Il sistema carcerario italiano ed una politica senza coraggio di Agostina Stano salvisjuribus.it, 20 maggio 2018 La riforma dell’ordinamento penitenziario, maltrattata dal governo uscente e che con ogni probabilità verrà bloccata dal governo che verrà, era stata concepita per ottenere una diminuzione della recidiva, un carcere più umano ed una società più sicura. I detenuti che, dopo un’attenta osservazione ed il parere positivo dei magistrati di sorveglianza, hanno accesso alle misure alternative alla detenzione intramuraria, che possono uscire per lavorare, che possono avere contatti con l’esterno, tornano a delinquere in percentuali inferiori al 30%. Al contrario, chi sconta l’intera pena in carcere, senza la possibilità di accedere alle pene alternative, torna a delinquere nel 70% dei casi. Con dati simili alla mano sarebbe preferibile, quindi, che il carcere fosse un luogo di rieducazione e di reinserimento e non un parcheggio o, peggio, una discarica sociale. In Italia, tranne rare eccezioni, il carcere è proprio questo: una discarica sociale. Ed il malfunzionamento delle strutture penitenziarie non è da addebitare ai direttori o alla polizia penitenziaria, bensì a strategie politiche fallimentari. Chiunque abbia a che fare con il carcere, detenuti, familiari, magistrati, avvocati, volontari, educatori, direttori e personale delle strutture di reclusione, tutti abbiamo come unico avversario una politica priva di coraggio e spesso di competenze, sorda e cieca ad ogni sollecitazione, ad ogni richiamo e ad ogni richiesta d’aiuto. Oltre diecimila detenuti hanno aderito nei mesi scorsi a forme di protesta non violente, affinché il governo uscente approvasse definitivamente i decreti attuativi della riforma. Ma non è servito a nulla, come a nulla è servita la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per sistematici trattamenti inumani e degradanti nelle strutture penitenziarie del nostro paese. La politica rincorre il consenso e lo ottiene. Ma è un consenso effimero, destinato a crescere o a diminuire a seconda degli avvenimenti che poco o nulla hanno a che fare con la reale capacità di governare un paese. Si dà per scontato che dopo i fatti di Macerata la Lega abbia aumentato il suo consenso elettorale perché all’omicidio di Pamela Mastropietro ha risposto con una propaganda che al primo posto poneva tolleranza zero verso tutti gli immigrati. Parole, e non fatti, che sono seguite ad una tragedia utilizzata per fare campagna elettorale. Nessun merito politico. E quindi anche una riforma che aggiunge civiltà viene comunicata come un “regalo ai mafiosi” ed utilizzata come ulteriore terreno di scontro. Il governo uscente, impegnato in questa riforma per anni, per paura del parere contrario in vista delle elezioni, un parere emotivo e non basato sulla conoscenza, non ha avuto il coraggio di farla passare quando avrebbe potuto. Le attuali forze politiche, martedì scorso, hanno negato l’accesso della riforma del sistema penitenziario all’esame della Commissione speciale alla Camera dei Deputati, facendo in modo che venga discussa in un futuro incerto dalle Commissioni ordinarie. Questa decisione è l’anticamera della disfatta poco o nulla importa che ci siano le vite dei detenuti e che da questo fallimento non ci guadagnerà nessuno, ma ci perderemo tutti. Da gennaio ad oggi ci sono già stati dieci casi accertati di suicidio nelle carceri italiane, ottomila sono i detenuti di troppo e settantamila i minori che scontano la detenzione insieme alle loro madri. Il carcere continua ad essere una scuola di crimine che nulla insegna, che non riabilita, ma finisce di rovinare chiunque ci entri. Oggi chi entra in carcere in Italia ne uscirà marchiato a fuoco e nella vita non potrà fare altro che delinquere, perché nessuno sarà disposto a dargli una seconda possibilità. Mancanza di coraggio, incoscienza, cinismo. Resta, forse, una flebile speranza a cui ci aggrappiamo per vedere rispettati i diritti fondamentali di tutti: che i presidenti di Camera e Senato riconsiderino la decisione della conferenza dei capigruppo di non assegnare il decreto legislativo di riforma del sistema penitenziario alla Commissione speciale. Visitate un carcere qualsiasi, cogliete ogni occasione possibile di contatto con il mondo della detenzione, fatelo per voi stessi, per i vostri figli. Fatelo perché per deliberare, o molto più banalmente per scrivere un post su Facebook, è fondamentale conoscere. Tornano i “tribunalini” e la class action di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2018 Nel pacchetto giustizia del “contratto” misure che potrebbero ridurre l’efficienza e aumentare il contenzioso. Il contratto Lega-5 Stelle ridisegna l’assetto dell’organizzazione giudiziaria, tornando al concetto di “giustizia di prossimità” abbandonato dal governo Monti con la soppressione di 30 tribunali e altrettante procure, la cancellazione di 220 sezioni distaccate e l’azzeramento di 667 uffici del giudice di pace. Il progetto rischia di compromettere l’efficienza della giustizia e aumentare il contenzioso. Domani vertice al Quirinale. Sulla Tav Di Maio insiste: è inutile. Ha il sapore della restaurazione. Sin quasi dalla terminologia. Se quella della geografia giudiziaria è stata una delle principali, se non la principale riforma “di struttura” della passata legislatura nell’ambito della giustizia, quella che si profila è senza dubbio una controriforma. Perché il contratto di governo tra Movimento 5 Stelle e Lega punta a una rivisitazione che modifichi la riforma del 2012 che ha accentrato gli uffici giudiziari. L’obiettivo, nero su bianco, è “riportare tribunali, procure e uffici del giudice di pace vicino ai cittadini e alle imprese”. L’eterno ritorno quindi di quella “giustizia di prossimità” che era stata abbandonata dal governo Monti e dall’allora ministro della Giustizia Paola Severino. Scelta poi confermata dai Governi Letta e Renzi e che ha condotto alla soppressione di 30 tribunali e altrettante procure, alla cancellazione di 220 sezioni distaccate e all’azzeramento di 667 uffici del giudice di pace, ridisegnando in profondità l’assetto dell’organizzazione giudiziaria. Un intervento da subito contestato, nel segno del “campanile”, in parte dall’avvocatura e certo dagli amministratori locali. E che, negli anni passati, ha visto chiamata in causa più volte la Corte costituzionale che, peraltro, ha sempre promosso il taglio. Con una curiosità da sottolineare. Fu un Sergio Mattarella, allora giudice della Consulta, l’autore, a pochi giorni dall’elezione a Presidente della Repubblica, di una delle pronunce cruciali in materia, quella che, all’inizio del 2015, bocciò i quesiti referendari proposti da 5 Regioni, per ripristinare la vecchia distribuzione sul territorio degli uffici. Precedente geografia, nella quale 63 tribunali avevano meno di 15 giudici e i 55 tribunali più piccoli servivano solo il 10% della popolazione. Ma anche una riforma rimasta incompiuta, visto che poi, malgrado le indicazioni date dalla commissione ministeriale presieduta dall’ex presidente del Csm Michele Vietti, non è poi stata completata con l’ultimo taglio significativo, quello delle Corti d’appello. E nella carta di programma, che intende procedere anche alla riduzione del contributo unificato, dopo anni di aumenti, interpretato come sbarramento all’accesso alla giurisdizione, quanto alla giustizia civile trovano spazio due altre misure assai significative. La revisione della class action e la semplificazione dei riti. Ci si propone allora di rafforzare l’azione di classe, sinora giudicata assai poco incisiva, in maniera tale da tutelare sia i cittadini privati sia le imprese nei confronti delle frodi e degli abusi da parte di un medesimo soggetto economico. Come? Qui a soccorrere è senza dubbio il disegno di legge approvato alla Camera nella passata legislatura e poi arenatosi al Senato, ma fortemente voluto dai 5 Stelle, che estendeva l’area dei soggetti tutelati, conseguenza diretta della collocazione della nuova azione collettiva nel Codice di procedura civile, traghettandola da quello del Consumo. A costituire la classe potevano essere non solo i consumatori/utenti, ma anche imprese, pubblica amministrazione e associazioni. Nello stesso tempo, si ampliavano le ipotesi di illecito extracontrattuale, sino a comprendere tutti i casi di responsabilità per fatto illecito. E sul versante del processo civile, snellimento e velocizzazione dovranno essere ottenuto, si sottolinea nel contratto di programma, attraverso una drastica riduzione dei riti applicabili, limitandoli al solo rito ordinario affiancato da quello del lavoro (molto aveva fatto discutere invece pochi mesi fa il tentativo di colpo di mano del Governo Renzi di un’estensione indiscriminata del rito sommario di cognizione). Spazio poi per un uso più circoscritto di conciliazione e mediazione. Nitto Palma: “giustizia, c`è solo