Nodo responsabilità: ragazzi violenti, è difficile dare una risposta efficace Il Mattino di Padova, 21 maggio 2018 Si è parlato molto di ragazzi violenti, alla Giornata di studi sulla responsabilità che si è svolta di recente nella Casa di reclusione di Padova, in un momento in cui ogni giorno si segnalano nelle scuole atti di grande aggressività, a cui si fatica a dare una risposta efficace. Qui riportiamo parte di due interventi importanti, quello di Lucia Di Mauro Montan ino, la moglie di una guardia giurata che a Napoli, nel corso di una rapina, è stata assassinata da Antonio, un ragazzo di neanche 17 anni, che dopo qualche mese è diventato padre. Lucia ora ha praticamente “adottato” la famiglia del “carnefice”. E poi quello di Marco Rossi -Doria, esperto di politiche educative e sociali, che ha insegnato nel vicoli del Quartieri Spagnoli a Napoli ai ragazzi che hanno lasciato la scuoia, è tra i fondatori di Chance, la scuola della “seconda occasione”. Mio marito fu ucciso ma cambiare è possibile Questa è la mia storia: noi eravamo una famiglia normale, con mio marito ci siamo conosciuti sui banchi di scuola, avevamo sedici anni. Ci siamo sposati a venti, abbiamo avuto una bambina molto presto. Il 4 agosto del 2009, quando mio marito è stato ucciso, stavamo da 28anni insieme, praticamente una vita. Eravamo giovani ma veramente lui era tutto per me, era i miei progetti, era i miei sogni e morendo lui quei sogni si erano un po’ spenti. Come si doveva andare avanti dopo una tragedia di questo genere? Per tanti mesi sono stata a letto, poi il dolore di mia figlia, che nello stesso momento aveva perso il papà e la mamma, mi ha dato la forza di dire che dovevo fare qualcosa. Sono venuta a conoscenza che a Napoli c’era un coordinamento di familiari delle vittime innocenti, 350 vittime riconosciute, ma siamo più di 500. È stato importante immaginare il dolore di tante persone e conoscere per quanti motivi si muore a Napoli, per i motivi più assurdi: la mamma che accompagna il bimbo a scuola, un padre di famiglia che festeggia l’arrivo del nuovo anno, o due ragazzi che stanno in palestra e che vengono aggrediti, cose per me assurde. Questo dolore di tanti familiari lo dovevo trasformare in qualcosa di positivo. Io faccio parte dell’associazione Libera che ci accompagna nel percorso di memoria, ma per me non era abbastanza, lo poi ho sempre pensato che chi aveva ammazzato mio marito era un mostro, era quel cancro che sta uccidendo Napoli, ma sapere invece che erano stati quattro ragazzini è stata una cosa devastante. Nel percorso che ho fatto in tutti questi anni dando una mano anche agli altri familiari, diciamo che è stato il destino a scegliere per me, perché frequentando Nisida, il carcere minorile, il direttore mi ha sempre detto di dare una possibilità ad Antonio, questo ragazzo che ha ucciso mio marito, prima che passasse a Poggioreale, perché il carcere degli adulti è quello più difficile, se non si va preparati c’è il rischio di rimanere coinvolti ancora di più. Allora il direttore mi pregava sempre: “Se hai la possibilità incontralo, perché poi lui passerà al carcere degli adulti con una motivazione diversa”. Tutti e 4 i ragazzi sono stati condannati a 30 anni, però con lo sconto di pena sono arrivati a 22 anni e Antonio doveva passare al carcere per adulti al compimento del venticinquesimo anno di età. La prima volta che mi è stato detto che mi voleva incontrare ho pensato che era una cosa impossibile, però è stato a lungo il mio tormento perché pensavo che bisognava dargli una possibilità, ma non avevo la forza giusta. Però due anni fa in una manifestazione di Libera sul lungomare di Napoli, c’era anche il direttore del minorile, io gli vado incontro chiedendo quanto tempo mancasse prima che il ragazzo passasse a Poggioreale, lui mi risponde che manca ancora un anno. E poi mi dice che Antonio era lì alla marcia. Ho detto che lo volevo incontrare subito e quando gli è stato riferito lui è venuto verso di me tremando, mi ha chiesto perdono e non ha retto, e io mi sono sentita la sua mamma, ho detto che da quel momento in poi avremmo fatto tante cose insieme nel nome di mio marito. Poi il giudice invece di mandarlo a Poggioreale nel carcere dei grandi gli ha dato la possibilità di scontare la pena fuori in libertà vigilata. Anche lì come una mamma gli ho dato una mano. Ho chiesto a tanti di darmi una mano per trovargli un lavoro, mi hanno detto di no, fino a quando una persona che gestisce un bene confiscato dedicato a mio marito gli ha dato il lavoro. Vorrei dire ai ragazzi che sono qui in carcere che non c’è una divisione tra buoni e cattivi, siamo tutti vittime dello stesso male e vorrei che il ragazzo che ha ucciso mio marito fosse un esempio che un cambiamento si può fare. Lucia Di Mauro Montanino Il problema è che manca un presidio del limite Cosa si fa quando delle bande di ragazzi molto giovani terrorizzano un territorio? la prima questione che ho capito è che chiamiamo baby gang delle realtà molto diverse. Una cosa sono dei gruppi organizzati, in una periferia di una città che si armano, terrorizzano la zona, eleggono un capo in un territorio dove i vecchi capi sono tutti in carcere. Altra cosa sono dei tredicenni e quattordicenni che decidono di fare delle scorribande con delle mazze di ferro, delle catene, con dei motorini. Possono fermarsi sotto una galleria nel centro della città antica e picchiare un vecchio barbone, possono prendere di punta un ragazzino. Sono evidentemente distanti da qualunque tipo di controllo adulto. Lo sono perché? Nel loro quartiere sono considerati molto spesso i reietti tra i reietti, da parte dello stesso quartiere che generalmente viene dipinto come un quartiere a rischio che porta problemi in quanto tale. Invece in quel quartiere ci sono persone come me, come mio figlio, come i ragazzi che vanno a scuola, anche di famiglie umili, dove alle volte i genitori lavorano e altre no, ma che fanno quello che devono fare con grande resilienza, con grande fatica, quindi non è tutto il quartiere ad avere certi comportamenti. La domanda che dobbiamo farci è se questo è un universo completamente a parte o se vi è a monte una responsabilità che non è solo di quella mamma e di quel papà, di quel quartiere o di quella cultura criminale, ma io penso che ci sia un problema, di responsabilità generale, rispetto al presidio del limite, la società italiana ha un problema di mancanza di presidio del limite. Centinaia di migliaia di insegnanti in classe dicono: Parlate uno alla volta. Ma poi in televisione si urlano addosso, che facciamo? Come spieghiamo che c’è un limite alle cose? Lo vogliamo far saltare completamente questo limite? E come facciamo ad esercitare la funzione educativa nei territori difficili, ma anche in una normale classe in un quartiere bene di una qualunque città italiana, se non c’è una condivisione di alcuni elementi di limite? La seconda questione è che le violenze di questi ragazzi avvengono dentro a una situazione personale che sopra di sé ha almeno tre livelli di peso che condizionano. Il primo livello è la povertà, la povertà condiziona. I bambini e ragazzi in condizioni di povertà assoluta in Italia sono un milione trecentomila. Stiamo parlando di famiglie dove al massimo entrano mille-millecento euro al mese per quattro persone, dove ci sono continue crisi per poter gestire questa situazione e questo è un primo livello. Il secondo livello è che se questa povertà in più sta in un quartiere dove, oltre al la frustrazione che non c’è il lavoro, c’è anche la criminalità organizzata che propone degli altri modelli. Allora lì la cosa si complica perché a quella frustrazione, almeno potenzialmente, c’è una possibile risposta. Non è automatico, attenzione, ma c’è una sirena negativa, anche se spesso ci sono per fortuna le sirene positive, ci sono le reti educative, il privato sociale, la parrocchia, il centro sportivo, la scuola. Sei in un quartiere povero dove esiste la criminalità, sei frustrato da piccolo, non hai le stesse potenzialità degli altri, senti le diseguaglianze del mondo più forti e in più hai dei genitori fragili, incapaci di dirti di no, incapaci di dirti “non si fa”, in questo scenario cosi complicato all’improvviso arriva la baby gang dei tredicenni e dei quattordicenni. che facciamo? Dobbiamo raccattare questi ragazzi, dobbiamo proporgli un’avventura positiva in contrapposizione all’avventura negativa che stanno vivendo. Ma se non c’è una procedura, sarà un guaio per tutti. Marco Rossi Doria Capire il disagio per ridare ai giovani una speranza di Maria Luisa Iavarone Il Mattino, 21 maggio 2018 Ho trascorso le ultime settimane visitando territori, andando nelle scuole, nelle associazioni, nelle sedi comunali e nei dibattiti civili, cercando di non tralasciare nessuna comunità, provando a non far sentire nessuno solo. Anche questa settimana sono successe cose e soprattutto si sono sentite notizie che mi hanno fatto chiedere... ma chi me lo fa fare? Eppure, ho continuato a sentire il bisogno di incontrare persone diverse: ho stretto mani istituzionali e di gente comune. Ho sentito l’odore intenso e prezioso della varechina di madri che ostinatamente affrontano la fatica della cura quotidiana nella periferia delle periferie. In tutto questo peregrinare, anche m giro per l’Italia, mi sono imbattuta in una esperienza invalicabile: sono stata invitata da Omelia Favero nel carcere di Padova. Mi ha accolta una platea di oltre 500 detenuti, alcuni in regime di 41bis “fine pena mai”, storie di detenzione al limite, senza limite. Volti e sguardi reclusi, in ristretti orizzonti di senso, in cui, anche il loro percorso di redenzione, appare un vicolo cieco. Eppure, ho parlato a lungo con loro, con Antonio, in particolare, che oggi ha 29 armi, condannato all’ergastolo quando ne aveva 22. Mi ha spiegato che quando ha cominciato il progetto del giornale in carcere vi ha preso parte senza crederci, solo per approfittare di un paio d’ore a settimana fuori cella. Mi ha spiegato che per lui non aveva senso cambiare tanto, non sarebbe uscito mai di B, e quindi nessuno si sarebbe mai accorto del suo cambiamento. Poi, dopo molti mesi, Antonio ha cominciato a cambiare. Oggi è testimone nelle scuole. Racconta ai giovani che redimersi, toccare i propri errori e sentire la propria anima è dirimente, serve per liberarsi dai propri demoni e questo aiuta per continuare a vivere m quattro mura. Pochi anni di rabbia, violenza, ebbrezza in cambio di un’intera vita, la propria, e di quella delle sue vittime. Eppure, negli occhi di Antonio, ho letto la speranza di un ragazzo intelligente che sta riprendendo gli studi e che il prossimo anno sogna di iscriversi all’Università. Ancora in questi ultimi giorni, a ridosso della sentenza che ha comminato oltre 500 anni di carcere alla “paranza dei bambini”, ho scoperto in rete una produzione di un docu-film ispirato a questa organizzazione, che narra la storia vera di ES17, Emanuele, un giovane baby-boss, ancora minorenne, che inizia la scalata nel mondo della camorra. Un destino segnato come si dice. Molte storie in una sola. Un ragazzo intelligente che sbaglia ed ha l’opportunità di cambiare in una comunità per minori; istituzioni affaticate, perse in un mare di singole storie criminali fino a perderne il senso; una storia d’amore che nulla può fare contro il delirio di questo killer bambino. Un racconto che dura circa tre anni, per una vita stroncata a 19 da un colpo di pistola. Gli occhi vuoti e fermi come un lago di un cadavere portato a spalla che si vede nelle telecamere di sorveglianza del pronto soccorso. Una breve trama, consegnataci dal telefonino della giovane compagna di Emanuele, che tiene vivo il ricordo del proprio amore, attraverso la testimonianza del dolore, della solitudine disperata e del faticoso cammino di Speranza che lei e i suoi due figli dovranno fare verso un destino diverso. Vi consegno, infine, un’ultima riflessione. Lo scorso 9 maggio sul lungomare a Napoli si è tenuto il concerto di Liberato. Un appuntamento estremamente atteso dai giovanissimi. Arturo avrebbe voluto essere tra quelli che ci sono andati. Ma le faticose attese e le grandi folle gli danno ansia e vi ha rinunciato. Io non sapevo nemmeno chi fosse Liberato, mi sono incuriosita e ho cercato di capire. Aldilà di tutti gli articoli di stampa e dei social che parlano del misterioso cantautore, ho trovato assolutamente sorprendente che 10.000 ragazzi si riunissero sul lungomare di Napoli, pacificamente, non a notte fonda, per ascoltare un rapper che al posto del trito cliché della violenza metropolitana senza uscita, raccontasse storie d’amore. Banali magari, ingenue, forse, ma assolutamente virali ed efficaci, visto l’effetto. Parole d’amore e dunque di speranza. Proprio su quel lungomare il 27 maggio si terrà un pezzo del percorso di “Corri contro la violenza” (billetto.it/e/corri-contro-la-violenza-biglietti-288984) la mini maratona promossa dall’Associazione Artur insieme al Comune di Napoli, alla Regione, al Coni e all’Università Parthenope con la presenza delle scuole, dei centri di promozione sportiva, degli sportivi professionisti ed amatoriali e di tutti i cittadini di ogni età che avranno voglia di sottolineare con la loro partecipazione l’impegno contro la violenza. Soprattutto il tentativo di introdurre in città un “metodo” che, dal basso, metta assieme istituzioni e cittadini e promuova concretamente cambiamento negli atteggiamenti e nel modo di affrontare i problemi. L’idea è che si debba adottare un approccio di sviluppo educativo locale attraverso il