Biblioteca in carcere, a Padova funziona Il Mattino di Padova, 1 maggio 2018 La biblioteca esiste nelle carceri italiane per legge. Talvolta però per mancanza di risorse o di attenzione le biblioteche si trovano in luoghi angusti e non sono frequentate dalle persone detenute, che ricevono i libri attraverso il “carrello”. Nei due istituti penitenziari di Padova, Casa Circondariale e Casa di Reclusione, invece da oltre un decennio le biblioteche funzionano, grazie alle direzioni che si sono alternate negli anni e sempre hanno avuto a cuore questo importante luogo di crescita culturale e umana e grazie al Comune di Padova, che nel “Piano carcere” ha riservato da alcuni anni risorse alle due biblioteche. Nella Casa di Reclusione da oltre 10 anni è anche attivo il prestito inter-bibliotecario con il sistema Bibliotecario Provinciale che fa capo ad Abano Terme. Della gestione a Padova si occupa da circa 15 anni la cooperativa sociale AltraCittà, che ha un dna composito, in cui trovano spazio anche le biblioteche e gli archivi. Sia in Reclusione che al Circondariale la cooperativa si avvale sia di proprio personale che di alcuni volontari, persone appassionate della lettura e del suo ruolo. L’attività della biblioteca è ricca e complessa: oltre alla presenza che viene garantita per i giorni e la fascia oraria di accesso da parte delle persone detenute comprende: aggiornamento del catalogo informatico, controllo della collocazione dei libri e delle attività di prestito, formazione delle persone detenute che collaborano gestione di gruppi di lettura ad alta voce e di incontri con scrittori diffusione ai piani delle informazioni relative al servizio tramite i detenuti referenti in ogni sezione impegno rispetto alla vivibilità dell’ambiente (arredo, scaffalatura, segnaletica per la lettura...) Valentina Franceschini e Rossella Favero I detenuti sono grandi lettori L’articolo 12 dell’Ordinamento Penitenziario prevede che in ogni istituto carcerario sia accessibile una biblioteca con libri e periodici disponibile per la consultazione dei detenuti e che la stessa sia anche gestita dagli stessi detenuti. Alla Casa di Reclusione Due Palazzi, nella biblioteca dedicata al filosofo Tommaso Campanella, con l’aiuto degli operatori e dei volontari della Cooperativa AltraCittà e grazie alle generose donazioni di tante persone, la disponibilità di libri è via via cresciuta negli anni per raggiungere ad oggi il numero di 18.000 volumi ordinati per genere e materia utilizzando un sistema di codificazione internazionale. Uno spazio è dedicato ai libri scritti in lingua straniera, per cercare di andare incontro ai molti detenuti provenienti dai paesi più diversi. L’accesso alla biblioteca è regolato in turni, nei diversi giorni, per ciascuna sezione del carcere e viene effettuato anche servizio di distribuzione nelle sezioni. La registrazione dei libri e la gestione dei prestiti avvengono tramite sistema informatico. Il totale dei prestiti nell’anno oscilla tra i 4 e i 5 mila volumi, esclusi i periodici. Attualmente al Due Palazzi vi sono mediamente circa 600 detenuti, dei quali il 55% ha preso in prestito almeno un libro nell’ultimo anno. Marco, bibliotecario-scrivano della Casa di Reclusione di Padova “Evasioni” di carta grazie ai libri Eccomi qua spaparanzato sul letto con l’ennesimo libro in mano a cercare di rispondere a un quesito postomi da una persona che merita risposta: cosa significa la lettura per me? Come dice il titolo di questo scritto, principalmente è “evasione”, nel senso più stretto, evasione da questa vita, di cui è meglio non approfondire in questo contesto, passatempo di cui non ho mai trovato un sostituto all’altezza, pur avendone provati molti. La lettura è una droga (e io ne ho provate tante) a cui mi sono avvicinato a 12-13 anni, ora che ne ho 62 mi accorgo che da sola rende la vita meritevole di essere vissuta. Quando leggo vivo in un mondo sempre diverso, a volte divertente ma per lo più interessante e vario, fortunatamente riesco a immergermi totalmente nella trama che leggo ed è per questo che i libri che scelgo devono essere principalmente corposi, minimo 300 pagine, e più sono voluminosi meglio è. Il genere varia a seconda del momento, come l’intensità della lettura, principalmente romanzi storici, fantasy, fantascientifici, niente di impegnativo o di astruso; non leggo quasi mai autori italiani, il perché non saprei spiegarlo se non con l’impressione che abusino della loro presunta conoscenza della lingua. Naturalmente attraverso periodi in cui la lettura non mi attrae, ma sono momenti brevi e rari. Insomma, la lettura può far piangere, far ridere, emozionare e annoiare, nel mio caso difficilmente fa riflettere, anche perché non è uno specchio, spesso rileggo libri che “meritano”, ed è difficile che mi diano le stesse sensazioni della prima volta che li ho letti, come tutte le cose, a volte sono meglio e a volte peggio, sempre il meglio in maggioranza. Una cosa mi è chiara, non si possono consigliare insistentemente perché sono ‘soggetti’ molto personali. Personalmente se un libro non mi attrae dopo 20-30 pagine lo chiudo e passo oltre, quando inizio un libro che mi piace devo finirlo al più presto, dato che sono un lettore abbastanza veloce, questo può spiegare la mia predilezione verso libri corposi. Flavio Casagrande Leggere è come avere un contatto col mondo È un po’ come avere un contatto con il mondo esterno, la mia lettura in biblioteca è un po’ come viaggiare oltre le mura dell’istituto dove mi trovo. È un po’ come perdere la cognizione spaziotemporale e trovarmi in posti diversi e momenti diversi, personificarmi e ritrovarmi in molte situazioni, che mi fanno riflettere su tante cose che non avrei dovuto fare, molte situazioni che potevo evitare... leggere è, a mio avviso, riflettere sul passato ormai lontano, con un punto di vista diverso, analizzando il quale, si può prevenire il nostro futuro. La mia esperienza di lettura in carcere è servita anche a questo, a riflettere. Lile Altin Leggere come diritto dell’uomo Faccio la bibliotecaria da più di 20 anni, sono la coordinatrice della Rete Bibliomediascuole delle scuole della Provincia, e mi occupo anche della biblioteca nella Casa di Reclusione di Padova. Da sempre è in me profondamente radicata l’idea che leggere è un diritto inalienabile degli esseri umani, e come tutti i diritti, per ragioni diverse, non a tutti viene riconosciuto: agli analfabeti e a coloro che non hanno avuto abbastanza scuola, a chi non ha accesso ai libri, a chi ne viene tenuto lontano perché lo stress e la stanchezza impediscono il riposo e appiattiscono la mente… Ma mai l’inalienabilità di questo diritto mi era apparsa così chiara come da quando lavoro in carcere. Le persone detenute che possono e sanno utilizzare la biblioteca sono percentualmente una minoranza rispetto al numero complessivo delle presenze, e questo si comprende benissimo se si tengono presenti i molti detenuti stranieri, o quelli poco abituati alla lettura, o anche quelli che il peso della vita ha troppo piegato. Ciononostante i lettori detenuti sono in proporzione molti di più dei cittadini di Padova che leggono e frequentano biblioteche. La percezione dell’importanza di poter dare risposte alle molte domande e ai molteplici interessi dei lettori ‘dentro’ è per me, che faccio questo lavoro da anni, estremamente forte. Per questo continuo, e continuerò finché mi sarà possibile, anche tra le mille difficoltà che ci sono e ci saranno. Perché leggere sostiene e rinforza il pensiero. E il pensiero è per ogni uomo la vera e unica forma di libertà, che nessuno può alienare. Marina Bolletti Santi Consolo: “Voglio un carcere aperto e utile. Il lavoro sia l’arma per il riscatto” di Arturo Celletti Avvenire, 1 maggio 2018 Il Capo del Dap: costruiamo percorsi di reinserimento. E propone sconti di pena per chi fa lavori socialmente utili. Santi Consolo ripete i numeri quasi meccanicamente. “L’ultimo giorno del 2016 i detenuti che lavoravano erano 16.251, un anno dopo 18.404”. Una pausa quasi impercettibile precede un calcolo che il capo del Dap ha già fatto cento volte. “In dodici mesi sono 2.153 in più”. Un miracolo? Consolo ora scuote la testa: “No, soltanto un dovere, un nostro dovere”. Per qualche minuto il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria vola alto. Parla del carcere che vorrebbe. “Utile”. “Aperto”. “La scommessa è dare a ogni detenuto un ruolo, un futuro, una prospettiva. È costruire un percorso di reinserimento nella società. La strada? Una sola: il lavoro. E poi diamo lavoro a chi chiede lavoro e saranno meno i crimini”. Consolo racconta quasi con orgoglio l’obiettivo finale: “Ogni detenuto che vuole lavorare deve poterlo fare. Perché solo così si fa vera prevenzione, solo così si costruisce una società più sicura. I dati parlano chiaro: chi lavora non ricade nel delitto”. Siamo nella sede del Dap, un mega edificio alla periferia Nord di Roma. L’ufficio di Consolo è spazioso, luminoso. C’è una foto del Capo dello Stato. Tanti fascicoli sulle grandi questioni legate al mondo carcerario. Una scrivania e un divano di pelle. “Non ho cambiato nemmeno una sedia, la mia stella polare è il risparmio e non capisco una certa mania a rendere gli uffici belli. Noi abbiamo il dovere di far quadrare i conti, il superfluo deve restare superfluo”. Si capisce subito che i conti sono il pallino del capo del Dap. “A scuola mi piaceva la matematica... Pensavo che nella vita bisogna sapere sempre fare bene i conti e ora quell’attitudine provo ad applicarla nelle scelte dell’amministrazione penitenziaria”, ci dice sorridendo. Consolo parla di progetti. Di protocolli d’intesa. Racconta il Made in carcere con la forza dei numeri. Parla della collaborazione con i grandi della moda. E poi le serre. Le coltivazioni. Le officine. “Nel carcere di Bollate c’è addirittura un ristorante di gran qualità. Chef e camerieri sono detenuti. Il nome? In galera”, dice Consolo. E sorride ancora. Qual è il suo sogno? Trasformare l’amministrazione penitenziaria nella più grande impresa italiana. Chi fa il mio lavoro deve essere un po’ anche manager. Deve avere una mentalità imprenditoriale, deve puntare su progetti che funzionano e sapere schivare quelli destinati a fallire. Quando mi fanno una proposta la prima cosa che mi chiedo è quanto costa e quanto può portare di utile... Mi creda, nelle carceri realizziamo prodotti di qualità a costi contenuti. E soprattutto possiamo dare lavoro a cinquantamila detenuti: un potenziale di lavoro enorme, molto più della vecchia Fiat. Far lavorare i detenuti ha però un costo. Ci sono le risorse? Le grandi riforme non necessitano di grandi risorse. Pensi alle traduzioni dei detenuti con i mezzi aerei. I biglietti costano tantissimo e poi ci sono i disagi per i passeggeri. E allora abbiamo fatto un accordo: la Guardia di Finanza deve fare un certo numero di voli di addestramento e questi voli vengono utilizzati per la traduzione dei detenuti. Si guadagna in sicurezza e c’è un risparmio di personale. E se dovessimo avere bisogno di ulteriori voli potremmo compensare la Finanza con i nostri servizi. Magari riparando le loro auto nelle officine che abbiamo aperto in diversi istituti. Insisto: ci sono le risorse? Il ministro Orlando proprio quest’anno ha ottenuto un finanziamento di 150 milioni. 