propaganda, nel patto norme incostituzionali” di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 20 maggio 2018 “Molte delle proposte del programma di governo del Movimento 5 Stelle e della Lega, ad una prima impressione, mi sembrano incostituzionali. Poi resta da capire, vista la genericità con cui è stato scritto questo contratto, in che modo verranno esplicitate queste intenzioni. Un conto è fare propaganda, altra cosa è scrivere le leggi”. L’ex ministro della Giustizia, Francesco Nitto Palma, ex senatore di Forza Italia, intravede dei profili di incostituzionalità nel programma del governo giallo-verde, ma anche alcuni elementi positivi, vecchi cavalli di battaglia del centrodestra. Ci sono alcune proposte, come la separazione delle carriere in magistratura, che sembrano prese dai programmi storici di Forza Italia. Non le pare? “La separazione delle carriere sarebbe incostituzionale, altra cosa è la separazione delle funzioni tra pubblico ministero e giudice. E sarebbe una norma che, a determinate condizioni, anche Forza Italia non potrebbe non votare”. I grillini arrivano lì dove il centrodestra non e mai riuscito? “Non è vero. Una norma simile venne già introdotta dall’ex ministro Castelli nel 2005, poi però la riforma venne completamente annacquata l’anno successivo, con l’arrivo al ministero di Clemente Mastella, che con il sostegno del centrosinistra modificò completamente il senso di quella legge”. Poi però il centrodestra è tornato al governo. Perché non avete riproposto quella norma? “Non glielo so dire, siamo stati al governo per tre anni, io feci il ministro per soli due mesi. Dovreste chiederlo ad Alfano che Nitto Palma, ex ministro: “C’è deriva giustizialista roba da stato di polizia” all’epoca è stato ministro della Giustizia per tre anni”. Lei, quindi, voterebbe un provvedimento simile? “Dipende. A catena andrebbe poi riformato il rapporto tra pubblici ministeri e polizia giudiziaria nella conduzione delle indagini. In molti Paesi le indagini sono nella responsabilità della polizia e il pm è solo l’avvocato dell’accusa. Infine, una volta attuata la separazione delle funzioni, mi chiedo se il pm possa mantenere autonomia e indipendenza, oppure dipendere dal potere esecutivo come accade m Usa o m Francia. Mi sembra che in questo programma ci siano tanti buoni propositi, ma ben poca sostanza”. Il programma prevede anche che il magistrato che entra in politica non può rientrare in magistratura. Legge con cui concorderà, giusto? “Sono diverse legislature che io stesso ho provato a far passare questa legge, senza riuscirci. Quest’ultima legislatura il ddl a mia firma fu approvato quasi all’unanimità al Senato, ma bloccato alla Camera. Un provvedimento corretto, mala legge dovrà prevedere dove i magistrati potranno essere allocati: così come esiste û diritto a partecipare alla vita politica esiste anche quello al lavoro. Si tratta di una norma urgente, non dimentichiamo che il Senato nei mesi scorsi ha negato la decadenza del senatore Minzolini perché la sentenza con cui veniva condannato era stata espressa da un collegio di cui faceva parte un giudice che aveva lungamente militato nel centrosinistra”. Nella giustizia penale è poi prevista l’estensione del diritto di legittima difesa. “Bisogna vedere come sarà scritta la norma perché rischierebbe di Prescrizione Dilatare i tempi significa non garantire il diritto alla ragionevole durata del processo diventare qualcosa che si scontra coni principi generali del nostro ordinamento. Il legislatore disegna una fattispecie di reati generali e astratti, difficilmente formulabili rispetto alla miriade di casi specifici che la vita può presentare. Di sicuro non potranno comprimere a zero il potere discrezionale del giudice. Se entra in casa mia un uomo nerboruto e io faccio fuoco è un conto, ma se invece si tratta di una zingarella di 12 anni, ritengo che la situazione cambi in maniera radicale”. Sulla dilatazione dei tempi di prescrizione è contrario? “Leggo una contraddizione: da un lato dicono di voler ampliare gli organici della magistratura per velocizzare i processi, dall’altro vogliono una prescrizione che non si conclude mai. Ad esempio attualmente per il reato di corruzione la prescrizione supera i venti anni e non decidere entro un ragionevole tempo equivale a una negata giustizia. Spero si ricordino dell’articolo 111 della Costituzione o dell’articolo 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo sulla ragionevole durata di un processo. In caso contrario ci penserà il presidente Mattarella o la Corte costituzionale”. Salvini fa bene a far partire questo governo su questi presupposti? “Su alcuni punti mi sembra ci sia una deriva giustizialista, da Stato di polizia o, peggio ancora, da Stato etico. Penso ad esempio all’agente provocatore che è cosa ben diversa da un agente di polizia infiltrato che deve verificare l’esistenza di un reato, non provocarlo”. Giovanni Maria Flick: “su vincolo di mandato e carcere criticità evidenti” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2018 Il vincolo di mandato, ma poi la politica neo-securitaria e la legittima difesa. Sono evidenti, a giudizio del presidente emerito della Consulta, Giovanni Maria Flick, i punti di tensione costituzionale del contratto di programma tra 5 Stelle e Lega. Presidente, ritiene che la forma del contratto tra privati sia la più idonea per dare forma e sostanza a un programma di governo? “Non direi proprio. Soprattutto se letta insieme alla previsione di una sorta di vincolo di mandato. Rientra in quella linea di mortificazione del Parlamento e di discutibile sottolineatura della centralità dei partiti. Oltretutto in assenza di una disciplina di questi ultimi, come invece previsto dalla Costituzione, che piuttosto valorizza due diverse centralità: da una parte la figura del Capo dello Stato garante dell’unità della nazione e, dall’altra, quella del presidente del Consiglio come garante dell’unità dell’azione di governo. Mi sembra che molto si sacrifichi nel nome dell’efficienza, nel segno di una forte privatizzazione dell’azione politica”. E sul fronte della giustizia, in particolare sul tema della certezza della pena? “Qui mi sembra evidente una profilo di conflitto con l’articolo 27 della Costituzione e con la funzione rieducativa della pena. Nello stop agli strumenti di deflazione della detenzione, alle misure alternative, vedo l’assenza di quell’equilibrio costituzionale che non privilegia invece la sola funzione punitiva. Mi sembra una dimenticanza di quel divieto a trattamenti contrari al senso di umanità. Non sono assolutamente d’accordo con chi sostiene che la concessione di misure diverse dal carcere favorisce la recidiva”. E quanto al carcere duro? “Mi limito a ricordare quanto scritto da sentenze della Corte costituzionale: il 41bis non serve a rendere più aspro il trattamento detentivo, ma a ridurre, se non azzerare, le permeabilità, tra chi, appartenente a organizzazioni criminali, è in carcere e l’organizzazione stessa”. Fa già discutere l’introduzione di un automatismo che considera sempre legittima la difesa della proprietà privata”. “Mi limito a ricordare che l’articolo 3 della Costituzione sta a presidiare non solo la parità di trattamento, ma anche la ragionevolezza delle scelte del legislatore. Vedremo se sarà considerata legittima la sottrazione di ogni discrezionalità del giudice nel valutare la congruità della difesa del domicilio, se cioè la proprietà privata è valore costituzionalmente assoluto”. Valerio Onida: “supremazia impossibile sul diritto comunitario” di Gianni Trovati Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2018 “Il cosiddetto contratto è un accordo politico, non un contratto con effetti giuridici vincolanti, e in sé, dove prevede il comitato di conciliazione, più che sollevare problemi di costituzionalità sulle competenze di Governo e Parlamento, manifesta una forte diffidenza reciproca tra i due partiti e i due leader. Diverso è il caso di alcune previsioni del programma, che faticano ad andare d’accordo con la Costituzione”. Valerio Onida, presidente emerito della Consulta, individua nel “contratto” più di un problema su alcuni contenuti chiave. A partire dalla “clausola di supremazia” della Costituzione sulle norme comunitarie. Questa supremazia, dovrebbe avvenire nel “rispetto dell’articolo 11 della Costituzione”. Non basta? “L’articolo 11 prevede che ci possano essere cessioni di sovranità, e sia la Corte di giustizia sia la Consulta concordano fin dagli anni 70 sul fatto che il diritto europeo prevale su quello nazionale. La Corte ha posto un unico limite, affermando che la prevalenza si ferma se c’è violazione dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale (il cosiddetto “contro-limite”): ma questo non si è mai verificato. L’unica strada per negare il primato del diritto europeo sarebbe quella di uscire dall’Unione: ma nell’accordo non si arriva