finanziamento di campi estivi per minori a rischio che consentano a dei ragazzi, che hanno già incontrato il percorso penale, di vivere una esperienza all’interno di beni confiscati alle mafie e gestiti da “Libera”. Il progetto ha trovato il sostegno della Fondazione Polis e di oltre 50 associazioni in città che hanno dichiarato la loro adesione, oltre a numerosi testimonial del mondo dello sport, dello spettacolo e della cultura come Massimiliano Rosolino, Davide Tizzano, Patrizio Oliva, Gianni Maddaloni, Monica Sarnelli, Diego de Silva, Maurizio Di Giovanni, Marco Zurzolo, Peppe Iodice, Edoardo Bennato, Amaryus Pérez, Paola Saluzzi, Michele Placido, Mario Forlenza, Veronica Maya, Pino Maddaloni, Myrta Merlino, Tiberio Timperi, Patrizia Pellegrino, Amadeus, Ernesto Mahieux, Rosalia Porcaro. L’esperienza che i minori, indicati dai servizi sociali del Comune di Napoli, faranno nei campi di Libera, consisterà in percorsi di coscientizzazione a contatto con testimoni privilegiati, vittime, operatori ed educatori che si dedicano a dare nuova vita ai beni confiscati alle mafie e nuovo senso alle storie dei ragazzi che ricadono nell’area penale. Questo è l’approccio che a nostro avviso deve guidare la battaglia contro la violenza, Allora tutti assieme il 27 maggio ci dobbiamo ritrovare in piazza, per sostenere l’impegno di un piccolo sforzo fisico e di un più grande impegno civile. Quel giorno correrà anche Arturo. Un ragazzo che toma a correre, seppur ancora tra molte difficoltà fisiche, testimonia il ritorno alla vita e che una speranza c’è. Bisogna fare di tutto per riprendersi questa città, per vivere in sicurezza, per tornare a sperare un futuro di legalità e di sviluppo, per tutti. La controriforma carceraria nel contratto di governo di Stefano Anastasia* huffingtonpost.it, 21 maggio 2018 Con la formazione del governo giallo-verde cala definitivamente il sipario sulla riforma dell’ordinamento penitenziario maturata all’esito degli stati generali dell’esecuzione penale, l’ampia forma di partecipazione all’elaborazione della riforma del sistema penitenziario voluta dal Ministro Orlando. Per ragioni politiche e culturali, Lega e 5 Stelle sono stati i più acerrimi avversari del progetto di riforma sottoposto tardivamente dal governo uscente alle Camere, e dunque non se ne farà più nulla. Peccato, ma non è questo il peggio. Il peggio è nei propositi del nuovo governo, vergati nero su bianco nel contratto sottoscritto da Di Maio e Salvini. La riscrittura della riforma dell’ordinamento penitenziario, a partire dalla “rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali” (in senso restrittivo, s’intende), arriva al termine del capitolo dedicato alla giustizia che si apre con la “difesa sempre legittima”, senza più vincoli di proporzionalità con la minaccia subita, e passa per aumenti di pene, abbassamento della soglia di punibilità per i minorenni, abrogazione di ogni forma di depenalizzazione dei reati minori e di condizioni di non punibilità, come nei casi di particolare tenuità del fatto o di riparazione del danno: tutto il possibile contro gli autori di reato (veri o presunti), nulla per una maggiore sicurezza dei cittadini. Architrave di tutto ciò, ovviamente, è un bel piano di edilizia penitenziaria, “che preveda la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento e ammodernamento di quelle esistente”, proprio come quello proposto dal Ministro della giustizia Angelino Alfano nel 2010 e che ci portò dritto alla condanna della Corte europea dei diritti per trattamenti inumani e degradanti. A complemento di questa distopia carceraria, il programma di governo contiene la promessa di nuove specifiche fattispecie di reato per i richiedenti asilo e la moltiplicazione dei centri di detenzione per stranieri, fino all’incubo di poter contenere tutti i 500mila migranti irregolari presenti nel nostro territorio per diciotto mesi in attesa dell’espulsione: praticamente i campi rom di cui si chiede la chiusura sarebbero decuplicati per i migranti irregolari. Il tempo darà ragione dell’irrealizzabilità di gran parte di questi propositi, in modo particolare di quelli che richiedono ingenti investimenti di risorse umane e finanziarie, come la costruzione e l’apertura di nuove carceri. Resteranno, però, sul campo le bandiere simboliche, quelle norme penali e penitenziarie che - nella mente degli imprenditori politici della paura - distinguono i buoni (noi) dai cattivi (gli altri). E resteranno quanto più sarà difficile cambiare le politiche economiche e sociali: con lo spettacolo della punizione si cercherà di sedare le legittime aspettative di benessere di gran parte degli italiani. Si moltiplicherà, quindi, la sofferenza nelle carceri, nei centri per stranieri e, in fondo, in quelle stesse periferie urbane e sociali da cui i partiti della nuova maggioranza traggono il loro consenso, e da cui vengono quelli che popolano e popoleranno le patrie galere. Alle istituzioni e alle amministrazioni pubbliche che condividono con il governo l’effettività e la garanzia dei diritti dei detenuti, al personale penitenziario, agli operatori del diritto, alle associazioni e ai volontari, la responsabilità di resistere alla controriforma e di alleviare la sofferenza che ne verrà alle vittime sacrificali di questo accordo politico di governo. *Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria Pene più dure per corrotti e scippatori Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2018 Più intercettazioni, più anticorruzione, più penitenziari, più carcere duro per detenuti mafiosi. Potenziare il reato di voto di scambio e creare la figura dell’agente provocatore che vada a offrire soldi a pubblici ufficiali e politici. A Silvio Berlusconi non piace e non potrebbe essere altrimenti. Perché il capitolo dedicato alla giustizia del contratto di governo sottoscritto dalla Lega con il Movimento 5 stelle mette nero su bianco quelli che sono gli storici incubi del leader di Forza Italia. Certo in quel programma c’è anche altro. Ci sono per esempio il divieto di accesso ai riti premiali alternativi per chi è accusato di reati contro la pubblica amministrazione e la riforma dell’abbreviato: norme che dovranno passare al vaglio di costituzionalità e che agitano fin da ora le camere penali. Ma che sono fino a questo momento state scritte solo a livello di principio: molto dipenderà da come saranno tradotte in legge. Rischiano di scatenare polemica, poi, anche quelle leggi tanto care a Matteo Salvini come la difesa sempre legittima e l’inasprimento delle pene per scippatori e topi d’appartamento che forse faranno storcere il naso agli elettori pentastellati provenienti dalla cultura giuridica di sinistra. Ma d’altra parte il contratto di governo è scritto da due forze politiche che ancora oggi si considerano alternative. E infatti se da una parte il pentastellato Alfonso Bonafede sembra avere avuto mano libera a inserire nel programma una serie di proposte promesse dal M5s in campagna elettorale, dall’altra il leghista Nicola Molteni ha potuto includere quelle norme sulla sicurezza - legittima difesa su tutto - su cui Salvini fa campagna elettorale praticamente da sempre. Le riforme che non piacciono a B - Ma ad infiammare il clima politico in queste ore è soprattutto la parte del programma dedicata ai crimini commessi dai cosiddetti colletti bianchi. “In alcuni punti sulla giustizia siamo nella direzione più giustizialista possibile: ci danno forti motivi di preoccupazione”, ha detto Berlusconi, esplicitando quello “spirito di Robespierre contenuto nel contratto” di cui parlava Giorgio Mulè, quando aveva annunciato l’opposizione - e non invece l’astensione benevola - a “un governo che trasuda giustizialismo e giansenismo”. D’altra parte come si può pensare che i parlamentari azzurri votino un programma costruito su queste parole: “È improrogabile una severa ed incisiva legislazione anticorruzione tale da consentire un rilevante recupero di risorse indebitamente sottratte allo Stato e, nel contempo, rilanciare la competitività del Paese, favorendo una reale concorrenza nel settore privato a vantaggio delle piccole e medie imprese”. Un concetto che - per quanto generale - agita i sonni dell’ex premier, ancora oggi imputato e indagato per corruzione in atti giudiziari nei vari filoni del Ruby Ter. L’agente sotto copertura anti corrotti - La parte relativa alla corruzione, in effetti, è quella più dettagliata di tutto il programma. Quanto ci sia di realizzabile si vedrà soltanto in futuro. Di Maio e Salvini vogliono aumentare le “pene per tutti i reati contro la pubblica amministrazione di tipo corruttivo”, introdurre la “figura dell’agente sotto copertura” e quella dell’agente “provocatore in presenza di indizi di reità, per favorire l’emersione dei fenomeni corruttivi nella pubblica amministrazione”. Ma vogliono anche varare il Daspo per i corrotti e corruttori, cioè “l’interdizione dai pubblici uffici e la perpetua incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per chi è stato condannato definitivamente”. E fin qui, niente da dire. Come già testimoniato da altri Paesi, l’utilizzo dell’agente provocatore ha un effetto quasi immediato nel contrasto alla corruzione. Anche l’interdizione perpetua per i corrotti è realizzabile visto che si tratta di una sanzione accessoria legata all’entità della pena: se il legislatore aumenta le condanne per un certo tipo di reato, parallelamente scattano anche le sanzioni accessorie più dure. I dubbi sulla riforma dell’abbreviato - Qualche dubbio, però, suscita tra gli addetti ai lavori la preclusione per chi è accusato di reati contro la pubblica amministrazione agli “sconti di pena mediante un sistema che vieti l’accesso a riti premiali alternativi”. In pratica si consentirebbe l’accesso ai riti speciali - abbreviato, immediato, direttissimo - soltanto a chi è indagato per alcuni tipi di reato. Il legislatore, ovviamente, può operare come meglio crede ma una modifica della procedura penale in questo senso presta il fianco ai ricorsi alla Consulta. Va nella stessa direzione un’altra proposta del programma gialloverde: “La revisione del rito abbreviato non consentendo l’applicazione dello stesso ai reati puniti con la pena dell’ergastolo ed ai più gravi delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale”. In pratica una riedizione di quanto proposto dal leghista Molteni. Nel novembre scorso la Camera aveva approvato il disegno di legge del deputato del Carroccio che vietava l’abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo. Sul tema, in passato, è già intervenuta la Cassazione a sezione Unite che con la sentenza numero 18821 del 2014 ha escluso l’applicabilità dell’ergastolo in seguito al giudizio abbreviato, legittimando il giudice a sostituirlo con 30 anni di reclusione. Tutto, però, è legato al modo in cui saranno messe nero su bianco le norme di riforma: al momento il programma di Lega e M5s enuncia soltanto principi che hanno più valore politico che procedurale. Per esempio manca al momento non è previsto alcuno sconto di pena o premio per quell’imputato che decida di collaborare con la magistratura. Più potere all’Anac? Cantone: “Non serve” - C’è poi, nel contratto Lega - M5s il potenziamento dell’utilizzo delle “intercettazioni, soprattutto per i reati di corruzione”, rafforzamento delle “tutele per il whistleblower” - cioè la segnalazione di attività illecite nell’amministrazione pubblica o in aziende private da parte del dipendente che ne venga a conoscenza già previsto da legge approvata dal parlamento alla fine della scorsa legislatura e il “potenziamento dell’Autorità Nazionale Anticorruzione”. Quest’ultimo punto non sembra essere necessario per chi l’Anac la guida attualmente, cioè Raffaele Cantone. “Ho letto che sul contratto del M5s e della Lega è previsto un ulteriore rafforzamento dell’Anac. Bene, sono nettamente convinto che non serva rafforzare i compiti dell’Autorità anticorruzione”, ha detto il numero uno dell’Authority. Il conflitto d’interessi - Fumo negli occhi, per Berlusconi, anche il capitolo dedicato al conflitto d’interessi, già oggetto di specifica proposta di legge depositata dal pentastellato Riccardo Fraccaro durante l’ultima legislatura. Nel contratto si vuole allargare “l’ambito di applicazione della disciplina estendendo l’ipotesi di conflitto oltre il mero interesse economico”. La nuova legge si estenderebbe dunque anche a chi ricopre “incarichi non governativi”, quindi a chi “ha potere di influenzare decisioni politiche o che riguardano la cosa pubblica”, come “i sindaci delle grandi città o i dirigenti delle società partecipate”. Aglio per i vampiri, dal punto di vista del leader di Forza Italia, incarnazione massima di interessi in conflitto nell’ultimo quarto di secolo. Mafia e sequestro di beni - Nell’ultima legislatura aveva fatto discutere la riforma del voto di scambio politico mafioso, che secondo molti pubblici ministeri rendeva più difficile la punibilità dei candidati che acquistavano voti dalle mafie. Adesso Lega e M5s vorrebbero “potenziare gli strumenti normativi e amministrativi volti al contrasto della criminalità organizzata, con particolare riferimento alle condotte caratterizzate dallo scambio politico mafioso”. Un altro elemento che ha sollevato numerose polemiche è quello legato alla confisca dei beni: per Di Maio e Salvini è “necessario inoltre implementare gli strumenti di aggressione ai patrimoni di provenienza illecita, attraverso una seria politica di sequestro e confisca dei beni e di gestione dei medesimi, finalizzata alla salvaguardia