “Visti questi dati”, commenta l’associazione Antigone, “possiamo affermare che non si rileva una mancanza di personale, che anzi sembra addirittura eccedente rispetto ad altri Paesi europei, ma piuttosto una sua cattiva distribuzione sul territorio nazionale”. L’altra peculiarità italiana è che abbiamo pochissimi mediatori ed educatori rispetto al resto d’Europa. In particolare le piante organiche hanno tagliato il numero di educatori previsti a 999 persone. Poiché 55 sono impiegati nell’amministrazione centrale, nelle carceri ci sono un educatore ogni 62 detenuti in media. E tuttavia “gli osservatori hanno riscontrato situazioni in cui il rapporto fra educatori presenti a tempo pieno e detenuti era di uno a 90-100”, sostiene l’associazione Antigone. Situazione ancora più drammatica per i mediatori culturali che in organico sono previsti nel numero di 67 a fronte di quasi 20 mila detenuti stranieri. A dar man forte, in questo caso, sono volontari e professionisti pagati su progetti sovvenzionati da enti pubblici e privati. Per questo motivo i mediatori culturali che effettivamente hanno lavorato nelle carceri italiane nel 2017 sono 223. Si tratta di un problema estremamente grave soprattutto in funzione della prevenzione del radicalismo islamista. Gli imam accreditati (dati fine dicembre 2016) sono ancora meno: 22. Alcune grandi carceri, come quella genovese di Marassi dove è straniero quasi un detenuto su due, ne sono sprovvisti. La situazione più complicata, però, è quello che riguarda i livelli dirigenti. A fronte di 189 istituti, a marzo 2018 i direttori sono 151: 38 in meno rispetto al necessario. E 24 di loro sono responsabili di due istituti, mentre due di loro lo sono di tre strutture; 10 carceri sono in attesa della nomina di un direttore. Questo ritarda enormemente ogni decisione, soprattutto perché, parallelamente, sta scomparendo la figura dei vicedirettore: 53 delle 75 carceri visitate dall’associazione Antigone nel 2017 erano del tutto prive di vicedirettore, il che si traduce in una percentuale di oltre il 70%. Da pm e avvocati il no alle super-intercettazioni promesse da M5S e Lega di Errico Novi Il Dubbio, 22 maggio 2018 Sarà difficile realizzare il far west investigativo evocato dal “contratto”. “Potenziare l’utilizzo delle intercettazioni”. Il contratto per il governo del cambiamento, al capitolo “Lotta alla corruzione”, così recita. Ma cosa significa “potenziare”? Non è chiaro. Sembra un verbo tirato lì per fare bella figura. Con l’elettorato grillino trinariciuto e assetato di vendetta, ovviamente. Perché la Lega, di intercettazioni “potenziate”, farebbe volentieri a meno. Non è un caso d’altra parte se il successore di Andrea Orlando non sarà Nicola Molteni, plenipotenziario di Salvini sulla Giustizia, ma, almeno secondo le indiscrezioni filtrate fino a ieri sera, Alfonso Bonafede, fedelissimo di Luigi Di Maio. Se l’economia sarà dunque il campo in cui il segretario lumbard si giocherà tutto, il capo politico dei Cinque Stelle intende piantare in cima a via Arenula una delle bandiere più sgargianti. E dunque, quel “potenziare le intercettazioni, in particolare riguardo ai reati di corruzione” va inteso in chiave grillina: ovvero, più intercettazioni per tutti. Certo, per i corrotti, ma anche per altri. Potenziare significa semplicemente avere una potenza di fuoco maggiore, punto. Non si dice qual è la traduzione effettiva, procedimentale, del rafforzamento. È vero che ci sarebbe un’ipotesi a portata di mano: consentire l’uso dei virus spia, i cosiddetti trojan horse, nelle indagini per corruzione anche quando l’indagato si trova all’interno del proprio domicilio. Nel decreto varato da Orlando e Gentiloni a fine 2017 c’è stato un lieve correttivo, nel senso che si è passati dalla previsione della delega secondo cui l’uso dei trojan nel domicilio delle persone sospettate di corruzione sarebbe stato consentito solo qualora “ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”, alla formula qualora “vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”. Se diventasse guardasigilli, Bonafede proporrebbe certamente di eliminare ogni barriera all’uso dei super- invasivi captatori informatici contro la corruzione, con una “deregulation” oggi prevista solo per i reati di mafia e terrorismo. Il “potenziamento” si fermerebbe qui? C’è da credere di no. Si cercherebbe qualche altra forzatura, per esempio sugli aspetti autorizzativi. Ma in ogni caso si dovrà tenere conto di due cose. La prima: il prossimo 12 luglio il decreto Orlando entrerà in vigore. La seconda è che su alcuni limiti di quel provvedimento, magistrati e avvocati sono in sintonia. Chiedono gli stessi correttivi. Soprattutto, sollecitano il ripristino della trascrivibilità per tutte le comunicazioni, in modo che sia il pm, e non la polizia, a valutare il materiale raccolto; e, dal punto di vista degli avvocati, in modo che la difesa possa orientarsi nel mare delle conversazioni grazie al supporto cartaceo, e poter così scovare senza impazzire qualche elemento utile alla posizione degli indagati. La convergenza di interessi tra toghe e penalisti è evidente: all’ultima riunione del direttivo, il presidente dell’Anm Francesco Minisci è tornato a parlare di una “riforma che cambia ma non migliora, e che perciò non è una buona riforma”. Secondo il vertice del “sindacato” delle toghe, l’aspetto problematico è nelle “migliaia di intercettazioni, scartate dalla polizia giudiziaria” che “andranno in un archivio riservato, con danni per le indagini e il diritto di difesa”. C’è un fronte oggettivamente unitario, tra Anm e Unione Camere penali: e questo è un elemento con cui Bonafede (o chi per lui) dovrà fare i conti: non potrà forzare più di tanto. Non potrà spingersi verso una sorta di totale far west, nell’uso del più pervasivo degli strumenti d’indagine, perché rischierebbe di trovarsi contro non solo Camere penali e Cnf, ma la stessa Associazione magistrati, poco interessata ad assecondare una deregulation incontrollata e a rompere così l’intesa con l’avvocatura. Il guardasigilli a Cinque Stelle dovrebbe essere anche la consacrazione dell’idillio tra politica e toghe: bruciare quella presunta affinità elettiva isolerebbe anche sulla giustizia un esecutivo già assediato da legittime diffidenze. Ecco perché il “potenziamento” evocato nel contratto potrebbe finire per tradursi in lievi ritocchi. O addirittura in un rinvio dell’entrata in vigore del decreto Orlando, sollecitata dai magistrati ma anche dai penalisti. Si farebbe bella figura, dal punto di vista dell’esecutivo gialloverde, già per la mera abiura a un prodotto della stagione precedente. E si eviterebbe di complicarsi la vita: tutto resterebbe com’è. Molto gattopardesco, ma anche assai probabile a verificarsi. Don Gallo, la sua rivoluzione vive di Moni Ovadia Il Manifesto, 22 maggio 2018 Il pensiero di don Andrea Gallo mi suscita la voglia irrefrenabile di gridare: “il Gallo vive!”, ho l’impulso di brandire una bomboletta di vernice e di fare con questo slogan un graffito su ogni muro delle nostre città, come un tempo facemmo per Ernesto Che Guevara. All’annuncio che il comandante era stato assassinato a sangue freddo da un ufficiale dell’esercito boliviano. Ma il Gallo non vive e la sua mancanza si sente terribilmente, si avverte, perché il degrado della vita politica ha avuto un’impennata esponenziale, diventa una voragine al pensiero che è salito al potere della prima potenza mondiale un tycoon ultrareazionario con vocazioni isolazioniste e simultaneamente belliciste che ha imbracciato tutto il tristo armamentario della discriminazione e della retorica patriottarda. Il Gallo avrebbe constatato con costernazione il disfacimento della sinistra europea ed italiana a cui apparteneva a pieno titolo. Il suo cuore di partigiano e antifascista avrebbe sanguinato al cospetto della risorgenza dei fascismi e dei nazismi. Il suo sigaro di prete da marciapiede fremente di rivolta avrebbe tuonato contro gli accordi con il tiranno turco e dei tagliagole libici per consegnare le vite disastrate e devastate degli ultimi, abbandonate alla tortura, al solo scopo di spostare lo scenario del dolore e della vessazione per sottrarre le immagini allo sguardo “delicato” e ipocrita dei telespettatori occidentali. Il Gallo oggi non può guidarci, noi lo vorremmo con tutte le nostre fibre, ma lui non può mettersi alla testa dei nostri cortei e dei nostri palchi imbandierati di rosso e di arcobaleno anche se là dove si trova fra santi e beati starà facendo il diavolo a quattro perché gli diano una dispensa per farlo tornare fra la sua gente, gli umili, i diseredati, gli spostati, gli indifesi, i marginali, gli abbandonati. Il Gallo non vive ma può risorgere in noi per tornare a disegnare, con il fumo del suo sigaro, nei nostri cieli le parole “No alla guerra! Uguaglianza! Giustizia sociale!”