a tanto. Quell’accenno mi sembra quindi un’improprietà giuridica e un’aspirazione velleitaria”. Un altro tema su cui la Corte si è esercitata spesso è l’idea di limitare prestazioni di welfare agli “italiani”: si può? “No. Sul riconoscimento dei diritti fondamentali vale il principio di uguaglianza anche nei riguardi degli stranieri. La Corte ha sempre detto che nei diritti sociali (ad esempio sugli invalidi) non si può discriminare gli stranieri. A volte si ammette che il godimento di taluni diritti di prestazione non “assoluti” sia subordinato alla residenza in Italia da un certo tempo, ma in linea di principio sulle prestazioni assistenziali nessuna discriminazione è possibile”. Il pg di Roma Giovanni Salvi: “cari magistrati, non vi innamorate delle vostre inchieste” di Simona Musco Il Dubbio, 20 maggio 2018 Il rapporto tra toghe e stampa, i magistrati innamorati delle proprie tesi, anche a costo della verità, gli aspiranti eroi, che sacrificano la speranza, e una battaglia che oggi la politica rischia di rendere vana. A 30 anni dalla scomparsa di Enzo Tortora e a due da quella di Marco Pannella, il dibattito sulla giustizia giusta è tutt’altro che esaurito. Rischiando di fare un balzo indietro, come se il sacrificio del conduttore televisivo, finito in carcere per colpa di accuse infondate e infamanti, fosse stato vano. Di questi temi si è discusso ieri nella Sala degli atti parlamentari del Senato, con il dibattito “Caso Tortora. Caso Italia”, organizzato dalla Fondazione internazionale per la giustizia “Enzo Tortora” e dall’Unione delle Camere penali italiane. Un dramma personale, ha evidenziato Gianfranco Spadaccia, già segretario del Partito radicale, diventato una grande questione politica e sociale. Tante, ieri, le persone che lo hanno ricordato. A partire da Matteo Renzi, che sulla sua pagina Facebook ha rievocato la vicenda. Tortora “era divenuto - suo malgrado - il simbolo di una giustizia vergognosa. Arrestato senza prove, condannato in primo grado con una sentenza ridicola e con i giornalisti che brindavano, esposto a un linciaggio mediatico e giudiziario senza precedenti. Poi finalmente riconosciuto come totalmente estraneo, totalmente innocente. Quando, da premier, ho firmato la legge sulla responsabilità civile dei magistrati ho pensato a lui, alla sua storia. Ma sono certo che non basti una legge - scrive Renzi. Tra le tante battaglie culturali che ci aspettano - nell’Italia del 2018 - c’è anche quella per difendere la giustizia vera, dalle semplificazioni dei talk show, dei social, dei protagonismi. La giustizia non è mai giustizialismo. Non è mai show. Non è mai linciaggio mediatico. Essere garantisti è un obbligo costituzionale, anche quando va poco di moda come oggi. Noi dobbiamo combattere questa battaglia culturale. Nel nome di Enzo Tortora e di quelli come lui, massacrati mediaticamente pur non avendo commesso alcun reato. Per la giustizia, contro il giustizialismo”. Giustizia, quella richiamata dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ricordando il debito di riconoscenza dell’Italia nei confronti di Marco Pannella, ha evidenziato la necessità di riformarla. Quanto accaduto a Tortora - questo l’allarme - potrebbe accadere di nuovo e a chiunque, specie in una società in cui la costruzione del mostro conosce strumenti nuovi e dove la presunzione d’innocenza è un diritto “non tutelato”. Complici anche i giornalisti, il cui lavoro spesso “si intreccia con quello dei magistrati”. A rappresentare la magistratura c’era Giovanni Salvi, procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, che ha sollevato dubbi sui magistrati del caso Tortora, a partire dalla capacità “di resistere alla tentazione di forzare la norma per raggiungere l’obiettivo che si ritiene giusto. È una grande tentazione del pubblico ministero”. Una vicenda emblematica anche per i rapporti con i media: giusto mettere la gente nelle condizioni di capire, ma “bisogna evitare di costruire il circuito di retribuzione reciproca. A mio parere, al momento, questo è il rischio maggiore”. Così ha messo in guardia i colleghi dalla possibilità di “ripetere degli errori”. Come ad esempio, ascoltare pentiti che, dopo anni, cambiano versione, senza chiedersi come mai o avere la pretesa di presentarsi come “cavalieri solitari”, dando un’immagine “disperante” della lotta alla criminalità. Salvi ha poi teso la mano all’avvocatura, dicendo finito il tempo delle barricate, in passato motivate anche dall’aver scambiato “la difesa dell’autonomia con la difesa dei privilegi”. Pericolo che ancora esiste, ma superabile col dialogo. Ma le responsabilità sono anche politiche. E le prospettive future tradiscono l’urgenza di rispolverare la questione giustizia per rimaneggiarla nel profondo. L’allarme lo lancia Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, che ha criticato il contratto di governo di Lega e Cinque Stelle. “Ci sono parallelismi inquietanti con quel periodo, quando vigeva il processo accusatorio”, una prova di come il caso Tortora rappresenti, in realtà, il caso Italia. “Sono circa mille all’anno i casi accertati di ingiusta detenzione”, ha evidenziato, con una spesa di quasi 650 milioni dal 1992. Le soluzioni ci sarebbero: basterebbe applicare “il principio della presunzione di innocenza” e della raccolta della prova nel contraddittorio in dibattimento. La malattia del sistema giustizia è però un lascito di 35 anni di politica, secondo Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito radicale, che ha ricordato la vittoria nel 1987 del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, “tradita l’anno successivo con il voto sulla legge Vassalli, pochi giorni dopo la morte di Tortora. La politica - sostiene Bernardini - ebbe paura”. Un’ignavia che oggi avrebbe condotto ad un programma di governo che preoccupa anche Gian Domenico Caiazza, avvocato, segretario della Fondazione “Enzo Tortora”, tanto da parlare di un momento anche peggiore rispetto a 30 anni fa, frutto del mancato rispetto delle regole del sistema da parte del sistema stesso. E quando accade, ha evidenziato, il risultato non può che essere una tragedia che rende debole la giustizia. “Noi vogliamo difenderne la credibilità, non parteggiamo per l’imputato contro l’accusatore - ha spiegato. Il garante che noi invochiamo è il giudice, che deve essere indifferente alle ipotesi accusatorie e difensive”. Da qui l’appello ad unire la forze con la magistratura, quella “che ha a cuore le coordinate fondamentali della Costituzione”, dato sul quale misurarsi. Stessi timori condivisi dalla senatrice Emma Bonino, che ha paventato il rischio di un “populismo penale” fatto di più pene, più manette e più carceri. “Questo ci deve portare a reagire - ha concluso -. Dobbiamo aprire una stagione di resistenza”. Raffaele Cantone (Anac): “l’agente provocatore? Antidemocratico” Il Dubbio, 20 maggio 2018 Il presidente dell’anticorruzione Raffaele Cantone condanna senza appello la riforma della giustizia immaginata da Lega e 5Stelle. “Pericolosa e antidemocratica”. Parola del presidente dell’anticorruzione Raffaele Cantone il quale condanna senza appello la riforma della giustizia immaginata (per ora solo immaginata) da leghisti e 5Stelle. Cantone fa soprattutto riferimento all’idea dell’agente provocatore, mutuata da Piercamillo Davigo e fatta propria dall’interminabile “conclave” grillo-leghista. Del resto se, come continua a ripetere Davigo, “non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti”, c’è un unico modo per pizzicare i “colpevoli potenziali”: provocare il reato con agenti di polizia sotto copertura. Ma Cantone non si arrende e parla di iniziativa “pericolosissima per la nostra democrazia”. E poi: “Se la figura dell’agente provocatore venisse inserita dal nuovo governo la Corte Europea la boccerebbe subito”. Cantone invece salva, ma non troppo, l’agente sotto copertura: “Qui, a differenza dell’agente provocatore, non si tratterebbe di creare la corruzione”. Ma poi avvisa: “In ogni caso anche questa figura andrebbe studiata bene e usata con parsimonia, soprattutto sotto lo stretto controllo della magistratura”. Citando esplicitamente il contratto di governo, Cantone spiega che “nel contratto M5S-Lega sono previste entrambe le figure a dimostrazione che hanno almeno chiara la differenza, cosa non scontata. L’agente sotto copertura si infiltra e vede mentre il provocatore provoca”. Per Cantone “è un arretramento culturale, in quel caso la corruzione verrebbe stimolata e si creerebbe un reato artificiale. Se un agente provocatore va da una persona e le dice “ti voglio dare cento euro” e l’altro dice “ok”, allora è corruzione? Noi non individuiamo un reato ma facciamo un test etico sulla capacità di resistere di un soggetto”. Del resto Cantone ha ragione visto che, come è già stato ricordato in questo giornale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sancito “che la figura