Affettività e carcere: un binomio (im)possibile? Il Dubbio, 19 maggio 2018 Iniziativa promossa dalla rivista “Giurisprudenza penale” e dall’associazione Antigone. La rivista Giurisprudenza Penale, Sezione “Diritto Penitenziario”, coordinata dagli avv. ti Lucilla Amerio e Veronica Manca, con il supporto del Direttore Editoriale, avv. Guido Stampanoni Bassi, segnala, tra le attività interne alla Sezione, un’interessante iniziativa, in collaborazione con Antigone (Associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale) e con l’avallo dell’on. le Rita Bernardini dalla Presidenza del Partito Radicale, avente ad oggetto il tema interdisciplinare dell’affettività in carcere. All’indomani del mancato esame da parte delle Commissioni Speciali del Parlamento dello schema di decreto sulla riforma dell’Ordinamento penitenziario, s’impone, infatti, una riflessione sul binomio “libertà-dignità” anche (e soprattutto) all’interno della realtà carceraria, ove il rispetto del detenuto e, in particolare, la tutela della sua sfera affettiva, sono destinate ad assumere una rilevanza vieppiù cogente. Sul punto, del resto, è sufficiente por mente alle proposte presentate dal Tavolo 6- Mondo degli affetti e territorializzazione della pena degli Stati generali dell’esecuzione penale e dalle Commissioni ministeriali della riforma penitenziaria, attualmente al vaglio delle Camere. La direzione appare univoca: è chiara la necessità che gli sforzi (normativi e giurisprudenziali) tendano a garantire, in capo al detenuto, una dimensione affettiva che prescinda dai meccanismi premiali, i quali, se, ad oggi, rappresentano l’unica possibilità, per il recluso, di ricondursi ai propri affetti, sono, per contro, concessi solo all’esito di un (rigido) accertamento, inevitabilmente connesso (se non, anche subordinato) al quantum di pena espiato, oltreché alla valutazione positiva della buona condotta intramuraria. A fronte di un momento storico- politico estremamente confuso, quale quello attuale, e “sordo” rispetto all’esigenza di garantire un’effettiva tutela dei diritti individuali dei detenuti, appare, dunque, evidente come la dimensione famigliare nella realtà carceraria, pur se garantita a livello normativo (si pensi, ad esempio, agli artt. 1, co. 6, 15, 28 e 45 O.P.) incontri ancora innumerevoli ostacoli, applicativi e fattuali. Tale il contesto, di centrale rilevanza si rivela il contributo degli operatori e degli esperti; e ciò, onde evitare defatiganti strumentalizzazioni del diritto penitenziario e fornire, per contro, una rappresentazione (una volta per tutte) corretta ed una informazione “scientifica” della realtà carceraria, scevra da argomentazioni e finalità politiche e volta, invece, ad evidenziare le esigenze e gli aspetti intimamente connessi ad un (più) libero esercizio del diritto individuale all’affettività. Scopo dell’iniziativa promossa dalla Sezione “Diritto Penitenziario” di Giurisprudenza Penale è, pertanto, quello di raccogliere i migliori contributi sul tema, onde poter pervenire (mediante la pubblicazione di un apposito fascicolo monotematico di approfondimento) ad una ricostruzione della materia, anche in chiave de jure condendo, mediante l’analisi della stessa sotto il profilo giuridico, ma anche sociologico, psicologico e criminologico. Gli autori interessati dovranno procedere all’invio, entro il 5 luglio 2018, di un abstract di massimo 2000 caratteri, da trasmettere ad una delle responsabili della sezione “Diritto penitenziario” della Rivista, avv. ti Lucilla Amerio o Veronica Manca: lucilla.amerio@giurisprudenzapenale.com e veronicamanca@giurisprudenzapenale.com. Gli abstracts pervenuti con le modalità e nel termine indicati verranno sottoposti alla valutazione di un Comitato Scientifico, composto da autorevoli esponenti del mondo dell’Avvocatura, della Magistratura e dell’Università, onde garantire una sinergia di vedute, e, quindi, il giusto approfondimento di un tema che, per sua natura, appare particolarmente complesso e delicato. Nell’auspicare una partecipazione ampia e costruttiva, si rinvia al sito della Rivista per ogni ulteriore informazione: giurisprudenzapenale.com/2018/05/13/affettivita-e-carcere-un-binomio-impossibile-call-for-papers/. Più manette per tutti di Dino Martirano Corriere della Sera, 19 maggio 2018 Nel “contratto di governo” M5S-Lega pene più dure, nuove carceri e tempi più lunghi per la prescrizione. Le critiche delle Camere penali: incoerenti. Più manette per tutti e “carcere vero per i grandi evasori”. Pene più dure per i reati ambientali e per quelli contro la Pubblica amministrazione. Costruzione di nuove carceri. “Agenti provocatori” per combattere la corruzione e Daspo (anche perpetuo) per corrotti e corruttori. Stop ai riti alternativi. Tempi più lunghi per la prescrizione dei reati. Età della punibilità più bassa per i minorenni. Legittima difesa sempre presunta per chi subisce una rapina armata in casa o in ufficio. E, infine, conflitto d’interessi ad ampio spettro: attivo per parlamentari, ministri e sottosegretari anche in assenza di un vantaggio patrimoniale. Con questo “contratto di governo” sui temi della giustizia, anche gli avvocati eletti con il M5S e con la Lega (al “tavolo” giallo verde c’erano Alfonso Bonafede e Nicola Molteni) non si sono fatti vedere al convegno organizzato al Senato dalle Camere penali dove ieri è stata ricordata - alla presenza del presidente Elisabetta Alberti Casellati - la figura di Enzo Tortora morto 30 anni fa al termine di un lungo calvario giudiziario. Oggi l’aria è decisamente cambiata: “E sulla giustizia il “contratto” tra M5S e Lega va in senso totalmente opposto a percorsi coerenti e conformi ai principi costituzionali”, è il giudizio del presidente dell’Unione delle camere penali, Beniamino Migliucci. Il “contratto” M5S-Lega si occupa anche di magistrati e uffici giudiziari. Proponendo la revisione del sistema di elezione dei consiglieri (togati e laici) del Csm “tale da rimuovere le attuali logiche spartitorie e correntizie”, il divieto per le toghe di tornare indietro se si candidano in politica nonché il ripristino dei Tribunali minori cancellati dal governo Monti. La legittima difesa sempre presunta in casa e nei luoghi di lavoro apre il capitolo dell’area penale: la proposta della Lega, accettata a scatola chiusa dal M5S, è quella di eliminare la discrezionalità del giudice in merito alla “proporzionalità tra difesa e offesa”. L’intenzione, poi, è quella di far saltare le leggi deflattive (riti alternativi, depenalizzazione dei reati, non punibilità per tenuità del fatto e per condotte riparatorie) che il centrosinistra ha messo in campo per allentare il sovraffollamento nelle carceri, causa per altro di condanne per l’Italia in sede di Corte europea per i diritti dell’uomo. M5S e Lega hanno anche trovato l’accordo per inasprire le pene. Più carcere per i reati ambientali e per quelli contro la Pubblica amministrazione: per combattere la corruzione servono non solo gli agenti sotto copertura (che già esistono per la droga) ma anche gli agenti provocatori che commettono un reato per provare a innescarne un altro. Pene più dure anche per i furti in abitazione, furti aggravati, scippi e truffe agli anziani. Nel processo civile, viene tolto ogni ostacolo all’esercizio della class action. Mentre nel capitolo sulla lotta alle mafie (sette righe in tutto) si fa un “particolare riferimento alle condotte caratterizzate dallo scambio politico mafioso”. Inoltre, si annuncia “effettivo rigore nel funzionamento del carcere duro previsto dal 41bis”. David Ermini (Pd) parla di contratto “securitario e giustizialista”. Mentre gli avvocati di Silvio Berlusconi, tra cui i parlamentari Niccolò Ghedini e Francesco Paolo Sisto, notano che tutto questo l’aveva anticipato il pm Nino Di Matteo al convegno organizzato da Davide Casaleggio a Ivrea. La giustizia penale in un vincolo cieco dalla Giunta dell’Ucpi camerepenali.it, 19 maggio 2018 Un approccio ideologico ed un programma che aprono inquietanti scenari di involuzione, e che l’avvocatura si impegna sin da ora a contrastare, con tutti i mezzi e con ogni forma di azione politica e associativa, in difesa delle garanzie e delle libertà di tutti i cittadini e dei valori costituzionali e convenzionali del giusto processo. La posizione dell’Unione sul programma giustizia contenuto nel “contratto di governo”. 