50 milioni all’anno per tre anni. E parallelamente le retribuzioni dei detenuti sono aumentate e adeguate secondo l’ordinamento penitenziario del 1975. L’Italia è brava e per molto aspetti è all’avanguardia rispetto al resto dell’Europa. Ma pensiamo anche alla polizia penitenziaria. Il manager Consolo che idee ha per far crescere il lavoro nelle carceri con risorse sempre limitate? Serve fantasia. Abbiamo colonie agricole in Sardegna: settemila ettari di boschi e campi delle tre colonie agricole di Mamone, Isili e Is Arenas che producono formaggio, olio, miele... Abbiamo coltivazioni in serra a Castelfranco Emilia e presto a Rebibbia. A Carinola abbiamo avviato una collaborazione con l’azienda Mutti per la coltivazione di pomodori e la produzione di conserve. Ma la vera frontiera è quella dei lavori socialmente utili. A Roma l’accordo sottoscritto a dicembre con la sindaca Raggi sta dando ottimi frutti: detenuti delle carceri romane sono impiegati per la cura dei spazi verdi della Capitale. A Palermo ne stiamo mettendo a punto un altro per il recupero del fiume Oreto che oggi è una discarica a cielo aperto. I lavori socialmente utili non prevedono retribuzione? Quando penso ai lavori socialmente utili penso a un salario diverso. Se c’è un percorso che porta a un reinserimento, che lo agevola, perché non pensare a uno sconto di pena? Perché non dire ogni tre giorni di lavoro un giorno in meno di detenzione? Perché non prevedere maggiore facilità di accesso alle misure alternative? La politica capirebbe? E la società? Capirebbero. Sia la politica, sia la società. La sfida è puntare sul lavoro per dare una opportunità a una persona e strapparla a una vita da criminale. Creiamo lavoro. I numeri sono cresciuti e possono crescere ancora. Le faccio un piccolo calcolo matematico: abbiamo 193 istituti di pena in circa altrettanti comuni. Allora ogni comune che ospita un carcere si attivi per offrire venti posti nei lavori socialmente utili ai detenuti... Diceva “serve creatività per creare lavoro e fare utili...” Esattamente. Nel carcere di Biella partirà il laboratorio per il confezionamento delle uniformi della polizia penitenziaria. A Pescara produciamo scarpe da lavoro per i detenuti. A regime saranno 18 mila paia ogni anno. Sono scarpe belle, comode e costano nettamente meno rispetto al mercato tradizionale. Ma oltre al lavoro è importante ricordare i corsi di formazione che, grazie al contributo delle regioni, forniscono ai detenuti abilità certificate e spendibili dopo l’espiazione della pena, che potranno utilizzare per un concreto inserimento nel mondo del lavoro. I progetti si moltiplicano... Ci sono autofficine a Sant’Angelo dei Lombardi, Napoli e Bollate. E le stiamo aprendo anche a Catania e Roma. Abbattendo i costi possiamo fare la manutenzione a tutti i nostri automezzi. Abbiamo acquisito mezzi confiscati alla criminalità organizzata e li abbiamo riconvertiti in auto in uso all’amministrazione. Lavoro è la strada per frenare il rischio terrorismo? È la migliore strada. I soggetti deboli sono quelli più manipolabili e la debolezza è legata alla mancanza di prospettive, di futuro. Il detenuto non deve trascorrere un periodo di sofferenza: se la parentesi carcere si trasforma in un danno quel danno si riverserà sulla collettività. Trasformare la pena in un castigo vuol dire contribuire a creare una società insicura e pericolosa. L’opinione pubblica capisce l’equazione lavoro-sicurezza? Io dico di sì. Far lavorare i detenuti porta consenso sociale. E poi è sbagliato pensare che il detenuto debba passare il tempo solo aspettando la libertà. Il carcere è un periodo della vita. Va sfruttato. Va utilizzato per crescere. E dovere dell’amministrazione è dare questa opportunità. Atlante italiano del lavoro in carcere. Perché lavorare è un diritto, per tutti di Valentina Neri lifegate.it, 1 maggio 2018 Il lavoro in carcere è previsto dalla legge, perché è un pilastro nella rieducazione delle persone. Ma, complice la burocrazia, è ancora merce rara. Il primo maggio è la Festa dei lavoratori. Una giornata che ricorda le lotte operaie che, a partire dalla metà dell’Ottocento, hanno portato a conquiste fondamentali come la giornata lavorativa di otto ore. Ma anche una giornata che, al tempo stesso, ci costringe a riflettere sulle tante ombre e questioni irrisolte che ruotano attorno al grande tema del lavoro, talmente fondante per la nostra società da essere citato nell’articolo 1 della Costituzione. Tra questi, quello del lavoro in carcere è senza dubbio un nodo-chiave. Perché sulla carta è un obbligo, nella pratica si rivela una sporadica eccezione. Nell’immaginario comune, il lavoro in carcere è una deroga a una norma fatta di giornate interminabili. In realtà, l’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 26 luglio 1975) lo identifica come elemento fondamentale del trattamento rieducativo. Salvo i casi in cui ciò risulta impossibile, continua l’articolo 20, l’amministrazione penitenziaria ha l’obbligo di organizzare attività lavorative e corsi di formazione. L’organizzazione e i metodi di lavoro, secondo la legge, devono rispecchiare quelli della società libera: ciò significa che il lavoro è remunerato (il compenso non deve scendere al di sotto dei due terzi di quello previsto dai contratti collettivi nazionali) e non serve per inasprire la pena. Quanti detenuti hanno la possibilità di lavorare in Italia - Secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 28 febbraio 2018, in Italia ci sono 190 carceri, con una capienza regolamentare di 50.589 persone. I detenuti sono molti di più, 58.163: 2.402 le donne, 19.765 gli stranieri. Stupisce il fatto che non esistano dati ufficiali sulla recidiva, cioè sul numero di persone che, una volta uscite dal carcere, tornano a delinquere. Secondo le stime della cooperativa Giotto di Padova, questa casistica riguarda circa sette detenuti su dieci. Ogni punto di recidiva in meno farebbe risparmiare allo stato circa 40 milioni di euro l’anno, continua il presidente Nicola Boscoletto in un’intervista rilasciata a La Stampa. E un metodo per contribuire a questo fondamentale traguardo sociale ci sarebbe: il lavoro. Tra chi collabora con la cooperativa padovana, conclude Boscoletto, il tasso di recidiva si limita a un 2-3 per cento. Ma quanti detenuti hanno questa possibilità? Dà una risposta il quattordicesimo rapporto sulle condizioni di detenzione, pubblicato dall’associazione Antigone, che cita i dati del ministero di Grazia e giustizia. Nel 1991 i detenuti lavoratori erano poco più del 30 per cento del totale, cioè 10.902. Nel 2017 erano ben 18.404; parallelamente è aumentato anche il totale, poiché la percentuale ancora non raggiunge il 32 per cento. È un buon segnale il fatto che non si registrino grosse disparità tra nord, centro e sud. Le attività lavorative in carcere non sono tutte uguali - Quando però si entra un po’ di più nel merito, e ci si domanda cosa si intende per lavoro in carcere, emergono diverse criticità. L’86,52 per cento dei detenuti lavoratori è infatti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, che a partire dal 2010 ha quasi raddoppiato il suo budget per le retribuzioni (nel 2017 ha superato i 100 milioni di euro, 1.830 per detenuto). Quasi tutti (l’82,15 per cento) si occupano di pulizie, distribuzione del vitto, mansioni di segreteria, scrittura di reclami e documenti per gli altri reclusi. Se le mansioni non richiedono competenze specifiche, i detenuti vengono selezionati sulla base della durata della pena, delle condizioni economiche e dei figli a carico. Di solito si organizzano dei turni per dare un impiego al maggior numero possibile di persone: il rovescio della medaglia però sta nel fatto che, così facendo, molte di loro siano occupate soltanto per brevi periodi o per poche ore alla settimana. Molto più formativi, continua l’associazione Antigone, sono gli incarichi per le imprese, che “creano un ponte tra il carcere e la società e fanno svolgere ai detenuti attività lavorative richieste dal mercato”. Questi ultimi, tuttavia, sono ancora una quota residuale. Nel 1991 poco meno del 12 per cento dei detenuti italiani lavorava per soggetti diversi dall’amministrazione penitenziaria; ora siamo arrivati al 13,48 per cento, vale a dire 2.480 persone. In questo caso, si vedono a occhio nudo le differenze tra nord (7,35 per cento), centro (3,7 per cento) e sud e isole (poco più del 2 per cento). Proprio perché le relazioni tra carcere e territorio sono le più fruttuose, negli ultimi anni da più fronti si è cercato di incentivarle. La legge Smuraglia del 2000 ad esempio prevede alcune agevolazioni economiche per cooperative e aziende che assumono detenuti (nel 2017 il loro ammontare ha superato il valore di 5,6 milioni di euro). Parallelamente, a livello locale sono stati stipulati protocolli per spostare determinate attività produttive all’interno delle carceri. L’associazione Antigone cita il carcere di Perugia, all’interno del quale l’impresa Brunello Cucinelli produce i maglioni per la polizia penitenziaria, e quello di Carinola (in provincia di Caserta) dove si coltivano e inscatolano i pomodori di Mutti. Ma il numero dei lavoratori effettivi rimane ancora inferiore rispetto alla domanda. La colpa? Secondo l’associazione Antigone, è soprattutto degli ostacoli burocratici e delle conseguenti lungaggini. Da nord a sud, un viaggio tra i progetti “made in carcere” - Andiamo quindi a scoprirli, questi esempi virtuosi di lavoro in carcere. Dal nord al sud del nostro paese, sono decine e decine le cooperative e associazioni che si battono quotidianamente per garantire questo diritto, trasmettendo ai detenuti competenze preziose per il loro futuro reinserimento nel tessuto sociale. Pane, dolci e biscotti - Addirittura sulla SkyWay del Monte Bianco, in cima all’Europa, si possono acquistare il pane, le focacce, i biscotti e i grissini del panificio Brutti ma buoni, che ha sede nella casa circondariale di Brissogne, ad Aosta. A Verbania invece nasce uno dei progetti “storici” dell’economia carceraria italiana, con un nome difficile da dimenticare: Banda Biscotti. Le materie prime di questo laboratorio dolciario? Farina macinata a pietra da grano piemontese, burro d’alpe, zucchero di canna e cacao da commercio equo. Dal lato opposto della Penisola, i ragazzi dell’istituto penale per minorenni “Malaspina” di Palermo sfornano senza sosta i frollini di Cotti in Fragranza, esprimendosi anche sulle strategie di marketing e sui nomi dei prodotti (dal siciliano “Parrapicca” al rumeno “Iubi”). Gli