dell’agente provocatore manifesta palesi violazioni della Convenzione in quanto, senza il suo intervento di istigazione, il reato non sarebbe stato commesso”. La verità su borsellino di Attilio Bolzoni La Repubblica, 20 maggio 2018 È il dolore che diventa forza, coraggio, passo clamoroso - quello di incontrare in carcere gli assassini di suo padre - per inseguire una verità sempre negata anche dopo tanto tempo. Quello di Fiammetta Borsellino è un bisogno intimo che in realtà si è trasformato in gesto pubblico, un’azione che porta un messaggio a un’Italia addormentata, quasi rassegnata, un’Italia che ricorda le stragi di oltre un quarto di secolo fa con cerimonie e pennacchi ma troppo spesso dà la sensazione di non voler conoscere fino in fondo cosa è accaduto fra il maggio e il luglio del 1992. È un “percorso”, quello di Fiammetta, che porta avanti per sé e per tutta la sua famiglia, sempre discreta, sempre lontana dal palcoscenico e dai riflettori, però sempre ferma e decisa a scoprire perché in quegli anni Palermo è stata teatro di guerra. Un dolore profondo per la perdita di un padre, ma anche perché, intorno, nessuno vuole sapere, nessuno vuole capire davvero. Tutto è circoscritto a una verità giudiziaria che è tanta, ma che non è abbastanza. Chi è stato? Chi c’era dietro o insieme a Totò Riina e ai suoi macellai? Chi aveva interesse a far saltare in aria prima Giovanni Falcone e poi suo padre Paolo Borsellino? Ecco perché lei nelle tappe del “percorso” ha voluto guardare in faccia i due fratelli Graviano, Filippo e Giuseppe, i due boss di Brancaccio che quei massacri hanno organizzato con i Corleonesi. Loro, solo loro (fra i mafiosi) oggi potrebbero rivelare nomi e circostanze che hanno insanguinato un Paese, ma anche sepolto la Prima Repubblica. Loro e solo loro oggi sono a conoscenza dell’identità non soltanto di quelli che hanno ideato i massacri, ma probabilmente anche di quegli altri che le indagini hanno depistato, gli uomini dello Stato che tramavano contro lo Stato, i trattativisti e i dialoganti. Cosa ha trovato esattamente dall’altra parte del mondo (e dei vetri blindati delle sale colloqui per i detenuti al 41bis) al momento non è dato sapere. Dalla lettura dell’articolo di Salvo Palazzolo, che ha raccontato questo confronto umano, immaginiamo che Fiammetta abbia trovato silenzio. Ma ci sono silenzi e silenzi. Per esempio c’è quello di Giuseppe Graviano - il boss che dai suoi era chiamato “Madre Natura” - e c’è quell’altro di suo fratello Filippo. Silenzi diversi, con sfumature di cupezza e di chiusura per il primo e con desideri nascosti per il secondo. Giuseppe che è rimasto sempre “corleonese” nell’animo, Filippo che già in passato ha dato l’impressione di portare altrove la sua esistenza. Forse solo dentro se stesso, forse con una dissociazione “morbida”, senza accusare nessun altro, caricandosi addosso tutto il peso. Basterebbe una parola dell’uno o dell’altro per aprire un varco in quel muro di omertà ancora più spesso di quello che fu di Cosa Nostra, basterebbe poco per questi due mafiosi ormai seppelliti nelle segrete del 41 bis da venticinque anni. Un altro incontro, un’altra lacrima, un altro sguardo. Fiammetta Borsellino ci sta provando in un’Italia dove non ci prova più nessuno. Agli assassini di mio padre ho detto: raccontate la verità, solo così sarete uomini liberi di Fiammetta Borsellino La Repubblica, 20 maggio 2018 La lettera della figlia di Paolo Borsellino dopo la visita in carcere ai fratelli Graviano, accusati della strage. "Può vivere e morire con dignità anche chi è capace di riconoscere il male che ha inflitto". L’incontro in carcere con Giuseppe e Filippo Graviano è stato guidato unicamente da un lungo, complesso percorso personale e dettato da una forte e urgente esigenza emotiva. Ho sentito la necessità, in quanto figlia di un uomo che ha sacrificato la propria vita per i valori in cui ha creduto e per amore della sua terra, di dovere attraversare questo ulteriore passaggio importante per il mio percorso umano e per l’elaborazione di un faticoso lutto. Un incontro che ha assunto come unico motore la necessità di esprimere un dolore profondo inflitto non solo alla mia famiglia, ma alla società intera. La richiesta di incontro con Giuseppe e Filippo Graviano nasce dunque come fatto strettamente personale. E chiedo che tale debba rimanere. Sono andata da Giuseppe e Filippo Graviano con l’idea che può vivere e morire con dignità non soltanto il magistrato che sacrifica la propria vita, ma anche chi pur avendo fatto del male è capace di riconoscere il grave male che ha inflitto alle famiglie e alla società, è capace di chiedere perdono e di riparare il danno. Riparare il danno per me vuol dire non passare il resto della propria vita all’interno di un carcere, ma dare un contributo concreto per la ricerca della verità. Si tratta di un contributo di onestà che gli uomini della criminalità organizzata devono dare principalmente a loro stessi, perché chi uccide, uccide la parte migliore di sé. E poi soltanto contribuendo alla ricerca della verità, i figli potranno essere orgogliosi dei padri. Ora è importante che io possa continuare quel dialogo che è stato interrotto, con enorme dispiacere registro la mancanza di una risposta ufficiale da parte delle istituzioni preposte a fronte di una mia richiesta reiterata alcuni mesi fa. E voglio fare un’altra considerazione. Pur nell’ambito del profondo rispetto che nutro per le istituzioni, e pur cosciente della complessità del percorso che deve portare i giudici della corte d’assise di Caltanissetta alla stesura delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater, da figlia ritengo che il passaggio di più di oltre un anno per il deposito del provvedimento sia un tempo troppo lungo. Anche dal deposito di quelle motivazioni dipende un ulteriore prosieguo dell’attività giudiziaria, della procura di Caltanissetta e del silente Consiglio superiore della magistratura, per far luce su ruoli e responsabilità di coloro che hanno determinato il falso pentito Scarantino alla calunnia. A causa di questo depistaggio, sono passati infruttuosamente 25 anni. Abruzzo: due suicidi in un mese nelle carceri. Penalisti: "nominare subito Garante detenuti" news-town.it, 20 maggio 2018 "Due suicidi in meno di un mese nelle strutture penitenziarie abruzzesi, due persone che ragionevolmente avrebbero potuto ricevere un trattamento diverso se la politica -nazionale e locale- non fosse rimasta per troppo tempo inerte davanti al problema carcere". A scriverlo, in una nota congiunta, sono i direttivi delle camere penali di Pescara, L’Aquila, Sulmona, Avezzano, Teramo, Chieti e Lanciano. "Nel registrare queste ultime drammatiche notizie" si legge "non può non rilevarsi come l’approvazione della riforma dell’Ordinamento Penitenziario e la nomina del Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà non possano più essere procrastinate". "La prima -frutto del lavoro svolto nel corso della scorsa legislatura dagli Stati Generali dell’esecuzione penale che hanno visto partecipare l’Accademia, l’Avvocatura e la Magistratura e lungi dall’essere una “svuota carceri” o una “salva-ladri”- consentirebbe di porre la giurisdizione al centro del percorso esecutivo evitando che la concessione di benefici e misure alternative sia regolata esclusivamente da automatismi che per loro natura escludono qualsiasi valutazione sul cammino rieducativo compiuto dai condannati". La seconda -attesa ormai da diversi anni- aiuterebbe nel monitoraggio delle molteplici criticità che si rilevano in una regione come l’Abruzzo che vanta ben 8 strutture penitenziarie, ognuna con le sue peculiarità". "All’alba di un Governo che già dichiara di volersi ispirare a criteri di stampo fortemente carcerocentrico, i Penalisti abruzzesi non possono rimanere silenti dinanzi a queste ennesime tragedie e ribadiscono che - dati incontrovertibili alla mano - l’unica via alla vera risocializzazione dei condannati, che abbatta in maniera seria il rischio di recidiva, è quella di seguire un trattamento che sia sì retribuzione per i fatti commessi ma che - come vuole la Costituzione - tenda alla loro rieducazione". Rossano (Cs): studenti Unical e una delegazione Radicale in visita ai detenuti di Serena Guzzone strettoweb.com, 20 maggio 2018 Delegazione radicale e studenti Unical visitano il carcere di Rossano: aperta una nuova Sezione detentiva di Alta Sicurezza (As3), da tempo ristrutturata, ove l’Amministrazione Penitenziaria ha già assegnato 37 detenuti. Nei giorni scorsi una delegazione di Studenti di Giurisprudenza dell’Università della Calabria, accompagnati dal Prof. Mario Caterini, Aggregato di Diritto Penale, e da Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti, esponenti dei Radicali Italiani, si sono recati a visitare la Casa di Reclusione di Rossano, dopo aver visitato gli Istituti Penitenziari di Cosenza, Castrovillari