1. Ci è sembrato necessario ed utile, al fine di evitare di prendere posizione in maniera avventata su questioni di straordinaria rilevanza, e considerata l’aria di permanente propaganda elettorale che ha caratterizzato anche gli ultimi passaggi della gestione della crisi politica in corso, attendere di poter prendere cognizione di una qualche certezza in ordine ai contenuti definitivi del programma di politica giudiziaria elaborato dalle forze politiche candidate al governo del Paese. La trasversalità della Associazione e la laicità della prospettiva che caratterizzano l’azione dei penalisti italiani imponevano ed impongono serietà, responsabilità e prudenza nell’affrontare temi di così alta rilevanza istituzionale. Tuttavia, posti di fronte a quello che viene definito il programma/contratto “definitivo”, lo sconcerto che aveva caratterizzato la lettura delle prime bozze diffuse dai media, sulle quali avevamo ritenuto opportuno sospendere ogni giudizio, si è evidentemente trasformato in una grave preoccupazione per l’approccio metodologico, per il merito e per le intere prospettive di “visione” della Giustizia che caratterizzano quello che viene definito “Contratto per il Governo del Cambiamento”. Tale valutazione comprende ovviamente (limitandosi a quelle) le parti programmatico/contrattuali dedicate alla “Giustizia rapida ed efficiente” (Area Magistratura e tribunali - Area penale, procedura penale e difesa sempre legittima - Certezza della pena - Reati ambientali e tutela degli animali - Contrasto alle mafie - Ordinamento penitenziario - Giustizia tributaria) nonché alla “Immigrazione: rimpatri e stop al business”, ed infine alla “Lotta alla corruzione”. L’approccio metodologico risponde con evidenza ad una logica puramente demagogica e di risposta alle spinte giustizialiste che sono state in questi ultimi anni oggetto di propaganda da parte delle forze populiste, le quali, anche a fronte di problemi reali, hanno formulato parole d’ordine e semplificazioni che si adattavano alle pulsioni più viscerali ed emotive indotte nella collettività. La natura puramente ideologica e securitaria di tale approccio implica evidentemente una totale indifferenza a quelle che sono le acquisizioni di natura oggettiva, statistica e razionale pertinenti i singoli fenomeni, giungendo così a conclusioni totalmente arbitrarie del tutto fuorvianti ed a soluzioni pericolosamente ingenue. L’intera valutazione fenomenologica è legata a dati fondati sulla mera “percezione” piuttosto che su di una attenta lettura dei dati. Immaginare, così, che si debba “ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi”, senza specificare dove come e perché tali reati resterebbero “impuniti”, e per quale ragione ne sarebbe responsabile la legislazione penale, resta un mistero. Immaginare, sia pure implicitamente, un maggiore ricorso alla “carcerazione preventiva” significa dimenticare che la percentuale dei detenuti presenti nelle nostre carceri in attesa di giudizio (ben oltre il 30% di media) supera di gran lunga le percentuali degli altri paesi europei (22%). Totalmente insensato e rispondente alle medesime logiche, l’idea di poter operare una pan-penalizzazione, a fronte di una sempre più diffusa cultura volta alla realizzazione di un diritto penale ricondotto al minimo ed alla differenziazione delle forme di contrasto della devianza e dell’illecito. 2. La riforma dell’istituto del giudizio abbreviato con riferimento ai reati più gravi (ivi compreso l’omicidio) risponde anch’essa ad una intenzione puramente propagandistica, fondata sulla ignoranza del dato che i più gravi fatti di omicidio vengono comunque puniti, anche in caso di accesso al rito speciale, con l’ergastolo (attraverso il meccanismo previsto dalla legge della sola esclusione dell’isolamento diurno), mentre una indiscriminata soppressione del rito abbreviato per i reati di omicidio imporrebbe un impegno delle Corti d’Assise non immaginabile, tempi di celebrazione dei processi lunghissimi con costi economici e sociali altissimi. Analoghe conseguenze avrebbe l’impegno dei Tribunali con riferimento ai reati di cui all’art. 51 comma 3 bis c.p.p. Altrettanto pericolosa e demagogica la proposta di riforma dell’istituto della legittima difesa, operato attraverso la formulazione di una presunzione assoluta di proporzionalità della reazione violenta nei casi di violazione di domicilio. Una inaccettabile “licenza di uccidere” che dovrebbe peraltro essere realizzata al fine evitare l’intervento del Giudice ed il controllo da parte della stessa autorità giudiziaria. Totalmente inaccettabile la proposta di “rivedere in senso restrittivo le norme che riguardano l’imputabilità” dei minori e di modificare “il trattamento minorile per il cd ‘giovane adulto’ infra-venticinquenne” e tutte le proposte di aumento delle pene relativamente a determinati reati, in considerazione del fatto che le pene previste ad esempio per i “reati sessuali” sono già severissime, inidonee alla prevenzione di simili fenomeni, per i quali, al contrario, risultano efficaci ben altri interventi di tipo sociale, scolastico, informativo e preventivo dei quali non vi è traccia alcuna nel programma. 3. Altrettanto irrazionale e contrario ai più volte richiamati dati statistici ed esperienziali, l’intento abrogativo di tutte le riforme penitenziarie volte ad introdurre (1975) e ad incrementare (1986) l’utilizzo delle misure alternative alla detenzione in carcere (che sono modi alternativi di esecuzione delle “pene”), in base all’erroneo presupposto che “più carcere” significhi “più sicurezza”. Mentre resta provato il contrario e che cioè una cieca, inutile e costosa “carcerizzazione” implica un aumento vistoso della recidiva ed una conseguente riduzione della sicurezza per tutti i cittadini. Occorre rilevare in proposito che lo stesso intento, apparentemente positivo, di valorizzare il lavoro in carcere come “forma principale di rieducazione e reinserimento sociale della persona condannata”, nega un evidente postulato razionale della risocializzazione attuata attraverso un progressivo recupero della libertà, secondo il quale “non si può insegnare a nuotare a qualcuno restando fuori dall’acqua”. Il lavoro all’interno del carcere resta un importante strumento di riabilitazione (preso in esame dalla stessa riforma “Orlando”) solo se ben attuato e se accompagnato poi dalla fruizione di pene alternative fuori dal carcere. La barbara prospettiva “carcerocentrica” che tutto questo al contrario presume e il dichiarato intento di operare una “rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali” e di “dare attuazione ad un piano di edilizia penitenziaria che preveda la realizzazione di nuove strutture” si colloca pertanto all’interno di una filosofia della pena del tutto antiquata, ed in sé contraria allo stesso postulato costituzionale (art. 27 comma 3 Cost.). Lo stesso principio della “certezza della pena” che si pone quale garanzia per lo stesso condannato viene definitivamente declinata all’interno di una visione repressiva e del tutto antistorica di radicale rinuncia a tutti gli strumenti più moderni e razionali prodotti dalla ricerca delle scienze sociali volti ad un impiego delle risorse economiche pubbliche in modo efficiente ed efficace, rispondente di fatto alle reali aspettative dell’opinione pubblica di contrasto alla criminalità. Ulteriormente improvvido ed evidentemente segnato da una colpevole ignoranza del sistema, l’intento di rivedere le linee guida sul 41-bis al fine di “ottenere un effettivo rigore nel funzionamento del regime del “carcere duro”, immaginando di poter intensificare ed inasprire un regime che già si pone come una forma inaccettabile di “tortura di Stato” contraria a tutti i principi di umanità e di dignità della persona (art. 3 Cedu, artt. 3, 27 Cost.). In tal senso occorre esprimere altrettanta preoccupazione in ordine alla attuazione di politiche sulla immigrazione con specifico riferimento alla “individuazione di sedi di permanenza temporanea finalizzate al rimpatrio”, considerato che il numero straordinario delle persone destinate a tali “centri” (“circa 500 mila”) determinerà (al di là del proclamato intento di garanzia della “tutela dei diritti umani”) evidenti problemi di violazione dei più elementari diritti della persona inevitabilmente connessi alla concentrazione di decine di migliaia di persone all’interno di singole strutture regionali. 