appassionati di taralli e focacce possono rivolgersi alla cooperativa Campo dei Miracoli, nel carcere di Trani. Tra tutti, forse uno dei nomi che finiscono più spesso sotto i riflettori è quello della Pasticceria Giotto della casa di reclusione Due Palazzi di Padova: i suoi panettoni sono stati presentati a Expo, donati ai capi di stato del G8 e ogni Natale finiscono sulla scrivania di Papa Francesco. Caffè - In napoletano, le “lazzarelle” sono ragazze un po’ vivaci e sbarazzine. Ed è questo il nome scelto, con una buona dose di autoironia, per questo progetto al cento per cento femminile, che produce caffè artigianale all’interno del carcere di Pozzuoli a Napoli. Negli anni, 56 donne si sono avvicendate all’interno della cooperativa; e ora esiste anche un bistrot, proprio di fronte al Museo Archeologico Nazionale. Nella casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, invece, i detenuti tostano a legna i caffè dei presidi internazionali di Slow Food, guidati dalla cooperativa Pausa Cafè - che gestisce anche un birrificio artigianale nella casa di reclusione di Saluzzo e un panificio ad Alessandria. Sartoria e abbigliamento - La Sartoria San Vittore, i cui laboratori si trovano nell’omonimo carcere milanese e nel vicino carcere di Bollate, produce abiti, maglie, borse, ma anche le toghe per avvocati e magistrati. “Madre” del progetto è la cooperativa Alice, che ha anche dato vita al brand Gatti Galeotti, focalizzato su t-shirt, astucci e prodotti per la casa (grembiuli, tovagliette ecc.). Le magliette sono il marchio distintivo di Made in Jail, che lavora nel carcere di Rebibbia dagli anni Ottanta e ormai vende i suoi capi anche tramite e-commerce. O’Press è invece il nome della linea di t-shirt, provenienti da un progetto di commercio equo in Bangladesh, serigrafate con le frasi di celebri cantautori italiani da cinque detenuti dell’area Alta Sicurezza della casa circondariale di Genova Marassi. Artigianato - Nella casa circondariale di Forlì i detenuti si cimentano con biglietti, buste, scatole, partecipazioni per matrimoni e fogli decorati a rilievo, tutti realizzati a mano a partire dalla trasformazione degli scarti bianchi di legatoria (Carta Manolibera). Nel carcere di Latina l’Associazione Solidarte ha avviato un laboratorio artistico e artigianale: il gruppo “Le donne di via Aspromonte” realizza manufatti in ceramica, mentre il gruppo “P.I.G. Pellacce in gioco” produce borse, quaderni e taccuini fatti a mano con materiale di recupero. Riforma fondamentale per i detenuti con problemi psichiatrici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 maggio 2018 Il decreto attuativo è fermo in Parlamento per l’ostruzionismo di M5S e Centrodestra. I detenuti con problemi psichiatrici in carcere, come già spiegato su queste stesse pagine, si trovano reclusi in un contesto che presenta diverse problematicità. La prima in assoluto è il mancato aggiornamento dell’attuale ordinamento penitenziario che consente una evidente disparità tra i detenuti affetti di problemi di salute fisica da quella mentale. Il decreto principale della riforma dell’ordinamento che rischia di non passare a causa dell’ostruzionismo della Commissione speciale della Camera, contiene il Capo 1 composto dagli articoli uno, due e tre dedicati alla riforma dell’assistenza sanitaria. In particolare l’articolo 1 interviene sul codice penale, estendendo il rinvio facoltativo della pena anche nei confronti di chi si trova in condizioni di grave infermità psichica. L’equiparazione tra grave infermità fisica e psichica determina quindi la possibilità per le persone condannate con infermità psichica sopravvenuta di accedere alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario. A questo si aggiunge l’introduzione di una nuova misura dell’affidamento in prova di condannati con infermità psichica. L’articolo 2 adegua l’ordinamento penitenziario ai principi affermati dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, di riordino della medicina penitenziaria. In particolare, la lettera a) sostituisce l’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario, con particolare riguardo al trasferimento delle competenze di tale settore penitenziario al servizio sanitario nazionale, ribadendo l’operatività del servizio sanitario nazionale negli istituti penitenziari. Viene modificata la disciplina della visita medica generale all’ingresso in istituto, perché i detenuti ricevano informazioni circa lo stato di salute e perché venga formata la cartella clinica: a tal fine è previsto che il medico che compie l’ispezione debba annotare, avvalendosi di rilievi fotografici se necessari, tutte le informazioni riguardo a maltrattamenti o a violenze subite dandone comunicazione al direttore dell’istituto e al magistrato di sorveglianza. Viene ribadito il diritto di ciascun detenuto o internato di ricevere informazioni complete sullo stato di salute personale e viene garantita la continuità terapeutica, con le indagini e le cure specialistiche necessarie persino riguardo alla medicina preventiva o connessa a patologie già esistenti. In merito all’infermità psichica, l’aggiornamento sempre contenuto nel medesimo articolo, riguarda la procedura di accertamento di tale infermità: ad essere oggetto di modifica è il luogo in cui è esercitato l’accertamento, che non è più individuato nel “medesimo istituto in cui il soggetto si trova”, ma presso l’istituzione di sezioni per detenuti con infermità. Le nuove sezioni speciali, per le quali è specificata l’esclusiva gestione sanitaria, sono interamente dedicate ai condannati ai quali sia stata riconosciuta una diminuita capacità ai sensi degli articoli 89 (vizio parziale di mente) e 95 c. p. (cronica intossicazione prodotta da alcool ovvero da sostanze stupefacenti), nonché ai soggetti affetti da infermità psichiche sopravvenute o per coloro che non hanno usufruito della sospensione della pena ai sensi dell’articolo 147 comma 4 c. p. (nei casi in cui il provvedimento di sospensione non può essere adottato o, se adottato, è revocato perché sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti). Tali sezioni sono affidate in via esclusiva al dipartimento di salute mentale e strutturate in modo da favorire il trattamento terapeutico e riabilitativo e il superamento delle suddette condizioni d’infermità psichica o di cronica intossicazione da alcol o sostanze stupefacenti. In ogni caso è specificato che l’assegnazione alle sezioni speciali avviene solo quando non sia possibile applicare una misura alternativa alla detenzione che consenta un adeguato trattamento terapeutico-riabilitativo. Carcere, giovedì la manifestazione dell’Ucpi e di tutta l’avvocatura di Errico Novi Il Dubbio, 1 maggio 2018 Evento a Roma per reclamare il “sì alla riforma” e “ripristinare la legalità”. Lo stallo sul governo produce molti effetti collaterali: tra questi c’è l’attesa esasperata di chi considera la riforma dell’ordinamento penitenziario un minimo passo verso la legalità costituzionale, non uno svuota-carceri. Anche per questo si carica di senso politico forte sia l’astensione dalle udienze domani e dopo domani, sia la manifestazione nazionale indetta per giovedì 3 maggio dall’Unione Camere penali per il “Sì alla riforma penitenziaria” rimasta in sospeso e, appunto, “per ripristinare la legalità nelle carceri”. Evento che si svolge con il patrocinio del Consiglio nazionale forense e che è organizzato insieme con la Camera penale di Roma: appuntamento dalle 9.30 alla “Residenza di Ripetta”, nel centro storico della Capitale, e scaletta che prevede innanzitutto gli interventi di che si è mobilitato in rappresentanza e a fianco dell’avvocatura. Dal vertice dei penalisti di Roma Cesare Placanica alla dirigente del Partito radicale Rita Bernardini e al presidente di Antigone Patrizio Gonnella. Da uno degli studiosi che si è più attivamente impegnato per spiegare la necessità e l’utilità delle modifiche previste, il professore di Diritto penale dell’università di Palermo Giovanni Fiandaca, ad alti rappresentanti delle istituzioni quali il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, il vertice dell’Autorità garante dei detenuti Mauro Palma. In prima linea, con il direttore del Dubbio Piero Sansonetti, i rappresentanti della professione forense, divenuti ormai principali attori della mobilitazione: il presidente del Cnf Andrea Mascherin, il responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Ucpi Riccardo Polidoro e naturalmente il numero uno delle Camere penali italiane Beniamino Migliucci, a cui spetterà trarre le conclusioni. Con l’iniziativa di dopodomani i penalisti e l’intera avvocatura intendono esprimere, come si legge in una nota della stessa Ucpi, “il forte dissenso nei confronti di una politica che calpesta i diritti fondamentali dei detenuti, negando i principi propri della Costituzione e dei trattati internazionali da tempo sottoscritti dall’Italia”. Orlando: ho lavorato in questi anni per dare una risposta al problema delle carceri di Domenico Alessandro de Rossi pensalibero.it, 1 maggio 2018 “Un carcere che funziona male alle fine riproduce le gerarchie che ci sono fuori dal carcere, per questo confido ancora nel fatto che il Parlamento dia il parere definitivo sulla riforma penitenziaria”. Questo è’ l’appello lanciato dal ministro della Giustizia Orlando intervenendo alla commemorazione di Pio La Torre nel carcere Ucciardone di Palermo. “Perché noi dobbiamo riconoscere quello che riconosce la Costituzione: cioè che si può cambiare dentro il carcere”, ha concluso. Caro Ministro, Le do atto che, per quanto in Suo potere, Lei si sia battuto per realizzare l’art. 27 della Costituzione: prova ne siano le pur flebili aspirazioni contenute negli Stati generali dell’esecuzione penale e, in ultimo, il vasto programma per la Riforma penitenziaria. C’è solo un “problemino” che ancora attende una soluzione radicale, degna di questo nome e che sembra essere stato buttato nel dimenticatoio: le carceri. Sì, le carceri, cioè quegli edifici, quegli ambienti, quelle strutture di mattoni e cemento, di ferro e pietra, quei corridoi e quelle celle (chiamiamole col loro vero nome, al di là della retorica politicamente corretta) entro cui la Sua riforma, che accompagnerebbe l’auspicato cambiamento, dovrebbe realizzarsi. Sappiamo tutti che una scuola si fa se ci sono edifici e aule idonee, sappiamo tutti che un ospedale può curare i pazienti se ci sono stanze di degenza e camere operatorie. Ma sappiamo fin troppo bene che non si esce dal carcere cambiati e sani come si è entrati, se la pena si sconta dentro vecchi fabbricati malsani, dentro fatiscenti edifici dove si è costretti a convivere in più persone all’interno di camere di detenzione non degne di questo nome. Magari dormendo su brande vicine alla latrina comune e prive di adeguata areazione. Non si avrà mai un cambiamento vero, Signor Ministro, se non cambieranno anche gli edifici che “ospitano” quei