e Paola. A ricevere la delegazione visitante, autorizzata dal Consigliere Marco Del Gaudio, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, il Direttore dell’Istituto Giuseppe Carrà ed il Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria, Commissario Capo Elisabetta Ciambriello. Dopo un breve colloquio nei locali della Direzione, la delegazione è stata affidata al Sovrintendente di Polizia Penitenziaria Damiano Cadicamo, che l’ha accompagnata nella struttura detentiva ove, oltre ad incontrare il personale, i detenuti, visitare i reparti e le camere detentive, i locali comuni e gli Uffici, ha incontrato anche il Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Silvana Ferriero, Giudice che ha giurisdizione sugli Istituti di Castrovillari e Rossano. Nell’Istituto, al momento della visita, a fronte di una capienza regolamentare di 263 posti, vi erano ristretti 231 detenuti (42 stranieri) con le seguenti posizioni giuridiche 7 imputati, 6 appellanti, 4 ricorrenti e 214 definitivi, dei quali 161 appartenenti al Circuito dell’Alta Sicurezza (141 As3 criminalità organizzata e 20 As2 terrorismo internazionale di matrice islamica) e 70 al Circuito della Media Sicurezza. Tra i definitivi anche 1 condannato ammesso al regime della semilibertà. C’è da segnalare la presenza di 11 Studenti Universitari, tanti dei quali con “fine pena mai”, particolarmente presenti nell’Istituto (28). La delegazione ha potuto constatare, ancora una volta, la buona gestione della struttura, rilevando alcune criticità comuni a tutti gli Istituti Penitenziari dovute, principalmente, alla mancanza di risorse umane, strumentali e finanziarie che impediscono una migliore qualità della vita detentiva, del trattamento rieducativo e delle condizioni di lavoro del personale che vi opera con particolare riferimento al Corpo di Polizia Penitenziaria - di cui in questi giorni si festeggia il 201esimo anniversario di fondazione (1817-2018) - che avrebbe bisogno di essere incrementato. Le camere di pernottamento hanno una metratura che va dai 12 ai 26 mq e sono garantiti i 3 mq calpestabili per detenuto. Le prime ospitano al massimo 2 detenuti, le seconde massimo 6. Rari sono i letti a castello, massimo di due piani. Le camere sono riscaldate dai termosifoni e hanno tutte la docce, il cui utilizzo è possibile solo in alcune ore del giorno. In ciascuna sezione, esistono delle camere destinate ai detenuti non fumatori ed è presente una sala per la socialità. “Proprio nei giorni precedenti alla nostra visita, dice Emilio Enzo Quintieri, membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, nell’Istituto di Rossano è stata aperta una nuova Sezione detentiva di Alta Sicurezza (As3), da tempo ristrutturata, ove l’Amministrazione Penitenziaria ha già assegnato 37 detenuti, prevalentemente provenienti dagli Istituti della Campania. Altri detenuti, per quanto ci è stato riferito, dovrebbero essere assegnati ed allocati in questa Sezione nei prossimi giorni. Circa quanto accaduto nelle scorse settimane (aggressione da parte di 3 detenuti per terrorismo internazionale a 7 Poliziotti Penitenziari), nel condannare la violenza posta in essere dai detenuti e nell’esprimere solidarietà al personale aggredito, mi preme evidenziare che, contrariamente a quanto diffuso da altri soggetti tra cui alcuni Sindacati della Polizia Penitenziaria, che i fatti occorsi non sono stati causati in reazione a provvedimenti disciplinari ma a seguito della discutibile sospensione, da parte della Direzione, evidentemente ritenuta ingiusta, delle telefonate straordinarie concessegli perché non aventi la possibilità di fare colloqui visivi con i propri familiari. Non mi pare, continua l’esponente radicale, che le telefonate straordinarie siano configurate dalla Legge Penitenziaria come “premiali” (infatti la “condotta regolare” non è prevista come requisito) né tantomeno che possano essere “sospese” a seguito di una qualsiasi legittima sanzione disciplinare disposta nei confronti del detenuto. Una volta, quand’era vigente il Regolamento di Esecuzione Penitenziaria del 1976, erano condizionate ad una valutazione premiale dai presupposti piuttosto incerti rimessa al Direttore dell’Istituto ma, con la riforma del 2000, non è più così. Anche durante l’esecuzione della sanzione disciplinare della “esclusione dalle attività in comune”, nel gergo penitenziario definita “isolamento”, una volta era precluso ai detenuti di comunicare con i compagni o di intrattenere corrispondenza telefonica o colloqui. Oggi, invece, resta soltanto la preclusione di comunicare con i compagni, essendo stati eliminati gli ulteriori divieti previsti dall’abrogato Regolamento del 1976. Questa situazione, probabilmente verificatasi anche in altre circostanze e nei confronti di altrettanti detenuti, verrà da me segnalata al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed al suo Provveditorato Regionale della Calabria, al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti, sia per capire se sia legittimo o meno sospendere le telefonate straordinarie in conseguenza di una sanzione disciplinare e, contestualmente, per evitare il ripetersi di spiacevoli episodi che poi vedono vittima il personale di Polizia Penitenziaria addetto alla notifica ed alla esecuzione di tali provvedimenti”, conclude Quintieri, membro del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani. Frosinone: lo studio come riscatto e crescita per i detenuti frosinonetoday.it, 20 maggio 2018 Ieri nella Casa circondariale sono stati consegnati i libretti universitari per i corsi di laurea in Lettere e Scienze Motorie. Lo studio come opportunità per dare inizio ad una nuova vita. La possibilità di acquisire nuove conoscenze, competenze e orizzonti culturali che danno forza e contenuto ai percorsi di recupero, aprendo nuove prospettive. Non si tratta soltanto di un riscatto sociale né di un modo per trascorrere diversamente la routine quotidiana che inevitabilmente si vive all’interno del carcere, per i detenuti si tratta di una sfida con se stessi. Studiare in carcere richiede una grande forza di volontà, una volontà che di certo non manca ai dieci detenuti della Casa circondariale di Frosinone che ieri hanno ricevuto i loro libretti universitari e che hanno potuto veder verbalizzati i loro primi esami. Un traguardo prezioso per loro. La scelta - Due i corsi di laurea dell’università di Roma “Tor Vergata” tra i quali hanno potuto scegliere, Lettere e Filosofia, e per la prima volta in Italia anche Scienze Motorie. "È una grande occasione sia per i giovani che hanno modo di riprendere o iniziare un percorso di studi sia per chi è in carcere da molto tempo ed ha l’opportunità di crescere umanamente ed avere maggior consapevolezza di sè” queste le parole del Garante dei Detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia. “Sono 600 i detenuti in Italia che sono iscritti all’università, di questi 150 sono quelli nel Lazio, quindi un quarto del totale, una percentuale importante rispetto al dato nazionale” ha aggiunto. Un lavoro di squadra - Notevole la soddisfazione del direttore dell’Istituto Penitenziario, la dottoressa Teresa Mascolo, che in più occasioni ha ringraziato quanti hanno reso possibile un “momento così bello”. Prezioso il supporto del volontari delle associazioni Idee in Movimento presieduta dalla dottoressa Germana De Angelis, Idee in Movimento, capitanata dalla dottoressa Chiara Guerra e Gruppo Idee. A credere fortemente nel progetto e a sottolineare la funzionalità che va oltre la semplice attività di insegnamento ma che può aiutare a diffondere la cultura della salute, è stato il professor Sergio Bernardini, presidente del Corso di Laurea in Scienze Motorie. Rivolgendosi ai suoi studenti ha detto: “dovete essere come un virus che contagia e ed insegna in modo capillare la cultura del movimento e dell’esercizio fisico. Dovete essere persone al servizio della salute”. Il professor Fabio Pierangeli responsabile per il Dipartimento di studi di Lettere e Filosofia ha infine provveduto a verbalizzare gli esami sostenuti nei mesi passati, tutti superati con eccellenti voti, dal 27 al 30: “Questo è uno dei momenti che più rappresentano l’essenza del nostro essere docenti”. La testimonianza degli studenti - Parole di orgoglio ed incoraggiamento nei confronti di questi ragazzi che stanno dando grande dimostrazione del loro impegno. Parole di fiducia e non di giudizio. Ma ancor più di esse significative sono state le dirette testimonianze dei detenuti universitari. Un ragazzo, dalla grande vena poetica, ha letto due sue composizioni, una ispirata alla cultura che permette di essere liberi, l’altra dedicata ad una rugbista morta sul campo da gioco. Un secondo detenuto, in carcere da 11 anni, con le sue parole ha reso perfettamente l’idea dello scopo del progetto, ovvero l’opportunità di impegnarsi in qualcosa, avere un obiettivo e soprattutto scegliere