4. In alcun modo accettabile la proposta programmatica di elaborazione di una “severa ed incisiva legislazione anticorruzione” fondata ancora una volta anziché sulla riforma delle amministrazioni, sulla semplificazione e sulla efficientizzazione dei controlli amministrativi preventivi, sulla pura repressione penale. È oramai sperimentalmente provato come il programmato “aumento delle pene” non sortisca alcun effetto sui singoli fenomeni criminali. Si consideri peraltro come nell’ambito dei reati contro la P.A. si sono già operate reiterate riforme volte all’inasprimento delle pene, giunte oramai, sia sotto il profilo sanzionatorio che quello conseguente della prescrizione a livelli altissimi ed oggettivamente privi di proporzione. Gli ulteriori rimedi previsti (preclusione de “l’accesso a riti premiali”; “Daspo per corrotti e corruttori”) al di là dell’evidente valore propagandistico, anziché aggredire in radice il fenomeno che si vorrebbe contrastare, non possiedono alcun effettivo valore dissuasivo. Misure quali quelle dell’utilizzo dell’”agente provocatore” o dell’”agente sotto copertura” ed il ricorso ad un potenziamento delle tutele del “wistleblower” (per nessuno dei quali si definisce ulteriormente il criterio di realizzazione e di attuazione operativa) costituiscono pericolosissimi strumenti che anziché svelare il crimine ne presuppongono l’induzione e la realizzazione, ovvero introducono all’interno delle amministrazioni scenari di reciproco sospetto e di contaminazione totalmente improduttivi di risultati e disgregativi dell’intero tessuto sociale e relazionale di riferimento. Impensabile la realizzazione di interventi legislativi “in materia di intercettazioni” volti al fine di “potenziarne l’utilizzo soprattutto per i reati di corruzione”, tenuto conto di come la legislazione in materia si sia già di recente spinta oltre ogni accettabile limite di invasività dello strumento, consentendo un superamento di quelli che erano i criteri di autorizzazione delle intercettazioni in materia e la utilizzazione di incontrollabili sistemi invasivi e distruttivi della privacy (quali i “captatori informatici” o “troyan horse”) proprio in materia di reati contro la P.A. 5. Infine, anche le parti programmatiche relative alla riforma del Csm (impropriamente denominato “organo di autogoverno della magistratura”, invece che “governo autonomo”) ai rapporti fra politica e magistratura, alla geografia giudiziaria, ed al “ripristino della piena funzionalità della giustizia” che sono state poste dall’avvocatura penale al centro della propria azione associativa, vengono prospettate con una tale genericità e approssimazione da non consentire neppure una valutazione positiva, potendo trovare le problematiche indicate soluzioni sostanzialmente difformi o addirittura del tutto contrarie rispetto alle soluzioni elaborate e prospettate dall’Unione. E così, benché nel programma elettorale forze politiche contraenti si facesse esplicito riferimento alla separazione delle carriere, tra magistrati requirenti e giudicanti, il tema della terzietà del giudice è stato totalmente abbandonato, così come non è stata proposta alcuna riforma che consenta di valorizzare il dibattimento come momento centrale del procedimento e di garantire l’effettiva parità delle parti. Di converso, sia pure in termini generici, ma ugualmente preoccupanti, si è immaginato di voler incidere ancora sull’istituto della prescrizione, rendendo così il processo infinitamente lungo, dimenticando che indagati, persone offese, e la stessa società hanno diritto ad un processo che abbia durata ragionevole, in conformità ai principi costituzionali. Il contratto, sul punto, trascura ogni elemento statistico, dal quale risulta che il problema della prescrizione è determinato soprattutto da mancanza di organizzazione e di risorse, e dalla irragionevole durata delle indagini, il che finisce anche con lo snaturare il processo a tendenza accusatoria. I contenuti relativi al processo ed alla giustizia penale genericamente previsti dal Contratto sono tutti segnati da una cultura contraria alla visione liberal-democratica che ispira i moderni ordinamenti, nei quali si cerca l’equilibrio e la differenziazione dell’azione di contrasto ai fenomeni criminali, nella consapevolezza che la sanzione penale non possiede da sola alcun effetto deterrente e deve essere invece non solo proporzionata, ma sempre accompagnata da strumenti differenti che concorrano possibilmente ad eliminare in radice le cause della devianza dell’illecito. Al contrario, collocandosi fuori da una corretta moderna e condivisa impostazione, le ipotesi di riforma, nel loro complesso, comportano una ulteriore e deleteria deformazione del processo penale, trasformato da dispositivo liberale e garantito di accertamento delle responsabilità del singolo, in uno strumento di repressione e di contrasto dei fenomeni criminosi. L’approccio demagogico costituisce l’esito di un’azione propagandistica (che Ucpi denuncia da tempo) amplificata da una non sempre responsabile diffusione mediatica e che ora vede rinchiudere la prospettata azione di governo all’interno di un “vincolo cieco” di visioni autoritarie e di azioni repressive, del tutto privo di prospettive democratiche e di respiro aperto ai valori cardine della nostra Costituzione. Un approccio ideologico ed un programma che aprono inquietanti scenari di involuzione, e che l’avvocatura si impegna sin da ora a contrastare, con tutti i mezzi e con ogni forma di azione politica e associativa, in difesa delle garanzie e delle libertà di tutti i cittadini e dei valori costituzionali e convenzionali del giusto processo (art. 111 Cost.). Perché il giustizialismo grillo-leghista non significa più sicurezza di Enrico Cicchetti Il Foglio, 19 maggio 2018 Nel contratto di governo, più galera e meno misure alternative. Esattamente il contrario di ciò che le ricerche più affidabili indicano come strumenti efficaci nel contrasto alla criminalità. Già l’annunciata riforma dell’ordinamento penitenziario, aveva suscitato le polemiche di Lega e Cinque stelle. Ora che si apprestano a governare, i due partiti vincitori dell’ultima tornata elettorale tentano una sterzata giustizialista all’ordinamento penale. Nel contratto di governo firmato da Salvini e Di Maio è prevista la costruzione di nuove carceri, una “revisione o modifica” della cosiddetta “sorveglianza dinamica”, una riforma della prescrizione, l’abbassamento dell’età (non meglio specificata) di imputabilità per i minori e ancora più galera nel caso di furti, oltre all’uso sempre legittimo delle armi per difendersi. Pare evidente che uno degli obiettivi del prossimo governo sarà quello di cancellare e fermare le riforme di questi ultimi anni. Per giustificare simili provvedimenti, nel contratto si parla di certezza della pena. Ma, come scrive su Medium Carolina Antonucci, ricercatrice per Antigone - l’associazione che dal 1991 si occupa dei diritti dei detenuti - “la legalità la si rispetta, per ovvie ragioni gerarchiche, attuando prima di tutto le norme programmatiche contenute nella nostra Costituzione”, come la presunzione di innocenza, il divieto di pene che possano consistere in trattamenti inumani e degradanti e il principio della rieducazione del condannato come scopo della detenzione. Se è giusto dire che tutti devono rispettare la legge, lo stato per primo deve curarsi di attuare i mandati costituzionali. Cerchiamo di chiarire alcuni punti critici su questo tema, contenuti nel contratto del “governo del cambiamento”. Nuove carceri o misure alternative? - Nel 2013, con la sentenza Torreggiani, la Corte europea dei Diritti umani ha condannato l’Italia per aver inflitto ai detenuti “trattamenti inumani e degradanti”, soprattutto a causa del sovraffollamento delle carceri. Ma dopo i primi due anni di interventi emergenziali, i numeri sono tornati a salire. La soluzione è costruire nuove prigioni? “Storicamente non è mai stato così”, spiega Antonucci. “Nuovi spazi detentivi hanno sempre prodotto ulteriore popolazione detenuta e, parlando di efficienza e di efficacia del sistema, le misure alternative al carcere hanno un costo notevolmente inferiore e producono molta meno “criminalità di ritorno” riducendo drasticamente il grandissimo problema della recidiva”. Come ha ricordato pochi giorni fa Luigi Ferrarella sul Corriere, i risultati di tre anni di studio degli economisti Giovanni Mastrobuoni (Università di Essex) e Daniele Terlizzese (dirigente di Banca d’Italia e direttore dell’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanza), con la banca dati del ministero della Giustizia, mostrano che scontare la pena con misure alternative - che non significa assenza di pena - riduce il numero dei recidivi. “La sicurezza per i cittadini”, conclude Ferrarella, “cioè la loro aspettativa di non essere vittime di reati nuovamente commessi da ex detenuti, é più assicurata se i condannati scontano la loro pena non tutta e soltanto chiusi in cella a far niente, ma parzialmente anche in misure alternative al carcere che li avviino allo studio o lavoro”. Oltretutto, una ricerca condotta da “Centro nazionale per il volontariato” e “Fondazione volontariato e partecipazione” presentata alla Camera dei deputati nel 2014, ha stimato in più di 570mila euro al giorno (210 milioni all’anno) il risparmio per il nostro sistema penitenziario se si utilizzassero di più le misure alternative alla pena. Secondo il provveditore Luigi Pagano, la diminuzione di un solo punto percentuale della recidiva corrisponderebbe a un risparmio annuo di circa 51 milioni di euro. Fa bene Matteo Salvini a dire che “chi sbaglia paga”. Ma si cerchi di non fare pagare più del necessario anche i contribuenti e si ricordi che le misure alternative sarebbero da incentivare