e alla tutela delle aziende e dei lavoratori prima dell’assegnazione nel periodo di amministrazione giudiziaria”. Non è chiaro in che modo le misure di prevenzione saranno implementate, ma dopo il caso Saguto, M5s e Lega hanno voluto inserire un passaggio sulle aziende che falliscono dopo essere finite in mano agli amministratori giudiziari. Il contratto prevede poi “nuove linee guida sul cd. 41bis, così da ottenere un effettivo rigore nel funzionamento del regime del carcere duro”. In pratica quindi Di Maio e Salvini vogliono potenziare il carcere duro per detenuti mafiosi: una proposta nettamente in controtendenza rispetto a quanto proposto negli ultimi anni di Parlamento. Nuova prescrizione - Delicata - e generica - è inoltre la parte dedicata alla prescrizione. Nel contratto si parla di “efficace riforma della prescrizione dei reati, parallelamente alle assunzioni nel comparto giustizia”, anche se poi è prevista la riforma dei “provvedimenti emanati nel corso della legislatura precedente tesi unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari, a totale discapito della sicurezza della collettività”. Non è citata esplicitamente ma appare chiaro come le due forze politiche vogliano varare una nuova riforma del processo penale. E anche cancellare i decreti legislativi numero 7 e 8 del 2016 che hanno abrogato e depenalizzato alcuni reati, trasformati in illeciti amministrativi e civili: la calunnia, la guida senza patente, l’inosservanza delle disposizioni antiriciclaggio, l’aborto clandestino, l’emissione di assegno da parte di istituto non autorizzato o con autorizzazione revocata, gli atti contrari alla pubblica decenza. Stop a correnti nel Csm - Piace a una parte della magistratura, invece, la parte sul Csm che - nelle intenzioni di leghisti e pentastellati - “deve operare in maniera quanto più indipendente da influenze politiche di potere interne o esterne. Sarà pertanto opportuno operare una revisione del sistema di elezione, sia per quanto attiene i componenti laici che quelli togati, tale da rimuovere le attuali logiche spartitorie e correntizie in seno all’organo di autogoverno della magistratura”. “Le correnti in magistratura sono un meccanismo con cui si fa carriera. È inutile nascondersi dietro un dito. Il contratto Lega-M5s dice di superare il correntismo. Ma non c’è scritto come. Non riesco a identificare un meccanismo specifico e concreto”, è l’opinione di Cantone. Per la verità una possibilità per superare il correntismo l’aveva avanzata in passato Piercamillo Davigo: secondo l’ex presidente dell’Anm sarebbe bastato modificare il sistema elettorale del Csm per renderlo meno esposto agli scontri correntizi. Il programma disciplina poi in maniera definitiva l’annoso problema delle toghe in politica: “Il magistrato che vorrà intraprendere una carriera politica deve essere consapevole del fatto che, una volta eletto, non potrà tornare a vestire la toga”. Le leggi che piacciono a Salvini - E se i pentastellati hanno praticamente avuto carta bianca su una parte di programma, in cambio i leghisti hanno incassato le leggi che chiedono da anni a tutela della proprietà privata: la legittima difesa domiciliare, “eliminando gli elementi di incertezza interpretativa (con riferimento in particolare alla valutazione della proporzionalità tra difesa e offesa) che pregiudicano la piena tutela della persona che ha subito un’intrusione nella propria abitazione e nel proprio luogo di lavoro”. E poi “l’inasprimento delle pene per la violenza sessuale”, la riduzione di “ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi come il furto in abitazione, il furto aggravato, il furto con strappo, la rapina e la truffa agli anziani, modificandone le fattispecie ed innalzando le pene”. Insomma: pugno duro per i colletti bianchi, ma anche per scippatori di vecchiette e topi d’appartamento. Il premier “amico del popolo”... come Marat di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 21 maggio 2018 Come sarà, questo “amico del popolo” indicato da Di Maio quale premier? Presto avremo forse modo di conoscere il misterioso professor Conte. Ma già sappiamo chi sia stato l’Amico del popolo, quello vero. “L’Ami du Peuple” era il soprannome di Jean-Paul Marat, nonché la testata del suo giornale. A dispetto del nome, lo stile non era fraterno e pacifico come quello dei miti giuristi amici dei 5 Stelle. Grande ammiratore di Rousseau e della sua idea di uguaglianza e fratellanza universali, Marat coltivava però un coté giustizialista. Prometteva “il supplizio ai predoni, ai concussori, ai satelliti del dispotismo”. Si fece “espressione permanente della giusta collera del popolo”. Ghigliottina per tutti, a cominciare dal re “spergiuro, senza fede, senza pudore, senza rimorsi”. Inventò la rubrica delle Lettere, pubblicando anche quelle anonime, con un impatto sull’opinione pubblica del tempo paragonabile a quello della rete: i lettori si scatenarono; qualcuno arrivò a scrivere che la regina aveva partecipato a un’orgia con le guardie del corpo, calpestando il tricolore e innalzando ebbra il vessillo bianco con i gigli dell’antico regime. Marat fece anche cose poco grilline. Ad esempio chiese soldi pubblici per il suo giornale (il ministro dell’Interno, moderato girondino, glieli negò). E non è detto che fosse favorevole al reddito di cittadinanza: per lui lo Stato deve assicurare agli indigenti il necessario per vivere, ma non deve nulla “al fannullone che si rifiuti di lavorare” (certo, Di Maio prevede che il reddito decada dopo tre rifiuti di offerte di lavoro; ma in certe aree depresse chi ha mai ricevuto tre offerte di lavoro?). Va considerato inoltre che la categoria dell’amico del popolo presuppone quella del nemico del popolo - banchieri, sfruttatori, sanguisughe e chiunque in genere la pensi in modo diverso e quindi sbagliato; la quale richiama a un’altra rivoluzione, ancora più sanguinaria: quella bolscevica. Di solito alla Rivoluzione segue la Restaurazione, che può prendere il volto di Napoleone o quello oggi molto amato in Italia di Putin. Però non bisogna mai prendere i ricorsi storici troppo sul serio. Di Maio, più che ai gulag e alle purghe, quando evoca i nemici del popolo pensa forse - come del resto tutti quanti noi - al cane che perseguita Paolo Villaggio ne Il secondo tragico Fantozzi. Invitati “con un’astuta mossa padronale” al ricevimento della contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare, Fantozzi e Filini vengono aggrediti da un dobermann nero come la notte e tentano invano di ammansirlo chiamandolo per nome: “Provi Fido… Provi Bobi…”. “Si chiamava Ivan il Terribile trentaduesimo, discendente di Ivan il Terribile primo, campione di caccia al mugiko nella steppa e fucilato sulla Piazza Rossa durante la Rivoluzione d’Ottobre”. Saremo tutti imputati a vita, intercettati e super puniti di Paolo Becchi e Giuseppe Palma Libero, 21 maggio 2018 Voci lontane. Voci disperse. Era il Settecento dei Lumi quando, in un mondo ancora prerivoluzionario, due italiani donavano all’umanità intera la civiltà giuridica in materia penale. Se apriamo la nostra Costituzione li troviamo entrambi come monumenti ai posteri. Quando leggiamo all’articolo 27 che l’imputato è considerato non colpevole fino a sentenza passata in giudicato, e che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, vediamo uscire dalla Carta l’anima lombarda di Cesare Beccaria. E quando all’articolo 24 leggiamo che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, l’odore del mare partenopeo ci avvolge per pochi istanti, e ci sembra di essere a Vico Equense dove freneticamente Gaetano Filangieri scriveva la sua Scienza della legislazione. Questa è la nostra cultura giuridica. Apriamo il “contratto di governo” M5S-Lega e ci rendiamo conto che Beccaria e Filangieri non hanno preso parte al tavolo di lavoro. Vediamone alcuni punti. Il nascente governo giallo-verde vuole riformare la disciplina della prescrizione dei reati, presumibilmente allungandone ulteriormente i termini. Ma già il governo Gentiloni (“riforma” Orlando) ha interrotto il decorrere dei termini di prescrizione nel passaggio da un grado all’altro di giudizio, con la conseguenza che un processo potrà durare anche più di un decennio senza che i reati si prescrivano. E la riforma “carioca” non potrà che essere ancor più punitiva, condannando l’imputato alla sofferenza ulteriore di vedersi sotto accusa secula seculorum. Un conto è la certezza della pena, principio col quale siamo pienamente d’accordo, un altro è anticipare quella pena costringendo l’imputato a decenni di processi. E in tutto questo ricordiamoci che, per la nostra Costituzione, l’imputato è presunto innocente fino a sentenza passata in giudicato. E se il reo fosse assolto? Anni e anni di processi (alla cui durata influirà in modo determinante la riforma della prescrizione) per poi essere dichiarato innocente ma aver subito ugualmente, e in via anticipata, la pena di dover sopportare un processo lunghissimo. Altra riforma proposta nel “contratto” - che collide con la nostra civiltà giuridica - è quella della revisione del rito abbreviato, non consentendone l’applicazione (così c’è scritto) quando il reato commesso è punito con la pena dell’ergastolo. Il rito abbreviato consente di condannare l’imputato ad un massimo di 30 anni di reclusione (non sono noccioline) ed evita al “sistema giustizia” anni di processo in primo grado, infatti il rito abbreviato si risolve - il più delle volte - in una sola udienza. Se v’è certezza della pena, obiettivo del contratto di governo, a cosa serve riformare in peius il giudizio abbreviato? Altro grosso limite del “contratto” è il voler abolire la norma introdotta da qualche anno sulla “non punibilità per particolare tenuità del fatto”. È una norma che evita di comminare condanne ai ladri di polli o a chi ha commesso reati bagatellari o per necessità. Abrogare questa norma e impedire qualsiasi “svuota carceri” produrrà l’effetto di affollare ancor di più le patrie galere ledendo ulteriormente i diritti umani dei condannati. È pur vero che il “contratto” prevede un programma di edilizia penitenziaria (costruzione di nuove strutture), ma ci vogliono anni, se non decenni per realizzarlo. Del diritto penale forse non si può fare a meno perché gli uomini non sono angeli, ma il diritto penale deve essere minimo: “Il dolore del reo è solo un male necessario che, privo di ogni bontà intrinseca, deve essere il minore possibile” (Beccaria). In altre parole deve essere un diritto che sia sempre rispettoso della dignità dell’infrattore. Umanizzare il diritto penale è stato il compito dell’Illuminismo giuridico. E qui, da Nord a Sud, con Beccaria e Filangieri, l’Italia è stata la rotta maestra per tutta l’Europa. Su questo indietro non si torna. La “neutralizzazione” del condannato sviluppata nella dottrina statunitense lasciamola agli americani. Noi abbiamo un’altra cultura giuridica, di cui dobbiamo andare fieri. Salvini, Di Maio: volete un Paese più sicuro? Abolite il carcere di Jacopo Bernardini linkiesta.it, 21 maggio 2018 Lega e 5 Stelle sono d’accordo: serve più carcere. Anche se i reati calano e le prigioni sono già sovraffollate. Eppure i numeri parlano chiaro: se vogliamo un Paese più sicuro la soluzione è meno (se non zero) carcere e più misure alternative. Salvini e Di Maio hanno a lungo discusso su diversi punti del contratto di governo. Ma c’è un’idea su cui sembra che l’abbiano sempre pensata allo stesso modo: serve più carcere. Nella versione definitiva del contratto si legge della necessità riformare i provvedimenti emanati durante l’ultima legislatura, tesi “unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari, a totale discapito della sicurezza della collettività”. Motivo per cui, per ristabilire la certezza della pena, sarebbe necessario “riordinare il sistema”, che ha visto l’abrogazione e la depenalizzazione di reati e “periodici ‘svuota carceri’”. Lega e 5 Stelle hanno poi messo nero su bianco il bisogno di “ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi come il furto in abitazione, il furto aggravato, il furto con strappo, la rapina e la truffa agli anziani”. Come? Innalzando le pene. Infine, un capitolo è dedicato anche ai più giovani: “A fronte di una progressiva precocità di comportamenti criminali, anche gravi, da parte di minori, occorre rivedere in senso restrittivo le norme che riguardano l’imputabilità, la determinazione e l’esecuzione della pena per il minorenne”. Le righe di contratto dedicato alle carceri sembrano ben rispondere al crescente senso di insicurezza che serpeggia nell’elettorato. Solo leggendole, quasi ci si sente più sicuri. Molte statistiche, però, raccontano una realtà diversa. A dare le cifre ci pensa l’associazione Antigone, che da 20 anni visita le carceri italiane pubblicando scrupolosi report. Il documento di quest’anno racconta come il numero di detenuti nelle carceri italiane è aumentato di più di 2mila unità, passando da 56.289 a 58.223. Dal 31 dicembre 2015, negli istituti penitenziari italiani ci sono 6mila detenuti in più. Pare quantomeno azzardato parlare di “periodici svuota-carceri”. Tutto questo, nonostante nel 2017 si sia registrato il numero più basso di reati degli ultimi dieci anni. Dal documento emerge anche che il tasso sovraffollamento degli istituti penitenziari è del 115,2%, con picchi a Como (200%) e Taranto (190%). Al proposito, nella bozza di governo l’unica soluzione individuata è quella di costruire nuovi istituti penitenziari, aumentando il costo di un sistema che già pesa quasi 3 miliardi di euro all’anno