. Il Gallo per risorgere, attende la nostra resurrezione che può generarsi solo se non cediamo alla stanchezza, se non abbandoniamo lo spirito della ribellione, se torniamo a ridare voce alla speranza rivoluzionaria che un mondo diverso è possibile, ma anche urgente. Il Gallo per tornare fra noi ha bisogno della nostra militanza, della nostra rivolta inesausta e radicale contro ogni sopruso sotto qualsiasi cielo si manifesti e ad opera di chiunque contro chiunque. Don Andrea è stato per me un amico, un maestro ma anche e soprattutto un compagno. Questa parola che oggi è beffardamente considerata obsoleta, vetero comunista o offensiva, indica un idem sentire etico sociale e politico. Parola di origine cristiana fa riferimento al gesto di spezzare il pane con il nostro prossimo. Nel mutuarla la cultura del movimento operaio le ha attribuito il senso della condivisione del pane della giustizia sociale. Il compagno Gallo mi manca, mi manca la condivisione della dimensione spirituale, il confrontarci intimo ed incessante su come potere declinare la comune passione politico sociale con una contestuale rivoluzione interiore che condividevamo nei valori fondativi dell’umanesimo monoteista; lui prepotentemente cristiano inderogabilmente prete cattolico, ed io ebreo agnostico indefessamente attratto dai vagabondaggi mistico-spirituali. Oggi avrei bisogno della sua luce per dare forza ed incisività per la lotta a sostegno dei diritti del popolo palestinese il cui calvario pare non avere fine, avrei bisogno del suo conforto per dare forza al mio diuturno sforzo di diradare la densa cortina che annebbia la vista e inaridisce il cuore di molti, di troppi ebrei accecati da rigurgiti psicopatologici e sedotti dalla retorica del governo ipernazionalista, reazionario e segregazionista dello Stato d’Israele. Con la forza di Gallo potremmo individuare un cammino politico e oltre politico scavato nel cammino dell’uomo per aprire una via inedita e forte verso il riscatto e la redenzione dalla peste della violenza. Legge Basaglia: quaranta anni e non li dimostra di Adolfo Ferraro (Psichiatra) cantolibre.it, 22 maggio 2018 Ho sempre avuto diffidenza dei compleanni. Mi portano un po’ di tristezza e mi inducono a riflettere: servono a ricordare quanto tempo è passato e come sei cambiato nel corso degli anni, e soprattutto comportano sempre la necessità di un bilancio. Le candeline sulla torta e i cori augurali non mitigano la fastidiosa presenza di queste due sensazioni, che porto con me anche adesso che tutti stanno ricordando il compleanno della legge 180, la straordinaria rivoluzione che ha influenzato la psichiatria e la salute mentale in genere degli ultimi quaranta anni in Italia. E che può essere sintetizzata in una celere frase di Basaglia - il promotore di un cambiamento epocale - che si dichiarò più interessato al malato che alla malattia. Torta candeline e auguri, quindi, e festeggiamenti per il traguardo raggiunto riuscendo ad evitare, o cercando di evitare, le trappole che in questi anni un potere medico ma anche politico ha teso in molte occasioni e senza tanti complimenti. E considerando come la legge ha mantenuto una bella cera nonostante gli anni, continuando a rappresentare un modello culturale che, partendo dai “matti”, ha influenzato un pensiero comune e infine un modello sociale, iniziando dagli anni delle grandi lotte operaie e studentesche, dell’avvio della cultura libertaria del ‘68, delle grandi riforme sociali che si chiusero proprio con la legge 180, che anticipò di pochi giorni quella sull’aborto e che venne approvata quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. I valori che la legge ha proposto mantengono del resto la loro attualità, ma è nel bilancio che si prospetta una inquietudine che manca a chi vede solo l’aspetto ideologico o non prende in considerazione una variazione dei tempi e, per l’appunto, dei valori. Avere chiuso quei contenitori che producevano malattia e che si chiamavano manicomi o ospedali psichiatrici ha certamente ridato una dignità al paziente persa tra i numeri di matricola, le divise da recluso e le giornate passate a ciondolare tra stereotipie e abbandono e sigarette senza fine. Ma quello che è stato offerto in alternativa- tradendo lo spirito della legge - spesso non è stato altro che una riproposizione della logica manicomiale che accompagna sempre o quasi sempre il rapporto tra la sofferenza psichica e la sua cura. La storia della psichiatria fa intuire il rischio: Pinel che alla fine del settecento liberava i pazzi dalle catene di Bicètre aveva avuto il merito di porre fine alle torture fisiche ai pazienti, ma, come aveva intuito Foucault, aveva dato vita ad una nuova oggettivazione del concetto della loro libertà: il modello manicomiale che aveva istituito proponeva isolamento ed ordine e soprattutto l’instaurazione di una nuova interpretazione della follia. Su questo schema si sono impostate le modifiche, sia culturali che logistiche, dei periodi successivi e fino ad oggi, gradualmente migliorative/peggiorative delle condizioni e del trattamento dei sofferenti psichici (in genere con una tendenza a periodici imbarbarimenti) e che hanno tentato di ampliare o modificare uno spazio costretto dal muro di un manicomio o di una istituzione totale o meno, allargando e restringendo alternativamente il confine che esiste tra salute mentale e patologia, tra la follia e il pericolo sociale, tra la norma e il suo contrario. E ancora, da un punto di vista strutturale, ad individuare nuovi spazi di cura in cui contenere la sofferenza mentale e dove la logica manicomiale prevale su quelle che possono essere le istanze soggettive, realizzando una modalità di cura che garantisce il bisogno e non necessariamente il desiderio, e quindi annullando le istanze personali a scapito di patologici inquadramenti spesso avallati dalle sbrigative diagnosi psichiatriche. La logica manicomiale del resto è proprio questa, e si basa su un modello che non si è allontanato molto da quello della fine del settecento: in relazione ad una temporanea indignazione/paura si individua un oggetto (l’alienazione mentale, o la diversità pericolosa), un luogo dove trattarlo (il manicomio o un suo derivato reclusorio) ed una metodologia: il trattamento morale. Dove con il termine “morale” non ci si riferisce alla morale o alla moralità/ etica, ma ai moeurs, ai façon de se conduire, ai costumi, alle abitudini, agli usi, all’organizzazione della vita. Si sono costituiti così con continuità costante spazi apparentemente sempre più adeguati e vivibili, riuscendo infine a realizzare ogni volta un “manicomio migliore” di quello precedente, ma senza modificare la struttura del rapporto tra gli elementi che lo vivono, dove lo spazio che contiene è finalizzato nella sua organizzazione a inglobare l’ospite, senza dargli nessuna possibilità di appropriarsi del luogo. È questo quello che è accaduto nei secoli scorsi, da Pinel ad oggi. Ed è quello che sembra accadere attualmente e macroscopicamente in Italia dopo l’operazione di chiusura dei vecchi Opg (Ospedali Psichiatrico Giudiziari) col passaggio alle Rems (Residenze Esecuzione Misure di Sicurezza). Strutture più dichiaratamente sanitarie e meno carcerarie, ma che hanno in comune la necessità della reclusione e del controllo che l’isolamento produce. E, continuando nel bilancio, anche quello che accade ed è accaduto nelle strutture di accoglienza dei sofferenti in genere ha teso a sviluppare il luogo piuttosto che il trattamento, quest’ultimo visto quasi sempre come una modalità di intrattenimento che serve a fare passare un tempo, quello della sofferenza psichica, nella modalità più tranquillizzante possibile per gli operatori e gli addetti ai lavori. Centri di accoglienza, case famiglia, cliniche psichiatriche e servizi pubblici tendono a riproporre un modello che - tranne in alcune eccezioni - si riferiscono alla malattia e al suo contenimento e non al malato e alle sue esigenze/bisogni. La pratica della coercizione è sempre presente nelle strutture psichiatriche anche se non viene detta, e l’abbandono cui i pazienti e i loro familiari vengono costretti è naturale conseguenza di uno scarso investimento e infine di un disinteresse che fa ridurre i budget regionali per l’assistenza psichiatrica. Ancora oggi le urgenze psichiatriche vengono gestite al momento, ma non programmando un recupero che possa prevedere anche prevenzione, risolvendo generalmente in un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) di pochi giorni l’emersione del disagio, e quasi mai approfondendo il significato del disagio e la complessa azione che può portare non al “trattamento morale” ma al riconoscimento del soggetto nella sua individualità e al rispetto delle sue potenzialità viste come crescita e cura. E dolorosamente ci si accorge che non sempre è questione di soldi (nonostante i vari governi - compreso l’ultimo nelle sue bozze programmatiche - riservino l’esiguo finanziamento del 2,4% alla salute mentale) ma anche di modelli culturali poco attenti alle diversità o di formazioni accademiche che investono sui farmaci (certamente necessari) e non sul rapporto con i pazienti. Naturalmente ci sono le eccezioni e solo in Campania mi vengono in mente gli straordinari ragazzi dello “Sfizzicariello” a Napoli o gli artisti del Gruppo Zoone di Piscinola, o la cooperativa creativa Gulliver a Secondigliano, persone/pazienti/operatori che hanno ripreso il contatto con i propri spazi e con le proprie abilità nonostante gli scarsi interessamenti delle strutture deputate, e che rappresentano i figli di quello che il pensiero basagliano della 180 voleva stimolare e produrre. Piccole isole rispetto l’abbandono o l’impossibilità a seguire di operatori magari anche motivati, ma spesso vittime di un profondo burnout, che offrono - se possibile - spazi di relazione ancora più ristretti: servizi funzionanti a singhiozzo e proposte di contenimento farmacologico a pioggia o in alternativa un abbandono a sé stessi dei sofferenti e dei loro familiari. Non era questo quello a cui si pensava con la legge 180, in quanto si è realizzata infine una offerta di cura e reintegrazione per il sofferente mentale che è quella che è: un trattamento morale - o della organizzazione della vita - secondo parametri che riducono le abilità e ri/producono inevitabilmente i mostri. In questo senso i quaranta anni della legge non mostrano un adulto completo che ha raggiunto la maturità, ma un adolescente incompleto che deve ancora crescere. Buon compleanno, 180. E buona fortuna. Detenuto muore per droga: ministero responsabile Il Dubbio, 22 maggio 2018 Anche il ministero della Giustizia può essere ritenuto responsabile per la morte, legata all’assunzione di sostanze stupefacenti, di un detenuto in carcere, e per questo, essere condannato a versare un risarcimento ai familiari. Lo ha stabilito un’ordinanza depositata ieri dalla prima sezione civile della Cassazione, riguardante il caso di un 24enne, arrestato per il furto di un telefono cellulare, che morì nel carcere di Regina Coeli nel 2002. Il ragazzo, al suo ingresso nel penitenziario romano, “aveva dichiarato di essere stato tossicodipendente e di seguire una terapia di disintossicazione”: per questo, era stato ricoverato presso il Sert del carcere, da cui era stato dimesso “in quanto non presentava più problematiche legate alla tossicodipendenza, essendo emersa anzi la sua volontà di trovare un lavoro e di cambiare vita”, ma 6 giorni più tardi il detenuto “era deceduto in carcere a seguito dell’assunzione di cocaina”, come attestato dall’autopsia. I familiari dell’uomo avevano quindi citato in giudizio davanti al tribunale di Roma il ministero della Giustizia per “sentir dichiarare la esclusiva responsabilità della direzione della casa circondariale”, con la “conseguente condanna” del ministero al risarcimento dei danni patrimoniali, morali, biologici ed esistenziali. Il ministero aveva invece sostenuto che la morte del detenuto non fosse “addebitabile alla sola presenza di sostanze stupefacenti all’interno del carcere, bensì alla condotta autonoma, attiva ed imprevedibile del ragazzo consistita nell’assunzione di stupefacenti”. Sia in primo grado che in appello, l’istanza della famiglia del giovane era stata rigettata: la Cassazione, invece, ha accolto il ricorso, disponendo un nuovo processo davanti alla Corte d’appello della capitale. “Sussiste una responsabilità concorrente (dell’amministrazione penitenziaria) nell’ipotesi di uso volontario di sostanza stupefacente da parte di un detenuto, poi deceduto - si legge nell’ordinanza dei giudici di piazza Cavour - atteso che tale condotta non esclude il nesso causale tra la condotta dell’amministrazione penitenziaria e la morte, ponendosi in rilievo, invece, che l’uso consapevole della droga importa senza dubbio assunzione del rischio, ma tanto non produce totale neutralizzazione degli antecedenti causali con conseguente esclusione della responsabilità dell’ente”. Secondo la Cassazione è possibile che si configuri “una condotta colposa omissiva attribuibile alla casa circondariale, alla luce del generale obbligo dell’amministrazione penitenziaria, di vigilanza e controllo sui detenuti richiamandosi, in generale, i compiti dell’amministrazione penitenziaria, concernenti l’assistenza sanitaria da prestare al detenuto, sin dal suo ingresso in carcere e, in particolare, le eventuali omissioni in riferimento alla specifica situazione dello stato patologico di tossicodipendenza accertato e registrato all’atto di ingresso in carcere del detenuto”. “Protezione sussidiaria” per l’extracomunitario gay di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 22 maggio 2018 Se l’omosessualità è perseguitata nel suo paese d’origine. Corte d’appello di Napoli - Sezione civile - Sentenza 4 gennaio 2018 n. 35. In tema di protezione internazionale, laddove nel Paese di origine dello straniero vittima di discriminazione sessuale l’autorità statale avversi le unioni omosessuali e lo status stesso di omosessuale, non consentendo la libera espressione della propria sessualità, creando già sul piano normativo una discriminazione tra individui, che non trova alcuna plausibile giustificazione in uno stato democratico come l’Italia, sussistono gli estremi per il riconoscimento della “protezione sussidiaria”, in quanto il rientro dello straniero nel suo paese comporterebbe un assoggettamento a trattamento penale. Questo è quanto si afferma nella sentenza 35/2018 della Corte d’appello di Napoli. Il caso - Protagonista della vicenda è un cittadino nigeriano, dimorante nel casertano, il quale aveva presentato richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero della protezione sussidiaria o della protezione umanitaria. L’uomo sosteneva di essere fuggito dalla sua città natale e di aver raggiunto l’Italia dalla Libia dopo che, avendo sin da adolescente compreso di aver un diverso orientamento sessuale, fu sorpreso in atteggiamenti intimi dai familiari di un suo partner, i quali lo avevano minacciato di morte. In un primo momento, sia la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale che il Tribunale in sede di reclamo non credevano alla sua storia e negavano qualsiasi forma di protezione. In appello, però, i giudici cambiano il verdetto ritenendo credibile la narrazione, pronunciandosi così in favore del cittadino extracomunitario. Le diverse forme di protezione internazionale - Prima di affrontare la questione nel merito, la Corte effettua una breve e concisa ricostruzione della materia sottolineando la presenza di quattro ipotesi attuali di protezione in favore dello straniero: la “protezione internazionale” per le persone perseguitate o che abbiano il fondato timore di subire persecuzione nel loro paese, come descritto dalla convenzione di Ginevra; la “protezione sussidiaria”, “giustificata dal pericolo di un danno grave, ovvero da una condanna a morte, tortura, pene o trattamenti degradanti, conflitti”, di cui all’articolo 19 della Carta di Nizza e al Dlgs 251/2007, recante norme sull’attribuzione della qualifica e protezione sussidiaria; la “protezione umanitaria”, di cui all’articolo 19 del Dlgs 286/1998, testo unico sull’immigrazione, che riguarda casi di soggetti a rischio di persecuzione nel loro paese e che non risulta tipizzata dal legislatore consentendo, quindi, una certa flessibilità nella sua applicazione; e la “protezione temporanea”, prevista dall’articolo 20 del testo unico sull’immigrazione in caso di esodi di massa a causa di conflitti, disastri naturali, o altre cause simili. La protezione sussidiaria - Stante tale quadro di riferimento, per la Corte d’appello nella specie sussiste una ipotesi rientrante nella seconda delle forme di protezione esaminate, ovvero la protezione sussidiaria. Ebbene, ritenuta credibile la vicenda personale del richiedente, vi sono gli elementi per concedere la protezione, giustificata dal timore del soggetto di subire un trattamento penale in caso di ritorno nel suo paese d’origine. Difatti, affermano i giudici la Nigeria è un paese in cui l’omosessualità è vissuta come un tabù ed è anche sanzionata penalmente: “il codice penale nigeriano punisce con la detenzione gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso con una pena fino a 14 anni di reclusione e, nel gennaio 2014, è stata promulgata una legge che punisce sempre con il carcere chi contrae matrimonio o un’unione civile gay o che rende pubblica la propria relazione omosessuale”. Ad essere punito è, dunque, lo status stesso di omosessuale, non consentendo lo Stato nigeriano la libera espressione della propria sessualità e creando “già sul piano normativo una discriminazione tra individui, che non trova alcuna plausibile giustificazione nei principi regolatori dei rapporti sociali in uno stato democratico come l’Italia”. Pertanto, conclude il Collegio, sussiste il diritto dell’appellante alla protezione sussidiaria, posto che, come ribadito anche dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in più occasioni, “l’orientamento sessuale di una persona costituisce una caratteristica così fondamentale per la sua identità che essa non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi”. Roma: bambini in carcere con le madri, servono strutture alternative La Repubblica, 22 maggio 2018 Nella sezione Nido sono recluse 15 donne con i loro bambini. A lanciare l’allarme è Giovanna Longo presidente dell’associazione di volontariato A Roma, Insieme - Leda Colombini. Un carcere più umano e più rispettoso delle tutele nei confronti dei minori. “Oggi nelle carceri italiane ci sono quasi 60 madri con 62 bambini sotto i tre anni, ed a Roma, nella sezione Nido di Rebibbia sono recluse 15 madri con i loro bambini. Questo è un tema dolente e che va oltre la dimensione limitata dei dati del fenomeno. I media hanno spesso lanciato un raggio di luce su questa realtà, in Italia poco nota. Ma conoscere questo segmento dell’esecuzione penale è però molto importante per tutti gli operatori del servizio Giustizia, e non solo”. A lanciare l’allarme è Giovanna Longo, da pochi giorni eletta presidente dell’associazione di volontariato “A Roma, Insieme - Leda Colombini”, che nata nel 1991, da oltre vent’anni svolge attività solidali all’interno del carcere di Rebibbia a Roma, come i “sabati di libertà”, che permettono, con l’impegno dei molti volontari, di portare i bambini fuori dalle mura della prigione. Tra l’associazione di volontariato “A Roma, Insieme” e l’Ordine degli Avvocati è nata una collaborazione che ha portato all’organizzazione, martedì 22 maggio, presso la Corte di Cassazione il Convegno di riflessione e confronto sulle madri ed i loro bambini in carcere. “Dobbiamo fare in modo - prosegue la presidente Longo - che questa realtà non