se si ha a cuore la sicurezza dei cittadini. Stando ai numeri, questo contratto di governo la mette invece a rischio. La sorveglianza dinamica - Il secondo punto critico riguarda la “sorveglianza dinamica”: si tratta di una modalità di esecuzione della pena istituita nel 2013 e destinata ai detenuti di media e bassa sicurezza per potenziare gli spazi dedicati alle attività dei reclusi e realizzare davvero lo scopo riabilitativo della pena. Secondo Stefano Anastasia, Garante dei detenuti di Lazio e Umbria, “in carcere non ci sono più di 10.000 persone che, per titolo di reato o per affiliazione criminale, possano essere qualificate pericolose”. In pratica, si parla dell’apertura delle celle - solo per queste categorie di detenuti - dalle 8 alle 14 ore al giorno, con la possibilità di muoversi all’interno della propria sezione e di avere spazi più ampi per le attività. La polizia penitenziaria effettua un controllo incentrato sulla conoscenza e l’osservazione dei detenuti. Ci devono naturalmente essere le condizioni giuste per applicarla, reali percorsi di reinserimento e opportunità di lavoro oltre che la massima sicurezza per le forze di polizia. Una circolare del Dap definisce la sorveglianza dinamica come “un sistema più efficace per assicurare l’ordine all’interno degli istituti” e lo stesso Marco Del Gaudio, vice capo del Dap, ha dichiarato al Dubbio che la polizia penitenziaria “non è affatto contraria, anzi spesso ha manifestato piena adesione alla sorveglianza dinamica”, sebbene questi “principi risultano applicati in maniera disomogenea sul territorio” nazionale. Ora, la proposta del nuovo governo qual è esattamente? Tornare a rinchiudere i detenuti in cella tutto il giorno? La sorveglianza dinamica è stata mutuata da altri ordinamenti europei che la prevedevano da tempo, e da norme sovranazionali e internazionali. Come ricorda Federica De Simone, professoressa di Criminologia all’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, in Finlandia questo regime serve a preparare i detenuti alla libertà: “La vita detentiva segue l’andamento della vita extra-muraria, con regolari orari di lavoro, normali salari, obblighi di pagare il corrispettivo per il vitto e l’alloggio, oltre a eventuale mantenimento per parenti all’esterno. Anche in Germania le strutture aperte a regime attenuato sono considerate un banco di prova per verificare il grado di responsabilizzazione raggiunto dal detenuto”. Minori e giovani adulti - Altro punto critico riguarda i cosiddetti “giovani adulti”, detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni, che se hanno commesso alcuni reati prima della maggiore età possono scontare la pena in un carcere minorile. “A fronte di una progressiva precocità di comportamenti criminali”, si legge nel contratto Lega-M5s, occorre eliminare “la possibilità di trattamento minorile”. Su questo punto valgano le parole di Susanna Marietti, che sul Fatto spiega come la giustizia penale minorile italiana sia “guardata come un modello cui tendere dall’intera Europa. Tra i ragazzi in messa alla prova, per fare un esempio particolarmente rilevante, la recidiva è bassissima. Cosa vogliamo dalla nostra giustizia? Che ci difenda o che ci vendichi? Ci teniamo così tanto alla vendetta anche nei confronti di ragazzini, che potremmo recuperare alla collettività e instradare verso una vita onesta mantenendo l’approccio educativo che la giustizia minorile ha adottato con successo in Italia negli ultimi trent’anni?”. Renzi e Berlusconi si muovono: “stop al giustizialismo” di Simona Musco Il Dubbio, 19 maggio 2018 “Essere garantisti è un obbligo costituzionale, anche quando va poco di moda come oggi. Noi dobbiamo combattere questa battaglia culturale. Nel nome di Enzo Tortora e di quelli come lui, massacrati mediaticamente pur non avendo commesso alcun reato. Per la giustizia, contro il giustizialismo”. Matteo Renzi sceglie i trent’anni dalla morte di Enzo Tortora per piantare la bandiera del garantismo. E non può essere un caso che il vessillo issato dall’ex premier dem sventoli nelle ore in cui Lega e 5Stelle siglano un contratto di governo decisamente poco garantista. Il rapporto tra toghe e stampa, i magistrati innamorati delle proprie tesi, anche a costo della verità, gli aspiranti eroi, che sacrificano la speranza, e una battaglia che oggi la politica rischia di rendere vana. A 30 anni dalla scomparsa di Enzo Tortora e a due da quella di Marco Pannella, il dibattito sulla giustizia giusta è tutt’altro che esaurito. Rischiando di fare un balzo indietro, come se il sacrificio del conduttore televisivo, finito in carcere per colpa di accuse infondate e infamanti, fosse stato vano. Di questi temi si è discusso ieri nella Sala degli atti parlamentari del Senato, con il dibattito “Caso Tortora. Caso Italia”, organizzato dalla Fondazione internazionale per la giustizia “Enzo Tortora” e dall’Unione delle Camere penali italiane. Un dramma personale, ha evidenziato Gianfranco Spadaccia, già segretario del Partito radicale, diventato una grande questione politica e sociale. Tante, ieri, le persone che lo hanno ricordato. A partire da Matteo Renzi, che sulla sua pagina Facebook ha rievocato la vicenda. Tortora “era divenuto - suo malgrado - il simbolo di una giustizia vergognosa. Arrestato senza prove, condannato in primo grado con una sentenza ridicola e con i giornalisti che brindavano, esposto a un linciaggio mediatico e giudiziario senza precedenti. Poi finalmente riconosciuto come totalmente estraneo, totalmente innocente. Quando, da premier, ho firmato la legge sulla responsabilità civile dei magistrati ho pensato a lui, alla sua storia. Ma sono certo che non basti una legge - scrive Renzi. Tra le tante battaglie culturali che ci aspettano - nell’Italia del 2018 - c’è anche quella per difendere la giustizia vera, dalle semplificazioni dei talk show, dei social, dei protagonismi. La giustizia non è mai giustizialismo. Non è mai show. Non è mai linciaggio mediatico. Essere garantisti è un obbligo costituzionale, anche quando va poco di moda come oggi. Noi dobbiamo combattere questa battaglia culturale. Nel nome di Enzo Tortora e di quelli come lui, massacrati mediaticamente pur non avendo commesso alcun reato. Per la giustizia, contro il giustizialismo”. Giustizia, quella richiamata dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che ricordando il debito di riconoscenza dell’Italia nei confronti di Marco Pannella, ha evidenziato la necessità di riformarla. Quanto accaduto a Tortora - questo l’allarme - potrebbe accadere di nuovo e a chiunque, specie in una società in cui la costruzione del mostro conosce strumenti nuovi e dove la presunzione d’innocenza è un diritto “non tutelato”. Complici anche i giornalisti, il cui lavoro spesso “si intreccia con quello dei magistrati”. A rappresentare la magistratura c’era Giovanni Salvi, procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, che ha sollevato dubbi sui magistrati del caso Tortora, a partire dalla capacità “di resistere alla tentazione di forzare la norma per raggiungere l’obiettivo che si ritiene giusto. È una grande tentazione del pubblico ministero”. Una vicenda emblematica anche per i rapporti con i media: giusto mettere la gente nelle condizioni di capire, ma “bisogna evitare di costruire il circuito di retribuzione reciproca. A mio parere, al momento, questo è il rischio maggiore”. Così ha messo in guardia i colleghi dalla possibilità di “ripetere degli errori”. Come ad esempio, ascoltare pentiti che, dopo anni, cambiano versione, senza chiedersi come mai o avere la pretesa di presentarsi come “cavalieri solitari”, dando un’immagine “disperante” della lotta alla criminalità. Salvi ha poi teso la mano all’avvocatura, dicendo finito il tempo delle barricate, in passato motivate anche dall’aver scambiato “la difesa dell’autonomia con la difesa dei privilegi”. Pericolo che ancora esiste, ma superabile col dialogo. Ma le responsabilità sono anche politiche. E le prospettive future tradiscono l’urgenza di rispolverare la questione giustizia per rimaneggiarla nel profondo. L’allarme lo lancia Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane, che ha criticato il contratto di governo di Lega e Cinque Stelle. “Ci sono parallelismi inquietanti con quel periodo, quando vigeva il processo accusatorio”, una prova di come il caso Tortora rappresenti, in realtà, il caso Italia. “Sono circa mille all’anno i casi accertati di ingiusta detenzione”, ha evidenziato, con una spesa di quasi 650 milioni dal 1992. Le soluzioni ci sarebbero: basterebbe applicare “il principio della presunzione di innocenza” e della raccolta della prova nel contraddittorio in dibattimento. La malattia del sistema giustizia è però un lascito di 35 anni di politica, secondo Rita Bernardini, coordinatrice della presidenza del Partito radicale, che ha ricordato la vittoria