sulle casse dello Stato. L’associazione Antigone documenta, infine, le condizioni disastrose delle carceri italiane: la muffa, le docce intasate, i 52 suicidi. Se vogliamo costruire un sistema rabbiosamente giustizialista, le linee-guida del contratto di governo sembrano perfette. Ma se vogliamo vivere in un Paese più sicuro, dovremmo indebolire - se non abrogare - il carcere. Una conclusione che non è frutto di un esercizio filosofico o di preconcette ideologie, ma di un ragionamento corroborato da numeri che parlano chiaro. Per capire perché è utile recuperare la lezione di un libro pubblicato nel 2015 da Luigi Manconi, Stefano Anastasia (ricercatore di Filosofia del diritto), Valentina Calderone (direttrice dell’associazione A buon Diritto) e Federica Resta, (avvocatessa) dal titolo Abolire il carcere. “Il carcere, così com’è, non funziona”, scrivevano gli autori. Il dato chiave per comprendere dove il meccanismo si è inceppato è quello della recidiva: secondo gli ultimi dati disponibili al 70%. Una percentuale spaventosa. In pratica più di 2 reclusi su 3, al momento del rilascio, sono destinati nuovamente a delinquere (rendendo le strade, piazze e case italiane meno sicure) e tornare in carcere. Eppure, le statistiche ci dicono che un modo per abbassare drasticamente il tasso di recidiva esiste: le misure alternative, che quando applicate fanno precipitare la percentuale al 19%. Il ricorso a provvedimenti come l’affidamento ai servizi sociali o la semilibertà per lavorare o studiare però non sono al momento incentivati in alcun modo. Anzi, le statistiche dimostrano che ci si ricorre sempre meno. Del resto, anche all’interno degli istituti penitenziari, solo il 23% dei detenuti va a scuola, mentre meno di 1 su 3 di quelli tra i 15 e i 64 anni lavora. Manconi e soci, nel loro libro, si spingevano a proporre soluzioni che, nel quadro attuale, possono sembrare fantascientifiche: l’abolizione dell’ergastolo, l’esclusione dei minori dal carcere e la concessioni dei domiciliari alle detenute con figli minori di 10 anni (“mai più bambini in carcere”). Senza voler osare tanto, c’è da dire che la riforma delle carceri a cui l’ultima legislatura ha lavorato negli ultimi 3 anni puntava quantomeno a incentivare le misure alternative, a equiparare la malattia fisica a quella mentale e si richiamava alle Regole penitenziarie europee riguardo il tempo da trascorrere fuori dalla cella (restando dentro il carcere). Il lungo iter che l’ha portata in Parlamento, però, le impedirà con ogni probabilità di avere pieno compimento. Il contratto di governo, al proposito, non va oltre una generica volontà di “valorizzare il lavoro in carcere come forma principale di rieducazione e reinserimento”. E sarebbe strano leggere il contrario visto che, quando il 16 marzo il consiglio dei ministri approvò il decreto, sia Salvini che il possibile nuovo ministro della Giustizia Bonafede avevano tuonato contro la decisione (l’unico che, più di un mese dopo quel giorno, disse qualcosa a favore fu Roberto Fico). Se l’unica funzione della pena è quella di affliggere il condannato con il solo intento di appagare il nostro senso di vendetta senza alcuna preoccupazione per la funzione rieducativa del carcere, la violenza è la forma di sanzione più equa. Come ha scritto Manconi, “Nel caso estremo, non c’è dubbio che solo la pena di morte rappresenta la retribuzione più proporzionata”: meno costosa, più incisiva, capace di bloccare in modo definitivo la possibilità di ripetizione del delitto. Anche se volessimo dimenticare secoli di evoluzione del diritto e soddisfare i nostri istinti più biechi, però, dovremmo ricordare che solo il 5% di chi è in carcere è lì per scontare un ergastolo. La stragrande maggioranza di chi è recluso, prima o poi, uscirà. Se vogliamo continuare a riempire le carceri nonostante i reati diminuiscano, siamo sulla buona strada. Ma se vogliamo davvero un Paese più sicuro, la strada da seguire è un’altra. Programma Giustizia. Il “cambiamento” sbagliato nel paese sbagliato di Pietro Piccinini Tempi, 21 maggio 2018 In attesa di sapere se anche questa nuova versione del “Contratto per il governo del cambiamento” sarà dichiarata superata dai contraenti M5S e Lega, così come è successo con la prima allungata chissà da chi all’Huffington Post, soprattutto in attesa di sapere quale destino avranno i passaggi evidenziati in rosso e in giallo dopo le valutazioni dei leader e degli iscritti rispettivi (gasp), bisogna soffermarsi un momento su una sezione del programma che pare essere sufficientemente condivisa dalle parti, essendo praticamente priva di colorazioni. Si tratta di un tema da sempre molto caro a Tempi, la giustizia. Tema sul quale il contratto annuncia intenzioni non meno preoccupanti delle varie promesse di spesa senza coperture su cui si sono concentrati, comprensibilmente, quasi tutti i giornali e gli osservatori. Sulla giustizia il programma del governo Di Maio-Salvini è tutto un diluvio di inasprimenti, intercettazioni, punizioni, severità, imputabilità, nuove carceri, mannaggia all’impunità e niente più sconti di pena. Anche un principio sacrosanto come quello dell’efficienza e della rapidità del sistema sembra assumere nel testo giallo-verde connotazioni giustizialiste. La bozza infatti parla di “allungamento del processo” come di un possibile “presupposto di una denegata giustizia”, ma allora perché immaginare di risolverlo allungando la prescrizione? Spiegava il Corriere della Sera illustrando il programma: “È ancora segnata in rosso (quindi da sottoporre al vaglio di Di Maio e di Salvini) la frase “è necessaria una seria riforma della prescrizione dei reati”, cavallo di battaglia dei grillini e della magistratura per spuntare, nel processo, le armi della difesa”. Sull’abuso della carcerazione preventiva invece, vero scandalo della giustizia italiana, “normalizzato” ormai nell’indifferenza generale come una forma di punizione dell’indagato a prescindere dal risultato del processo, nemmeno una parola. E sì che dei troppi detenuti che affollano le galere italiane costringendoci - secondo M5S e Lega - a costruirne di nuove, non sono pochi quelli “in attesa di giudizio”. E sì che di storie di cittadini sbattuti in carcere prima di uscire assolti dal processo ne abbiamo sentite. O no? Da anni questo giornale ripete che non è la moltiplicazioni dei delitti e delle pene la soluzione all’emergenza (percepita) della legalità e della corruzione. Se mai, esattamente all’opposto, quello è il problema. Come ha ripetuto in più occasioni quel gran magistrato che è Carlo Nordio (da sottoscrivere per intero la sua analisi apparsa ieri sul Messaggero), “Tacito duemila anni fa l’ha detto con quella tipica, icastica sintesi dei romani. “Corruptissima re publica, plurimaeleges”. Più la repubblica è corrotta, più promulga nuove leggi”. In una giungla di norme in crescita selvaggia chiunque può rimanere intrappolato in un’accusa infamante. A meno di non restare perfettamente immobile. Altro che “governo del cambiamento”. E tante più sono le regole, tanti più saranno i funzionari da “convincere”, per chi non si rassegna a starsene con le mani in mano. È un buon modo questo per combattere la corruzione? Manca solo l’”introduzione della figura dell’”agente sotto copertura” e, in presenza di elementi fondati, dell’”agente provocatore”, per favorire l’emersione dei fenomeni corruttivi nella Pubblica Amministrazione”. E purtroppo nel programma del governo giallo-verde c’è. Quando lo Stato di diritto si trasforma in uno Stato di sospetto, saranno incoraggiate o strozzate le virtù civiche, l’assunzione di responsabilità, la spinta al “cambiamento”? “All’incontro sui corpi intermedi a Bologna abbiamo ascoltato Angelo Panebianco avanzare un’osservazione intelligente. Spiegava il professore che la fiducia è un circolo virtuoso, mentre la sfiducia è un circolo vizioso. Se in una comunità tutti si fidano dei propri vicini, le cose funzioneranno, non ci sarà bisogno di controlli, regole, punizioni. Determinate due o tre regole di buon senso, il clima di reciproco rispetto farà in modo che ognuno, facendo il proprio dovere, farà il bene proprio e di tutti. Al contrario, se a dominare è il sospetto, una comunità parcellizzata in monadi isolate tenderà a moltiplicare le norme, le leggi, le punizioni. Con l’inevitabile conseguenza che questo eccesso di controlli genererà nuova sfiducia, nuovi maneggi, ulteriore risentimento”. (Emanuele Boffi, tempi.it, 5 marzo 2018) Sempre Panebianco ha spiegato poco tempo fa in un ottimo editoriale per il Corriere della Sera “il rapporto che c’è fra la potenza di quelle tecnostrutture [amministrative e giudiziarie, ndr] e il successo del Movimento 5Stelle”. Quell’articolo andrebbe letto, riletto e studiato a memoria. In particolare questo passaggio: “I 5Stelle sono la conseguenza, l’effetto finale, di una grande bugia che, negli ultimi trenta anni, è diventata una verità pubblica indiscutibile per moltissimi italiani: la grande bugia secondo cui la “corruzione percepita” (per la quale questi nostri concittadini credono che il loro Paese sia il più corrotto d’Europa o giù di lì) e la “corruzione reale” (la corruzione che davvero c’è in Italia) coincidono. Se non che, la corruzione reale - misurata dalle sentenze passate in giudicato nonché da osservazioni sui comportamenti degli operatori - risulta essere, punto più punto meno, nella media europea. L’Italia sembra a tanti italiani così massicciamente corrotta soprattutto a causa delle inchieste giudiziarie qui molto più numerose che altrove (e del connesso rumore mediatico): un fenomeno che, a sua volta, dipende dal diverso rapporto di forze che c’è in Italia fra magistratura inquirente, politica ed economia, rispetto a quello che si dà in altri Paesi europei. È la trentennale attività del “circo mediatico giudiziario” ad avere diffuso e imposto la grande bugia”. Un esempio: Guido Bertolaso, fino al 2010 portato in palmo di mano da tutti per il coraggio con cui risolveva crisi e fronteggiava emergenze con la sua Protezione civile, considerato universalmente un uomo capace davvero di “cambiare” le cose, e senza nemmeno bisogno di stendere programmi evidenziati in rosso o in giallo, ma solo coi fatti, poi improvvisamente ritrovatosi indagato e infangato fino alla rovina in una complicatissima e affollatissima indagine giudiziaria costruita su varie ipotesi di corruzione. Il Corriere ha il merito di pubblicare Panebianco ma anche il demerito di confermare regolarmente quanto lo stesso Panebianco abbia ragione quando denuncia i danni provocati al paese dal “circo mediatico giudiziario”. Ricordate che cosa scrisse all’epoca l’allora direttore del quotidiano milanese Ferruccio De Bortoli, dopo una settimana che il suo giornale saccheggiava a mani basse le “ventimila pagine di intercettazioni” allegate all’ordinanza che aveva gettato Bertolaso nella polvere? De Bortoli tentava di giustificare la pubblicazione di quel “fiume di parole che come una calamità naturale sembra sommergere tutti”. E pur ammettendo che nemmeno al Corriere era “ancora chiaro il quadro delle accuse rivolte allo stesso Bertolaso”, sosteneva di avere “il dovere di render noto quello che gli investigatori hanno raccolto e che il giudice con i suoi atti ha avvalorato”. Ma perché il dovere di un giornale sarebbe allestire una pubblica gogna quando il suo stesso direttore sa benissimo che esiste “il rischio che finiscano coinvolte persone la cui unica colpa è aver parlato al telefono con chi aveva il cellulare sotto controllo”? Risposta di De Bortoli: “Chiacchiere e fatti. Saranno le sentenze dei giudici, speriamo il più presto possibile, a stabilire quali chiacchiere nascondono fatti e quali fatti sono reati. Anche le chiacchiere, in ogni caso, servono per farsi l’idea di un pezzetto d’Italia che si vorrebbe migliore”. Siamo d’accordo che l’inchiesta su Bertolaso è stata una di quelle che hanno contribuito maggiormente ad alimentare la “grande bugia” (Panebianco) della corruzione percepita? E come è finita la vicenda giudiziaria di Bertolaso? Assolto perché “il fatto non sussiste”. E pensare che i pm avevano chiesto la prescrizione (ehilà, questa andrebbe evidenziata in rosso). Del resto erano già passati otto anni. “All’epoca Bertolaso fu messo in croce per la vicenda. Oggi può legittimamente esultare”, ha scritto il sito del Corriere riportando la notizia della sentenza. Oggi che la Protezione civile è stata smontata e resa incapace di “corruzione” perché incapace di azione (con le conseguenze che i terremotati conoscono bene), ecco adesso, otto anni dopo, Bertolaso può esultare. In un clima così, con l’inasprimento promesso dal governo giallo-verde o aspirante tale, chi avrà il coraggio di azzardare ancora un “cambiamento”? Ecco i Tortora dimenticati dal sistema: mille detenuti innocenti ogni anno di Andrea Terracciano giustizianews24.it, 21 maggio 2018 Subiscono, aspettano. Poi subiscono ancora e sperano. Fino a quando una sentenza non li riabilita e riconsegna loro una dignità sottratta indebitamente. Come un girone dell’inferno, nel quale ogni anno in Italia trovano spazio mille persone: sono i detenuti ingiustamente ospitati nelle carceri della Penisola. I ‘dimenticati’, spesso dalla stessa macchina della giustizia, da 30 anni vivono tutti idealmente nella luce emanata da colui che da “uomo perbene”, come il titolo del film che gli fu dedicato, seppe diventare simbolo. Venerdì scorso, trentennale della morte di Enzo Tortora, è diventato il giorno del comune ricordo per chi ha vissuto e vive ancora quelle pene nella speranza