detenuti che vorremmo che cambiassero. Allora il punto è questo. Perché non ci si occupa un po’ anche di questo problema? Perché non si sono create le condizioni minime per risolvere il problema dell’edilizia penitenziaria? Come mai non si è affrontato seriamente, attraverso un approccio culturale e sistemico, basato su conoscenze maturate da esperti? Mancano le persone? Mancano gli esperti? Il tutto sembra essere stato, anche sotto il Suo ministero, gestito con i soliti criteri dell’approssimazione e del sentito dire. Tanto le carceri sono sempre le stesse, vecchie e obsolete: magari anche quelle progettate di recente (Nola è il caso più classico…): corridoi, celle, isolamenti e rigidi incroci per la distribuzione dei vari bracci e via così. Perché non si è avvalso di studiosi e specialisti della materia invece di affidarsi a improvvisati conoscitori che nulla di nuovo hanno saputo dire in ordine a questo problema strategico che riguarda la struttura fisica penitenziaria e il suo ruolo nel contesto urbano? È appena il caso di ricordare che in carcere non solo ci si ammala, ma si muore anche. E ciò avviene con particolare frequenza non solo ai detenuti ma anche a coloro che nel carcere lavorano. Prima che problema politico, il problema si pone in termini “etici”. Che morale c’è, Sig. ministro della Giustizia, quando in un carcere si entra sani e poi lì dentro ci si ammala o non si viene adeguatamente curati fintanto che si muore? Che morale c’è, anche rispetto al dettato costituzionale, quando la salute in carcere non può essere garantita? Ma invece è garantita la malattia? Queste sono domande vere, che bruciano la tanta retorica e propaganda dove la politica da un lato e la burocrazia dall’altro si nascondono dietro. Ma la Cedu, la Corte di Strasburgo guarda, valuta e prende appunti. Le potenzialità virtuose della sorveglianza dinamica di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 maggio 2018 Ma i Sindacati degli agenti sono critici sul sistema. Gli agenti penitenziari, secondo stime fornite dai sindacati di polizia, negli ultimi 5 anni hanno subito 2.250 aggressioni da parte dei detenuti. Ogni volta che si verifica un episodio di aggressione, alcuni sindacati - in particolar modo il Sappe - mette alla berlina la “sorveglianza dinamica”. Parliamo della modalità di esecuzione della pena destinata ai detenuti di media e bassa sicurezza, istituita nel 2013, con lo scopo di potenziare per i reclusi gli spazi dedicati alle attività trattamentali e per realizzare fattivamente lo scopo riabilitativo della pena. Prevede l’apertura delle celle per almeno 8 ore al giorno e fino a un massimo di 14, dando la possibilità ai detenuti di muoversi all’interno della propria sezione e auspicabilmente all’infuori di essa e di usufruire di spazi più ampi per le attività, e il contestuale mutamento della modalità operativa in sezione della Polizia penitenziaria, non più chiamata ad attuare un controllo statico sulla popolazione detenuta, ma piuttosto un controllo incentrato sulla conoscenza e l’osservazione della persona detenuta. Ma davvero presenta dei problemi? Alcuni sindacati, alla sorveglianza dinamica imputano l’aumento degli eventi critici e degli attacchi agli agenti da parte della popolazione detenuta. Allo stesso tempo, altre fonti parlano di un miglioramento delle condizioni di vita all’interno degli istituti e di un clima di maggiore vivibilità. Per avere un quadro generale della situazione, basterebbe leggere l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone, in particolar modo il capitolo a firma di Giulia Fabini. Come osservatorio sulle condizioni di detenzione, da qualche anno Antigone fa attenzione alle modalità di applicazione della sorveglianza dinamica nei diversi istituti, cercando anche di cogliere la maniera in cui questo cambiamento sia stato e continui a venire percepito dalle varie figure professionali che operano nel carcere. “Così come il sistema carcerario italiano risulta a macchia di leopardo - si legge nel rapporto -, così anche le modalità di applicazione e la percezione del nuovo assetto organizzativo vengono percepite in maniera differente nei vari istituti”. Degli 86 istituti penitenziari visitati dall’osservatorio nel corso del 2017, le celle risultano aperte almeno 8 ore al giorno in 50 istituti. L’apertura delle celle per almeno 8 ore al giorno è solo uno degli elementi che compongono la “sorveglianza dinamica”. “Come da circolare, infatti, scrive Antigone - alla custodia aperta dovrebbe corrispondere una diversa organizzazione degli spazi all’interno degli istituti, che diano anche la possibilità ai soggetti detenuti di muoversi autonomamente in sezione o anche fuori sezione, per poter accedere all’attività e alla socialità”. Emerge che solo in 17 degli istituti visitati è possibile per i soggetti detenuti spostarsi autonomamente al di fuori della sezione, mentre in 17 istituti questo è permesso solo per alcune sezioni. Sono 41 invece gli istituti in cui questo risulta vietato. Uno dei problemi presentatisi alle varie amministrazioni con l’introduzione della Custodia aperta e della Sorveglianza dinamica è che, in assenza di spazi adeguati alle attività nonché in assenza delle attività stesse - che siano lavorative, di istruzione, ricreative - all’apertura delle celle abbia spesso corrisposto solo un permanere dei soggetti detenuti in sezione. La difficoltà esiste, ma perché si tratta di un sistema ancora in adattamento, e “in particolare - si legge nel rapporto di Antigone - sono ancora in fase di adattamento al nuovo sistema gli operatori di più lungo corso della polizia penitenziaria, che devono abituarsi a un differente meccanismo lavorativo”. Un sistema, quindi, ancora in moto e potenzialmente virtuoso. Non è un caso che il Dap, recentemente, ha creato una Commissione di valutazione per poi emanare delle linee guida. Intercettazioni: conta il diritto e non l’efficacia di Francesco Petrelli (Segretario Ucpi) Il Dubbio, 1 maggio 2018 La revisione della legge dovrà essere per forza di cose garantista. L’efficienza di uno strumento investigativo si misura sulla sua congruità e compatibilità con l’intero sistema dei diritti. Sono tornati sul tema della riforma delle intercettazioni il Procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone e il Presidente di Anm. Il primo formulando critiche assai severe alle scelte del Legislatore ed all’impianto complessivo della riforma, paventando stalli operativi e possibili incidenti di costituzionalità. Il secondo auspicando, sulla base di analoghe valutazioni negative, non solo una sospensione dell’entrata in vigore della nuova normativa, ma anche un suo ripensamento “nel merito”. Ci sono indubbiamente punti di ampia convergenza con tali posizioni, non solo laddove si critica la mancanza di sistematicità della riforma, ma anche laddove si dubita della efficacia delle nuove regole nell’evitare la piena tutela della riservatezza dei terzi, e si prospetta la sostanziale inagibilità (con possibili effetti “catastrofici”) dei nuovi meccanismi selettivi. Risulta nei loro interventi ampiamente condivisa la denuncia di Ucpi della gravissima lesione al diritto di difesa, costituita dalla impossibilità di ottenere copia delle intercettazioni, dalla difficoltà di accesso agli archivi riservati, dalla mancanza di contraddittorio e dai tempi compressi del procedimento acquisitivo. Limiti che riverberano fatalmente sull’intera economia del giudizio. Ciò posto, va tuttavia rilevato come nel momento in cui si affronti il profilo del necessario “ripensamento” della riforma, auspicato anche dalla magistratura associata, al di là di questi importanti punti di convergenza, le valutazioni prendano inevitabilmente strade diverse. Sul punto occorre svolgere qualche annotazione. Non vi è dubbio, ad esempio, che la scelta di negare ai difensori il diritto di copia degli atti, non sia soltanto il frutto di un svista del legislatore, ma radichi all’interno di una visione offensiva dell’avvocatura, come se fosse questa, contro l’esperienza e contro ogni ragionevole interpretazione dei fatti (lo ammette anche il Procuratore Pignatone), la vera fonte della diffusione di notizie ai danni della riservatezza. Una visione che si ripete anche all’interno delle norme dedicate all’intercettazione delle comunicazioni fra difensore ed assistito, dove il solo divieto di verbalizzazione evidentemente non impedisce ma addirittura sancisce - la necessità dell’ascolto, contro la lettera dell’art. 103 del codice e le guarentigie costituzionali proprie della funzione difensiva. Sul punto l’Unione delle camere Penali aveva presentato al Ministro diverse concrete ipotesi di modifica. Ma anche qui sembra necessario sottolineare come la riforma abbia in realtà ripreso le indicazioni contenute in una nota Circolare della Procura di Roma. Due posizioni, dunque, francamente antitetiche. Né si può sottacere la preoccupazione, più volte manifestata da parte dell’avvocatura, per quell’ampliamento dei “presupposti” per l’utilizzo delle intercettazioni “per i reati contro la pubblica amministrazione”, fortemente voluto dalla magistratura e ritenuta in quell’ambito ancora insufficiente. Anche qui, evidentemente, si confrontano due visioni assai differenti dei valori del processo e delle garanzie dell’individuo. Anche le finalità repressive devono infatti trovare un limite nella legge e gli strumenti investigativi devono confrontarsi sempre con i criteri della ragionevolezza e della proporzione. Tuttavia, nell’ambito del dibattito apertosi sulla riforma delle intercettazioni, il giudizio relativo alla applicabilità dei più sofisticati ed invasivi strumenti intercettativi anche ai reati contro la P.A. è stato impostato su basi puramente “politiche”, come se il nostro ordinamento penale potesse essere oggetto di una contesa giocata su valutazioni sganciate del tutto da un contesto valoriale ancorato a solidi principi costituzionali. E, sul punto, la Corte costituzionale ha più volte ricordato, a tutela della legalità processuale, come le scelte del legislatore debbano essere giustificate da conoscenze empiriche dei singoli fenomeni criminosi. Equiparare mafia, terrorismo e reati contro la P.A. sfugge del tutto a questo sfondo conoscitivo, traendo spunto più dalle prospettive soggettive di questo o quel singolo magistrato, che da una seria, rigorosa e condivisa indagine di tipo criminologico. Ora che la riforma delle intercettazioni sembra subire una battuta di arresto a seguito della contrarietà espressa da avvocatura e magistratura occorrerà sottoporre la legge ad una complessiva revisione che, se non si vuole lasciare al giudice delle leggi la tutela dei diritti, non potrà che essere operata in senso garantista. L’efficienza di uno strumento investigativo non si misura infatti in base alla sua efficienza, ma in virtù della sua congruità e compatibilità con l’intero sistema dei valori, dei diritti e delle garanzie di rango costituzionale. Si tratterebbe per il nuovo legislatore dell’unico modo serio di fare le leggi e di celebrare al tempo stesso i settant’anni della nostra Carta fondamentale. L’accesso al rito a prova contratta esclude il diritto al contraddittorio Il Sole 24 Ore, 1 maggio 2018 Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - Rinuncia al contraddittorio - Contrasto con art. 6 Convenzione Edu - Esclusione - Motivi. La rinuncia al diritto al contraddittorio effettuata volontariamente e spontaneamente nei casi in cui l’imputato scelga di definire la sua posizione con un rito a prova contratta, non si pone in contrasto con l’art. 6 della Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che ha sottolineato come tale rinuncia debba essere stabilita in maniera non equivoca e accompagnata da un minimo di garanzie corrispondenti alla sua importanza e non deve essere contraria ad alcun interesse pubblico importante. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 28 marzo 2018 n. 14320. Procedimenti speciali - Rito a prova contratta - Dichiarazioni spontanee rese alla P.G. - Utilizzabilità probatoria. L’accesso al rito a prova contratta si risolve in una espressa e personalissima rinuncia dell’imputato al diritto al contraddittorio, sicché diventano utilizzabili tutti gli atti formati nel corso delle indagini preliminari e, dunque anche le dichiarazioni spontanee, destinate altrimenti a perdere efficacia in caso di progressione processuale ordinaria. (Nella specie, relativa a reato di evasione dagli arresti domiciliari, la Corte ha congruamente valorizzato la circostanza che l’imputato aveva ammesso, nelle dichiarazioni spontanee rese agli operanti all’atto del controllo, di essersi allontanato dal domicilio “per acquistare delle birre”, con ciò escludendo la ricorrenza dell’esimente dello stato di necessità invocato dalla difesa). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 6 novembre 2017 n. 50423. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - In genere - Dichiarazioni spontanee rese dall’indagato alla polizia giudiziaria - Utilizzabilità - Sussistenza - Ragioni. Nel giudizio abbreviato sono utilizzabili a fini di prova le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria, perché l’art. 350, comma settimo, cod. proc. pen.ne limita l’inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 22 marzo 2017 n. 13917. Procedimenti speciali - Giudizio abbreviato - In genere - Dichiarazioni spontanee rese dall’indagato alla polizia giudiziaria - Utilizzabilità - Sussistenza. Deve ritenersi utilizzabile nel giudizio abbreviato l’annotazione di polizia giudiziaria nella quale è riportato il contenuto delle dichiarazioni rese agli agenti, costituendo la stessa atto d’indagine alla quale la scelta dell’imputato di accedere al rito alternativo ha attribuito valenza probatoria e non essendo operante nel medesimo rito il divieto di testimonianza indiretta dell’ufficiale e dell’agente di polizia giudiziaria dettato esclusivamente in relazione alla deposizione dibattimentale degli stessi. • Corte di cassazione, sezione penale, sentenza 10 febbraio 2014 n. 6346. Napoli: detenuto in coma, esposto in Procura. Melillo pensa a un pool sui reati carcerari di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 1 maggio 2018 È stato presentato ieri alla Procura l’esposto sul caso di Roberto Leva, 50 anni, detenuto nel carcere di Poggioreale che dal 27 aprile scorso è ricoverato in coma farmacologico al reparto di terapia intensiva dell’ospedale San Paolo. Il Corriere del Mezzogiorno si era occupato del caso nei giorni scorsi. Leva era stato arrestato il 20 aprile scorso per espiare una pena di sei mesi di reclusione. Secondo quanto ricostruito nell’esposto, presentato dall’avvocato Raffaele Minieri della direzione nazionale di Radicali italiani, la sera del 26 aprile l’uomo fu portato all’ospedale Cardarelli per una frattura al setto nasale ed ecchimosi in varie parti del corpo. Ma dal Cardarelli fu dimesso il giorno successivo, quando fu nuovamente trasferito, in condizioni assai gravi, dapprima all’ospedale San Giovanni Bosco e successivamente al San Paolo, dove ora è intubato nel reparto di terapia intensiva. Nella denuncia si chiede alla Procura di svolgere accertamenti per capire in primo luogo se si possano ravvisare responsabilità da parte dei medici che disposero il ritorno in carcere dopo il primo ricovero, sottovalutando - è l’ipotesi avanzata dai familiari - la gravità delle condizioni. La Procura viene invitata inoltre a indagare anche sulle cause delle lesioni che determinarono il ricovero al Cardarelli. Decisa e forse troppo energica la reazione dei sindacati della polizia penitenziaria: “Ennesimo grave episodio - si legge in una nota-nei confronti della polizia penitenziaria, vittima ancora una volta di insulti e offese infamanti: ci riferiamo agli articoli apparsi nella giornata di ieri inerenti un detenuto della casa circondariale di Poggioreale ricoverato in ospedale che, secondo la sua famiglia, sarebbe stato picchiato dagli agenti. Al di là di quelli che sono gli accertamenti della magistratura che seguirà il suo corso individuando responsabilità, laddove ce ne dovessero essere, ciò che non ci appare condivisibile è la facilità con cui sugli organi di stampa si infanga l’operato di uomini che agiscono al servizio dello stato e a tutela della cittadinanza garantendo l’ordine e la sicurezza”. La nota è firmata dai sindacati della polizia penitenziaria Sinappe, Uil P.P., Fns Cisl, Uspp e Cnpp. “Amareggia - continuano i sindacati - la leggerezza con cui fanno eco, notizie tutte da verificare che rendono nulli lo spirito di sacrificio e abnegazione degli uomini della polizia penitenziaria”. Per la verità, nessuno ha insinuato che Leva sia stato percosso in carcere. La famiglia chiede solo chiarezza. Intanto, come aveva già annunciato ai suoi collaboratori subito dopo il suo insediamento, il procuratore, Giovanni Melillo, si prepara a istituire un pool di pm che indagheranno in modo sistematico sui reati collegati con le carceri, particolarmente delicati. Fino ad oggi segnalazioni e denunce venivano assegnate “a pioggia” a tutti i sostituti, fatta ovviamente eccezione per quelli della Dda. Obiettivo di Melillo è invece affinare le competenze professionali dell’Ufficio, formando un gruppo di magistrati specializzati. Foggia: nuove iniziative della Casa circondariale di San Severo di Antonio Zoila lagazzettadisansevero.it, 1 maggio 2018 Il Corso “Liberi di Decorare” vede la partecipazione di 14 detenuti e terminerà il prossimo 11 giugno. L’arte del decorare i dolci è forse tra le espressioni più caratteristiche della figura del pasticcere. In questo corso si apprendono le basi e i fondamenti per la decorazione di dolci e torte. Accompagnati dalla tutor Maria De Letteriis e dall’esperta Soccorsa Tomasone, i partecipanti apprenderanno l’arte della soggettistica a tema per torte da ricorrenza dal docente Francesco Pio Nardella: come ricoprire torte con pasta di zucchero, pasta di mandorle e cioccolato; l’uso del cornetto; il pastigliaggio, lo zucchero tirato e soffiato, come realizzare fiori, foglie, nastri in pasta per fiori e decorazioni in cioccolato. Tutti i partecipanti, dopo aver osservato il docente e appreso tutti i trucchi del mestiere, potranno realizzare soggetti a tema utilizzando passo passo tutte le tecniche illustrate. L’obiettivo del corso è quello di acquisire competenze atte a favorire l’integrazione sociale e lavorativa dei soggetti detenuti. Ma c’è anche, presso la nostra Casa Circondariale, una seconda, lodevole iniziativa. Dal 26 marzo, infatti, l’Associazione Irsef di Foggia ha avviato un nuovo corso di formazione per i detenuti. Il Corso “Operatore per le attività di assistenza familiare” vede la partecipazione di 10 detenuti. L’obiettivo del corso è quello di potenziare le competenze professionali dei detenuti ed il miglioramento delle relazioni e dei rapporti interpersonali, che insieme costituiscono il presupposto per poter favorire i processi di inclusione sociale e lavorativa dei ristretti attraverso il rilancio delle attività socio-riabilitative con il conseguente aumento del numero di ore trascorse all’esterno delle stanze detentive, svolgendo attività significative sotto il profilo della rieducazione e del reinserimento, al fine di fornire un valido contributo per l’abbattimento dei tassi di recidiva. Vicenza: ergastolo, il senso di una pena senza fine, un dibattito aperto di Francesca Ambroso inbassanoweek.it, 1 maggio 2018 Agnese Moro, Nadia Bizzotto e Carmelo Musumeci al Teatro Montegrappa di Rosà con la loro battaglia contro il carcere a vita. Oggi in Italia sono 1.500 gli ergastolani ostativi. È giusta la condanna senza termine? In che misura la detenzione può riabilitare? Qual è il vero ruolo della giustizia? Ha senso una condanna a vita? Qual è il valore della dignità umana? In che misura una pena può riabilitare un criminale? Sono tante le domande emerse dall’incontro-dibattito di venerdì scorso al Teatro Montegrappa moderato dal giornalista di Famiglia Cristiana Alberto Laggia. Ospiti l’ergastolano Carmelo Musumeci, la rosatese Nadia Bizzotto, responsabile della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da Don Oreste Benzi, e Agnese Moro, ospite d’eccezione che ha portato la sua testimonianza intima e personale sulla vicenda vissuta con la morte del padre. “I mandanti e assassini di mio padre sono stati individuati e condannati - ha affermato Agnese Moro - ma questo non mi ha liberata dal dolore. Ho trovato davvero la pace solo quando ho perdonato”. In questo senso Agnese Moro appoggia oggi la battaglia a favore dell’abolizione della pena dell’ergastolo che sta portando avanti Nadia Bizzotto, da anni impegnata come volontaria nelle carceri, specie fra i detenuti a vita, gli ergastolani ostativi, i cosiddetti “sepolti vivi” che scontano la condanna per reati associativi e hanno rifiutato la via della collaborazione. Per loro, secondo l’articolo 4bis dell’Ordinamento Penitenziario, le porte del carcere non si apriranno mai, neanche dopo 20, 30 o 40 anni. È tra questi carcerati che Nadia ha incontrato Carmelo Musumeci. È stato proprio lui ad aprire la serata con il racconto della sua vita, dai primi passi nel mondo della malavita, complice un’infanzia difficile in una terra complessa, fino al pentimento all’impegno di intraprendere una battaglia che oggi lo porta a testimoniare lo stato morale in cui versano i 1500 ergastolani ostativi condannati a quella che lui definisce una “pena di morte viva”. Dopo 25 anni di carcere ostativo Carmelo ha ottenuto su istanza la semilibertà. Nel frattempo ha conseguito 3 lauree ed ha scritto diversi libri. Ormai da anni si batte per l’abolizione dell’ergastolo a favore di forme di pena alternative che puntino al recupero dei criminali. Nel suo libro “Angelo Senza Dio” è raccontato il suo incontro con Nadia Bizzotto. “Quello che veramente