nel 1987 del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, “tradita l’anno successivo con il voto sulla legge Vassalli, pochi giorni dopo la morte di Tortora. La politica - sostiene Bernardini - ebbe paura”. Un’ignavia che oggi avrebbe condotto ad un programma di governo che preoccupa anche Gian Domenico Caiazza, avvocato, segretario della Fondazione “Enzo Tortora”, tanto da parlare di un momento anche peggiore rispetto a 30 anni fa, frutto del mancato rispetto delle regole del sistema da parte del sistema stesso. E quando accade, ha evidenziato, il risultato non può che essere una tragedia che rende debole la giustizia. “Noi vogliamo difenderne la credibilità, non parteggiamo per l’imputato contro l’accusatore - ha spiegato. Il garante che noi invochiamo è il giudice, che deve essere indifferente alle ipotesi accusatorie e difensive”. Da qui l’appello ad unire la forze con la magistratura, quella “che ha a cuore le coordinate fondamentali della Costituzione”, dato sul quale misurarsi. Stessi timori condivisi dalla senatrice Emma Bonino, che ha paventato il rischio di un “populismo penale” fatto di più pene, più manette e più carceri. “Questo ci deve portare a reagire - ha concluso. Dobbiamo aprire una stagione di resistenza” E nelle stesse ore, dalla Valle d’Aosta, arriva anche la bordata di Silvio Berlusconi che chiude l’alleanza con Salvini perché, dice, “siamo proprio nella direzione più giustizialista possibile. Ho cominciato a vedere quello che viene chiamato il contratto definitivo - ha detto - e la preoccupazione è molto forte molto profonda perché ci sono molti punti all’opposto del nostro contratto del centrodestra, a partire dalla giustizia”. Il “Governo del cambiamento” non cambierà le periferie di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 19 maggio 2018 La Commissione d’inchiesta della scorsa legislatura aveva studiato a fondo problema e soluzioni. Eppure nel contratto tra Lega e M5S sono quasi ignorate. Appena due citazioni fugaci, tra le righe, dentro le oltre cinquanta pagine del contratto. Nessun titolo né paragrafo dedicato: quasi una rimozione. C’è un dettaglio davvero paradossale nel controverso programma che Lega e Cinque Stelle hanno concordato e stanno sottoponendo al vaglio delle loro basi: la magica scomparsa delle periferie. Sì, proprio quelle aree disagiate delle nostre città dove il contrasto tra ultimi e penultimi s’è fatto quasi insostenibile negli anni più recenti; proprio quelle strade senza verde, quei quartieri senza servizi, quei palazzi senza respiro, quel popolo senza speranze che l’ultima speranza aveva riposto nel nuovo corso e dunque nel “governo del cambiamento” che a breve dovrebbe nascere. Le periferie erano la grande molla di questo cambiamento: avevano decretato il divorzio della gente dal Pd (ormai forte a Roma soltanto in centro e ai Parioli, a Napoli in via Chiaia e in pochi quartieri “chiattilli”, a Milano nelle patinate strade dei “danee” e in generale nelle ridotte della borghesia e dell’intellighenzia progressista). E si erano consegnate alla lunga ondata populista, vuoi in versione leghista vuoi in versione pentastellata, diventando infine col voto la “constituency” gialloverde. Beh, nel contratto di Salvini e Di Maio, la molla s’è inceppata. La parola “periferie” viene citata solo due volte nei trenta capitoli del documento e sempre senza la dignità di questione autonoma. Al capitolo 18, “politiche per la famiglia e natalità”, per proporne il “sostegno” (e ci mancherebbe) dopo gli asili nido per le (sole) famiglie italiane e le politiche per donne e anziani. Al capitolo 23, “sicurezza”, sesto paragrafo, “campi nomadi”, per snocciolare la notevole analisi secondo cui i campi suddetti sono, per le periferie, un “grave problema sociale”. Qua e là si coglie qualche eco del tema generale, come la citazione dei famosi 500 mila “invisibili” sparsi nelle pieghe delle nostre città o il paragrafo sulle occupazioni abusive: un nodo gigantesco di legalità e vivibilità urbana che qui viene tuttavia liquidato in una dozzina di righe assai superficiali. Nemmeno un barlume di idea organica su un passaggio decisivo per la nostra convivenza democratica da qui al futuro prossimo. Si dirà: se eliminiamo la pressione migratoria scacciando tutti i migranti e cancelliamo la povertà col reddito di cittadinanza (i due autentici capisaldi della campagna elettorale, rispettivamente di Salvini e Di Maio) la fastidiosa faccenda delle periferie sarà risolta di conseguenza. Non è così. Prima di tutto perché non sembra né breve né facilissimo rispedire al mittente mezzo milione di clandestini (bisogna trovarli, fare accordi bilaterali di rimpatrio, reperire i soldi per le missioni relative...) o rendere effettivo un sussidio collettivo di incerta copertura che presuppone una riforma propedeutica e costosa come quella dei centri per l’impiego. Ma soprattutto perché le nostre periferie erano in grave disagio già prima del grande flusso migratorio che ne ha fatto scoppiare le contraddizioni (si legga “Roma e le sue borgate” di Roberto Morassut per trovare le ragioni antiche di quelle contraddizioni, almeno nella capitale d’Italia). E patiscono, prima che la povertà, l’assoluta mancanza di servizi e infrastrutture: l’essere interstizio urbano, luogo di transizione sociale, frattura che Renzo Piano ha cercato di saldare con i suoi rammendi. Volendo, un’analisi seria era già a disposizione. Sarebbe bastato sfogliare le 600 pagine di relazione con cui la Commissione parlamentare d’inchiesta della scorsa legislatura (nella quale sedevano anche rappresentanti leghisti e grillini) ha concluso un eccellente lavoro di dodici mesi. Qualche idea? Interventi da un miliardo l’anno per i prossimi dieci anni (bruscolini in rapporto a certe cifre faraoniche d’oggi...), un’agenzia nazionale per coordinarli, una tassazione locale ad hoc, una nuova fattispecie di reato per l’occupazione abusiva col metodo del racket, la revisione del codice penale sui reati urbani, misure alternative che rendano effettiva la deterrenza. E, soprattutto, il respiro della questione urbana come questione nazionale. “Che ora quella questione sia sparita del tutto è un sintomo di dissociazione dalla realtà”, dice amaro il senatore di Forza Italia Andrea Causin, che della Commissione è stato presidente. Se la democrazia diretta ha davvero un senso, non è da escludere che il tanto invocato “popolo” suggerisca qualche correzione ai suoi distratti campioni. Terroristi e vittime: dal dolore e dalla violenza una straordinaria lezione di pace di Gabriele Balestrazzi ilcielodiparma.com, 19 maggio 2018 È come se la nostra Storia prendesse corpo, proprio con una delle sue pagine più oscure. È come trovarsi lì per davvero, nella via Fani vista e rivista nelle immagini con Frajese, le edizioni straordinarie, lo sgomento di un Paese intero…E fatichi a credere che quei due siano davvero seduti insieme a quel tavolo, proprio a pochi giorni dal quarantennale del 16 marzo e del 9 maggio di quel terribile 1978 di sangue. Già anche solo restassero lì in silenzio, sarebbe una rivoluzione. Ma oggi sono a Parma per parlare, per raccontare e raccontarsi ai ragazzi del Bertolucci, la scuola che fin dal suo ingresso sa come l’assenza possa diventare - come scrisse il poeta Attilio - più acuta presenza. L’assenza di Domenico Ricci, carabiniere della scorta trucidato sull’auto di Moro, vive nella presenza del figlio Giovanni; e la presenza di Adriana Faranda, che a via Fani era nel commando delle Brigate Rosse, è oggi l’assenza tuttora ingombrante di quella lotta armata che insanguinò l’Italia per anni. Ma prima ancora di loro, ad aprire il racconto è Giorgio Bazzega. Più giovane, più vicino ai ragazzi per età e per linguaggio. E qui una Storia meno conosciuta ci si fa subito davanti con una sequenza drammatica: il maresciallo Sergio Bazzega (padre di Giorgio che quel giorno ha appena due anni e mezzo) e il vicequestore Vittorio Padovani che vanno ad arrestare a casa il brigatista Walter Alasia. Che però è armato e colpisce Padovani: papà Bazzega ha un mitra e potrebbe sparare a sua volta, ma ha davanti a sé anche i familiari del brigatista e la raffica colpirebbe anche loro. Ha un attimo di esitazione, o meglio di umanità: e in quell’attimo Alasia uccide anche lui, prima di tentare una fuga dalla finestra che anche per lui si concluderà con la morte. Il piccolo Giorgio quel giorno non può capire. Ma quel male, quel dolore, quell’assenza violenta lo colpiranno crescendo, in una adolescenza di rabbia e di odio che non sanno dove sfogarsi e diventano aggressività, droghe, parolacce…Soprattutto diventano voglia di vendetta: e se l’assassino del padre è morto ecco allora l’idea di vendicarsi su Renato Curcio, uno dei fondatori delle BR e reclutatore di Alasia. Anni tormentati e pieni di dubbi fino all’incontro con Manlio Milani, che in quegli anni vide la moglie letteralmente scoppiare a pochi metri da lui, per la bomba vigliacca di Piazza della Loggia a Brescia. E ad un incontro pubblico Giorgio (che si appresta a parlare a sua volta per esprimere tutta la sua rabbia e la sua sete di vendetta) ascolta l’intervento di Manlio con “parole di una potenza che travolge: per me è stata la luce”. Parole senza odio e anzi con il dubbio autocritico di avere in qualche modo contribuito a quegli anni di violenza che avevano portato qualcuno dell’altra parte a quell’attentato fascista che era costato la vita alla moglie. Neppure allora il percorso per Giorgio diviene semplice. Ma intanto capisce che ciò per cui lui odia i terroristi (“avere disumanizzato la figura dei nostri genitori”) lui lo sta facendo a sua volta, senza cercare di capire quale sofferenza e quali motivazioni avessero spinto gli altri, e avesse spinto quel ragazzo di 20 anni a sparare a suo padre, ad uccidere e a morire a sua volta. Sarà ancora una lunga vita, di dolori e di malesseri per lui e per la madre. Fino al giorno in cui il destino lo porta proprio sulla strada di Renato Curcio e lui gli arriva davanti che quasi fatica a respirare ma riesce a dirgli “Sono Giorgio Bazzega: ti dice niente il mio cognome? E il nome di Walter Alasia?”