venga trascurata e che venga stimolato al massimo l’impegno a studiare e realizzare forme e percorsi per una Giustizia più umana, per la difesa dei diritti del bambino come valore in sé, verso la salvaguardia della dignità e delle affettività familiari della persona detenuta”. È previsto la partecipazione di operatori ed esperti, di esponenti delle Istituzioni di giustizia, di garanzia e di quelle rappresentative. Tra gli interventi: il Presidente dell’Ordine Avvocati di Roma, Mauro Vaglio, di Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone private della libertà, gli avvocati Simona Filippi, Aldo Minghelli, Francesco Bolognesi; Gabriella Stramaccioni, Garante dei detenuti del Comune di Roma. Ed ancora: Francesca Danese, portavoce Forum Terzo Settore, Luigi Di Mauro responsabile Casa Famiglia Protetta “Casa di Leda”, On. Cosimo Maria Ferri, Sottosegretario al Ministero della Giustizia, On. Walter Verini, Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà, Marta Bonafoni, Consigliera regionale Lazio, Sandro Libianchi, Presidente Conosci-Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane, Marco Patarnello, Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Roma, Filomena Albano, dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza. Sarà, inoltre, presentato il cortometraggio “Non voglio avere paura”, realizzato dall’avvocato Francesco Bolognesi, con la regia di Emanuela Pisani, che racconterà le attività dell’associazione di volontariato “A Roma, Insieme - Leda Colombini”. Napoli: “detenuti picchiati a Poggioreale”, bufera dopo l’inchiesta de “Le Iene” di Eugenio D’Alessandro Il Roma, 22 maggio 2018 Pestaggi e malasanità, ecco l’inferno di Poggioreale. Gli ex detenuti della casa circondariale di Napoli tornano a far sentire la propria voce raccontando a Giulio Golia de “Le Iene” le terrificanti esperienze vissute dietro le sbarre. Storie drammatiche, intrise dì dolore e violenza, quelle andate in onda domenica sera su Italia 1 e che finiscono per accendere ancora una volta i riflettori sui tanti spettri che ancora aleggiano intorno all’istituto di pena. Orrore in cella. Emblematica la storia raccontata da Pietro loia, ex narcotrafficante di Forcella e oggi presidente dell’associazione Ex Don, che da anni si batte per il rispetto della legalità a Poggioreale: “Lì dentro devi solo pregare di non ammalarti mai. Del resto loro (i medici dell’infermeria, ndr) curano tutto con un’unica pastiglia, quella che noi chiamiamo la “pillola di Padre Pio”. Mal di testa o bronchite non la alcuna differenza”. Ioia punta poi il dito contro la famigerata “Cella Zero”, dove i secondini di Poggioreale avrebbero per anni picchiato i detenuti: “Si tratta di una stanza non numerata, dove ti chiamano, ti fanno spogliare e ti riempiono di botte. Se reagisci ti massacrano. Ce n’è una per ogni padiglione dell’istituto”. La “Cella Zero” oggi sembrerebbe non esistere più. Quanto ai fatti accaduti al suo interno in passato, il processo di primo grado è ancora in corso: alla sbarra con lo status di imputati ci sono dodici agenti della polizia penitenziaria. Parlano i detenuti. Le “Iene” hanno poi intervistato Roberto Leva, il detenuto che poco più di due settimane fa era finito in coma proprio dopo aver subito un presunto pestaggio a Poggioreale: “Prima dell’ultimo arresto del 20 aprile scorso stavo seguendo una cura a base di metadone, ma in carcere il trattamento mi è stato sospeso. Sono stato male e per tutta risposta le “guardie” sono venute e prendermi e mi hanno colpito, Intorno a me c’erano quindici persone. Si sono messi i guanti e hanno preso i manganelli. Mi sono saltati i denti e mi hanno picchiato persino sui piedi, tanto che ancora non riesco a camminare. La prima a picchiarmi è stata una donna, nel gruppo ce n’erano ben quattro”. Leva, uscito dal coma pochi giorni fa, ha ottenuto la sospensione della pena. La vicenda è però tutt’altro che chiusa. Nel corso del servizio televisivo anche altri tre ex detenuti hanno infatti parlato degli abusi che sarebbero stati commessi tra le mura di Poggioreale. Tutti concordano tra l’altro su un punto ben preciso: “Le vittime dei pestaggi sono sempre stati i criminali “comuni”, nessun “secondino” si sogna mai di mettere le mani addosso a un camorrista o a un politico”. La direttrice. “Non è assolutamente possibile che qui succedano cose fuori dalla legge”, ribatte secca la direttrice del carcere Maria Luisa Palma, anche lei sentita dalle “Iene”. Entrando nel merito del caso Leva, la numero uno di Poggioreale ha spiegato che i lividi che aveva erano contusioni causate da malori improvvisi “legati ad una malattia di cui non parlo per ragioni di privacy”. Il detenuto, forse in preda a un attacco epilettico, sarebbe infatti caduto a faccia in giù finendo così per fratturarsi il naso: “Il detenuto - conclude la Palma - è stato solo sfortunato. Su di lui non è stato però mai commesso alcun abuso e, soprattutto, non appena si è sentito male ha subito ricevuto tutte le cure del caso”. Tempio Pausania: si rinnova l’intesa tra l’Ute e i detenuti La Nuova Sardegna, 22 maggio 2018 Si è concluso l’anno universitario che coinvolge 46 ospiti del carcere di Nuchis. È terminato l’anno accademico dell’Ute di Tempio. L’atto conclusivo ha coinvolto i 46 ospiti della casa di reclusione di Nuchis iscritti alle attività dell’Università delle terza età. Alla loro presenza, sono state tirate le somme dell’attività svolta e fatto un bilancio anche in prospettiva delle nuove iniziative che potrebbero venire a breve intraprese. Tra queste c’è, ad esempio, la realizzazione del progetto “Il verde intorno a noi” che risponde ai desideri degli iscritti Ute della casa di reclusione, i quali saranno impegnati in attività di piantumazione e cura delle essenze. Anche per questo la direttrice della struttura penitenziaria, Caterina Sergio, ha avuto parole di elogio e ringraziamento per i volontari dell’Ute, sottolineando l’importanza del rapporto di collaborazione. Così è stato anche per Lina Rosa Antona, presidente dell’Ute, e per il suo direttivo. L’occasione è servita per rinnovare l’impegno e auspicare la continuazione dell’attività, ma anche per tastare il polso sugli argomenti e le discipline che potrebbero essere maggiormente gradite dagli iscritti di Nuchis. “I temi trattati nel corso dell’anno - dichiara Antona - hanno spaziato in vari ambiti, tra cui l’ambiente naturalistico sardo e gallurese, ma anche la storia del cinema, con un riguardo particolare ai lavori dei nuovi registi sardi”. Temi che fanno comprendere quanto i corsisti detenuti siano interessati a saperne realmente di più sulla terra che in un certo senso li ospita. Si tratta di temi e interessi di cui è a conoscenza il direttivo Ute di Tempio, visto che la collaborazione tra l’associazione e il carcere dura ormai da cinque anni. Un lasso di tempo significativamente lungo che ha una ragione nel fatto che l’Ute diretta da Lina Rosa Antona sia stata tra le prime sigle dell’associazionismo gallurese a offrire servizi e possibilità collaborative alla casa di reclusione di Nuchis, accogliendo l’appello di Carla Ciavarella che ha diretto la struttura sino al mese di gennaio di due anni fa. Reggio Calabria: presentazione Relazione annuale del Garante dei diritti dei detenuti calabriapost.net, 22 maggio 2018 Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, avv. Agostino Siviglia presenta giovedì 24 maggio alle ore 10,00 presso la Sala dei Lampadari di Palazzo San Giorgio la Relazione annuale sull’attività svolta. La Relazione illustra i diversi fronti di impegno e indica le prospettive di azione nell’immediato futuro. Il Garante è stato nominato dal sindaco Giuseppe Falcomatà nel giugno del 2015. Lo stesso Sindaco Falcomatà sarà presente alla relazione insieme ai rappresentanti delle istituzioni e del volontariato che concorrono nella città di Reggio Calabria ad assicurare il miglioramento delle condizioni delle persone private della libertà personale e la tutela dei diritti della persona. Come da provvedimento di nomina e istituzione della figura da parte del consiglio comunale, diversi sono gli ambiti di impegno del Garante. Il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale opera in particolare per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale mediante la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene delle persone comunque private della libertà personale. Il garante comunale presta inoltre la propria attività con particolare riferimento ai diritti fondamentali, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, per quanto nelle attribuzioni e nelle competenze del Comune medesimo, tenendo altresì conto della condizione di restrizione dei detenuti. Il Garante e l’amministrazione comunale di Reggio Calabria estendono l’invito alla partecipazione a tutti i cittadini interessati, agli studenti e ai formatori, nonché ai promotori del tema della tutela dei diritti fondamentali. Napoli: detenuti ricevono l’attestato di “Cuoco” e di “Operatore del servizio bar” napoliflash24.it, 22 maggio 2018 Si è tenuta sabato mattina presso l’istituto penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano la consegna dell’attestato di qualifica Regionale per i detenuti nell’ambito del progetto: Garanzia Giovani di operatore di servizio bar e cuoco, per i detenuti dell’Alta sicurezza tra i 18- 29 anni promosso dall’ente di formazione AdIM Srl. L’attestato di qualifica è stato consegnato dall’assessore regionale alla formazione Chiara Marciani e dal garante dei detenuti regionale Samuele