di poter trovare il personale riscatto, come seppe fare il conduttore tv con la storica frase “Dove eravamo rimasti”. La vicenda Tortora ha lasciato in eredità un simbolo ma pochi cambiamenti nella società italiana. Dal 1992 a oggi, sono oltre 26 mila le persone arrestate ingiustamente e poi indennizzate. “Parliamo di pagamenti per oltre 700 milioni di euro” ha spiegato il deputato di Forza Italia Enrico Costa. “Errori per i quali continua a pagare solo lo Stato, non chi ha sbagliato”. I numeri, sviscerati dal presidente dell’Unione delle Camere penali Beniamino Migliucci, al termine del dibattito in memoria di Enzo Tortora, sono spaventosi, anche guardando oltre i mille casi all’anno accertati di ingiusta detenzione, che sono comunque relativi visto che non tutti chiedono il risarcimento. La malagiustizia italiana passa per un numero troppo elevato di detenuti in attesa di giudizio (34%) che favorisce il buco nero creatosi negli ultimi 25 anni. Il punto di partenza è quel 1992, che ha cambiato per sempre il modo dell’opinione pubblica di guardare a tribunali e processi, complice lo scandalo Tangentopoli. Da quell’anno lo Stato italiano è stato costretto a sborsare la mostruosa somma di 650 milioni di euro per gli indennizzi da ingiusta detenzione: i casi accertati sono stati 20mila. Il ricorso frequente alla custodia cautelare viene indicato dai più tra le cause principali di questa sfilza di errori giudiziari, ma da solo non basta a spiegare un elenco di tale portata. Andando oltre la fredda contabilità restano da valutare i singoli casi e quello di Enzo Tortora in questo senso è l’emblema, soprattutto quando l’eco dell’arresto e della successiva reclusione va ben oltre un’aula giudiziaria. “Fu un vero atto di barbarie sociale” ha ricordato il presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e anima ultragarantista, tra le più in vista durante la protesta pro Berlusconi davanti al tribunale di Milano. “Nulla fu lasciato al caso - perfino il suo arresto - ricordando l’odissea di Tortora - fu una messa in scena. Addirittura i tempi apparvero perfettamente calcolati per dare l’opportunità a tutta la stampa di poterlo immortalare mentre usciva ammanettato e trasportato poi a sirene spiegate verso il carcere”. Una storia che spinge la Casellati ad alzare il tiro sulla questione in un momento in cui, la prospettiva di un governo M5S-Lega, sembra contenere le forze garantiste. “Quanti Tortora ci sono nelle carceri italiane? Quante persone subiscono il torto di non potersi difendere, di non poter parlare? Quanti si scontrano di fronte a un muro di incomunicabilità che troppo spesso divide i cittadini dalle amministrazioni, dalle istituzioni, dalle ottusità delle burocrazie. A queste persone Tortora voleva dare voce”. Gli ultimi dati disponibili, quelli del 2017, fanno registrare un incremento dei casi di ingiustizia detenzione: ben 1013 contro i 989 dell’anno precedente spalmati su 34 milioni di euro di risarcimenti che lo Stato ha dovuto erogare. Analizzando la localizzazione dei casi è facile individuare come le inchieste sulla criminalità organizzata incidano in maniera importante in questo fenomeno. La città dove si registra il maggior numero di casi è calabrese: si tratta di Catanzaro con 158 segnalazioni. Segue Roma con 137 e poi Napoli con 113. Il capoluogo campano è da sei anni consecutivi sul podio di questa classifica dove trova spazio tra le prime dieci, oltre alla Capitale, soltanto un’altra metropoli: Milano. Dei 36 milioni di euro sborsati dallo Stato per risarcire le persone detenute ingiustamente ben 2 milioni e 870mil euro sono finiti sui conti correnti di napoletani reduci da storie di malagiustizia. Vicende che si fa spesso fatica anche a raccontare. Fino a quando non ci incappa un uomo perbene (e famoso). Un uomo come Enzo Tortora. Il no dei pm a Fiammetta Borsellino: “dai Graviano possibili depistaggi” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 maggio 2018 La figlia del magistrato assassinato nell’eccidio di via D’Amelio, il 19 luglio 1992 chiede di incontrare di nuovo i boss condannati per le stragi, la le Procure antimafia negano un nuovo incontro dopo quello del dicembre scorso. Le Procure antimafia hanno detto “no” alla possibilità di un nuovo incontro tra Fiammetta Borsellino e Filippo Graviano, il maggiore dei fratelli condannati per le stragi del 1992. Un parere negativo destinato a pesare sulla decisione finale che spetta al ministro della Giustizia. Il motivo dell’unanime diniego espresso dagli inquirenti di Palermo, Caltanissetta e Firenze, oltre che dalla Direzione nazionale antimafia, sta anche nel contenuto dei colloqui che i due boss hanno avuto nel dicembre scorso con la figlia minore del giudice assassinato nell’eccidio di via D’Amelio, il 19 luglio ‘92, svolti nei due penitenziari di massima sicurezza dove i Graviano stanno scontando, da 25 anni, l’ergastolo al “carcere duro”. Si sono parlati attraverso il citofono e il vetro divisorio, consapevoli di essere ascoltati e registrati, e le parole dei capimafia rimaste incise sui nastri hanno fatto sorgere in qualche inquirente il timore di inquinamenti e depistaggi. Il più imbarazzato dei due è sembrato Filippo, comunque fermo nel negare ogni responsabilità nella strage: “Io capisco il suo dolore e mi dispiace… però non ho avuto una parte attiva in questa vicenda, sono stato condannato perché non potevo non sapere, tutte le mie condanne derivano da questo teorema”. Giuseppe invece, quello che secondo il pentito Spatuzza fu il regista delle bombe del 1993 e gli confidò un presunto patto tra la mafia e Berlusconi, è stato più determinato: “Lei ha fiducia della magistratura attuale? Come mai non hanno scoperto ancora chi ha ucciso la buonanima di suo papà?”. Fino a diventare quasi aggressivo: “A nessuno interessa far emergere la verità della morte di suo padre, sono due cose distinte con la morte di Giovanni Falcone… A lei non interessa sapere chi ha ucciso suo papà… se qualcuno non era amico di suo papà… meglio morire e non far emergere la verità”. Frasi sibilline, forse messaggi a cui si sono aggiunte strane aperture quando Fiammetta Borsellino ha domandato al capomafia come trascorresse la sua vita prima dell’arresto. “Io ero latitante, non voglio raccontare cose - ha risposto Giuseppe Graviano. Mi sono trasferito al Nord… Frequentavo alcune persone tra cui Baiardo Salvatore (già condannato per favoreggiamento dei due boss, ndr) di Omegna sul lago d’Orta, dove trascorrevo la latitanza. Frequentavo anche commercianti, familiari, avvocati e personaggi politici, tra cui anche quello… lo dicono tutti che frequentavo Berlusconi… più che io era mio cugino che lo frequentava… facevo una vita normale, nei salotti. Andavo a divertirmi, al teatro Manzoni, Andavo a Forte dei Marmi, Abano Terme, Venezia…”. Ecco dunque spuntare, in maniera un po’ sibillina, il nome del leader di Forza Italia, nuovamente sotto inchiesta per le stragi del ‘93, a Firenze, dopo le intercettazioni dei colloqui in carcere dello stesso Graviano con il suo compagno di detenzione. Fiammetta Borsellino non ha ovviamente chiesto di più, ma Graviano jr ha lasciato la traccia che evidentemente voleva lasciare, ben sapendo di essere registrato. Come lo sapeva Filippo Graviano quando ha ribadito la sua estraneità nell’attentato di via D’Amelio, e alla figlia del magistrato assassinato ha detto, in sostanza, di ritenersi un ex mafioso: “Ho fatto un mio percorso di revisione in questi lunghissimi anni, e oggi comprendo che significa avere dei valori di legalità, di etica, di correttezza… La mia responsabilità è di avere vissuto per il denaro, e di avere approfittato di questa associazione per arricchirmi”. Lui sostiene che al tempo della strage già s’era allontanato dalla Sicilia, “ma dirlo oggi non mi crederebbe nessuno”. In un’ora di colloquio Fiammetta l’ha più volte sollecitato a dare un “contributo di onestà”, ma Filippo Graviano ha alzato un muro: “Sul fatto di suo padre, assolutamente no… Non saprei dirle nulla completamente…”. La figlia del magistrato ha insistito: “Lei ha un bagaglio di conoscenze… ha avuto delle relazioni, ha frequentato persone… Perché queste cose non le può anche condividere?”. Graviano è rimasto in silenzio per diversi secondi, lasciando trasparire un’evidente difficoltà nella risposta, e solo più avanti ha spiegato: “Io una volta ho detto ai magistrati “se dovessi dire la verità sulla mia vita passata… voi mi rimandereste in cella come per dire ci sta facendo perdere tempo”, perché io purtroppo… si è determinata una verità”. E ancora: “Tutto il mondo pensa il peggio di me, io non potrò mai fare nulla per fare cambiare idea a una sola persona”. Fiammetta Borsellino se n’è andata ribadendo che un’altra scelta fosse ancora possibile, perché “non è vero che non c’è gente che vi possa accogliere nel momento in cui viene dato un segnale”. Ora vuole tornare in quel carcere per riprendere il dialogo e provare a ottenere quel “contributo di verità” su una vicenda - la morte di suo padre - in parte ancora oscura, oggetto di processo dove sono stati orditi depistaggi che hanno fatto condannare anche degli innocenti scarcerati dopo vent’anni di galera. Ma i magistrati hanno detto “no”; per eventuali collaborazioni con la giustizia la legge prevede altri percorsi. Imputato in carcere? L’atto è nullo di Francesco Barresi Italia Oggi, 21 maggio 2018 La notifica presso il domicilio è nulla se l’imputato si trova in carcere per altri motivi. Lo spiega la V sezione penale della Cassazione, nella sentenza 15477/2018 del 12 marzo, che ha curato un ricorso particolare in tema di relata di notifica e domicilio di elezione. Nel 2015 la Corte territoriale di Firenze ha confermato la sentenza di condanna, emessa dal tribunale di Prato, nei confronti di un uomo per il reato di cui agli artt. 116, commi 1 e 13, dlgs n. 285/1992 e artt. 495, 61 n. 2, cod. pen. Ma con sorpresa il condannato impugnò la sentenza fiorentina non tanto per i reati dichiarati ma per una procedura scorretta di comunicazione, anzi, di destinazione. Infatti l’uomo lamentò, davanti gli scranni delle aule del Palazzaccio, “che tutte le notificazioni del presente processo, e ciò dall’avviso di conclusioni di indagini preliminari in poi”, si legge nel dispositivo, “erano state eseguite presso il difensore, non essendo stato possibile la notifica presso il domicilio eletto”. Ma anche se la notifica è stata inviata nello studio dell’avvocato non è stato possibile perfezionare la procedura, “per il fatto che in realtà il ricorrente si trovava in stato di detenzione per altra causa e che, differenza di quanto rilevato dal giudice di appello”, prosegue il ricorrente con i motivi di doglianza, “tale condizione soggettiva di detenzione era conosciuta dall’autorità procedente perché comunicato attraverso la richiesta di ammissione al gratuito patrocinio”. Quindi la procedura è rimasta inconclusa, semplicemente perché la persona interessata si trovava in carcere. E gli ermellini, osservando i motivi di lamentela dell’uomo, hanno quotato le sue ragioni. Infatti gli alti giudici spiegano che “è nulla la notificazione effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto dall’imputato detenuto, il cui sopravvenuto stato di detenzione sia noto al giudice procedente”. Uno stato di detenzione conosciuto dai magistrati fin dal 2012. Pertanto i porporati hanno chiarito che “le notificazioni della citazione a giudizio in primo grado e di tutti gli atti successivi devono essere considerati affetti da nullità assoluta e insanabile”. Parola al giudice di primo grado. Dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la verifica del giudice deve seguire criteri precisi di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2018 Cassazione - Sezione I penale - Sentenza 23 aprile 2018 n. 18018. La validazione delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia deve procedere secondo un ordine logico-giuridico. La Cassazione con la sentenza n. 18018 del 23 aprile 2018 elenca quest’ordine: innanzitutto, la verifica della “credibilità soggettiva” del dichiarante - da compiersi in relazione alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai suoi rapporti con i soggetti accusati, nonché alle ragioni che ne hanno indotto la scelta collaborativa - cui deve seguire o comunque accompagnarsi la verifica dell’”attendibilità oggettiva” delle dichiarazioni rese, da apprezzarsi nella loro consistenza intrinseca e nelle loro caratteristiche, con riguardo alla spontaneità, all’autonomia, alla precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; soltanto dopo avere sciolto in senso positivo, alla stregua dei suddetti parametri, il giudizio sulla credibilità del collaboratore e delle sue propalazioni accusatorie, il giudice di merito è legittimato - e tenuto - a verificare l’esistenza dei “riscontri esterni”, di natura individualizzante, necessari a confermare l’attendibilità delle dichiarazioni ai sensi dell’articolo 192, comma 3, del Cpp. A tal proposito, se la credibilità soggettiva del dichiarante e l’attendibilità oggettiva del suo narrato devono essere apprezzate unitariamente, e quindi la valutazione del giudice non deve necessariamente muovere attraverso passaggi rigidamente separati, il riscontro estrinseco di attendibilità di cui all’articolo 192, comma 3, del codice di procedura penale deve invece costituire oggetto di un momento valutativo logicamente successivo, in quanto non è possibile procedere a un apprezzamento unitario della dichiarazione accusatoria e degli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla dichiarazione in sé considerata, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni a essa. Pertanto, non è giuridicamente consentito sanare o supplire le carenze strutturali del giudizio di affidabilità soggettiva e intrinseca della dichiarazione accusatoria mediante la valorizzazione degli eventuali elementi di riscontro estrinseco della stessa, i quali possono - e devono - essere apprezzati nella loro capacità di concorrere a confermare ab externo i contenuti dichiarativi soltanto dopo l’autonomo superamento, con esito positivo, del vaglio di credibilità soggettiva della fonte e di attendibilità intrinseca delle sue dichiarazioni. È principio consolidato, sotto il profilo metodologico, quello secondo cui, ai fini di una corretta valutazione di una chiamata in correità, il giudice deve in primo luogo verificare la credibilità del dichiarante, valutando la sua personalità, le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, i suoi rapporti con i chiamati in correità e le ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all’accusa dei coautori e complici; in secondo luogo, deve verificare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, valutandone l’intrinseca consistenza e le caratteristiche, avendo riguardo, tra l’altro, alla loro spontaneità e autonomia, alla loro precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; deve, infine, verificare l’esistenza di riscontri esterni, onde trarne la necessaria conferma di attendibilità. Questi ultimi, poi, possono consistere in elementi di qualsivoglia natura anche di carattere logico; ciò, peraltro, a condizione che, oltre a essere individualizzanti, e quindi avere direttamente a oggetto la persona dell’incolpato in relazione allo specifico fatto a questi attribuito, debbono essere esterni alle dichiarazioni accusatorie, allo scopo di evitare che la verifica sia circolare e autoreferente (tra le altre, sezione III, 4 dicembre 2014, M. e altro). Quanto poi ai “riscontri estrinseci”, si è convincentemente affermato che questi, dal punto di vista oggetti­vo, possono consistere in qualsiasi circostanza, fattore o dato probatorio, non predeterminato nella specie e qualità, e avere, pertanto, qualsiasi natura: i riscontri, dunque, possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica, e anche in un’altra chiamata in correità, a condizione che questa sia totalmente autonoma e avulsa rispetto a quella da “corroborare”. È essenziale, inoltre, che tali riscontri siano “indipendenti” dalla chiamata, nel senso che devono provenire da fonti estranee alla chiamata stessa, in modo da evitare il cosiddetto feno­meno della “circolarità” della acquisizione probatoria, e cioè, in definitiva, che sia la stessa chiamata a convalidare se stessa. I riscontri, infine, nell’ottica del giudizio di condanna, devono avere valenza “individualizzante”, devono, cioè, riguardare non soltanto il complesso delle dichiarazioni, ma anche la riferibilità dello specifico fatto-reato alla specifica posizione soggettiva dell’imputato; in altri termini, i riscontri non devono semplicemente consistere nell’oggettiva conferma del fatto riferito dal chiamante, ma devono costituire elementi che collegano il fatto stesso alla persona del chiamato, fornendo un preciso contributo dimostrativo dell’attribuzione a quest’ultimo del reato contestato. Per converso, non è invece richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova “autosufficiente”, perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata in correità (Sezione II, 3 maggio 2005, Tringali e altri). Carcere per il “bricoleur” che spiega sul sito come costruire le armi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2018 Viola le norme antiterrorismo il “bricoleur” degli esplosivi che mette nel sito web le istruzioni per le armi “fai da te”. La Cassazione condanna a otto mesi di reclusione il ricorrente, classe 1898, che aveva pensato di aprire un sito web in cui invece di dare innocui consigli sulla cucina o sul giardinaggio, spiegava come costruire e usare materiali esplosivi e armi chimiche, fornendo tutti i dettagli nella sua pagina che aveva collegamenti dai nomi espliciti come “costruisci un fumogeno” o “bomba facile facile”, in cui si potevano trovare i file per realizzare gli ordigni. Un hobby che costa caro al suo appassionato. Per i giudici di appello prima e di Cassazione poi, il reato commesso rientra nel raggio d’azione dell’articolo 2-bis della legge 895/1967, che è stato introdotto in piena emergenza per il terrorismo internazionale nel 2005 (legge 155). Una norma che punisce chi, al di fuori dei casi consentiti, spiega, anche in forma anonima e per via telematica, come si preparano e si usano le armi: da quelle batteriologiche a quelle da guerra, fino ai “congegni micidiali”. E poco importa se il “maestro “ è solo un teorico, per lui scatta un reato, di pericolo permanente, che mette in atto una tutela anticipata, punendo non l’uso delle armi ma la semplice divulgazione delle notizie per crearle. Al ricorrente “dinamitardo” viene negata anche la prescrizione che, in virtù del carattere permanente del “crimine”, inizia a decorrere solo dal momento in cui le “istruzioni per l’uso” non sono più visibili sul sito. Poteri del giudice in ordine alla concessione delle circostanze attenuanti generiche Il Sole 24 Ore, 21 maggio 2018 Reato - Circostanze del reato - Circostanze attenuanti generiche - Riconoscimento da parte del giudice - Giudizio di fatto - Sindacato di legittimità - Esclusione. La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’articolo 62-bis c.p. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 2 maggio 2018 n. 18751. Reato - Circostanze del reato - Circostanze attenuanti generiche - Diniego giudiziale - Fondamento. In tema di concessione di circostanze attenuanti ai sensi dell’articolo 62-bis c.p. il diniego giudiziale delle stesse può fondarsi legittimamente anche sull’apprezzamento di un solo dato negativo, soggettivo od oggettivo, che sia ritenuto però prevalente rispetto ad altri, disattesi o superati da tale valutazione. È pertanto sufficiente il diniego in base ai precedenti penali dell’imputato, perché in tal modo viene formulato comunque, sia pure implicitamente, un giudizio di disvalore sulla sua personalità. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 2 maggio 2018 n. 18751. Potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena - Diniego delle circostanze attenuanti generiche - Apprezzamento del giudice di merito - Motivazione. In tema di circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda. In questa prospettiva, anche uno solo degli elementi indicati nell’articolo 133 c.p., attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso, può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti generiche, derivandone così che, esemplificando, queste ben possono essere negate anche soltanto in base ai precedenti penali dell’imputato. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 4 agosto 2014 n. 34261 Pena - Applicazione - Computo - Applicazione della pena al di sopra dei minimi edittali - Concessione delle attenuanti generiche - Diniego - Violazione di legge o difetto di motivazione - Esclusione - Ragioni. Le attenuanti generiche previste dall’articolo 62 bis c.p. sono state introdotte con la funzione di mitigare la rigidità dell’originario sistema di calcolo della pena nell’ipotesi di concorso di circostanze di specie diversa e tale funzione, ridotta a seguito della modifica del giudizio di comparazione delle circostanze concorrenti, ha modo di esplicarsi efficacemente solo per rimuovere il limite posto al giudice con la fissazione del minimo edittale, allorché questi intenda determinare la pena al di sotto di tale limite, con la conseguenza che, ove questa situazione non ricorra, perché il giudice valuta la pena da applicare al di sopra del limite, il diniego della prevalenza delle generiche diviene solo elemento di calcolo e non costituisce mezzo di determinazione della sanzione e non può, quindi, dar luogo né a violazione di legge, né al corrispondente difetto di motivazione. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 28 ottobre 2014 n. 44883. Reggio Emilia: sempre più detenuti al carcere della Pulce, dal 2015 è un boom Gazzetta di Reggio, 21 maggio 2018 Sale a 363 il numero di persone ristrette nel penitenziario. Nel 2015 erano 212, i dati forniti in Commissione sanità. Un totale di 363 detenuti, di cui 7 donne e 204 stranieri. È la situazione nel carcere della Pulce, in via Settembrini, illustrata ai consiglieri comunali, in visita all’istituto penitenziario nell’ambito della Commissione “Servizi sociali-Sanità-Assistenza”, presieduta dalla consigliera comunale Pd, Emilia Davoli. Una visita organizzata da tempo, alla quale inizialmente era prevista anche la presenza della stampa, chiamata ad accreditarsi salvo poi un ripensamento della direzione del carcere. Secondo i dati diffusi, i detenuti presenti alla Pulce sono in costante aumento: erano 212 al 31 dicembre 2015, salendo a 310 nel 2016 e a 356 nel 2017. Attualmente sono 363, secondo dati del 16 maggio: 254 i detenuti con pena definitiva, 59 i giudicabili e 35 gli appellanti. Diciotto i detenuti impegnati in progetti di lavoro all’esterno e 6 quelli in regime di semilibertà. Fra i detenuti, la maggioranza è straniera: 64 le persone di origine marocchina, 37 quelle di origine tunisina, 25 di origine albanese e 14 di origine nigeriana. Nel 2017, inoltre, i nuovi ingressi erano stati 489, contro i 480 del 2016 e i 340 del 2015. I dati sono stati diffusi sul profilo Facebook della capogruppo di Grande Reggio-Progetto Reggio, Cinzia Rubertelli: “Ho fatto visita per la prima volta al carcere - scrive - 189 gli agenti di polizia penitenziaria addetti alla sicurezza, oltre a medici e tanti addetti alle svariate attività di recupero. Una comunità nella nostra città ai più sconosciuta. Anna Albano, direttrice, insieme ai dirigenti dei vari dipartimenti ha accolto la commissione illustrando con professionalità e oggettività la situazione e le varie attività. Abbiamo visitato un’intera sezione in cui ho potuto verificare la giovane età e il buono stato fisico dei detenuti. Abbiamo scambiato con loro per lo più saluti”. Per Rubertelli, “la complessità delle etnie presenti, la difficoltà di comunicazioni, le complicazioni legate allo stato di salute rende difficilissimo il lavoro di chi deve garantire la sicurezza, i percorsi di recupero e soprattutto garantire la salute della comunità. Gli agenti di polizia penitenziaria sono sotto organico di almeno 40 addetti e il processo Aemilia ha reso ancora più gravosa la situazione. Ho colto che la situazione è al limite, anzi oltre. Lavoreremo ancora su questa questione. Questo sistema va rivisto”. Napoli: violenze nel carcere di Poggioreale “ti fanno spogliare e ti riempiono di botte” tgcom24.mediaset.it, 21 maggio 2018 Le Iene raccontano le violenze subite dai carcerati durante la detenzione all’interno della struttura penitenziaria napoletana. Maltrattamenti, violenze e vessazioni: è così che secondo gli ex detenuti del carcere di Poggioreale si vive all’interno della struttura penitenziaria. Sole poche settimane fa Roberto Leva, dopo esser uscito dalla casa circondariale, ha denunciato di essere stato picchiato selvaggiamente dalle guardie. Le Iene hanno voluto intervistare alcuni ex carcerati che hanno dipinto una situazione estrema: sovraffollamento, condizioni fatiscenti e violenze quotidiane da parte dei secondini. “Poggioreale è una scuola di criminalità e per me non dovrebbe esistere”, ammette Pietro Ioia, ex narcotrafficante che dopo esser uscito dalla struttura di Poggioreale è diventato attivista per i diritti dei carcerati. Secondo lui il vero problema sono le violenze delle guardie penitenziarie che avvengono nella cosiddetta “cella zero”. Una stanza, presente in ogni padiglione, dove i secondini fanno spogliare i detenuti per poi picchiarli. “Una cella non numerata dove ti chiamano, ti fanno spogliare nudo e ti riempiono di botte. Se tu reagivi ti massacravano”, racconta Ioia. Le Iene riescono a contattare la direttrice del carcere, Maria Luisa Palma, che dichiara: “Non è assolutamente possibile che qui succedano cose al di fuori della legge”. Sul caso di Roberto Leva ha inoltre spiegato che i lividi con cui il detenuto è stato portato al pronto soccorso, altro non sarebbero che contusioni causate da crisi epilettiche. Una versione molto diversa da quella fornita dallo stesso Leva che continua a denunciare i maltrattamenti subiti. Bolzano: bomba carta contro il centro profughi di Valentina Avon La Repubblica, 21 maggio 2018 Esplosione nella notte a Appiano, in provincia di Bolzano. Sul posto simboli nazisti e scritte razziste contro i richiedenti asilo. Una bomba carta è stata fatta esplodere sulla soglia del centro di accoglienza per richiedenti asilo di Appiano, in Alto Adige, nella notte fra sabato e domenica. Come rivendicazione è stata lasciata sul posto una tavola di legno decorata con una svastica nazista e una croce celtica e parole di odio per gli ospiti del centro. Il centro di accoglienza per richiedenti asilo, un’ex caserma all’ingresso del paese, gestito dall’organizzazione Volontarius, ospita 39 persone, delle quali 28 lavorano e gli altri fanno corsi di formazione. Appiano dista pochi chilometri da Bolzano, è circondato da vigneti e meleti e frequentato da turisti e escursionisti. Ha 15mila abitanti, compresi un migliaio di residenti stranieri, soprattutto dell’Est Europa, l’80 per cento della popolazione è di lingua