di percorrere una seconda strada rispetto a quella intrapresa in precedenza che li ha portati a finire in galera. Presenti alla consegna dei libretti anche il comandante di reparto, il dottor Giacalone, la coordinatrice dell’area educatrice, Filomena Moscato, il dottor Claudio Gallini, il responsabile del terzo settore dell’università di Tor Vergata. Velletri (Rm): parte al carcere il progetto "Cani Qui... Dentro?" ilcaffe.tv, 20 maggio 2018 "Guardarsi dentro, per Imparare a Vedere Fuori", questo il tema di una bella iniziativa sociale portata avanti tra la Cooperativa Onlus "Nuove Risposte" e la direzione del Carcere di Velletri, che coinvolge il personale, gli agenti penitenziari, i detenuti e una decina di volontari animalisti con i loro cani. Il progetto "Cani Qui... Dentro?" partito già da alcune settimane è stato presentato nella giornata di ieri nell’aula conferenze del penitenziario veliterno, alla presenza del presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma Maria Antonia Vertaldi e della direttrice del carcere Donata Iannatuono. Presenti in sala numerosi volontari della Cooperativa con i loro cani al seguito, i veterinari della Asl Roma 6, con il dottor Natalino Cerini e la dottoressa Federica Carlevaro, la referente organizzativa del progetto Sabrina Falcone, il comandante della Polizia Penitenziaria di Velletri Virgilio Indini, con la sua vice Alessia Assante, dirigenti e rappresentanti del Ministero della Salute e della Regione Lazio. Il programma dei prossimi mesi prevede incontri tra i cani dei volontari con i detenuti, nelle ore di aria, in alcune zone della struttura di via Cisternense, dotata anche di campi di calcio, palestra, terreni agricoli, aree verdi. Nei primi incontri di prova che si sono tenuti nei mesi scorsi, i detenuti che sono venuti in contatto con i cani, hanno dichiarato di avere avuto molto giovamento da questa Pet Therapy, esprimendo grande apprezzamento per questa bella iniziativa, chiedendo di rifare al più presto queste esperienze con gli amici a 4 zampe. "Il carcere, oltre un luogo dove espiare le proprie condanne - ha detto il presidente del Tribunale di Sorveglianza Maria Antonia Vertaldi - dovrebbe essere anche un luogo di recupero, di assistenza psicologica e di continua comunicazione con i detenuti. Questa interessante iniziativa rientra proprio in questi progetti di educazione, socializzazione e comunicazione che stiamo tenendo in collaborazione con le numerose associazioni di volontariato con cui collaboriamo e che ci danno una bella mano in questo senso. Per questo ringrazio tutti i volontari che si prodigano per queste nobili cause. Colgo l’occasione per ringraziare anche la direzione del carcere, tutto il personale di Polizia Penitenziaria, il personale medico, sanitario, per il grande lavoro che svolgono quotidianamente in un ambiente non facile come quello carcerario". Al termine della conferenza di presentazione, la presidente Vertaldi, con la direttrice del carcere Iannatuono, il personale di polizia penitenziaria e i veterinari della Asl Roma 6, hanno giocato a lungo nei prati del carcere con i cani presenti, molti simpatici meticci, Herò, un lupo cecoslovacco, Susanna, una dolce e affettuosa rottweiler, un piccolo e vivacissimo jack russel di nome Pino, la meticcia tutta pelo Antea e molti altri, che hanno rallegrato la giornata di tutti e si sono fatti immortalare insieme ai loro conduttori con tutte le autorità presenti. “Il censimento? Una schedatura”: il Garante per la privacy contesta l’Istat di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 20 maggio 2018 La raccolta dei dati dei cittadini “attraverso il codice unico”, secondo il garante della Privacy, “determina una schedatura permanente di ogni individuo nel tempo e nello spazio”. La raccolta dei dati dei cittadini fatta dall’Istat per stilare censimenti e statistiche attraverso il “codice unico chiamato Sim, determina una vera e propria schedatura permanente di ogni individuo, nel tempo e nello spazio, con gravi rischi per i diritti e le libertà degli interessati”. È questa la gravissima accusa del garante della Privacy Antonello Soro sull’attività dell’istituto contenute in un parere pubblicato ieri sera. La relazione riguarda le informazioni che l’Istat mira a ottenere attraverso il “sistema integrato dei registri”. “Un Grande Fratello senza garanzie” - Nelle otto pagine dedicate all’attività dell’Istat viene evidenziato come “nel corso degli ultimi anni è emersa la progressiva tendenza dell’Istituto a rafforzare l’utilizzo dei dati amministrativi a fini statistici, dotandosi di una vera e propria infrastruttura centralizzata per la loro gestione, che contiene la duplicazione di numerose decine di archivi amministrativi e statistici relativi alla totalità dei cittadini”. E si sottolineano le “criticità” del “codice Sim attribuito a ogni individuo attraverso i codici fiscali delle persone fisiche censite nelle diverse banche dati”. Ne deriva una sorta di “Grande fratello” che raccoglie notizie anche riservate sulla popolazione senza le necessarie garanzie. E dunque il Garante esprime parere “non favorevole” sui lavori che l’Istituto aveva già programmato per il prossimo triennio. Compreso quello sui Big Data che prevede “la sperimentazione dell’utilizzo di dati di telefonia mobile, contenuti social media, scanner della grande distribuzione, smart meters relativi al consumo di energia elettrica delle famiglie, e-commerce”. Il nuovo Censimento - L’Istat ha annunciato di voler effettuare la rilevazione “con cadenza annuale, classificando l’intera popolazione in relazione alla probabilità di ciascun individuo (e della sua famiglia) “di presenza/assenza in un dato ambito territoriale” anche al fine di comunicare alle competenti amministrazioni comunali i nominativi degli stessi per la successiva revisione delle anagrafi”. Questo deve però prevedere “l’introduzione di uno specifico quadro di garanzie a tutela degli interessati”. E invece, è la contestazione “i prospetti non consentono di comprendere la finalità e le modalità di trattamento, né il processo decisionale automatizzato (profilazione) e la logica utilizzati per l’individuazione del campione di interessati”. Inoltre, le notizie ottenute attraverso “Acquirente unico spa” contengono tra gli altri “i dati sui consumi individuali, per fascia oraria di energia e gas e, quindi, informazioni idonee a rivelare, in determinati casi, anche lo stato di salute delle persone interessate (come quelle riferite a macchinari salvavita)”. Minori e disabili - Una delle “statistiche da indagine” già pianificata “prevede il coinvolgimento di soggetti minori di età, anche infra-quattordicenni, in qualità di “unità di rilevazione” per analizzare “comportamenti, atteggiamenti e progetti futuri”“. Ebbene, secondo Soro “la realizzazione di tali progetti prevede che minori, anche giovanissimi, siano chiamati a rispondere (talvolta obbligatoriamente, tramite la compilazione di appositi questionari, anche online, o diari) a numerosi quesiti, spesso connessi ad aspetti molto delicati della vita quotidiana che, oltre a rivelare informazioni, anche sensibili, sono comunque idonee a creare situazioni di forte disagio e imbarazzo. Tra le variabili si rilevano, in particolare, le difficoltà nelle attività quotidiane (cura della persona, attività domestiche), la contraccezione e la vita sessuale, i determinanti della salute (abitudine al fumo, problemi di peso, attività fisica, consumo di alcol, consumo di frutta e verdura) e la storia migratoria”. Senza contare le “criticità” del progetto, realizzato con Unicef “in relazione alla conservazione dei dati identificativi” per creare “non meglio specificati database sui giovani e un data set-integrato sull’integrazione dei cittadini stranieri”. È negativo il giudizio anche rispetto al nuovo “Archivio disabilità” prendendo dati “da ben 7 archivi di Inps e Agenzia delle Entrate senza specificare le finalità”. Sui migranti Lega e M5S non manterranno le minacce di Stefano Allievi L’Espresso, 20 maggio 2018 L’immigrazione è un tema popolare, che ha spostato molti voti in queste elezioni, e a cui il governo Lega-M5S vorrà rispondere rapidamente, almeno con alcuni segnali simbolici. Anche perché è un tema politicamente facile, dato che, non votando, gli immigrati non possono causare alcuna perdita di consenso futuro. I programmi, in termini di analisi dei problemi, paiono compatibili. Anche perché non vanno a esplorare le cause dell’immigrazione a monte: si limitano agli effetti a valle. Quello della Lega è più articolato, e prevede anche normative di dettaglio, tecniche, sulla gestione dell’accoglienza, e forme di regionalizzazione nell’erogazione dei servizi. Su alcune questioni le sintonie sono evidenti: come il no all’immigrazione irregolare (nessuno è per il sì: ma la sinistra, avendo lasciato l’argomento in mano agli altri, si è dimenticata di