Ciambriello, alla cerimonia di consegna erano presenti il direttore dell’istituto, il personale educativo dell’istituto e il direttore dell’AdIM Srl Luciano Mattina. Una cerimonia questa, per i giovani detenuti che ha messo al centro dell’azione educativa, una qualifica utile nel mondo della ristorazione che possa dare una vera certificazione al percorso formativo-lavorativo dentro le mura del carcere ai detenuti, ma soprattutto una reale certificazione spendibile una volta espiata la pena al di fuori del carcere. “Un’opportunità questa”, ha dichiarato il direttore dell’AdIM Srl Luciano Mattina, che può reintegrare i giovani e dare una reale alternativa di lavoro”. Il garante Samuele Ciambriello e l’assessora Chiara Marciani hanno consegnato gli attestati di qualifica e sottolineato l’importanza e il grande impatto sociale di queste esperienze formative in carcere. “Formarsi per liberarsi in un’ottica di giustizia ripartiva che possa ridurre concretamente la recidiva” ha chiosato il Garante Samuele Ciambriello. Droghe. “Per sballarsi basta una paghetta, eroina a cinque euro” di Maria Novella De Luca e Giulia Santerini La Repubblica, 22 maggio 2018 Giorgio ha scoperto l’eroina nei bagni della scuola. Ha la voce roca ma il fisico d’atleta. Braccia forti, catenina al collo. Viene da Fidenza e brucia via una sigaretta dietro l’altra. “Perché? Non lo so. Così. Da cretino. In famiglia avevo tutto, affetto, benessere. Ma la droga è ovunque, non scampi. Basta avere 5 euro in tasca. Un mio amico fumava eroina durante la ricreazione, ho provato, mi piaceva e ci sono finito dentro. A 17 anni mi si è spenta la vita, dovevo bucarmi ogni giorno, non avrei mai pensato di rubare ai miei genitori, invece per comprarmi una dose ero disposto a tutto, mentivo, ingannavo. Ho perso gli anni più belli, il mio lavoro, la mia ragazza, ero sempre più solo, oggi mi faccio schifo, ma la verità è che quando sei un tossico la tua unica compagna è la droga”. Giorgio si emoziona, Davide gli dà una pacca sulla spalla. Raccontarsi fa male, come prendersi a pugni in testa. “Qui però ho riscoperto la passione per il disegno”, dice. Ed è un lampo di speranza. In comunità per salvarsi - I ragazzi fanno girare i vassoi del pranzo, fusilli al sugo, cotolette e frutta. Sono giovanissimi e tossici. Entrati in comunità che erano poco più che adolescenti. Ci sono Marco e Lara, gli educatori. Hanno un sorriso che rassicura, di chi sa mettere le mani nel dolore. Fuori, nel giardino della comunità di recupero La Torre di Modena fa caldo ma l’aria è leggera. Una vecchia cascina, i prati ben curati, la casa delle mamme in disintossicazione. Stanno lì con i loro bambini. Lottano per guarire. Perché potrebbero perderli quei figli e lo sanno. Giorgio lavora duro, dissoda, toglie erbacce, semina, suda. “Meglio sfogarsi zappando che pensare alla roba”. Roberto ha 18 anni, lavora in lavanderia, tira di boxe, è diventato maggiorenne in comunità, adora la musica, fumava hashish in seconda media, ha una faccia da bambino ma la fedina penale già sporca e un curriculum tossico pesante come un macigno: “Ho iniziato con le canne come tutti, poi alle superiori ho scoperto la cocaina, mi piaceva da matti quell’effetto di concentrazione per andare a mille, mi faceva anche prendere bei voti. Mica è facile resistere quando in ogni posto in cui vai ti offrono droga: in classe, alle feste, la sera se esci con gli amici. Metamfetamine, acidi, cannabis, Md, Spice, in giro c’è tutto, è un supermarket che costa niente. “Cali” e i problemi te li scordi. Non riuscivo più a fermarmi, pompavo, spingevo, ero pazzo… Così per calmarmi sono passato all’eroina. Nove mesi fa i miei genitori mi hanno portato qui. Non riuscivo a guardarli negli occhi. Soltanto quando sei lucido capisci quanto male ti sei fatto e quanto male hai fatto. Gli ho spezzato il cuore. Ho perso la ragazza, gli amici, l’amore. Adesso spero di non ricaderci più. E di tornare a fare il pugile”. Noi, la generazione perduta - Roberto, Davide, Andrea, Mohammed e gli altri: hanno rubato, mentito, sofferto, spacciato, assediati essi stessi da un mercato capillare che s’infiltra ovunque, dalle scuole medie agli oratori, dai campi di calcetto alle palestre. Hanno 18, 22, 23 anni. I loro nomi sono inventati, le loro storie drammaticamente vere. Il lato disperato della generazione Z. Hanno passato l’astinenza tra crampi e dolori, insonnia, tremori, nausea. Scivolati nell’abisso della dipendenza quando erano adolescenti con vite (quasi) normali, finiti nella tenaglia di un mercato feroce che oggi punta addirittura ai bambini. Perché, dicono, “sballare costa quanto la paghetta di una settimana”. Prezzi stracciati, dosi al prezzo di un “Big Mac”. Il tariffario, ascoltando i ragazzi, è uno spaventoso discount di stupefacenti: “Con 5 euro puoi fare tre fumate di eroina, una dose in vena ne costa 10, quanto tre spinelli, mentre una pasticca di ecstasy non supera i 15, una di Lsd meno di 20 euro così anche la ketamina, la cocaina ce l’hai per 50 euro al grammo”. Bisogna allora partire da qui. Dalla pace di questa cascina alle porte di Modena che ispira al pensiero del fondatore del Ceis don Mario Picchi. Per raccontare le storie di un’emergenza sepolta nel silenzio delle istituzioni. Ossia il crescente esercito di adolescenti policonsumatori di alcol e droghe, ragazzini normali che oggi affollano le comunità di recupero. Lara Gussoni, psicologa, li conosce uno a uno, un po’ come fossero figli. “Alcuni si salvano, altri no. Troppo fragili. Ma noi tentiamo di recuperarli tutti”. Davide ha iniziato a drogarsi mentre faceva uno stage da cuoco. Maglietta verde militare, capelli castani, muscoli da palestra, diploma all’Alberghiero. Un bel ragazzo. Oggi ha 22 anni e divora libri. Arriva da Bologna. È determinato. “L’ansia la sento qui, nel petto, non mi lascia mai. Ho scelto io di venire in comunità. Voglio uscire dalla dipendenza a tutti i costi. Vorrei indietro la mia vita, una ragazza, un lavoro. Bevevo e fumavo spinelli fin dalle scuole medie per superare la mia timidezza. ma dalle droghe pesanti mi ero tenuto lontano. Poi ho avuto l’occasione di mettermi alla prova come cuoco. Lavoravo come un matto, ero sous chef. Finalmente contavo. Volevo che mio padre lo sapesse. Per resistere a quei ritmi ho iniziato a tirare cocaina. Soffrivo, ero lontano da casa. In cucina c’erano dei ragazzi che si bucavano. Ho provato anch’io e ho scoperto che l’eroina mi copriva tutti i pensieri. Non ho più smesso. Ora però so di poter vincere”. Le morti annunciate - Riccardo Gatti, psichiatra, è uno dei più famosi esperti di tossicodipendenza in Italia. Dirige l’area dipendenze dell’azienda sanitaria “Santi Paolo e Carlo” di Milano. Le stagioni della droga le ha viste tutte, dai morti di Aids ai ragazzini scoppiati dalle pasticche del sabato sera. Ha la passione (e la stanchezza) di chi pur nella trincea dei servizi pubblici, ancora crede nel recupero e riduzione del danno. Ma il suo monito è severo: “Mentre siamo circondati da vecchie sostanze che non costano più nulla e da una valanga di sostanze sconosciute che devastano i giovanissimi, rischiamo una epidemia di morti per droga come negli anni Settanta”. “La politica ci ha dimenticati — denuncia Gatti — invece siamo in una quiete che prelude alla tempesta. Negli Stati Uniti nell’ultimo anno sono morti di overdose più americani che in tutta la guerra del Vietnam. I killer sono i derivati da oppiacei, come il Fentanyl, farmaco che gira anche nel mercato clandestino europeo. E quello che accade negli Stati Uniti prima o poi sbarca da noi. Davanti a un liceo sono stati fermati spacciatori che vendevano ossicodone ai ragazzini, un potentissimo oppiaceo chiamato la droga dei guerriglieri”. Marco e Lara, la speranza - Andrea, 23 anni, di Modena, ha gli occhi azzurri e la voce che trema. Lo sguardo indifeso. Si vergogna di dire che il primo spinello glielo hanno offerto i genitori. “L’eroina mi ha tolto l’anima. La prendevo per uscire dalla timidezza, ne sento il richiamo fortissimo anche qui dentro. La sostanza mi fa delirare, uccide i pensieri belli e li fa diventare brutti. Facevo gare di ciclismo, sono risultato positivo al doping,mi hanno buttato fuori. La bici era il mio sogno, ma la droga ha vinto”. “Dai Andrea, forza”. È fragile e Marco lo sa. Marco Sirotti, psicoterapeuta, coordina l’area dipendenze delle comunità Ceis tra Parma e Bologna. “Quando arrivano da noi sembrano vecchi a 18 anni, hanno già provato tutto, gli antidepressivi, la cocaina, la ketamina, l’eroina, per non parlare delle sostanze sconosciute. La droga costa niente, quale adolescente non ha in tasca dieci o quindici euro di paghetta? E poi lo spaccio è ovunque e punta ai più piccoli”. Ci sono ancora, è vero, i grandi “mercati della morte”, il bosco di Rogoredo a Milano, Tor Bella Monaca a Roma, Scampia a Napoli, ma per il resto gli “zoo di Berlino” sono frantumati in un pulviscolo inafferrabile di zone franche di consumo e vendita. Mohammed ha 18 anni, i capelli rasati con il ciuffo dritto, arriva da Pordenone, ha calpestato tutti i vicoli di un’adolescenza tossica e oggi lotta insieme agli altri per riprendersi la giovinezza. Deve fare l’esame di terza media. Ride: “Non è che mi vada troppo di studiare, però sono bravissimo a fare hip-hop. A 10 anni mi sono fatto la prima canna, a 15 ero già dipendente da cocaina. In casa mi davano un sacco di botte allora uscivo e facevo risse, furti… Sono marocchino, tra i miei compaesani spacciano in tanti. Sono scappato da una comunità, qui invece con