tedesca. “Condanniamo fermamente questa azione. La violenza non risolve i problemi, bensì produce paura e ulteriore violenza”, hanno dichiarato il presidente della Provincia di Bolzano Arno Kompatscher e l’assessora alle politiche sociali Martha Stocker in solidarietà agli ospiti e “a tutte le persone che come operatori del volontariato e come volontari lavorano e collaborano in favore dei richiedenti asilo”. “Un fatto che ha sconvolto gli ospiti ma anche gli operatori, un caso che richiede una riflessione su come garantire maggiore sicurezza ai richiedenti asilo accolti e all’equipe di lavoro, specialmente nei turni notturni”, sono parole degli attivisti di Antenne Migranti, che monitora la situazione dei migranti al Brennero. Castrovillari (Cs): il diritto alla salute … oltre ogni limite, incontro in carcere giornalelora.it, 21 maggio 2018 L’11 maggio scorso, nell’intento di favorire una cultura della prevenzione, il Soroptimist International Club di Cosenza, tramite il progetto Donne@salute, ha organizzato un incontro all’interno della Casa Circondariale “Rosetta Sisca” di Castrovillari per sensibilizzare verso il diritto alla salute da garantire anche in contesti ristretti. L’iniziativa è stata sostenuta dalla direttrice dell’istituto, dott.ssa Maria Luisa Mendicino, che ha sottolineato come il non poter disporre più di un’organizzazione sanitaria autonoma abbia limitato fortemente la possibilità di operare concreti atti di prevenzione all’interno delle carceri ed abbia reso più difficoltoso l’accesso alle cure in tempi rapidi, se non per le emergenze. Il procuratore di Castrovillari, dott. Eugenio Facciolla, ha puntualizzato la delicatezza del diritto alla salute in carcere. La magistratura, infatti, deve valutare le reali necessità dei richiedenti non sempre scevri da interessi nel ricorso alle cure. Tuttavia l’importanza di assicurare il benessere a quanti vivono le difficoltà dell’essere reclusi induce ad operare con acribia senza minimizzare o sottovalutare nessuna richiesta. La prof.ssa Rosita Paradiso, presidente del Club di Cosenza, ha introdotto le problematiche relative alla salute delle donne ed al loro accesso alla medicina, evidenziando la generosità delle donne che antepongono spesso famiglia e lavoro alle necessità personali, per cui sono sempre poco inclini alla prevenzione che, invece, proprio nel caso del tumore al seno è fondamentale, in quanto individuare un iniziale esordio della malattia garantisce il successo delle cure. Per il dott. Sergio Abbonante, che ha eseguito successivamente le visite senologiche, la chirurgia alla mammella non è più demolitrice, ma si interviene in modo sempre meno invasivo rispetto al passato. Il chirurgo ha affermato, inoltre, l’obbligatorietà di operare una seria prevenzione nei casi in cui siano presenti fattori di rischio come l’uso prolungato della pillola anticoncezionale o un menarca ritardato; mentre, invece, l’allattamento costituisce una protezione naturale per la salute della donna. Il dott. Antonio Salamanca, che dopo l’incontro ha effettuato uno screening preventivo eseguendo un’ecografia mammaria, ha sottolineato come la ricerca, soprattutto negli Usa, tende attualmente a studiare il Dna per individuare da subito un possibile sviluppo della malattia. Ha invitato le donne presenti ad esaminare la propria storia familiare per riscontrare casi di tumore alla mammella o al colon e, in tale eventualità, ci si deve sottoporre alle indagini strumentali già dai 25 anni con una certa regolarità. E soprattutto ha esortato tutte all’autopalpazione per individuare la presenza di anomalie sì da rivolgersi immediatamente al medico curante per attivare la procedura ormai standardizzata e giungere in tempi brevi ad una diagnosi. Nelle 15 detenute che si sono sottoposte volontariamente alle indagini ed alla visita non sono stati trovati focolai neoplastici e questo ha rasserenato tutti. I docenti del Cpia di Cosenza “Valeria Solesin”, che operano nell’istituto, hanno raccolto le impressioni delle giovani donne visitate. Tutte hanno espresso un parere positivo, mettendo in rilievo l’importanza dell’evento; l’argomento trattato ha, infatti, toccato ciascuna. Tutte hanno compreso come la prevenzione sia essenziale e, soprattutto, hanno apprezzato sia l’attenzione loro rivolta sia il linguaggio semplice e comprensibile dei medici. Una detenuta ha confidato di non aver voluto partecipare per un senso di paura, ma avendo sentito successivamente il racconto delle partecipanti, ha affermato di essersi pentita. Molte delle donne presenti hanno affermato di essersi sentite valorizzate come donne e come madri in un contesto in cui non si vivono più pienamente queste due dimensioni. Il Club di Cosenza è davvero orgoglioso di avere organizzato assieme alla direzione del carcere questo service a dimostrazione del fatto che InSIeme diamo valore al futuro delle donne. Cremona: “Vivicittà-Porte Aperte”, successo per la corsa riservata ai detenuti Cremona Oggi, 21 maggio 2018 La Casa Circondariale di Cremona ha ospitato sabato 15 maggio la quindicesima edizione del “Vivicittà - Porte Aperte”, la corsa podistica riservata ai detenuti, ma aperta anche alla società civile, rappresentata in tale circostanza dalle società sportive esterne e dagli studenti degli istituti superiori cittadini. Tra questi, alcuni ragazzi e ragazze dell’Istituto Aselli accompagnati dal prof. Franco Guarneri ed una qualificata rappresentanza cittadina dell’Asd Triathlon-Duathlon, per un totale di circa 30 persone. Un’edizione baciata dal sole visto il periodo di pioggia di questi giorni, che ha fatto da scenario agli oltre sessanta detenuti partecipanti alla corsa. Il presidente Territoriale Uisp di Cremona Luca Zanacchi ha ringraziato i volontari e gli agenti della polizia penitenziaria, che hanno reso possibile la corsa, e i partecipanti, insieme a lui la direttrice dell’Istituto, Maria Gabriella Lusi, il coordinatore degli educatori Giuseppe Novelli e il sindaco di Cremona Gianluca Galimberti. Un particolare ringraziamento è andato anche alla Regione Lombardia per il contributo devoluto alle attività sportive che la Uisp promuove all’ interno della casa circondariale tutto l’anno in undici case circondariali lombarde. La corsa, sviluppatasi su un circuito interno di ottocento metri circa da ripetersi sei volte, ha visto primeggiare il marocchino Isham con il tempo di 27 minuti e 3 secondi. Un Vivicittà - Porte Aperte quanto mai internazionale, specchio fedele dei processi di globalizzazione, che si è svolto in altre trenta Case Circondariali d’Italia, e che ha concluso la rassegna di iniziative collegate alla corsa podistica giunta alla trentacinquesima edizione. Il presidente Istat e la privacy: “Le nostre ricerche tutelano i cittadini” di Giorgio Alleva* Corriere della Sera, 21 maggio 2018 La fiducia da parte dei cittadini sul nostro operato e il loro profondo convincimento sull’utilizzo esclusivamente a fini statistici e nel pieno rispetto della privacy dei dati raccolti rappresentano le condizioni essenziali per assolvere il mandato che la legge affida all’Istat. Sono queste le ragioni profonde che mi hanno spinto a scriverle a seguito della lettura dell’articolo “Il Garante contesta l’Istat: il censimento è una schedatura”, pubblicato lo scorso 19 maggio. L’Istat agendo in piena collaborazione con il Garante per la protezione dei dati personali, è impegnato sistematicamente per garantire la tutela assoluta della sicurezza e riservatezza dei dati, rafforzando misure e policy per assolvere a tale obbligo. Sono anni che l’Istituto lavora sugli archivi amministrativi e mai si è verificato un solo caso di violazione della privacy. E fino ad oggi l’Autorità ha sempre espresso parere favorevole all’acquisizione e al trattamento di archivi amministrativi. E pertanto nostra intenzione rispondere, nelle sedi opportune, come da prassi, anche ai recenti rilievi tecnici del Garante, resi noti dal Corriere ma già pervenuti anche ai nostri uffici, per rassicurarlo sulla correttezza e sicurezza dei trattamenti dei dati adottati. I censimenti saranno condotti con le modalità previste da una legge dello Stato, finanziata con appositi fondi, che prevede l’uso combinato di indagini campionarie e di archivi amministrativi che sono in gran parte già stati acquisiti sempre con il parere favorevole del Garante. Tutte le innovazioni introdotte, hanno peraltro reso il censimento assai meno costoso rispetto al passato e permetteranno di diffondere dati dettagliati sulle caratteristiche della popolazione ogni anno anziché ogni dieci. I cittadini quindi non corrono alcun rischio. I dati raccolti dall’Istat in alcun modo vengono utilizzati per tracciare profili individuali ma unicamente per produrre stime di aggregati statistici che l’Italia deve fornire alla Comunità europea e ai decisori pubblici. La statistica ufficiale è da molto tempo fortemente ispirata da obiettivi di semplificazione e di riduzione del carico informativo sui cittadini. Questo modello di produzione delle statistiche ufficiali è incorporato formalmente nei regolamenti europei, approvati dagli organi rappresentativi attraverso procedure complesse e rigorose, e verificato dagli organismi di controllo. L’Italia non è un caso a sé: tutti i Paesi europei si stanno muovendo in questa direzione e tra pochi giorni entrerà in vigore un nuovo regolamento comunitario che aumenterà ulteriormente la trasparenza dell’attività degli istituti nazionali di statistica. Per quanto riguarda l’Istat, Eurostat ha appena condotto un audit sulla sicurezza che i nostri sistemi garantiscono ai nostri dati dal quale siamo usciti in modo eccellente. L’utilizzo dei dati amministrativi per la costruzione delle statistiche pubbliche non solo alleggerisce il disturbo sui cittadini, evitando la proliferazione d’indagini statistiche, ma arricchisce la capacità informativa e dà profondità alle analisi, consentendo una lettura moderna ed efficace della complessità dei fenomeni economici e sociali. Così è ad esempio nel mondo del lavoro, dove l’integrazione dei dati ha permesso di fornire un’informazione più dettagliata sui settori in difficoltà e sui soggetti più deboli da sostenere. Così è per la salute, in cui si è potuto porre in luce le disuguaglianze sociali. Anche in tema di disabilità, solo utilizzando tutte le fonti disponibili è possibile fornire l’informazione necessaria per la tutela di diritti delle persone disabili. Infine, vorrei tranquillizzare i genitori di bambini e ragazzi che saranno coinvolti nella rilevazione: comportamenti, atteggiamenti e progetti futuri. Il questionario non conterrà assolutamente quesiti sulla contraccezione e comportamenti sessuali o su altri aspetti sensibili. L’obiettivo che ci siamo posti è cogliere il loro modo di vedere il mondo e di rapportarsi con la società, i loro interessi e le loro aspettative, a partire dalla scuola. *Presidente Istat Minori migranti: divieto di detenzione e diritto all’istruzione europarl.europa.eu, 21 maggio 2018 Tutti i bambini non accompagnati devono avere un tutore al loro arrivo. Cooperazione rafforzata per individuare bambini scomparsi e identificare le vittime della tratta e degli abusi. Accesso all’istruzione alle stesse condizioni dei bambini locali. Tutti i bambini migranti e le famiglie con bambini dovrebbero essere ospitati in strutture non detentive durante la verifica del loro status giuridico, hanno chiesto i deputati giovedì. “I minori non devono essere detenuti per fini di immigrazione” e la Commissione europea dovrebbe agire contro gli Stati membri dell’UE “in caso di detenzione prolungata e sistematica dei minori e delle loro famiglie”, ha dichiarato il Parlamento in una risoluzione non legislativa approvata per alzata di mano. Secondo gli ultimi dati dell’Agenzia UE per i diritti fondamentali nel settembre 2016 la Bulgaria era il Paese con il maggior numero di bambini migranti detenuti, mentre in Grecia, Ungheria, Polonia e Slovacchia se ne registra ugualmente un numero elevato. Nessun minore invece è stato trattenuto nei giorni in cui sono stati effettuati controlli in loco a Cipro, Danimarca, Estonia, Germania, Italia, Irlanda, Malta, Spagna o Regno Unito. Vulnerabili alla tratta, alla violenza e allo sfruttamento - Secondo le stime, sono 5,4 milioni i bambini migranti che vivono in Europa, rileva la risoluzione. Si tratta di 1 bambino migrante su 6 nel mondo (dati Unicef). Quasi la metà di coloro che sono arrivati negli ultimi anni erano bambini non accompagnati o separati dalla propria famiglia. I deputati sottolineano che la mancanza di informazioni affidabili e la lunghezza del ricongiungimento familiare e delle procedure di nomina dei tutori, nonché il timore di essere detenuti, rinviati o trasferiti, si traducono molto spesso nella fuga dei bambini, che vengono così esposti alla tratta, alla violenza e allo sfruttamento. Il Parlamento esorta le autorità nazionali ad accelerare le procedure per la nomina di tutori per i minori non accompagnati, i quali dovrebbero essere poi ospitati in strutture separate da quelle degli adulti, al fine di evitare qualsiasi rischio di violenza e abuso sessuale. I deputati chiedono sia data priorità al trasferimento di minori non accompagnati dalla Grecia e dall’Italia, ma anche che tutte le procedure pendenti di ricongiungimento familiare siano portate a termine senza ritardi. Identificazione e registrazione dei bambini per proteggerli - Il Parlamento sottolinea l’importanza di istituire un solido sistema di identificazione e registrazione per garantire che i minori entrino in