dirlo...). Sarà interessante vedere la messa in pratica di questo no: si potranno fare - e si faranno - un po’ di espulsioni simboliche, per mandare un segnale all’opinione pubblica, e anche ai paesi d’origine. Non una deportazione di massa: tecnicamente complicata, se non altro (il costo medio delle espulsioni è di 5.800 euro l’una, e spesso non hanno successo perché mancano gli accordi di rimpatrio con i paesi coinvolti, o sono incerte le identità: e con la stessa cifra si potrebbero fare politiche di integrazione probabilmente più efficaci). E si farà l’assunzione di un numero maggiore di membri delle commissioni territoriali che esaminano le richieste di asilo (diecimila, sta scritto nel programma del M5S: ma saranno molte meno), che è semplicemente di buon senso: già il precedente governo le aveva rafforzate, ma non abbastanza, e i tempi sono ancora scandalosamente lunghi rispetto ad altri paesi europei. Per il resto, è ragionevole ipotizzare una continuità con le linee guida del ministro Minniti, esplicitamente apprezzato dal M5S e, un po’ meno, dalla Lega: a cui toglieva qualche arma polemica dalle mani. Il problema vero starà, prima di tutto, nel fermare i flussi irregolari: non si può, senza approntare delle politiche, che devono essere pensate prima, e finanziate poi (le ruspe non servono: nel Mediterraneo, affonderebbero...). E che dovrebbero prevedere anche l’apertura di flussi regolari: che consentirebbe la gestione dei flussi e una loro selezione, invece dell’appalto alle mafie dei medesimi. Anche perché, a valle, una domanda c’è: almeno al nord. Non fosse altro che per cause demografiche (invecchiamento di popolazione e il rapporto pensionati/popolazione attiva peggiore d’Europa). E a dispetto dell’emigrazione, che pure è ripresa: anche di stranieri, peraltro. Ma si tratta di lavori in gran parte diversi: se anche l’immigrazione non esistesse, per queste fasce soprattutto di giovani l’emigrazione non cesserebbe. In secondo luogo occorre approntare delle serie politiche di integrazione, buttando a mare il sistema di accoglienza così come è concepito (male) adesso. Si può fare, altri paesi lo fanno, ma ha dei costi: superiori ai famosi 35 euro al giorno, ma che, se spesi bene, sarebbero sostenuti per meno tempo, e produrrebbero integrazione effettiva e lavoro - sarebbero investimento, insomma, e non spesa improduttiva, come in larga parte è adesso. Mentre è evidente, nel programma della Lega, una prospettiva di disinvestimento dal settore. Assente la questione dei diritti, inclusa la questione della cittadinanza delle seconde generazioni (erroneamente chiamata ius soli, mentre non è un meccanismo generalizzato). La Lega è certamente contraria: una parte degli elettori e anche degli eletti del M5S sarebbe favorevole, ma la questione verrà semplicemente accantonata per evitare conflitti. La sfida più grande sarà culturale, o di cultura politica. Ce la faranno, partiti che hanno finora lucrato consensi, legittimamente, soffiando sul fuoco dei conflitti e su un malcontento che ha solidissime basi, a proporre soluzioni che vadano verso la risoluzione pragmatica dei conflitti, intaccando inevitabilmente il consenso ideologico (contro. a prescindere) ottenuto finora? Bosnia. La nuova rotta dei migranti spaventa l’Ue di Carlo Lania Il Manifesto, 20 maggio 2018 Più di 4.000 arrivi dall’inizio dell’anno. Sarajevo minaccia di chiudere i confini e accusa l’Europa: “Lasciati soli a gestire la crisi”. “Quello dei migranti non è un problema balcanico ma europeo e l’Ue deve essere coinvolta di più”. Mentre il ministro per la Sicurezza bosniaco Dragan Mektic rivolgeva venerdì scorso il suo (per ora) inutile appello a Bruxelles, nei giardini che si trovano nel centro storico di Sarajevo un nutrito gruppo di poliziotti procedeva allo sgombero della tendopoli nella quale per settimane hanno trovato rifugio centinaia di profughi, alcuni dei quali sono stati trasferiti in un campo a nord di Mostar. “Non ci sono stati incidenti o violenze, le persone sono partite volontariamente”, ha assicurato all’agenzia France press Peter Van Der Auweraert, responsabile in Bosnia dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Sempre venerdì un altro campo è stato sgomberato anche a Velika Klandusa, nel nord ovest della Bosnia a pochi chilometri dal confine con la Croazia e gli occupanti condotti in un campeggio attrezzato con acqua potabile, corrente e servizi igienici. Quanto sta accadendo in questi giorni in Bosnia preoccupa l’Unione europea che teme una nuova crisi dei migranti e per di più in un Paese dagli equilibri politici fragilissimi. Appena due anni dopo la chiusura della rotta balcanica, frutto dell’accordo siglato con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan (proprio oggi il presidente turco è attesa a Sarajevo per un comizio), il flusso dei migranti sembra aver improvvisamente ripreso vigore attraverso una nuova rotta che partendo dal nord della Grecia, al confine sul fiume Evros con la Turchia, punta verso l’Albania e il Montenegro per poi entrare in Bosnia, precedere verso la Croazia e la Slovenia e dirigersi infine verso il nord Europa. Attraverso questa rotta dall’inizio dell’anno sarebbero entrati in Bosnia più di 4.000 migranti stando ai dati forniti dalle autorità di Sarajevo, che calcolano in 80-120 al giorno gli ingressi dall’inizio di maggio. Già oggi i centri di accoglienza sono strapieni di uomini, donne e bambini ma il timore maggiore, espresso chiaramente nei giorni scorsi da Mektic in un intervista, è che una parte dei circa 60 mila migranti rimasti bloccati in Grecia dalla chiusura della vecchia rotta balcanica possano adesso decidere di mettersi in cammino: “La soluzione del problema deve coinvolgere anche le istituzioni dell’Ue, dato che noi da soli non possiamo affrontarlo”, ha detto il ministro. Una realtà nuova, che però ha fatto immediatamente salire la tensione nell’intera area. Il presidente bosniaco Denis Zvizdic ha annunciato di voler presentare due note di protesta contro Serbia e Montenegro che accusa di non sorvegliare a sufficienza i propri confini lasciando passare i migranti. Da parte sua la Croazia - Paese accusato spesso di non essere tenero con chi fugge da guerre e miseria - ha invece rafforzato i controlli ai confini con la Bosnia e reso noto l’acquisto di 60 nuovi fuoristrada per la polizia di frontiera. Sarajevo si prepara a fare lo stesso. I bosniaci sanno cosa significa essere profughi per esserlo stati loro stessi negli anni della guerra e infatti in questi mesi non sono mancati i gesti di solidarietà. Gli abitanti di Sarajevo hanno assistito con cibo, vestiti e tende le centinaia di migranti - in maggioranza siriani, ma anche pachistani e afghani - accampati in pessime condizioni igieniche in pieno centro cittadino. Ma il continuo flusso rischia adesso di accendere anche un pericoloso scontro religioso in seno al Paese. Allarmato dalla consapevolezza di avere a che fare con migliaia di migranti musulmani, il presidente dell’entità serbo-bosniaca Miloard Dodik ha già detto che non permetterà l’ingresso nella Repubblica Srpska di nessun migrante e di voler ordinare alle polizia di riportare nella Federazione croato-musulmana tutti quelli sorpresi nel proprio territorio. Di conseguenza Mektic si è detto pronto a chiudere i confini del Paese e a impiegare l’esercito per impedire l’ingresso di nuovi migranti. Sarajevo, ha detto il ministro della Sicurezza, “non intende trovarsi nella situazione di affrontare un problema enorme soltanto perché altri Paesi affrontano questo problema in modo poco serio e senza tenere in considerazione le esigenze degli altri”. L’impressione è di essere all’inizio di una nuova crisi, che questa volta rischia però di non coinvolgere solo i migranti. Libia. Traffico di esseri umani e prigioni clandestine La Repubblica, 20 maggio 2018 Intervista a Christophe Biteau, capomissione di Medici Senza Frontiere in Libia. "Ci sono i detenuti nei centri “ufficiali” e poi coloro che vengono rapiti e trattenuti nelle carceri clandestine. Nella prima categoria, al novembre 2017, rientrano quasi 17.000 persone" Dalla fine del 2017, si sono moltiplicate le dichiarazioni per porre fine alla sofferenza subita dai migranti e rifugiati in Libia da parte delle autorità europee, africane e libiche. Ne è scaturito qualcosa? La misura principale, facilitata dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), è consistita principalmente nel rafforzare i cosiddetti ritorni "volontari" di persone dalla Libia verso i Paesi di origine. Va poi fatta una distinzione tra due diverse situazioni che riscontriamo nel contesto attuale. Da una parte, ci sono i detenuti nei centri “ufficiali”, dall’altra coloro che vengono rapiti e trattenuti nelle carceri clandestine. Nella prima categoria, al novembre 2017, rientrano quasi 17.000 detenuti. Le operazioni di “evacuazione di emergenza” sono in corso da mesi per