mi ha cambiato -ha raccontato Musumeci- sono state le relazioni sociali. L’incontro con Nadia, Agnese Moro e con il suo messaggio di perdono, è stato devastante. Avere la consapevolezza che c’era qualcuno che aveva fiducia in me, nonostante il mio vissuto, mi ha spiazzato. È l’amore sociale che fa uscire il vero senso di colpa. È questa la pena terribile”. “Quando entrai per la prima volta in un carcere - ha raccontato Nadia Bizzotto - mi resi conto che quelli rinchiusi là dentro erano uomini che soffrivano profondamente. Nelle carceri oggi ci sono più di cento reclusi da oltre trent’anni. La scienza dimostra che nel tempo le persone cambiano. Vanno recuperate, come dice l’articolo 27 della Costituzione. Se al male si aggiunge altro male lo si moltiplica. Quello che oggi spinge la mia attività è portare fuori dalle sbarre la voce di quei sepolti vivi”. Una platea attenta e silenziosa ha ascoltato con profondo rispetto per più di due ore le ragioni di una battaglia che ha fatto incontrare tre persone profondamente diverse ma unite da uno stesso obiettivo. Difficile tirare conclusioni. Impossibile pretendere un unico punto di vista. Giustizia, libertà, perdono verso gli altri e verso sé stessi, pentimento, possibilità. Temi forti, profondi, che non smettono di interrogare le coscienze. Su questo si è riflettuto, senza condanne e senza giudizi. Su questo va avanti un dibattito ancora sempre aperto. Il cibo abbonda, eppure la fame uccide di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 1 maggio 2018 I dati del rapporto Fao, Ifad, Unicef, Wfp e Who mostrano un fenomeno in crescita: 38 milioni di affamati in più rispetto al 2015. Per una vita sana l’organismo ha bisogno mediamente di 2.100 calorie al giorno, tuttavia oggi 815 milioni di persone mettono nello stomaco poco più di un pugno di riso. I dati del rapporto Fao, Ifad, Unicef, Wfp e Who mostrano un fenomeno in crescita: 38 milioni di affamati in più rispetto al 2015. La risposta dell’industria e delle agenzie internazionali è una sola, produrre più cibo. Ma ogni anno buttiamo 1,3 miliardi di tonnellate di cibo. Occorre fermare le guerre Per una vita sana e attiva l’organismo mediamente ha bisogno di 2.100 calorie al giorno. Per dare un’idea: 100 grammi di latte corrispondono a 47 calorie, di pane 250, riso 300, maiale 171, manzo 115, cavolo 40, cipolla 40, banana 89, mela 52. Bene, oggi 815 milioni di persone mettono nello stomaco poco più di un pugno di riso al giorno. I dati del rapporto Fao, Ifad, Unicef, Wfp, Who mostrano un fenomeno in crescita: 38 milioni di affamati in più rispetto al 2015. Numeri che vengono confusi e inghiottiti dentro una preoccupazione più generale: se oggi 815 milioni di persone non mangiano, come si potrà sfamare un pianeta che nel 2050 sfiorerà i 10 miliardi di abitanti? La risposta dell’industria e delle agenzie internazionali è una sola: bisogna produrre più cibo. Intanto vediamo dove oggi si soffre la fame e perché. Dove si muore: le cause - La crisi alimentare più grave al mondo si consuma in Yemen, e coinvolge 17 milioni di persone. Tre anni di conflitti hanno reso l’accesso al cibo sempre più difficile. Sette anni di guerra in Siria hanno fatto impennare il prezzo degli alimenti dell’800%, portando 6,5 milioni di siriani a soffrire la fame, insieme ai 7 milioni che vivono nella regione del Lago Ciad, diventata rifugio di terrorismi e persecuzioni. Guerre e guerriglie sono la causa di malnutrizione nella Repubblica Centrafricana, nella Repubblica Democratica del Congo, in Nigeria, Niger, Sud Sudan, Libia, Sahel centrale, Afghanistan. Poi ci sono gli choc climatici che colpiscono l’Etiopia, la Somalia, il Senegal, la Mauritania, il Burkina Faso e il Pakistan. A causa delle continue inondazioni e dell’alto tasso di povertà, milioni di persone hanno la pancia vuota in Bangladesh, Myanmar, Mongolia e in vaste aree rurali dell’India. Il cibo del futuro - La popolazione mondiale oggi è di 7,5 miliardi, salirà a 8,6 nel 2030, a 9,8 nel 2050. Questo mostra un rallentamento nella crescita demografica, con un’unica eccezione: l’Africa, che arriverà da sola a costituire il 50% dei 2,3 miliardi in più attesi fra 32 anni. In particolare si stima che la Nigeria diventerà il Paese più popoloso al mondo (oggi è il settimo). Sulla base di questi indicatori la Fao ha valutato che sarà necessario aumentare la produzione del 50%. Da tempo i colossi della chimica fanno leva sul tema “fame nel mondo” per espandere le coltivazioni ogm, più recentemente la ricerca scientifica investe in quello che viene definito “il cibo del futuro”: nuovi alimenti capaci di soddisfare la domanda scoraggiando gli allevamenti intensivi. L’ultimo studio che ha come obiettivo “alleviare la fame nel mondo” arriva dalla Finlandia, dove un gruppo di ricercatori ha creato delle proteine in laboratorio partendo dall’energia rinnovabile. Il cofondatore di Google, Sergey Brin, ha finanziato la produzione dell’hamburger in laboratorio. Una carne un po’ costosa, ma a basso impatto ambientale. Con una tecnica simile negli Stati Uniti c’è chi sta riuscendo a moltiplicare l’albume facendo a meno delle galline. La Fondazione “Bill & Melinda Gates”, sta investendo negli incroci di mucche e polli per arrivare a “migliorare la produttività delle razze di bestiame disponibili per gli allevatori in Africa”. Stanno nascendo gli allevamenti su larga scala di insetti: sono nutrienti, molto proteici, si riproducono velocemente e si adattano a qualsiasi habitat. Le bocche da sfamare - Idee, progetti e prodotti che porteranno ritorni economici ai Paesi più ricchi e alle multinazionali, senza spostare di una virgola l’origine del problema. Le più gravi “food crisis” nel mondo non sono causate dalla mancanza di cibo, ma dai conflitti armati che distruggono le infrastrutture, rendono impossibili le coltivazioni, impediscono le forniture, causano la chiusura di attività, interrompono l’occupazione e l’assistenza sanitaria, provocano recessioni economiche, e di conseguenza rendono proibitivo l’accesso ai mercati per l’acquisto del cibo. A questo si aggiungono le calamità naturali: cicloni e siccità hanno obbligato lo scorso anno 19 milioni di persone a spostarsi. Cyril Lekiefs, senior food security di Action contre le Faim, l’organizzazione internazionale che si occupa da decenni del tema, non ha dubbi: “Queste soluzioni sono destinate ai consumatori che vivono nel nord del mondo, l’hamburger di laboratorio non arriverà mai alle persone che campano con un dollaro al giorno”. L’unico modo per sfamare queste popolazioni oggi è quello di portargli da mangiare. Unicef, il principale fornitore di alimenti terapeutici pronti all’uso, sta investendo in tecnologia per rafforzare le infrastrutture, l’accesso ai servizi e alle informazioni. La Commissione Ue invece ci mette i soldi, ed è il più grande donatore al mondo: 750 milioni di euro nel 2016, e incoraggia la distribuzione dei voucher direttamente nei villaggi. Un problema politico - Considerando che nei prossimi anni il grosso aumento demografico riguarderà proprio le zone rurali, disagiate e instabili dell’Africa, cosa si pensa di fare? Gli choc climatici e i conflitti si risolvono (o si arginano) solo ripensando modelli di sviluppo che passano da accordi internazionali, e con una più equa distribuzione della ricchezza. Senza questa precondizione, nessuno potrà arrestare la fame, e quindi i flussi migratori. Mentre l’11% della popolazione mondiale è malnutrita, 600 milioni di persone sono obese, e 1,3 miliardi sovrappeso. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura, ogni anno un terzo di tutta la produzione alimentare viene buttata prima che arrivi al consumo. Vale a dire 1,3 miliardi di tonnellate di cibo per un valore globale di un trilione di dollari l’anno. Secondo la Ong Action contro la fame “già oggi abbiamo la capacità di nutrire 10miliardi di persone sulla terra. La fame non è un problema tecnico. È un problema politico”. A chi “appartiene” un bambino? di Dacia Maraini Corriere della Sera, 1 maggio 2018 La domanda secondo me è sbagliata, perché un bambino non appartiene a nessuno. Appena nato diventa un cittadino che viene affidato ai genitori perché lo nutrano e lo crescano, ma non è loro proprietà come non lo è dello Stato. Molti in questi giorni, seguendo la vicenda del bambino malato terminale a cui i medici hanno staccato la spina contro la volontà della famiglia, si chiedono a chi appartenga un bambino, allo Stato o alla famiglia? La domanda secondo me è sbagliata, perché un bambino non appartiene a nessuno. Appena nato diventa un cittadino che viene affidato ai genitori perché lo nutrano e lo crescano, ma non è loro proprietà come non lo è dello Stato. Il grande cambiamento culturale fra le epoche arcaiche e tempo moderno sta proprio in questo passaggio dal concetto di possesso e quello di cura, come da quello di vendetta a quello di giustizia. Ma il passaggio non è facile e molti si rifiutano di compierlo. Il padre pachistano che ha scannato la figlia troppo occidentalizzata, è partito in buona fede dal presupposto che quella ragazza fosse proprietà della famiglia, e quindi era suo diritto farla a pezzi e seppellirla nel giardino di casa. Persino chi dichiara candidamente: “io ti amo e perciò sei mia”, trasgredisce il principio della libertà individuale. Nessun amore può giustificare il possesso di una persona. La domanda che segue è: ma cosa intendiamo per possesso? Il vocabolario spiega che possedere vuol dire: “Avere il diritto di signoria e di dominio su una proprietà”. La parola “possidere” in latino è composta “potis”, padrone, di origine indoeuropea e da “sedere”, che significa occupare uno la spazio. Quindi possedere significa esercitare un diritto di dominio sopra un luogo. Etimologicamente la parola non comprende la proprietà di un corpo umano. Eppure la schiavitù esisteva già e la legge ne sanciva il diritto. Ciò dimostra che la proprietà dell’uomo da parte dell’uomo è una pratica antichissima e considerata naturale. Si è percorso un lungo cammino per arrivare alla separazione fra il possesso di una cosa e il possesso di una persona. La prima lecita, la seconda illecita. Da qui l’abolizione della schiavitù, della servitù familiare, dei diritti separati e divisi secondo il sesso, la ricchezza, il ceto, ecc. Ma ancora, per alcuni uomini deboli e immaturi, ogni forma di emancipazione femminile è un insulto al loro senso di identità di genere e al loro diritto di proprietà. In questo diritto di proprietà ci mettono anche i figli e guai a chi li tocca! L’applicazione della legge inglese, secondo me, va vista non solo come un frettoloso bisogno di lasciare morire un bambino, ma di accorciare le sue sofferenze di fronte a una prospettiva di sole cure palliative. La piaga nascosta dei malati per lavoro. Per curarli si spendono 8 miliardi l’anno di Paolo Baroni La Stampa, 1 maggio 2018 Presentati i dati del rapporto Inail: negli ultimi 12 