sistemi di protezione nazionali. Richiede inoltre una maggiore cooperazione tra le autorità preposte all’applicazione delle norme e alla tutela dei minori per individuare e proteggere i bambini scomparsi. I deputati sono particolarmente preoccupati per lo sfruttamento delle ragazze a fini di prostituzione e chiedono agli Stati membri di intensificare gli sforzi e la cooperazione transfrontaliera per identificare i minori vittime di tratta, abuso e ogni altra forma di sfruttamento. Per quanto riguarda le procedure di verifica dell’età, la risoluzione sottolinea che le visite mediche dei bambini dovrebbero sempre essere effettuate “in modo non invadente e nel rispetto della loro dignità”. Il Parlamento ha inoltre respinto l’uso della coercizione per l’acquisizione di dati biometrici dei bambini. Spagna. Tra i leader catalani che leggono Gramsci nelle celle di Madrid di Omero Ciai La Repubblica, 21 maggio 2018 Junqueras pulisce vetri, Forn scrive diari. E le mogli raccontano: “da mesi senza un processo, un’impresa vederli. È solo vendetta”. L’offensiva giudiziaria contro i dirigenti secessionisti catalani, avviata nell’ottobre scorso dalla Audiencia Nacional di Madrid (Jordi Sànchez e Jordi Cuixart i primi arrestati) è ormai da mesi nelle mani del Tribunale Supremo, massimo organo giurisdizionale spagnolo. Per i nove politici attualmente in carcere preventivo (detenuti per la maggior parte il 2 novembre e il 23 marzo scorsi), l’accusa del giudice Pablo Llarena è quella di “ribellione”: la condanna prevista è fino a 30 anni. L’ex vice presidente catalano Oriol Junqueras, in carcere in attesa di giudizio da sette mesi, è dimagrito, legge moltissimo, gioca a calcio e pulisce i vetri. Quello di pulire i vetri è il compito che Junqueras si è auto assegnato perché il settore del carcere di Estremera, a Sud di Madrid, dove è rinchiuso, è autogestito dai detenuti. Puliscono le celle, i corridoi e tutte le aree in comune. Junqueras vorrebbe insegnare, fare corsi di storia o filosofia e, perfino fisica quantistica, agli altri carcerati, ma la direzione non glielo ha permesso. Così pulisce i vetri. Nello stesso reparto ci sono altri due leader catalani: l’ex conseller degli esteri, Raül Romeva; e l’ex responsabile degli interni, Joaquim Forn. Romeva sta leggendo tutti i libri di Antonio Gramsci e ha ridipinto le pareti del carcere. Forn scrive un diario e risponde alle migliaia di lettere, “più di trecento al giorno”, che riceve dalla Catalogna. Voleva anche studiare inglese ma ha rinunciato quando ha scoperto che il professore era detenuto per avere ucciso la moglie. Junqueras è quello che è stato punito più spesso. L’ultima volta gli hanno negato per due settimane “l’ora d’aria” perché aveva usato i 4 minuti al giorno che ha a disposizione per fare una telefonata all’esterno del carcere per chiamare una radio di Barcellona, e parlare in diretta con un giornalista. I leader catalani in carcere sono in tutto nove. Sei sono ex membri del governo che promosse il referendum illegale di autodeterminazione del primo ottobre 2017. Una, Carme Forcadell, è la ex presidente del Parlamento, sciolto da Madrid con il commissariamento dell’autonomia regionale. Gli ultimi due sono i presidenti dei movimenti civici indipendentisti, Jordi Sànchez e Jordi Cuixart. Secondo i loro familiari, e i loro avvocati, questa lunga detenzione preventiva, prima di un processo sulle cui basi legali molti dubitano - sicuramente il tribunale belga e quello tedesco che frenano sull’estradizione degli esuli, avrebbe un solo obiettivo: quello di annichilire il movimento indipendentista seminando il terrore tra gli elettori del fronte secessionista. “Prima che arrivassero i catalani a Estremera - racconta orgogliosa Laura Masvidal, moglie di Joaquim Forn - il servizio postale del carcere era un agente in motocicletta, adesso hanno dovuto prendere un furgoncino e moltiplicare gli addetti al controllo”. “A Madrid - aggiunge - non hanno capito che dietro ai nove detenuti c’è un popolo. Gli scrivono lettere da ogni angolo della Catalogna, e quando inviano la risposta chi la riceve piange dall’emozione e conserva la busta come un gioiello”. La vita personale di Laura, e quella di Diana Riba, moglie di Romeva, sono state sconvolte dall’arresto dei mariti. “Come entrare in una voragine”, dice Laura. Adesso la loro attività principale è partecipare a tutte le manifestazioni di solidarietà. Cene, comizi, cortei, in ogni paesino della regione. In media quindici eventi ogni giorno. E andare a visitarli in carcere. Una volta alla settimana per 40 minuti con un vetro in mezzo e, una volta al mese, per un incontro di due ore. “Il viaggio è una crudeltà - dice Diana, che ha due figli piccoli -. Settecento chilometri all’andata e settecento al ritorno per 40 minuti. Perché non li spostano in un carcere più vicino?”. Txell Bonet, moglie di Jordi Cuixart, ha un figlio di tredici mesi. “Dal 23 ottobre sono andata a trovarlo in carcere già 32 volte. È illegale che come padre di un bimbo così piccolo mio marito debba stare rinchiuso così lontano da Barcellona in attesa del processo. Il giudice sostiene che c’è ‘pericolo di fugà ma ci sarebbero molte altre formule. Ci sono i braccialetti elettronici o gli arresti domiciliari. Quella di Madrid è una vendetta”. Anche le spese ogni volta non sono poche. In auto è un viaggio di sette ore. Meglio treno o aereo. Per ora i costi dei viaggi di tutte le famiglie sono coperti dalle sottoscrizioni dei 700 comuni indipendentisti catalani. Quasi scherzando, Laura e Diana, fanno anche l’elenco delle cose positive. “Quest’anno - dice Laura - il commercialista mi ha fatto gratis la dichiarazione dei redditi”. “A me - aggiunge Diana - l’ottico mi ha regalato un paio di occhiali da vista di ricambio per Raül”. “Le vicine ci portano da mangiare. Un brodo, una teglia di cannelloni, vassoi di frutta. Perché pensano che non abbiamo più tempo né per cucinare, né per fare la spesa. Ed è proprio così”. Ma le divergenze interne al movimento indipendentista restano un tabù. Carcerati e fuggiaschi all’estero vengono descritti come due facce della stessa moneta - lo Stato repressore - perché “l’esilio è un’altra prigione”. Però Junqueras in cella cita Socrate, che accusato ingiustamente rifiutò di lasciare Atene, nonostante i suoi amici lo pregassero di farlo, affrontò il processo e la condanna a morte. Quello del leader di Esquerra republicana con Puigdemont è un confronto sotterraneo. Si sa che non si parlano da quando il presidente catalano si esiliò a Bruxelles. E la strategia di Junqueras ormai è diversa. Esquerra ha preso atto che proporre l’indipendenza fu un errore. “Non c’erano le condizioni”, hanno ammesso. Mentre Puigdemont testardo continua nella sfida. E il vero pericolo ora è che così si allontani “una soluzione politica” del conflitto. Un dialogo con Madrid a favore di quelli che rischiano di passare in carcere i prossimi trent’anni, e del futuro della Catalogna. Turchia. Attori all’indice, Erdogan “imbavaglia” teatro e televisione di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 21 maggio 2018 Il giro di vite ha travolto anche la cultura nell’estenuante ricerca dei “traditori della patria”. Migliaia di teatri sono stati chiusi, centinaia di festival cancellati. “È come se fossi un lebbroso, nessuno ti vuole parlare, nessuno ti vuole venire vicino”. Tante, troppe persone in Turchia hanno vissuto sulla propria pelle le conseguenze dell’Ohal, lo stato d’emergenza decretato all’indomani del fallito colpo di Stato del 15 luglio 2016 e tuttora in vigore. Il giro di vite ha travolto ogni settore del Paese nell’estenuante ricerca dei “traditori della patria”. La cultura non ha fatto eccezione. Migliaia di teatri sono stati chiusi, centinaia di festival cancellati e anche gli attori sono finiti all’indice esattamente come i giornalisti e i professori universitari. Un anno fa il dipartimento di Teatro dell’Università di Ankara è stato decimato e uno dei più noti conduttori d’orchestra Ibrahim Yazici è finito all’indice. È di qualche settimana fa l’accorato appello di un’attrice di rilievo, Fusun Demirel, 60 anni, licenziata su due piedi nel 2016 per aver detto che avrebbe voluto interpretare il ruolo della madre di una guerrigliera. Da allora nessuno le ha più offerto un ruolo: “Datemi un lavoro - ha implorato. Che cosa ho fatto nella vita a parte essere un esempio di umanità, amore e servizio pubblico? Non posso sopportare questo”. La disperazione di Demirel è un grido di dolore uguale a quello di tanti altri turchi emarginati solo per aver espresso opinioni dissonanti. Sono più di 77 mila le persone arrestate dopo il fallito golpe e 151 mila quelle cacciate dal lavoro. Una sorta di “rivoluzione culturale” di stampo islamico. Da quando ha conquistato il potere nel 2002 Recep Tayyip Erdogan ha cercato di mutare l’eredità secolarista del fondatore Mustafa Kemal Atatürk ridando smalto e vigore al passato Ottomano. Oggi in tv dominano le serie a sfondo storico. La preferita del presidente è “Payitaht” che racconta la vita di Abdul Hamid II, il penultimo sultano (detto il Sanguinario) che, guarda caso, cercò di tenere insieme l’impero con un esercito di informatori. Venezuela. Un Paese ricco con il popolo in coda per comprare il pane di Carlo Ciavoni La Repubblica, 21 maggio 2018 Un popolo in coda anche per comprare il latte. Gli effetti di una povertà dilagante, dall’ultimo dei disoccupati al professore universitario, sono l’impossibilità di accedere all’uso dell’acqua, dell’elettricità, dei beni di prima necessità, sono quelle file interminabili per comprare prodotti a prezzi abbordabili, come latte, riso, pane, pasta, burro. E comunque mancano medicine, benzina, manca tutto. Alcuni media riportano notizie, che però andrebbero verificate, ma consegnano comunque l’immagine di una situazione davvero tragica: si parla infatti di “gente che si mangia pure gli animali dello zoo per la fame”. Nelle lunghe code umilianti che la gente è costretta a fare per qualsiasi cosa, s’è accesa così una profonda rabbia sociale. Tanto più furiosa quanto più si pensa al fatto che siamo in un Paese ricchissimo di petrolio, grazie alle sue riserve calcolate come le più importanti al mondo e capaci di sostenere per oltre il 90% la moneta nazionale, ma che il crollo del prezzo del gregio sembra invece aver fatto precipitare in un baratro oscuro, dal quale non riesce più ad uscire. Non è un caso che, alla fuga in massa dei cittadini, s’è aggiunta la scomparsa di circa 15 mila imprese e un’inflazione che gli analisti ritengono possa raggiungere quest’anno il 700%. Insomma, una situazione che, secondo molti osservatori, rischia di provocare una delle maggiori crisi umanitarie degli ultimi decenni in quell’area. La debolezza di Maduro e il “complotto internazionale”. In un contesto del genere, diventano inevitabili i saccheggi ai supermercati, sempre più frequenti. Così come appaiono in aumento le rapine: 107 ce ne sarebbero state nel primo trimestre di quest’anno e una ventina di proteste spontanee ogni giorno. Sarebbero 7 su 10 i venezuelani che vorrebbero liberarsi del presidente Nicolás Maduro, il quale però replica affermando di essere al centro di un complotto internazionale per paralizzare il Paese. E questo - al di là della sua endemica debolezza e dei gravi errori commessi - in parte è anche vero, basti pensare al fatto che la politica anti-neoliberista di Chavez, prima, confermata poi, con minore efficacia e credibilità da Maduro, impone di fatto un ridimensionamento drastico degli interessi Usa sugli enormi giacimenti petroliferi venezuelani. Dunque, la sfida dell’erede di Chavez - che nonostante tutto continua a vantare un ampio consenso in un Paese che probabilmente non si fida più delle svolte neoliberiste - sembra essere quella di portare il Venezuela fuori dal baratro senza rinnegare nulla del suo progetto politico, innegabilmente in crisi. Non sono in molti a crederci. Ma lui, a quanto pare, vuole provarci lo stesso. L’opposizione, le sue divisioni e i boicottaggi. Il confronto aspro con l’opposizione - in maggioranza nel Parlamento, ma divisa e incapace di catturare il malcontento anti-Maduro, che invece si avvia a vincere anche queste elezioni - ha avuto inizio dopo la raccolta di 1,7 milioni di firme per indire un referendum, che avrebbe dovuto cacciare Maduro. Una manovra che però al “Tavolo di Unità Democratica” (Mud) non è riuscita per convincere i delusi del Chavismo. Maggior successo invece sembra aver avuto - secondo molti osservatori - il quotidiano boicottaggio del Parlamento, che ha sottratto all’esecutivo tutti gli strumenti legislativi per affrontare la situazione di crisi. Intanto, le richieste di asilo nei Paesi confinanti e vicini al Venezuela sono drammaticamente aumentate: sarebbero ormai circa 145.000 in tutto il mondo, solo negli ultimi mesi segnati da violenti scontri sociali nel Paese e tra governo e opposizione, che hanno indotto Maduro ad adottare misure repressive. L’appello di Papa Francesco. “Desidero - ha detto Papa Francesco - dedicare nuovamente un particolare ricordo all’amato Venezuela. Con l’aiuto dello Spirito Santo, tutti si adoperino nella ricerca di soluzioni giuste, efficaci e pacifiche alla grave crisi umanitaria, politica, economica e sociale che sta stremando la popolazione, evitando la tentazione del ricorso a qualsiasi tipo di violenza. Incoraggio le Autorità del Paese - ha aggiunto - ad assicurare il rispetto della vita e dell’integrità di ogni persona, specialmente di quelle che, come i detenuti, sono sotto la loro responsabilità”.