chi si trova nei centri “ufficiali” e, dal novembre 2017, sono circa 15.000 le persone rimpatriate. Tuttavia si tratta di uno sviluppo positivo solo quando le persone intrappolate in Libia desiderano veramente tornare a casa. Sono rimpatri realmente volontari? Ecco, dobbiamo mettere in discussione la natura volontaria di questi rimpatri, considerata l’arbitrarietà delle detenzioni che non lascia alcuna alternativa. L’Unhcr ha evacuato circa 1.000 rifugiati, i casi considerati più vulnerabili. La maggior parte è stata portata in Niger, dove aspettano che gli venga concesso asilo da un altro Paese. Ci sono più di 50.000 persone, registrate dall’Unhcr in Libia, principalmente originarie della Siria, bloccate nel Paese. Ma ci sono molti altri rifugiati e richiedenti asilo invisibili, che vengono rapiti, rinchiusi e a volte persino uccisi. È difficile stimarne il numero ma, secondo alcuni osservatori, il numero dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo in Libia arriverebbe a 700.000. Dunque, cosa è cambiato? Il principale cambiamento che abbiamo osservato è una diminuzione del numero dei detenuti nei centri di detenzione “ufficiali”, attualmente tra le 4.000 e le 5.000 persone. Questo ha reso le condizioni di prigionia meno insostenibili rispetto a sei mesi fa, in particolare riguardo i problemi legati al sovraffollamento. Tuttavia devono ancora essere affrontati molti problemi che le pochissime organizzazioni internazionali presenti nel Paese, concentrate quasi esclusivamente a Tripoli, non vedono. Le nostre équipe forniscono assistenza medica e supporto in diversi centri di detenzione, dove le persone raccontano di aspettare che qualcuno prenda in mano la loro situazione, mentre continuano a vivere nell’incertezza. I graffiti sui muri delle loro celle riflettono fin troppo bene la loro precarietà. In particolare, non si fa nulla per porre fine al calvario subito da migranti e rifugiati al di fuori dei centri di detenzione ufficiali. Inoltre, le persone che rischiano la vita attraversando il Mediterraneo per fuggire dalla Libia vengono ancora, con l’aiuto degli Stati europei, riportate indietro in un Paese in cui sono esposti a ogni tipo di violenza. Facciamo l’esempio di un giovane uomo o una donna che attraversa il Mediterraneo, nel tentativo di raggiungere l’Europa e la sua imbarcazione è intercettata dalla Guardia Costiera libica. Cosa accade? Le persone intercettate in mare dalla Guardia Costiera libica sono sbarcate sulla costa e portate nei centri di detenzione. I team di Unhcr e Iom si sono suddivisi i 12 siti di sbarco cui hanno accesso e lì conducono delle consultazioni mediche. I sopravvissuti sono quindi, in teoria, condotti nei centri di detenzione. Non esiste una disposizione specifica per i più vulnerabili che, a questo punto, dovrebbero ricevere un trattamento particolare e non essere soggetti a detenzione arbitraria, che mette a repentaglio ancora di più la loro salute. Ancora ci sono bambini piccoli che dalle barche intercettate in mare sono portati nei centri di detenzione. Va anche detto che la distinzione tra reti ufficiali e clandestine non è sempre così chiara. Tutto può succedere, insomma. Qualcuno che è tornato dal mare in Libia può fin troppo presto finire di nuovo nelle mani dei trafficanti di esseri umani e il circolo può ricominciare da capo. Per molte persone, essere rimandati nel Paese di origine non è una possibilità e le reti criminali sono la loro unica alternativa per trovare rifugio e una vita migliore in Europa. Queste reti, che l’Europa afferma di smantellare, hanno il monopolio sulla gestione dei movimenti delle persone più vulnerabili che non hanno altra alternativa. Perché gli eritrei - il 90% delle cui richieste di asilo sono accettate in Europa - sono obbligati a intraprendere viaggi così pericolosi e faticosi? Fare di tutto per bloccare o riportare in Libia le persone che cercano di fuggire, genera ancora più sofferenza. Quanto è diffusa la tratta? Si è parlato di un’industria di rapimenti e torture in Libia. È ancora così? Non abbiamo modo di dire quante persone siano detenute nelle carceri clandestine, ma il rapimento di migranti e rifugiati e l’uso della tortura per ottenere riscatti, non solo sono pratiche diffuse, ma probabilmente sono in aumento. Sostituiscono le entrate delle economie locali colpite dalla mancanza di liquidità nelle banche libiche. Chi sopravvive alle prigioni clandestine è finanziariamente, fisicamente e mentalmente rovinato e avrà bisogno di tempo e supporto per riprendersi, se ne avrà la possibilità. Avete la possibilità di accedere alle prigioni? Msf non ha accesso alle prigioni clandestine, ma assiste le persone che riescono a fuggirne. Ad esempio, collaboriamo con una Ong locale per fornire assistenza sanitaria di base in un rifugio per migranti a Bani Walid. Alcuni migranti hanno le gambe rotte in diversi punti, bruciature e riportano ferite da percosse. I libici che lavorano assieme a noi sono scioccati quanto noi. È impossibile dire quanti migranti e rifugiati arrivino in Libia, passino per Bani Walid e sopportino questo incubo: noi al momento stiamo trattando altrettanti sopravvissuti quanti ne abbiamo visitati l’anno scorso. Proprio la scorsa settimana un sopravvissuto che era arrivato il giorno precedente ci ha detto: “ho sopportato 2 mesi, 3 settimane, 1 giorno e 12 ore di inferno”. Anche se la loro salute spesso richiederebbe il ricovero, le ammissioni in ospedale sono spesso ritardate perché le strutture pubbliche ci obbligano a fornire preventivamente i risultati dei test sui pazienti per le malattie infettive. Ogni mese forniamo 50 sacchi per sepoltura a una ONG locale che cerca di seppellire dignitosamente i migranti e i rifugiati trovati morti nell’area di Bani Walid. Ci hanno detto di aver seppellito oltre 730 cadaveri dall’anno scorso. Ma non possiamo affermare che questo sia il numero di persone morte a causa delle atrocità e dei pericoli subiti passando attraverso questa zona. Il bilancio delle vittime è decisamente molto più alto. Siria. Nuova legge sulla proprietà: una punizione per gli sfollati, un ostacolo per le indagini di Riccardo Noury Corriere della Sera, 20 maggio 2018 Migliaia di siriani, in larga parte originari dalle aree a favore dell’opposizione e che hanno cercato riparo all’estero, rischiano di perdere le proprie case a seguito dell’entrata in vigore della legge 10-2018. Originariamente un decreto approvato nel 2012, la legge consente al governo siriano di demolire insediamenti informali a Damasco e nelle aree circostanti per trasformarli in zone di sviluppo urbano con quartieri residenziali, mercati e spazi pubblici. Una volta individuata una zona di sviluppo le autorità devono pubblicamente notificarlo ai proprietari della terra e delle case, i quali hanno 30 giorni per raccogliere la documentazione necessaria a reclamarne la proprietà. Sono più di 11 milioni i siriani sfollati in Siria o rifugiati in altri paesi, ed è del tutto logico pensare che molti degli interessati non possano rispettare questo parametro. Secondo uno studio del Consiglio norvegese dei rifugiati, meno di un siriano su cinque è in possesso di documenti di proprietà. Il 21 per cento ha dichiarato che i documenti sono andati distrutti. Siamo dunque di fronte a un’operazione di ingegneria sociale che rischia di avere un impatto enorme. La legge non contiene alcun elemento che salvaguardi i diritti dei rifugiati e degli sfollati fuggiti dalle proprie case temendo per la propria vita o per le persecuzioni, in caso di un loro ritorno. I rifugiati siriani e gli altri sfollati che torneranno a casa per rivendicare il possesso dei loro beni dovranno ottenere un’autorizzazione da parte di rappresentanti del governo. Anche se non è ancora chiaro cosa implicherà questo processo, l’attuale clima di insicurezza e di violazioni dei diritti umani fuori controllo da parte delle forze di sicurezza potrà verosimilmente scoraggiare molte persone dal reclamare le loro case e terre. Sebbene la legislazione preveda alcune clausole che assicurano il diritto dei proprietari di case in particolari zone a chiedere alloggi alternativi e compensazione in denaro, è ben lontana dal proteggere i diritti delle persone che vivevano in insediamenti informali e le cui residenze difficilmente sono inserite nel registro della terra. Inoltre, l’applicazione della legge mediante la demolizione di case e terreni espropriati renderà ancora più difficile conservare prove dei crimini di guerra commessi durante i sette anni di conflitto. È il caso di Daraya, alla periferia di Damasco, dove Amnesty International ha documentato violazioni da parte del governo siriano incluso un assedio prolungato e attacchi indiscriminati con l’uso di migliaia di barili bomba, e il conseguente esodo forzato dei civili sopravvissuti all’assedio. Si ricostruirà dunque sulle prove dei crimini di guerra e contro l’umanità.