. Curcio indietreggia d’istinto, sorpreso e spaventato, e Giorgio gli appoggia un braccio sulla spalla: “Tranquillo, volevo solo che tu mi guardassi in faccia…” Prima di andarsene con il cuore che batte impazzito e con le lacrime che gli scendono a fiumi forse per la prima volta nella sua vita, finché arriva a casa quasi senza accorgersene e come in trance. Ma riesce a capire che è il momento più bello della sua vita, perché finalmente può sorridere alla madre e dirle “Sono guarito”. E, forse per la prima volta, si sente finalmente degno figlio di quel padre morto per un gesto di umanità che gli era costata la vita. Per un lunghissimo momento all’Astra non vola una mosca: il silenzio più completo e più inconsueto per una assemblea studentesca, che poi si scioglie in un applauso sincero. E sarà silenzio per tutte e due le ore: sì, qualcuno una sbirciatina allo smartphone la dà, ma quasi più per abitudine, per poi tornare ad ascoltare. Sì, perché adesso tocca a Giovanni e Adriana. Tocca tornare in via Fani attraverso le due storie contrapposte. Quella di Giovanni undicenne, che dopo le ore dei singhiozzi e della casa invasa da poliziotti capirà davvero quello che è accaduto alla sera, leggendo pagina due dell’edizione straordinaria di Repubblica che qualcuno ha abbandonato sul tavolo: suo padre è lì, nella foto senza lenzuolo che mostra i sette fori di proiettile, fra la testa e le spalle. E anche per lui inizia una vita di rabbia, di diversità rispetto ai coetanei: anche quelli che a loro volta hanno perso il padre, ma per malattia o incidente stradale. Lui non ha “solo” perso il padre: lui è precipitato in un baratro di domande, di rabbia, e come per Giorgio di sete di vendetta. Ci vorranno 18 lunghissimi anni e il diventare padre a sua volta, di un figlio che porterà il nome del nonno mai visto, Domenico. Ma se un domani mio figlio incontrasse i figli dei brigatisti, si chiede un giorno Giovanni, dovranno odiarsi anche loro? E allora capisce che oltre a sè sta distruggendo tutta la sua famiglia. E si aggrappa all’amica Agnese Moro, figlia dello statista ucciso, e prende corpo quel progetto apparentemente assurdo: “Voglio incontrare chi ha ucciso mio padre”. Cosa che avviene nel gennaio 2012: c’è Valerio Morucci che materialmente sparò a suo padre, ci sono Adriana Faranda e Bonisoli. Sono i terroristi, gli assassini, ma non sono “i mostri”: Giovanni vede davanti a sé persone, consapevoli del male che hanno fatto e per questo con “ferite che sanguinavano più della mia”. Grazie a quegli incontri, dice Giovanni, “ho restaurato la vita di mio padre”. E mette i brividi sentirlo dire che “Adriana Faranda è una delle persone più splendide che ho conosciuto”. E qui arriva il momento chiave della mattinata: quello che potrebbe rovinare tutto. Perché con Giorgio e Giovanni è inevitabile solidarizzare, provare empatia e comprensione: ma Adriana Faranda era dall’altra parte. Contraria all’uccisione di Moro (uno dei due voti contrari, quando i brigatisti decisero la sorte del sequestrato), dissociata, con alle spalle il carcere ed una pena pagata: ma lei era e sarà per sempre parte del gruppo degli assassini, di quelli che le vite le tolsero, non di quelli che se le videro togliere. E allora basterebbe una frase fuori posto a mettere tutto in discussione, a originare polemiche, forse anche a spiazzare i ragazzi. Ma è subito bravissimo il giornalista Paolo Grossi a condurre anche lei sul terreno dei sentimenti lacerati, perché per entrare nella lotta armata la Faranda abbandonò la figlia di 7 anni, con la quale non deve essere poi stato facile incontrarsi e spiegare. “Erano anni terrificanti. Per me fu decisiva la strage di Piazza Fontana, perché pensai che se non era possibile contrastare il fascismo e la strategia della tensione manifestando pacificamente allora occorreva un altro tipo di lotta. Ma poi è stato impossibile spiegare a mia figlia, tanto più nel parlatorio di un carcere, che l’avevo lasciata sola perché volevo per lei un mondo migliore”. Il sequestro Moro fu decisivo a farle capire che “dalla violenza non può nascere niente: avevamo toccato il punto massimo di atrocità nel nome di un bene presunto”. Spiega di non avere cercato i familiari delle vittime perché in cerca di un perdono “che non è possibile chiedere”. “So che le nostre sono vite imparagonabili e che non potrà mai esserci una memoria condivisa. Ma possiamo condividere le nostre rispettive memorie”. E da qui Adriana Faranda arriva alla sua conclusione, con parole che sembrano davvero sincere: “Non dobbiamo cercare giustificazioni, perché la possibilità di fare scelte diverse l’avevamo. Ma non abbiamo avuto coraggio: proprio noi che parlavamo di immaginazione al potere non siamo stati fantasiosi e siamo finiti fuori strada. Questo non me lo perdono, ma spero almeno che sia utile raccontarlo ai giovani”. E alla domanda finale di un ragazzo aggiungerà: “Sono ancora una sognatrice che crede nella giustizia sociale. Ma oggi voi che avete le tecnologie potete cercare di arrivarci attraverso la possibilità di comunicare”. La chiusura della mattinata è l’applauso dei ragazzi, lungo e convinto per i tre racconti di chi si è messo così a nudo. Ma quello che resta più dentro è il silenzio di quelle due ore, come cornice a parole tanto importanti: come se quel silenzio fosse servito a tutti noi per accogliere il dolore, l’orrore per la violenza, ma anche e soprattutto la straordinaria lezione di amore e pacificazione di quelle tre persone insieme. Destini per sempre diversi e per sempre legati, oggi capaci di fondersi senza confondersi, per regalare ai ragazzi e a tutti noi il messaggio più vero e concreto su come costruire un futuro che sia davvero migliore per tutti. Uil: “Istituire il nuovo reato di omicidio sul lavoro” di Antonio Sciotto Il Manifesto, 19 maggio 2018 La proposta di Barbagallo sulla sicurezza: sanzionare gli imprenditori inadempienti. Pirani (Uiltec): puntiamo a un unico contratto in ogni azienda, no al salario minimo. Giù le tasse su stipendi e pensioni. Istituire una nuova fattispecie di reato, l’omicidio sul lavoro, con sanzioni rafforzate: la proposta viene da Carmelo Barbagallo, leader della Uil, nei giorni in cui si registrano le ennesime morti in fabbrica e nei cantieri, a partire da quella del ventottenne Angelo Fuggiano all’Ilva di Taranto. Il sindacato si avvia verso il Congresso di giugno, e intanto a Napoli all’assise della Uiltec - chimici, energia e tessile - si è confrontato con i temi messi in campo dal contratto di governo M5S-Lega: flat tax, salario minimo, reddito di cittadinanza. “Cercheremo il dialogo - ha spiegato Paolo Pirani, segretario generale della categoria - ma se sarà necessario saremo anche capaci di risposte forti”. Barbagallo ha intenzione di consultare dei giuristi per delineare una precisa formulazione del nuovo reato, e intanto, preparando lo sciopero unitario sulla sicurezza della prossima settimana, cerca una convergenza con Cgil e Cisl: “Si potrebbe lavorare sul principio della mancata osservanza delle norme sulla salute e sicurezza”, spiega. L’idea è quella di lanciare la proposta nel corso dell’Assemblea annuale di Confindustria, il 23 maggio, visto che le sanzioni colpirebbero gli imprenditori inadempienti. Ma a mettere a rischio la vita dei lavoratori è anche la precarietà, la catena di appalti e subappalti: la Uil propone di riunificare i contratti, riducendoli di numero, e di applicare il principio “nella stessa azienda lo stesso contratto”. Non deve cioè accadere che il tuo vicino di scrivania o alla linea possa essere