Marco, Lara mi sento bene, spero di farcela, in fondo sono giovane”. E la loro giovinezza esplode quando tutti insieme attaccano una indiavolata partita a biliardino. Non più ragazzi bruciati ma ragazzi e basta. Metadone e psicoterapia - Ma quanti sono? E chi cura questa nuova generazione di tossicodipendenti minorenni che i Sert inviano alle comunità di recupero? I numeri sfuggono e così i “protocolli” di recupero. “Per questi giovanissimi la vecchia comunità chiusa degli anni Ottanta non regge più”, ammette Sirotti. “Nei nostri centri le porte sono aperte e i percorsi non sono superiori ai 12/15 mesi. Come fai a “chiudere” un adolescente? Usiamo farmaci, il metadone se serve, si lavora, si fa psicoterapia, ma soprattutto puntiamo sulla rieducazione e sulla presa di coscienza. Costringere serve a poco, il proibizionismo ha fallito. La salvezza arriva dalla motivazione, questa è la sfida”. Eroina e “Nps”, nuove sostanze psicoattive: sono queste le droghe che oggi fanno strage. Sono 17mila i ragazzi italiani che sniffano o si iniettano oppiacei più di 10 volte al mese, 50mila quelli che hanno provato pasticche o cristalli sconosciuti. “Noi, nei Sert, gli eroinomani, i cocainomani, sappiamo come curarli. Abbiamo invece le armi spuntate — dice Gatti — rispetto a questi nuovi micidiali composti sintetici che bruciano il cervello. Dai pronto soccorso arrivano dati di ragazzini completamente sconvolti da overdose di droghe che nessuno conosce”. Mix che portano alla pazzia, un esercito di consumatori che alla dipendenza ormai somma la patologia psichiatrica. L’Addiction center - Allora basta spostarsi verso Milano, nelle campagne intorno a Lacchiarella, dove gli utenti sono più grandi. E ascoltare Rocco, 28 anni, tossico da dieci, che sta provando a ricostruirsi una vita nell’Addiction Center, comunità specializzata nel “policonsumo”, gestita dal Cnca. Una grande casa di campagna, le galline, l’orto. Rocco: “In un giorno riuscivo a farmi anche sette tipi di droga diversi, la mia famiglia è ricca, alle feste butti giù roba che nemmeno conosci, girano un sacco di farmaci, Xanax, Tavor, Valium, ansiolitici, antidepressivi. Le dosi se vuoi arrivano a casa, come fosse Foodora… L’offerta è pazzesca. Ma è a scuola che tutti noi abbiamo cominciato. Vi prego, intervenite lì”. Carla è bella e fragile. Ha 30 anni. Te la racconta, piangendo, come fosse una brutta canzone d’amore. “Il mio uomo si faceva, mi portava nelle crack-room di Barcellona, l’ho seguito nella sua strada di morte”. Youssef ha 19 anni, la faccia appassita, è arrivato da bambino senza genitori dall’Egitto. Sulle spalle ha una condanna e un mucchio di sogni infranti. “Quando spacciavo nel bosco di Rogoredo era pieno di ragazzini di 13, 14 anni che compravano fumo, pasticche, eroina con 5 o 10 euro. Addirittura mi chiedevano come usare quella “roba”, come farsi un buco. Oggi dico che quel bosco è l’inferno”. Droghe. “Così ho salvato mio figlio dalla schiavitù della cocaina” di Maria Novella De Luca e Giulia Santerini La Repubblica, 22 maggio 2018 L’inchiesta di “Repubblica” sulle nuove dipendenze dei ragazzi continua raccontando chi la droga ha deciso di combatterla C’è la testimonianza del padre di un ex tossicodipendente. Ci sono le immagini degli operatori della comunità di Villa Maraini, che ogni giorno nei quartieri più degradati della capitale, attraverso la riduzione del danno, cercano di avviare i ragazzi verso un percorso di recupero. E c’è infine l’atto d’accusa dello psichiatra Luigi Cancrini: “Il diritto alle cure stabilito per legge è stato dimenticato”. Oggi Giovanni sta bene, finalmente. Lo guardo e mi commuovo: è salvo. Nel mio cuore ringrazio ogni giorno la comunità. Avevo un figlio distrutto dalla cocaina, oggi ho un figlio sano e sereno. Eppure anche adesso che è “pulito”, la preoccupazione non mi lascia mai: basta che Giovanni faccia tardi o veda qualche amico dei tempi “tossici” e il cuore mi si stringe. Cosa starà facendo? Tornerà?”. Filippo ha quasi sessant’anni, è un uomo che si è fatto da sé, determinato e forte, arrivato a Novate Milanese dal Sud con il sogno, realizzato, di dare un futuro alla famiglia. “Comandavo una squadra di vigilantes”. Ha la voce che si spezza quando parla di suo figlio Giovanni, 27 anni, ex tossicodipendente, finito nella trappola della droga quando era poco più che adolescente e precipitato sempre più in basso, tra violenza, carcere e follia. “Oggi Giovanni ha un buon impiego, fa l’autista. Per poter continuare a guidare, visto il suo passato, deve fare ogni 4 mesi il test e dimostrare di essere pulito. A volte penso che ha scelto di fare l’autista perché così è costretto a stare lontano da droga e alcol. È diventato un uomo. Adesso il suo sogno è quello di trovare l’amore e sposarsi”. Ricorda Filippo: “Per salvarlo mia moglie Rosaria e io eravamo così disperati che l’abbiamo denunciato. Ricordo quel giorno. Ero al lavoro e lui mi chiamò dicendo che stava distruggendo la casa perché non gli davamo i soldi per la cocaina. Sentivo il rumore di vetri rotti, mobili spaccati, stoviglie in pezzi, mia moglie era lì, ho avuto paura per la sua vita”. Giovanni finisce a San Vittore. “Ha fatto cinque mesi di carcere. Pericolosi però. il carcere è pieno di spacciatori. Ma in prigione, paradossalmente, è iniziata la sua rinascita, il giudice infatti gli ha imposto gli arresti domiciliari in comunità”. Giovanni viene portato nell’Addiction Center di Lacchiarella, specializzato nei policonsumatori e nella disintossicazione da cocaina in particolare, che ormai in molti si iniettano in vena. Filippo non ha perso l’accento napoletano. Per capire quel figlio così fragile e ribelle si è messo in gioco, ha provato a ripercorrere la strada all’indietro. “Non c’eravamo accorti di niente. Assurdo. Lui studiava all’istituto tecnico, qui a Novate, aveva gli amici, ci sembrava un ragazzo come tanti, anzi più bello e più forte. Sì ci chiedeva i soldi per uscire, ma quale adolescente non lo fa? Siamo gente semplice, ci siamo spezzati la schiena per non far mancare niente ai nostri figli”. Eravamo ciechi, sì ciechi”, ammette sommesso Filippo. Poi, una sera, il mondo crolla. “Ci chiamano dall’ospedale avvertendoci che Giovanni aveva avuto un incidente in motorino. Arrivati lì scopriamo che non solo si era spaccato la testa, ma era anche positivo alla cannabis, alla cocaina e all’alcol”. Nella vita di Filippo e Rosaria si apre una voragine, un buco nero. “Giovanni ha iniziato a drogarsi in un periodo in cui lavoravo moltissimo. Avevo il comando della vigilanza e non c’ero mai... Ho trascurato mio figlio. Non avevo capito la sua fragilità, l’affetto c’era, ma non parlavamo”. Giovanni guarisce dalla ferita alla testa ma è dentro il tunnel. Lascia la scuola, si droga ogni giorno, ha una fidanzata tossica come lui, a casa sono botte per i soldi, “dovevamo andare a recuperarlo ovunque perché era troppo fatto per guidare, ricordo il cuore in gola a ogni squillo”. Una vita solcata dalla paura. “Temevo che se non aveva la sua dose, Giovanni potesse far del male a sua madre. È un pensiero terribile”. Nel 2012 Giovanni entra in comunità. Un anno e mezzo nell’Addiction center, gestito dal Cnca, (coordinamento comunità di accoglienza). Affronta la disintossicazione. “All’inizio era ostile. Diceva che stava lì soltanto per evitare il carcere. Poi, invece, grazie alla psicoterapia, ai gruppi, si è addolcito, ha iniziato a guardarsi dentro. Non ringrazierò mai abbastanza Monica, Francesco, gli operatori. L’hanno preso per mano, gli hanno dato delle regole, restituito la speranza. È dura sopportare il dolore di questi ragazzi. Abbiamo visto Giovanni cambiare. Arrivavamo e ci abbracciava, capite?”. Filippo si commuove, è l’infinito amore di un padre. “Lontano dalle sostanze e dall’alcol, Giovanni ha ricominciato ad amare la vita. E anche noi abbiamo capito i nostri errori. Il silenzio ad esempio. Il silenzio in famiglia uccide”. Parlate con i vostri figli, dice oggi Giovanni agli altri genitori, “anche quando nell’adolescenza sembra che vi detestino”. E poi, nessuna vergogna: “Chiedete aiuto, non abbiate paura. Quando si ha il coraggio di aprire la vita, poi la vita risponde”. Balcani, la bomba Erdogan di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 22 maggio 2018 “Sultan Erdogan”, “Sultan Erdogan” hanno urlato 15mila “turchi d’Europa” che gremivano domenica scorsa il palazzetto di Zetra a Sarajevo, con sventolio di bandiere turche e bosniache. Erdogan - dopo un giro d’affari anche in Serbia - ha scelto il bagno di folla nella capitale della Federazione croato-musulmana (ormai a stragrande maggioranza islamica), a quasi un mese dalle elezioni politiche e presidenziali in Turchia del 24 giugno, e di fronte al rifiuto dei suoi comizi da parte di Germania, Austria e Olanda dopo il referendum di aprile 2017 sul rafforzamento dei suoi poteri. Obiettivo dichiarato la diaspora turca di più di tre milioni di elettori. Quello provocatorio, rimettere piede nei Balcani a pochi giorni dal vertice Ue di Sofia sull’allargamento all’Europa del sud-est e chiuso con un nulla di fatto o rigetto. Una grave responsabilità Ue dopo avere legittimato, a inizi anni Novanta, i nazionalismi riconoscendo le nuove patrie ex jugoslave proclamate su base etnica. Una bomba quella di Erdogan. Innescata in terra ex jugoslava devastata dalle guerre fratricide e a partecipazione Nato. E tutt’altro che pacificata. Ogni Paese mostra ancora le sue ferite e voragini di nodi irrisolti, al proprio interno e ai nuovi amari confini che, da separazioni