mesi la crescita è stata del 5,8% Continua ad aumentare anche il numero delle vittime: sono 212 dall’inizio del 2018. Continuano ad aumentare le morti sul lavoro: +11,6% nei primi tre mesi del 2018, ovvero 212 decessi anziché 190. A pagare il conto più salato, secondo i dati preliminari dell’Inail, sono i lavoratori dell’industria (193 casi, +13,5%), i maschi (+20%) e gli over 50 (+35%). A questa emergenza drammatica, che oggi sarà al centro di tutte le manifestazioni del Primo maggio, se ne aggiunge però anche un’altra, quella delle malattie professionali, non meno importante visti gli impatti sociali ed economici che produce. In questo caso dopo un anno di pausa si registra una nuova fiammata. Nel primo trimestre le denunce di malattie professionali ricevute dall’Inail sono infatti tornate a salire: dal -3,5% dell’anno passato a +5,8%, con un picco del 14,8% a gennaio. In tutto sono 877 casi in più, 16.124 anziché 15.247, con incrementi che interessano tutti i comparti: +4,3% industria e servizi a quota 12.746 denunce, +10,6% l’agricoltura (a 3.179) e +27,6% il Conto Stato, in pratica tutta la Pa esclusa la Sanità, passato da 156 a 199 casi. Buona parte di questo aumento arriva dal Sud (+515 casi) e dal Centro (+270). Costi altissimi - Altro dato allarmante, i costi. Secondo le stime del Centro studi della Fondazione Ergo di Varese, mediamente, una malattia professionale in Italia comporta una spesa di 219.000 euro a persona, tra costi diretti (prescrizioni mediche, cure ambulatoriali ed ospedaliere, interventi di sostegno e riabilitazione) e costi indiretti (dalla perdita delle giornate di lavoro ai costi per sostituire gli assegni, al calo di produttività del dipendente). In un anno il conto arriva così a circa 8miliardi di euro, ovvero mezzo punto di Pil. L’anno passato delle oltre 58mila denunce di malattia ricevute dall’Inail, che in media poi arriva e riconoscerne circa un terzo, ben 46.136 hanno riguardato il comparto industria e servizi, che ha fatto segnare un calo dell’1,7% sul 2016, 11.287 l’agricoltura (-10,2%) e 706 (-3,6%) il comparto Stato. Dove ci si ammala - Più in dettaglio la Fondazione Ergo segnala che in base agli ultimi dati disponibili (quelli del 2016) l’industria manifatturiera è quella che presenta il maggior numero di denunce, in aumento nel 2016 rispetto all’anno precedente del 3,5% (da 9.555 a 9.894), ma in calo rispetto al 2011 quando erano state 10.129 (-2,3%). Denunce concentrate in modo particolare nel comparto metallurgico (1.640, +6% sul 2011 e +8% rispetto al 2015) e nell’industria alimentare (1.408, +15% sul 2011 e +13% sul 2015). Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo sono quelle maggiormente contratte dai lavoratori con quasi il 61% dei casi protocollati dall’Inail, seguite da quelle del sistema nervoso (11%), dell’orecchio (8%), del sistema respiratorio (5%) e dai tumori (4%). Queste 5 tipologie rappresentano quasi il 90% del totale dei casi di malattie denunciate. Su 46.136 istanze inoltrate da industria e servizi 20.109 riguardano malattie muscolo scheletriche. Quasi una denuncia su tre (5.941) riguarda mano e polsi, a seguire spalla (5.807), rachide (4.718), gomito (2.238) e arti inferiori (1.405). Stress, c’è ma non si vede - L’aumento dei ritmi tipico nelle fabbriche moderne ha certamente determinato in molti casi un aumento dello stress. In termini assoluti il numero delle malattie da stress lavoro-correlato denunciate nel 2017 (soprattutto disturbi nevrotici e disturbi dell’umore) però è molto contenuto: appena 464 denunce nel 2017 contro le 500 del 2016 ed un picco di 565 nel 2014. Numeri distanti anni luce dalla percezione che hanno i lavoratori, che in base ad uno studio del 2013 di Eurostat dichiarano di avere problemi legati a stress, depressione e ansia nel 14,9% dei casi contro una media Ue del 15,3%. Livelli molto alti ma comunque nulla a che vedere col 41,8% dei norvegesi. Guerra. Flotta Usa con mille missili nel Mediterraneo di Manlio Dinucci Il Manifesto, 1 maggio 2018 La portaerei Usa Harry S. Truman, salpata dalla più grande base navale del mondo a Norfolk, in Virginia, è entrata nel Mediterraneo con il suo gruppo d’attacco. Esso è composto dall’incrociatore lanciamissili Normandy e dai cacciatorpediniere lanciamissili Arleigh Burke, Bulkeley, Forrest Sherman e Farragut, più tra poco altri due, il Jason Dunham e The Sullivans. È aggregata al gruppo d’attacco della Truman la fregata tedesca Hessen. La flotta, con a bordo oltre 8.000 uomini, ha una enorme potenza di fuoco. La Truman – super-portaerei lunga oltre 300 metri, dotata di due reattori nucleari - può lanciare all’attacco, a ondate successive, 90 caccia ed elicotteri. Il suo gruppo d’attacco, integrato da 4 cacciatorpediniere già nel Mediterraneo e da alcuni sottomarini, può lanciare oltre 1.000 missili da crociera. Vengono così notevolmente potenziate le Forze navali Usa per l’Europa e l’Africa, con quartier generale a Napoli-Capodichino e base della Sesta Flotta a Gaeta, agli ordini dello stesso ammiraglio (attualmente James Foggo) che comanda la Forza congiunta alleata a Lago Patria (Giugliano). Ciò rientra nel potenziamento complessivo delle forze statunitensi in Europa, agli ordini dello stesso generale (attualmente Curtis Scaparrotti) che ricopre la carica di Comandante supremo alleato in Europa. In una audizione al Congresso, Scaparrotti spiega il perché di tale potenziamento. Quello che presenta è un vero e proprio scenario di guerra: egli accusa la Russia di condurre “una campagna di destabilizzazione per cambiare l’ordine internazionale, frantumare la Nato e minare la leadership Usa in tutto il mondo”. In Europa, dopo “l’annessione illegale della Crimea da parte della Russia e la sua destabilizzazione dell’Ucraina orientale”, gli Stati uniti, che schierano oltre 60.000 militari in paesi europei della Nato, hanno rafforzato tale schieramento con una brigata corazzata e una brigata aerea da combattimento, e costituito depositi preposizionati di armamenti per l’invio di altre brigate corazzate. Hanno allo stesso tempo raddoppiato lo spiegamento delle loro navi da guerra nel Mar Nero. Per accrescere le loro forze in Europa, gli Stati uniti hanno speso in cinque anni oltre 16 miliardi di dollari, spingendo allo stesso tempo gli alleati europei ad accrescere la propria spesa militare di 46 miliardi di dollari in tre anni per rafforzare lo schieramento Nato contro la Russia. Ciò rientra nella strategia avviata da Washington nel 2014 con il putsch di piazza Maidan e il conseguente attacco ai russi di Ucraina: fare dell’Europa la prima linea di una nuova guerra fredda per rafforzare l’influenza statunitense sugli alleati e ostacolare la cooperazione eurasiatica. I ministri degli esteri della Nato hanno riaffermato il 27 aprile il loro consenso, preparando una ulteriore espansione della Nato ad Est contro la Russia attraverso l’ingresso di Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Georgia e Ucraina. Tale strategia richiede una adeguata preparazione dell’opinione pubblica. A tal fine Scaparrotti accusa la Russia di “usare la provocazione politica, diffondere la disinformazione e minare le istituzioni democratiche” anche in Italia. Annuncia quindi che “gli Usa e la Nato contrastano la disinformazione russa con una informazione veritiera e trasparente”. Sulla stessa scia, la Commissione europea annuncia una serie di misure contro le fake news, accusando la Russia di usare “la disinformazione nella sua strategia di guerra”. C’è da aspettarsi che Nato e Ue censurino quanto qui pubblicato, decretando che quella della flotta Usa nel Mediterraneo è una fake news diffusa dalla Russia nella sua “strategia di guerra”. Ronde razziste. Sulle Alpi scatta la caccia al migrante di “Defend Europe” di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 1 maggio 2018 Nuova azione di Génération Identitaire, il gruppo di estrema destra francese ora pattuglia il confine con l’Italia. Giacca a vento azzurra, occhiali da sole, pantaloni sportivi, scarponcini da montagna: è questa la divisa di allegro e pur tremendo esercito privato, composto da ragazzi e ragazze dai tratti gentili. Partono da tutta la Francia per venire a pattugliare le montagne che separano l’Italia dal loro paese, perché devono “bloccare l’invasione”. Una milizia che si coordina con la gendarmeria, affinché la caccia all’uomo abbia successo e l’invasore sia respinto al di là del confine. Le loro azioni sono pubbliche, sbandierate ai quattro venti grazie a una massiccia campagna mediatica. Sabato scorso rivendicavano “l’arresto di sette migranti avvistati e segnalati dalle squadre di Defend Europe al Monginevro” corroborando le parole con immagini in cui si vedono le ronde in giacchetta azzurra, composte da circa dieci persone, “accompagnare” in Italia chi tentava di passare il confine camminando lungo le piste da sci. “Sulla base dell’articolo l 621-2 del codice dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri e del diritto d’asilo e dell’articolo 73 del codice di procedura penale - dichiarano i volontari di Gènération Identitaire - che consente a ogni cittadino di arrestare l’autore di un reato palese, il nostro team ha riportato quattro clandestini alla frontiera, sotto la supervisione di un ufficiale di polizia. Sorpresi, non hanno mai cercato di scappare e hanno collaborato immediatamente”. Si percepiscono e operano come gli unici difensori del suolo francese, e non esitano a sfidare il governo Macron: “Contrariamente agli annunci del ministro degli interni Gérard Collomb, lo stato francese ancora non controlla il suo confine nella zona di Briançon. Gènération Identitaire richiede quindi nuovi rinforzi di polizia e un piano d’azione efficace. Non più un solo clandestino deve poter attraversare il confine. È soprattutto lo stato a garantire la sicurezza delle frontiere e non ai cittadini”. Si sono posizionati da circa due settimane al Monginevro - poco distante dalla chiesetta occupata di Claviere che funge da rifugio e presidio sanitario - e a Nevache, ovvero al di là del colle della Scala, sopra Bardonecchia: il passo che tra pochi giorni riaprirà. Si tengono lontani invece da Briançon dove la forte presenza di numerosi volontari pro migranti, nonché la connotazione politica dell’amministrazione locale, sinistra vicina a Mélenchon, non crea un terreno fertile per le passeggiate notturne delle ronde azzurre. Ma probabilmente operano anche in Italia. Le polemiche successive all’incursione dei doganieri francesi all’interno del presidio sanitario gestito da Prefettura di Torino, Comune di Bardonecchia e due organizzazioni non governative, non spaventano i giovani patrioti francesi. Sabato notte davanti alla stazione ferroviaria di Bardonecchia è stato affisso un volantino, non firmato, in cui si legge: “Solidarietà con i funzionari di polizia francesi in servizio a Bardonecchia. Contrariamente a quando avviene in Italia essi compiono il proprio