inquadrato in modo diverso da te. È uno degli obiettivi principali indicati da Paolo Pirani, rieletto segretario Uiltec per un secondo mandato: la categoria, con i suoi 22 contratti nazionali, si rivolge a una platea di oltre 1,5 milioni di addetti. Per gli aumenti, si deve andare ben oltre la sola inflazione, spiega Pirani, tenendo conto non solo dell’Ipca, ma anche degli andamenti del Pil e settoriali. Integrando il livello nazionale con la quello territoriale e aziendale. Per la Uil è giusto qualificare il welfare integrativo, ma non deve mai diventare sostitutivo di quello pubblico, né metterlo a rischio. E anzi, “i circa 100 miliardi dei fondi pensione - attualmente per oltre il 90% investiti all’estero - dovrebbero essere molto più utilmente dedicati agli investimenti nel nostro Paese”, propone il sindacato di chimica e energia. Non dimenticando il ruolo di investitore che deve avere lo Stato, e che possono ricoprire grandi aziende a controllo pubblico come Eni ed Enel: “Puntando decisamente su ambiente e green”, suggerisce Pirani. Quanto alle proposte del nuovo, possibile governo M5S-Lega, la Uil non sostiene né il salario minimo né il reddito di cittadinanza. “Prendiamo la nuova figura del rider - spiegano Barbagallo e Pirani - è molto più utile che si lavori perché venga incluso in un contratto, che si corredi di altre tutele oltre alla sola paga”. La legge Fornero “è stata sicuramente uno scippo nei confronti dei lavoratori, e il sindacato non si è mobilitato abbastanza quando fu introdotta - ammette Pirani - Ora serve flessibilità in uscita, ma non pensiamo di finanziare una riforma tagliando gli assegni”. Infine il fisco: più che sulla flat tax, Uil e Uiltec insistono sulla necessità di abbassare le tasse su lavoro e pensioni. “Per le coperture - dice Pirani - la soluzione è davvero quella di escludere interventi sull’Iva e riflessioni serie su una patrimoniale?”. Investire insomma in altro modo i miliardi destinati a disinnescare le clausole di salvaguardia, rimodulando l’imposta sui consumi, e valutare l’opportunità di tassare le ricchezze improduttive. Il caso Tortora a 30 anni dalla morte Casellati: “Una pagina di vergogna” di Mariolina Iossa Corriere della Sera, 19 maggio 2018 La presidente del Senato ricorda la terribile vicenda del presentatore televisivo in un convegno-dibattito a palazzo Madama. Renzi: “Combattere giustizialismo ancora oggi”. Il procuratore generale di Roma Salvi: “Brucia ancora molto”. Marcucci (Pd): grazie ai Radicali che portarono avanti questa battaglia civile. “Il caso Tortora resta e resterà una pagina di vergogna della storia giudiziaria ma anche civile italiana”. La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati ha usato parole molto dure all’apertura del dibattito-convegno dal titolo “Caso Tortora Caso Italia”, organizzato a palazzo Madama a trent’anni dalla morte di Enzo Tortora, il presentatore televisivo che fu ingiustamente accusato di essere un camorrista e che dovette sopportare il carcere e un linciaggio mediatico e giudiziario di inaudita violenza. “Nulla fu lasciato al caso” - In Senato se ne è parlato venerdì mattina. La presidente ha proseguito il suo intervento sottolineando come il caso Tortora abbia “smosso, smuove e continuerà a smuovere le coscienze di tutti noi, per quello che è accaduto, ma soprattutto per come è accaduto. Nulla fu lasciato al caso. Perfino il suo arresto fu una messa in scena. Addirittura i tempi apparvero perfettamente calcolati per dare l’opportunità a tutta la stampa di poterlo immortalare mentre usciva ammanettato e trasportato poi a sirene spiegate verso il carcere”. Fu un “vero atto di barbarie sociale”, ha osservato Alberti Casellati. Il “davvero” maiuscolo di Renzi - “Trenta anni fa moriva Enzo Tortora. Grande professionista della Tv, ma anche vittima innocente di un assurdo linciaggio mediatico e giudiziario. Chi vuole davvero difendere la giustizia, deve rifiutare il giustizialismo. Bisogna dirlo anche nell’Italia del 2018. Dirlo e ridirlo”. Queste sono state le parole dell’ex premier e presidente dimissionario del Pd Matteo Renzi. “Una vicenda che brucia molto” - “La vicenda di Enzo Tortora brucia molto. Fu un’esperienza fondamentale e molto venne fatto a seguito di quella vicenda come per esempio la gestione dei collaboratori di giustizia”. Lo ha detto il Procuratore generale di Roma Giovanni Salvi intervenendo al convegno in Senato “Come magistratura - ha aggiunto - abbiamo guadagnato molto a livello professionale ma l’ansia di rispondere all’opinione pubblica è rimasta molto forte e questo è un rischio”. Anche Bonino al convengo, il ruolo dei Radicali - “Enzo Tortora è stato un grande mattatore della TV, perseguitato dai giudici, braccato dai media. Era un uomo onesto, un galantuomo, stritolato da un meccanismo folle”. Lo scrive sulla sua pagina Facebook il capogruppo del Pd a Palazzo Madama Andrea Marcucci che sottolinea: “Ricordarlo a trent’anni dalla sua morte, vuol dire continuare a battersi contro il giustizialismo e dire ancora una volta grazie a Marco Pannella ed al Partito Radicale che fecero allora quella battaglia a viso aperto”. Pescara: pescarese di 40 anni si uccide in carcere, scoperto dopo ore Il Centro, 19 maggio 2018 La morte risalirebbe a ieri notte, ma i due compagni che erano in cella con lui non se ne sono resi conto neanche ieri mattina. Perché M.R., 40 anni, di Pescara, era ancora seduto, trattenuto dal laccio legato alle grate della finestra. La tragedia è stata scoperta dagli agenti penitenziari ieri mattina quando, pochi minuti dopo le 8 è stato chiamato immediatamente il 118. Ma niente, purtroppo, si è potuto fare per salvare la vita del 40enne che, come raccontano le cronache degli ultimi mesi, era entrato in carcere a gennaio dell’anno scorso dovendo scontare un cumulo di pena di 3 anni e mezzo per reati contro il patrimonio commessi tra il 2011 e il 2014. Un tempo dunque non lungo che farebbe escludere problemi legati alla detenzione. Secondo una prima ricostruzione l’uomo avrebbe risentito della solitudine per il distacco dalla famiglia a cui era molto legato. Di qui il gesto estremo che ha chiuso il capitolo di una vita sempre in salita, anche emotivamente. Un dramma umano, prima ancora che l’ennesimo suicidio nelle carceri italiane. E mentre la Procura aprirà comunque un fascicolo sul caso e quasi certamente disporrà l’autopsia per chiarire cause e modalità di questa morte, la tragedia riapre il problema annoso delle carceri sovraffollate e della carenza di personale penitenziario. Lo dice a chiare lettere Mauro Nardella, segretario confederale della Uil Adriatica Gran Sasso: “Da sempre denuncio il fatto che non c’è attenzione nei confronti dell’organico di polizia penitenziaria e questo riduce fortemente quello che potrebbe essere fatto anche per la sorveglianza. Attualmente il numero di agenti presenti non permette a nessuno di evitare che una cosa del genere possa ripetersi, ma se avessimo più personale si potrebbe garantire più sorveglianza e più osservazione nei confronti dei detenuti, evitando così tragedie come questa. Per noi ogni suicidio di un detenuto è una sconfitta, perché il nostro ruolo è proprio quello di recuperare il soggetto e di restituirlo alla società. Per questo lo Stato deve investire di più affinché l’articolo 27 della Costituzione sia rispettato in tutto il suo costrutto. Non si può fare un risparmio di spesa”, conclude il sindacalista, “sull’arruolamento di nuove persone, perché quanti più agenti ci sono, quanta più osservazione si fa, potendo offrire anche più conforto ai detenuti. Nel caso specifico, da quello che sembra emergere, sembra proprio che sia mancato il supporto psicologico che avrebbe potuto aiutarlo”. “Il sistema carcerario è un Far west”, interviene il segretario generale del sindacato di Polizia penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo. “In due anni abbiamo registrato il 700 per cento in più di eventi critici, intendendo con questo episodi come risse tra detenuti o detenuti che picchiano poliziotti. Gli agenti di Polizia penitenziaria sono tra le vittime di un sistema giustizia che, a mio parere, non funziona”. Quanto al carcere di Pescara, Di Giacomo osserva che i detenuti sono il 30 per cento in più rispetto alla capienza della struttura”. Cagliari: giovane detenuto muore in ospedale dopo il tentativo di suicidio in carcere Ristretti Orizzonti, 19 maggio 2018 “Dolore e sgomento per la scomparsa di un giovane detenuto che nella notte tra domenica e lunedì aveva tentato di togliersi la vita impiccandosi nella cella dove era ristretto. Il giovane di nazionalità algerina era ricoverato in Rianimazione dopo il tentativo di salvargli la vita messo in atto dagli Agenti e dai Medici della Casa Circondariale di Cagliari-Uta”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando “la necessità di un progetto