amministrative di uno stesso Stato, sono diventati muri di separazione. Vale per i conflitti: tra Slovenia e Croazia, tra Macedonia e Grecia, ora tra il Montenegro appena entrato nella Nato e Albania; tra la Serbia e l’ex provincia del Kosovo, proclamatosi unilateralmente indipendente nel 2008 grazie alla guerra e all’occupazione della Nato, che molti Paesi Onu e quattro Ue non riconoscono. Ma la tensione più forte è in Bosnia Erzegovina, dove la “pace di carta” di Dayton lascia sul campo una Federazione tra croati e musulmani sempre in contrasto e la Repubblica serba di Bosnia, invisa ad entrambi, identitaria e fortemente arroccata; né bastano istituzioni sulla carta tripartite ed egualitarie. La tragedia del sangue versato pesa come un macigno. Senza parlare delle rotte della disperazione dei migranti che, allontanati dal Mediterraneo dall’Ue sono stati poi “venduti” al dominio ottomano turco-libico. E senza dimenticare i foreign fighters di ritorno qui dalle ultime guerre mediorientali. Erdogan ha scelto Sarajevo, nella Bosnia che era parte dell’Impero ottomano. E nei Balcani la storia non passa. Al di là delle affermazioni identitarie islamiste, subito con lui si è schierato il presidente di turno della presidenza bosniaca, il musulmano Bakir Izetbegovic, per il quale “è stato Dio a mandare Erdogan al suo popolo”. Quale dio? Visto che né i rappresentanti serbi né quelli croati hanno partecipato ai colloqui bilaterali. Francia. Serial killer, meglio in carcere o in psichiatria? italiastarmagazine.it, 22 maggio 2018 Nordhal Lelandais, 35enne, assassino reo-confesso, per ora, di Maelys De Arauyo, 8 anni, e del caporale Arthur Noyer, 22, e David Ramault, 45, assassino e stupratore di Angelique Six, 13 anni, con precedenti analoghi come vengono trattati i prigionieri negli “ospedali penitenziari”. Ramault, dopo un mese di ricovero in un istituto-psichiatrico per detenuti rientra in cella, mentre Lelandais è sempre nella stanza singola di una clinica. In pochi anni, le unità ospedaliere appositamente attrezzate (Uhsa) per i detenuti si stanno lentamente riempiendo, con molte contraddizioni e qualche critica. Si tratta di veri e propri “ospedali carcerari”, la cui esistenza è stata recentemente evidenziata dal ricovero di diversi detenuti dei media. Ramault, l’assassino della piccola Angélique, ha lasciato l’UHSA di Seclin (Nord) giovedì, dove era stato ammesso l’8 maggio. N trordahl Lelandais, incriminato per l’omicidio del caporale Arthur Noyer e di Maëlys, si trova ancora nel Vinatier, a Lione (Rodano). Si tratta di unità ospedaliere appositamente attrezzate, create dalla legge Perben nel 2002. Con un’osservazione originale: il trattamento dei detenuti con problemi psicologici era stato in passato poco utilizzato. Fino ad allora, questa funzione era stata affidata in particolare all’SMPR, ai 23 servizi medico-psicologici regionali e alle unità di assistenza psichiatrica situate all’interno delle istituzioni penitenziarie. Jonathann Daval, l’assassino di Alexia, viene infatti ricoverato nella prigione di Digione (Costa Azzurra). Con l’UHSA, la scelta è di avere posti in ospedali psichiatrici “dedicati”, all’esterno delle carceri, con regimi diversi e più personalizzati caso per caso. Il ministero della Sanità è responsabile della sezione sanitaria, mentre l’amministrazione penitenziaria garantisce la sicurezza “perimetrale”. “Le UHSA si presentano esternamente come carceri”, ma “le guardie non hanno più accesso ai locali interni”, così nel luglio 2017 una relazione informativa della Commissione Affari Sociali del Senato. “I funzionari possono tuttavia entrare a far parte del personale infermieristico su richiesta di quest’ultimo”. Ma è ancora molto raro”, dice Marie, un’operatrice che ha lavorato a Le Vinatier per diversi anni. Entrano solo in caso di sospetti in merito al comportamento dei reclusi, o per casi specifici”. In realtà, questa convivenza tra tutela della salute e carceri “funziona piuttosto bene”, osserva Virginie Martin, responsabile della sezione “salute e diritti sociali” dell’amministrazione penitenziaria. Sebbene la relazione del Senato indichi alcune “difficoltà nel conciliare le due culture”, anche se episodi di violenza rimangano rari e le incomprensioni più numerose. C’è il rischio, scrive Le Parisienne, la tentazione, per l’amministrazione ma soprattutto per i giudici, “di psichiatricizzare tutti i comportamenti difficili”, nota il rapporto del Senato. I Team di Vinatier hanno detto che, dopo aver cercato di denunciare i colpevoli di reati sessuali all’UHSA, si pensava di farli prendere in carico dal servizio. Tuttavia, la decisione di ammettere e refertare un paziente a un’UHSA puà essere solamente decisa dal medico, “in stretta riservatezza medica”, dice Virginie Martin. Oltre ai detenuti affetti da patologie mentali, questi stessi UHSA li ricoverano a scopo di protezione. O sono vittime di violenza a causa del loro disadattamento alla prigione, o soffrono di patologie depressive e rappresentano un pericolo per se stessi, come nel caso di un quarto delle persone ammesse. Alcuni hanno disturbi mentali prima della loro incarcerazione che non si manifestavano necessariamente, ma possono rivelarsi con la reclusione”, ha descritto questa infermiera dal carcere di Châteauroux (Indre). È il caso di Nordhal Lelandais, minacciato di morte dai detenuti per l’atrocità del suo delitto e per il timore che possa suicidarsi, sottraendosi così non solo al giudizio ma anche alla ricerca della verità su molti altri casi di persone sparite, in teoria riconducibili a lui. Secondo l’amministrazione, riporta il media, la durata media del soggiorno in UHSA è di 20,8 giorni, con un tasso di occupazione del 80%. Ma soprattutto nell’Ile-de-France il numero di posti letto è insufficiente e le liste d’attesa sono talvolta lunghe. Questo problema di spazio è generale, nota Marie, di Vinatier. Alcuni SMPR hanno solo 25 detenuti per 800, e gli UHSA sono quasi al massimo. Per non parlare della cronica carenza di personale”. “Più in generale, è il ruolo della psichiatria in Francia che solleva interrogativi”, spiega Laurence Cohen, senatore (PC) di Val-de-Marne e co-autore del rapporto. La società viene sostituita dalla prigione, una discarica sociale. E alcuni atti di violenza oggetto di sanzioni giudiziarie potrebbero essere evitati con una migliore prevenzione. Cina. Laogai: le carceri-gulag vere industrie della morte di Luca Rinaldi dailycases.it, 22 maggio 2018 Più di mille i campi di prigionia e lavoro forzato disseminati in tutta la Repubblica Popolare Cinese dove le condizioni di vita e lavoro dei detenuti, uomini donne e bambini, sono disumane. Sono più di mille i campi di prigionia e lavoro forzato disseminati in tutta la Repubblica Popolare Cinese. Definiti “i nuovi Gulag cinesi”, perché ispirati ai campi di concentramento russi di epoca staliniana, i Laogai vennero istituiti nel 1950 da Mao Zedong, il rivoluzionario che portò il comunismo a trionfare in Cina. Attualmente i Laogai ospitano milioni di persone, uomini, donne e bambini che, al pari di schiavi, sono costretti a massacranti condizioni di vita e di lavoro. Le poche informazioni a riguardo, per lo più smentite dal Governo cinese, arrivano da coloro che, da queste prigioni, sono usciti, perché arrivati a fine pena o perché riusciti a fuggire. Harry Wu era forse il più famoso di questi: arrestato nel 1960 con l’accusa di essere un cattolico e “controrivoluzionario di destra”, fu detenuto in diversi campi Laogai fino al 1979, quando fu rilasciato grazie alla liberalizzazione che seguì la morte di Mao Zedong. Diciannove anni di sofferenze e di violenze testimoniate da Wu, fino al giorno della sua morte nel 2017, con numerose interviste e con esperienze di attivismo e denuncia delle violazioni dei diritti umani in Cina, iniziate una volta rifugiatosi in America, dove fondò, nel 1992, la Laogai Research Foundation, un’organizzazione di ricerca e pubblica educazione no profit sui campi di lavoro cinesi. Negli anni sono venuti alla luce alcuni degli strumenti di tortura che la dittatura cinese mette in atto in questi “campi di rieducazione” nei confronti dei condannati. Si parla di lavori forzati, che durano anche 18 ore al giorno, in miniere di carbone o a costruire strade o lavorare la terra, di tempo passato a nutrirsi, in mancanza d’altro, anche di insetti e topi. All’interno dei Laogai sono previste punizioni corporali quali scariche elettriche, pestaggi, sospensione per le braccia, privazione del sonno, isolamento in celle di pochi metri quadrati, assenza di cure mediche e controlli, induzione al vomito con tubi ficcati in gola o nel naso, esposizione a caldo o freddo, bruciature, fino ad arrivare a violenze sessuali e all’asportazione e al traffico di organi dei detenuti. Ma ciò che veramente distingue i Laogai cinesi dai predecessori campi di concentramento nazisti o staliniani, è l’attuazione anche di un vero e proprio abuso psicologico, che si concretizza nel lavaggio del cervello dei detenuti. Un indottrinamento politico che porta il prigioniero alla perdita della propria identità e a essere educato all’infallibilità del comunismo. Ogni giorno sono previste sessioni di studio dopo il lavoro forzato, costituite anche dalla cosiddetta “autocritica” per la riforma del pensiero, in cui, oltre a elencare e analizzare le proprie colpe, il detenuto le deve ammettere pubblicamente e deve giurare di diventare una “nuova persona socialista”. Infine deve dimostrare la propria lealtà al Partito Comunista Cinese denunciando