dovere per far rispettare le leggi. I locali di servizio a loro disposizione sono stati occupati da una ong che ci mangia con l’unilaterale consenso delle autorità italiane”. Seguono una serie di insulti verso il sindaco di Bardonecchia Francesco Avato, e al prefetto di Torino Renato Saccone. La Digos di Torino sta tentando di capire chi abbia affisso il volantino e non è passata inosservata la concomitanza tra questo evento e l’attività di Gènération Identitaire. Anche perché la chiosa è una firma: “Dato che le autorità italiane sono queste, è bene che altri vengano a far rispettare la legge e riportare l’ordine”. Afghanistan. Lo Stato islamico fa strage a Kabul. Obiettivo, i giornalisti di Giuliano Battiston Il Manifesto, 1 maggio 2018 Doppio attentato kamikaze nel quartiere di Shash Darak: 26 morti e almeno 45 feriti. Tra loro 9 reporter afghani, colpiti deliberatamente con la seconda esplosione. I Talebani intanto hanno lanciato la tradizionale “campagna di primavera”. Lo Stato islamico colpisce di nuovo a Kabul, la capitale afghana. La scorsa settimana, l’attacco in un centro di registrazione per le elezioni parlamentari, nel quartiere sciita: 60 morti. Ieri, un duplice attentato nel quartiere centrale di Shash Darak: 26 morti e almeno 45 feriti. Tra loro 9 giornalisti, colpiti deliberatamente con la seconda esplosione. Secondo la rivendicazione su Amaq, l’agenzia mediatica del gruppo di Abu Bakr al-Baghdadi, i due attentatori sarebbero Qàqà al-Kurdi e Khalil al-Qurashi. La tattica adottata non è inedita, né per l’Afghanistan né per altri fronti delle guerre asimmetriche, ma rimane particolarmente infame: il primo attentatore si è fatto esplodere nei pressi di un checkpoint non lontano dal quartier generale del National Directorate of Security, i servizi segreti afghani, e dell’ambasciata statunitense; il secondo, secondo quanto riferito da Najib Danish, portavoce del ministero degli Interni, si sarebbe finto giornalista, mostrando la tessera di categoria e aspettando che la folla si infittisse. Dopo venti minuti, si è fatto esplodere, colpendo in particolare i giornalisti. Sette quelli morti sul colpo, due qualche ora dopo. Sono tutti afghani. Tra loro, giovani professionisti, operatori video delle televisioni locali come Tolonews, 1Tv, Mashal Tv, oltre a tre colleghi di Radio Azadi (Radio Free Europe). Tra questi ultimi anche Mahram Durani: 28 anni, collaborava da una settimana soltanto con Radio Azadi come producer per un programma sulle questioni di genere. Il lavoro vero e proprio sarebbe cominciato a metà maggio. Si trovava a passare sul luogo dell’attentato e si è fermata a dare una mano ai futuri colleghi. Tutti saltati per aria. Stessa sorte per due veterani del giornalismo afghano, nomi spesso sconosciuti al grande pubblico, ma cruciali per far arrivare immagini e notizie dall’Afghanistan: Yar Mohammad Tokhi, per 12 anni cameraman a Tolo Tv, avrebbe dovuto sposarsi tra un mese. Shah Marai, fotografo della France Press, veterano conosciuto e stimato da tutti. Lascia sei figli e un imponente serbatoio di immagini sul suo Paese. Immagini di pace e di guerra. Le altre vittime sono civili, passanti, tranne cinque poliziotti e, secondo Amaq, un funzionario dell’intelligence. Il colpo è particolarmente duro per la comunità di giornalisti afghani. Dalla caduta del regime talebano, nel 2001, quello di ieri è il giorno più tragico per loro. Mentre si piangevano i morti di Kabul, da Khost, cittadina nell’omonima provincia al confine con il Pakistan, arrivava la notizia dell’omicidio di Ahmad Shah Angar, giovane giornalista della Bbc freddato mentre tornava a casa in bicicletta. Per Reporters Without Borders, l’Afghanistan rimane il terzo Paese più pericoloso al mondo per gli operatori dell’informazione. Ventuno i giornalisti uccisi nel 2017. Sempre più minacciati dall’antagonismo tra i Talebani, il principale gruppo anti-governativo, e la “provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico. Istituita formalmente nel gennaio 2015, si è guadagnata visibilità a colpi di attentati, rivolti soprattutto contro gli hazara, la minoranza sciita. I talebani, a cui a fine febbraio il presidente Ashraf Ghani ha offerto un generoso piano di riconciliazione, hanno lanciato il 25 aprile la tradizione “campagna di primavera”, chiamata al-Khandaq. Promettono attentati ed esplosioni, in particolare contro le truppe di occupazione, e archiviano - almeno per ora, pubblicamente - l’offerta del presidente Ghani come semplice propaganda, “per distrarre l’opinione pubblica dall’illegittima occupazione straniera del Paese, dal momento che gli americani non hanno intenzioni serie di porre fine alla guerra”. L’attentato compiuto ieri nel distretto di Daman, nella provincia meridionale di Kandahar, sembra rientrare proprio in questa campagna di primavera. Un veicolo imbottito di esplosivo è stato lanciato contro un convoglio militare straniero, parte della missione a guida Nato Resolute Support. Sarebbero almeno cinque i militari di nazionalità romena rimasti feriti. Undici, invece, i bambini afghani morti, studenti di una scuola coranica. Malta. Daphne Garuana Galizia, talpa nella polizia informava i killer di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 1 maggio 2018 Il legale che rappresenta la famiglia della giornalista maltese uccisa denuncia: “Una volta scoperto, l’agente è stato solo trasferito”. La replica del premier Muscat: “Menzogne”. I due fratelli Degiorgio e Vincent Muscat, i tre uomini accusati di essere gli esecutori materiali dell’omicidio della giornalista investigativa Daphne Caruana Galizia, detenuti dal 4 dicembre scorso e in attesa di processo, avevano una talpa nella Polizia maltese. Che li avvisò della loro imminente cattura, gli diede il tempo di liberarsi di ciò che verosimilmente non doveva essere trovato (tutto ciò che li poteva collegare ai mandanti dell’autobomba), di concordare e immaginare le mosse di una futura e comune linea difensiva. Di più: una volta scoperta, la “talpa” ha goduto della protezione del Capo della Polizia maltese, Lawrence Cutajar, che ne ha semplicemente disposto il trasferimento ad altro incarico, senza avviare apparentemente alcun procedimento nei suoi confronti. Dell’esistenza di una “talpa” nell’indagine sugli esecutori e i mandanti dell’omicidio di Daphne, Repubblica aveva dato conto il 18 aprile scorso nella prima delle inchieste pubblicate in queste settimane con il “Daphne Project”. Ora, la conferma arriva da James Azzopardi, legale della famiglia Caruana Galizia e parlamentare del partito di opposizione Nazionalista. Intervenendo questa sera in Parlamento, Azzopardi, facendo riferimento a quanto gli è stato riferito da fonti interne della Polizia maltese, ha svelato pubblicamente l’identità dell’agente di Polizia in contatto con gli assassini di Daphne. Ne ha raccontato gli opachi trascorsi di servizio e la sua vicinanza al governo laburista. “Chi è la talpa?”, ha esordito Azzopardi rivolgendosi ai banchi della maggioranza di Governo. “E agli ordini di chi ha agito? Sentite questa storia. C’era una volta un agente di polizia che già aveva conosciuto l’onore delle cronache, perché vicino al partito laburista e al premier Joseph Muscat. Che, fino al 2013, aveva prestato servizio al posto di frontiera aeroportuale. E, subito dopo che era stato svelato un racket sui passaporti, era stato trasferito alla divisione crimini economici. Si era scoperto infatti che questo poliziotto aveva redatto lettere di invito a cittadini libici a garanzia di visti emessi dal consolato maltese a Tripoli, del tutto illegalmente. Tra il 2016 e il 2017, era stato quindi trasferito alla Criminal intelligence unit. Poi, poche settimane fa, è stato trasferito nuovamente al reparto mobile. Perché?”. “Perché - ha proseguito Azzopardi nel suo intervento in Parlamento - si è scoperto poche settimane fa che l’agente Aldo Cassar, questo il suo nome, con codice identificativo Ps88, è colui che ha avvisato i tre uomini accusati dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia del loro imminente arresto il 4 dicembre scorso”. Azzopardi ha quindi elencato il rosario di articoli del codice penale e di norme disciplinari violate dall’agente, stigmatizzando che si tratta di crimini punibili fino a tre anni di reclusione. E di fronte ai quali, tuttavia, si sarebbe consumata una seconda violazione. Se possibile persino peggiore della stessa soffiata agli assassini di Daphne. “Secondo quanto mi hanno riferito fonti diverse interne alla polizia maltese - ha proseguito infatti Azzopardi - una volta scoperto, l’agente è stato invitato dal Capo della Polizia (Lawrence Cutajar ndr.), su invito dell’ufficio del Primo ministro, non a dimettersi, ma a scegliere semplicemente un nuovo ufficio in cui essere trasferito: un commissariato o il reparto mobile, dove infatti l’agente ora presta servizio. Uno scandalo. Il vero scandalo di questa storia. Anziché procedere penalmente e disciplinarmente nei suoi confronti, si è data all’agente l’opportunità di scegliere la sua nuova destinazione”. Come un calcio alla porta, le rivelazioni di Azzopardi in Parlamento riaprono la questione dirimente che, dal 16 ottobre scorso, impiomba l’inchiesta della Polizia maltese sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia, rendendola poco o nulla attendibile agli occhi delle opinioni pubbliche e delle istituzioni europee (Il Consiglio di Europa dovrà decidere nelle prossime settimane se inviare o meno un proprio rappresentante che verifichi la regolarità dell’indagine e la sua imparzialità. La Commissione Europea ha disposto un’imminente missione che verifichi nuovamente il rispetto dello Stato di diritto sull’isola). Che cioé, al dilà delle insistite dichiarazioni del Primo Ministro Muscat (“Non lasceremo nulla di intentato, solleveremo ogni pietra, per arrivare alla soluzione dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia”), l’indagine sconti dal primo giorno e continui a scontare l’insuperabile handicap dell’essere politicamente orientata. E comunque inquinata dalle ombre di contiguità tra il palazzo della Politica, ambienti della criminalità organizzata e centrali del riciclaggio di denaro sporco. Del resto, non più tardi della fine della scorsa settimana, Europol, con una lettera ai parlamentari europei, nel rinnovare l’impegno a una collaborazione investigativa con la Polizia maltese per venire a capo dei mandanti dell’omicidio di Daphne, aveva fatto esplicito riferimento alla scarsa cooperazione mostrata da Malta dopo l’arresto dei tre esecutori materiali. La storia della “talpa” aiuta a comprendere il perché. In tarda serata con un tweet il premier Joseph Muscat ha definito “menzogne” le rivelazioni di James Azzopardi. “Ci si dovrebbe chiedere - si legge - perché uno degli avvocati del caso Daphne Caruana Galizia scelga di coprirsi utilizzando l’immunità parlamentare anziché sottoporre certe circostanze a un tribunale”.