anche i propri amici e familiari. I più colpiti, come è facile capire, sono i dissidenti politici contrari al Partito e i praticanti del Falun Gong, una pratica spirituale accusata di diffondere credenze irrazionali e di minare la stabilità sociale. La “riforma” della personalità dei detenuti rende il sistema di rieducazione del Laogai strettamente funzionale allo stato totalitario cinese, così come, altrettanto funzionale, questa volta all’economia cinese, risulta il lavoro a cui sono costretti i prigionieri. Questo, infatti, rappresenta il secondo scopo alla base dell’istituzione dei Laogai: fornire un’enorme forza lavoro a costo zero per le multinazionali che producono e investono in Cina. È proprio dal lavoro nei Laogai che è partita l’attuale conquista cinese dei mercati esteri, caratterizzata da un basso tasso di disoccupazione, da una crescita continua dell’esportazione e dalla concorrenza spietata sui prezzi. Oggi nei Laogai si produce di tutto: articoli di vestiario, giocattoli, mobilio, tecnologia, veicoli… praticamente tutto ciò che in Occidente porta il marchio “Made in China”. Viene facile capire come diventi semplice trarre vantaggio dalla violazione dei diritti umani in un Paese dove il solo pensare è considerato reato capitale e il pensiero è definito “istigazione eversiva”. Ne consegue che l’attuale e sfavillante crescita economica cinese nasce e si perpetua con il lavoro forzato nei Laogai e in una vasta rete di fabbriche-lager in cui le condizioni lavorative non sono tanto diverse dalla schiavitù. Si stima che almeno l’80% della popolazione cinese sia sfruttata in esse, nelle campagne e nelle miniere, a vantaggio della restante minoranza del 20%, il più delle volte collegata al Partito. Il lavoro nei Laogai diventa quindi un business, non solo per la Cina, che è ormai la seconda potenza economica mondiale, ma anche per il resto del mondo che, pur condannando apertamente il sistema dei Laogai e le violazioni dei diritti umani, si limita però assurdamente a voltare lo sguardo altrove e a continuare a intrattenere rapporti commerciali con Pechino, con la falsa speranza che il commercio con l’Occidente potrà migliorare la situazione, e senza comprendere che è proprio questo comportamento che perpetua lo status quo. È evidente, infatti, che finché l’Occidente accetterà i prodotti fabbricati in Cina, i Laogai continueranno ad esistere e i diritti umani ad essere calpestati. Harry WU, in una delle sue interviste, ha usato poche semplici parole per descrivere i Laogai: “Sono posti in cui si fabbricano due generi di cose: i prodotti e gli uomini”. Egitto. Arrestato Mohamadein, l’avvocato degli operai di Pino Dragoni Il Manifesto, 22 maggio 2018 Detenuto la scorsa settimana per le proteste contro i folli rincari dei biglietti della metro. Tra i leader di Piazza Tahrir e dei Socialisti Rivoluzionari, è da anni in prima linea al fianco delle vertenze operaie. Non si ferma lo stillicidio di arresti e persecuzioni di attivisti e difensori dei diritti umani in Egitto. Prelevato in casa dalla polizia nella notte tra giovedì e venerdì e detenuto in un luogo sconosciuto per più di 24 ore, Haitham Mohamadein è “riapparso” sabato scorso presso la procura della National Security che ha convalidato la custodia cautelare per altri quindici giorni. Le accuse sono “appartenenza a un gruppo terroristico” e “istigazione alla protesta”. Il suo arresto è legato alle proteste scoppiate la settimana scorsa nella capitale egiziana a seguito degli aumenti improvvisi dei prezzi dei biglietti della metro, che arrivano anche al 300% per alcune tratte. Haitham Mohamadein, avvocato e attivista del movimento dei Socialisti Rivoluzionari, è uno dei volti più noti della sinistra egiziana e della rivolta di Piazza Tahrir. Figlio di uno storico leader operaio del distretto industriale di Helwan, Mohamadein ha dedicato la sua carriera di avvocato alla difesa dei diritti dei lavoratori. Da giovanissimo ha partecipato al team legale in difesa degli arrestati del 6 aprile 2008 nella città di Mahalla, la più grande tra le mobilitazioni popolari che hanno anticipato la rivoluzione del 2011. È stato tra i protagonisti della nascita del sindacalismo indipendente e negli anni ha fornito assistenza legale a numerose lotte e scioperi, dai trasporti alla sanità, dagli operai dell’acciaio alla vertenza del cementificio di Torah della scorsa estate. Collabora con il centro al-Nadeem per le vittime di tortura ed è stato tra i promotori del movimento Bds (la campagna di boicottaggio dello Stato di Israele, lanciata nel 2005 dalla società civile palestinese) egiziano. Tra le prime vittime della legge sulle proteste emanata nel 2013 dopo il colpo di stato di al-Sisi, era finito nuovamente in carcere nell’aprile 2016, quando le forze di sicurezza lo avevano arrestato preventivamente in vista delle manifestazioni contro la cessione delle due isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Sono almeno venti gli arresti finora confermati per le proteste contro gli aumenti dei biglietti della metropolitana. Negli ultimi giorni le stazioni delle due linee cairote sono presidiate in massa dalle forze di sicurezza. Le misure di austerità chieste dal Fondo Monetario in cambio di prestiti hanno portato ad aumenti generalizzati di tutti i beni di consumo e tra un mese sono previsti nuovi rincari sui carburanti. Il regime teme fortemente l’esplosione di proteste sociali e la possibile saldatura tra attivisti politici, movimenti dei lavoratori e rabbia diffusa. Arabia Saudita. I diritti delle donne finiscono in cella di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 22 maggio 2018 Altro che aperture. Nel regno di MbS, divenuto il secondo importatore di armi al mondo per effetto della guerra in Yemen, arrestate re delle paladine della lotta per la libertà di guidare. L’ultimo dei paradossi o delle ipocrisie saudite: a meno di un mese dall’entrata in vigore della legge che permetterà, finalmente, alle donne saudite di guidare, tre delle paladine della lotta per le donne al volante sono state arrestate sabato scorso. Loujain al-Hathloul, Aziza al-Yousef ed Eman al-Nafjan, molto conosciute nel regno per le loro lotte a favore dei diritti delle donne, sono state arrestate insieme ad altre quattro persone con l’accusa di avere avuto “contatti sospetti” con non meglio precisate entità straniere e di aver fornito loro “soldi con l’obiettivo di destabilizzare il regno”. Accuse degne dei regimi dittatoriali più infami e che da sole basterebbero o far crollare la nuova immagine che il pretendente al trono, il principe Mohamed bin Salman (noto come MbS), cerca di accreditare in occidente, di un’Arabia saudita moderna e in fase di democratizzazione. Se la modernità si giudica dal faraonico progetto Neom, con l’investimento di 500 miliardi per costruire sul Mar rosso un nuovo hub per il turismo di alto livello, probabilmente chiuso ai sauditi, allora certamente si può parlare d’innovazione. Ma questa modernità non riguarda i diritti delle donne saudite, anche se sono stati utilizzati alcuni specchietti per le allodole: accesso agli stadi un paio di volte, l’annuncio della riapertura dei cinema dopo 35 anni di chiusura, una “fashion week” con sfilate di modelli degli stilisti più famosi riservati alle donne e vietate anche ai giornalisti. La sfilata, che ha avuto ampia eco anche in occidente, si è tenuta nel lussuoso hotel Ritz-Carlton, già prigione d’oro di centinaia di principi e uomini d’affari colpiti dalla campagna anti-corruzione o semplicemente messi fuori gioco perché contrari all’ascesa fulminante al potere assoluto di MbS. Il principe del resto è avvezzo alla subdola ipocrisia come quando, dopo la destituzione del precedente successore al trono, gli aveva baciato la mano dicendo: “Il vostro sostegno e il vostro consiglio mi saranno sempre necessari”. Ottenuta una concentrazione di poteri senza precedenti in Arabia saudita, il giovane principe (32 anni) doveva pur concedere qualche attenuazione nella discriminazione delle donne che non ha simili in nessun paese del mondo, a partire dalla guida. I video delle donne che sfidavano il divieto di guidare erano diventati virali a livello mondiale. E poi il fatto che le donne dovessero avere un autista privato - non esistendo in Arabia saudita servizi pubblici - contrastava con le difficili condizioni economiche di molte famiglie e quindi conveniva fare di necessità virtù. La decisione oramai inevitabile non è stata comunque digerita dai più oltranzisti difensori del wahabismo ortodosso che hanno sostenuto paradossalmente che il permesso di guidare alle donne avrebbe rovinato le famiglie e anche le loro ovaie! E in difesa del divieto è comparso l’hashtag #tu non guiderai. Tuttavia, per i più realisti, l’importante è non toccare quello che resta il caposaldo dell’oppressione della donna saudita: il tutore, sempre e comunque esclusivamente maschio, padre, marito o fratello che sia. Ancora necessario alle donne per poter svolgere la maggior parte delle loro attività. Se finora MbS ha giocato sulla condizione delle donne non potrà continuare invece a nascondere le difficoltà provocate dalla guerra da lui lanciata in Yemen contro gli houthi (sciiti filo-iraniani), che hanno portato l’Arabia saudita a diventare il secondo importatore mondiale di armi. E a coprire le difficoltà economiche non basterà la vendita del 5% della compagnia petrolifera Aramco compresa nel progetto di Vision 2030, che dovrebbe portare l’Arabia saudita a non contare più solo sulle risorse petrolifere.