multidisciplinare per prevenire i suicidi dentro le strutture penitenziarie “. “La perdita di una vita dentro un Istituto di Pena - osserva - non può lasciare indifferenti. È una dolorosa sconfitta per tutti. Le parole sono inutili quando è evidente che a dominare è stata una fragilità senza speranza”. Sassari: potrà vedere la mamma 92enne, a Gallico manca solo il sì del Dap di Valentina Stella Il Dubbio, 19 maggio 2018 Il tribunale di sorveglianza di Sassari ha confermato il permesso di necessità ex art. 30. L’1 marzo, da queste pagine, il direttore Sansonetti diceva “grazie” a un magistrato di sorveglianza di Sassari che aveva concesso lo scorso 12 febbraio a un detenuto al 41 bis dal 1990 il permesso - di necessità ex art. 30 dell’ordinamento penitenziario - della durata di un’ora per visitare la mamma, molto anziana e in cattive condizioni di salute. La motivazione del permesso, arrivato dopo tre mesi dalla richiesta del novembre 2017, era semplice: negarlo avrebbe reso inumana la pena. La decisione però aveva suscitato molto clamore, in quanto il detenuto è stato condannato per reati di mafia molto gravi, anche omicidi. Il recluso si chiama Domenico Gallico ed è considerato uno dei principali boss della ‘ndrangheta calabrese a Palmi. È stato condannato 7 volte all’ergastolo. La mamma ha 92 anni, e anche lei è stata condannata all’ergastolo per mafia. Il 17 febbraio Domenico Gallico parla al telefono con suo fratello Carmelo che vive a Palmi, Calabria, per comunicargli la “lieta notizia”. A questo punto accadono due cose: il 2 marzo il Corriere della Sera pubblica stralci della telefonata e il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci investendo la Procura della Repubblica di Sassari chiede che il permesso venga ri- tirato perché dalle parole scambiate dai fratelli si sarebbe dedotto un tentativo di fuga o la possibilità di compiere azioni eclatanti. Sul primo punto Domenico Gallico ha preparato una querela per la fuga di notizie sia in merito al permesso concessogli e non ancora attuato sia per il contenuto della conversazione che come ci spiega il suo avvocato Maria Teresa Pintus “è, anzi dovrebbe essere, coperto dalla massima riservatezza”. Quando le chiediamo da dove sia partita la soffiata ci dice che le ipotesi sono varie: “il carcere di Sassari, quello di Palmi, la Dda di Reggio, le Procure interessate o addirittura il Dap”. Anche Carmelo Gallico, che ha scontato una condanna per associazione mafiosa risalente agli anni 90, definitivamente assolto in altri procedimenti a suo carico e risarcito con oltre 14mila euro dal ministero della Giustizia per “detenzione contraria alla dignità”, presenterà a breve una querela per diffamazione contro il Corriere della Sera e qualsiasi testata racconti fatti che non corrispondono al vero: “Il giornale ha estrapolato frasi dal contesto - racconta al Dubbio. E poi come può progettarsi una fuga in 10 minuti di telefonata durante i quali sapevamo di essere registrati, essendo a noi ben nota la regola vigente al 41 bis che dispone la registrazione delle telefonate dei detenuti con i familiari? Rivendico il diritto e la libertà di vivere dove voglio e di amare chi voglio, anche quella famiglia di cui porto il nome, un nome che è stato una condanna ma che non deve essere e non può essere un limite al mio diritto e alla mia libertà se vivo nel rispetto delle regole sociali e della legalità”. Il Tribunale di Sorveglianza intanto il 12 marzo, con una nota che definisce di semplice “correttezza istituzionale” in quanto il reclamo non era giunto nei tempi stabiliti, conferma il provvedimento a favore del permesso sostenendo che “i profili di notevole pericolosità del detenuto erano stati ampiamente esaminati nell’originario provvedimento ed avevano difatti imposto di calibrare il permesso in termini particolarmente rigidi” e che “l’ascolto integrale della conversazione telefonica consentiva di escludere l’ipotesi di accordo al fine di perpetrare una fuga o comunque azioni che ponessero in pericolo la sicurezza della scorta o di altri”. A questa decisione si oppone nuovamente la Procura della Repubblica di Sassari sostenendo che l’interpretazione del magistrato di sorveglianza era “solo una tra le possibili in esito all’ascolto integrale” e che intanto il Gallico è stato raggiunto da un’altra condanna all’ergastolo. Il 22 marzo il collegio del Tribunale di Sorveglianza di Sassari rigetta il ricorso e conferma il permesso. La storia non termina qui perché arriva il ricorso per Cassazione da parte della Procura generale presso la Corte di Appello di Sassari sia per questioni procedurali sia per sopraggiunte “conseguenze irreparabili derivanti all’esecuzione del permesso”. La Cassazione ancora non si è pronunciata ma intanto il 22 aprile il Tribunale di Sorveglianza di Sassari rigetta la richiesta di sospensione dell’ordinanza e conferma il permesso, adducendo le precedenti motivazioni. Nonostante questo ad oggi Domenico Gallico non ha ricevuto notizie in merito all’esecuzione del permesso perché l’amministrazione penitenziaria di Sassari ha comunicato ufficialmente all’avvocato Pintus di aver investito della questione gli “Uffici Superiori del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in quanto competenti per materia”. Abbiamo interpellato al Dap il dottor Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento, già sostituto procuratore Dda di Palermo: “Il permesso sarà eseguito in ossequio al deliberato della magistratura di sorveglianza quando le condizioni di sicurezza saranno certificate dagli organi competenti. Dall’altra parte il permesso è stato concesso a un detenuto la cui straordinaria pericolosità ha dimostrato quando ha brutalmente aggredito un magistrato al quale strumentalmente aveva chiesto di essere interrogato. È responsabilità dell’amministrazione penitenziaria e degli organi competenti garantire ogni forma di sicurezza”. La questione ora è nelle mani del Dap. Attendiamo gli sviluppi. Napoli: i detenuti studiano da barman e chef Il Roma, 19 maggio 2018 La direzione dell’Istituto penitenziario di Secondigliano, con il patrocinio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, ha sottoscritto con l’AdIM s.r.l. - ente di formazione professionale accreditato presso la Regione Campania che tra le finalità ha quella di implementare attività di formazione in favore di soggetti deboli con l’obiettivo dell’inserimento lavorativo degli stessi- due convenzioni per la realizzazione di altrettanti corsi di formazione (operatore di servizio bar e cuoco) destinati a detenuti appartenenti al circuito detentivo dell’Alta sicurezza. Sabato 19 maggio si terrà presso l’Istituto penitenziario di Secondigliano, alle ore 11, la cerimonia di consegna degli attestati di qualifica regionali ai detenuti discenti, che sarà preceduta da una conferenza di presentazione cui parteciperanno, oltre alla Direttrice del carcere di Secondigliano, l’Assessore alla Formazione Professionale della Regione Campania Chiara Marciani e il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello. Trieste: incontro con lo scrittore Leandro Lucchetti presso la Casa Circondariale Ristretti Orizzonti, 19 maggio 2018 Il 19 maggio 2018 ad ore 10.00 Leandro Lucchetti presenterà il libro “Bora Scura” presso la Casa Circondariale di Trieste a favore delle persone private della libertà alla presenza - anche - di un gruppo di persone provenienti dalla libertà. L’evento s’inserisce nel ciclo d’incontri letterari organizzati dal Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti di Trieste - Elisabetta Burla. “Bora Scura” - un romanzo storico che attraverso il racconto della vita e delle esperienze di personaggi “principali” racconta la complessa questione del fronte orientale dal 1920 al 1954. La storia che si snoda tra il Montenegro, la Serbia, la Croazia, la Slovenia, l’Istria, Trieste, il Friuli e la Carnia, racconta dei capovolgimenti di fronte: il fascismo, il nazifascismo, la resistenza, i partigiani, l’arrivo dei Cosacchi, le foibe, la furia umana e la vita che nonostante tutto scorre, con la sua violenza incomprensibile e con la sua quotidianità. Le divisioni familiari, l’appartenenza a diverse ideologie, lo scoprire che da un lato e dall’altro nessuno è diverso, ma la guerra richiede solo di saper combattere, di vincere per non essere vinto, di uccidere per non essere ucciso. Azioni incomprensibili, umanità perduta. Ma quando ci si trova uno di fronte all’altro quali sono le differenze? Un romanzo documentario, frutto di ricerche, che racconta un periodo storico di queste terre, un periodo difficile che ancora oggi non si riesce ad affrontare con la dovuta obbiettività. Il Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste, Elisabetta Burla “La prima meta”. Abbattere i muri del carcere con un calcio alla palla ovale di Andrea Massidda La Nuova Sardegna, 19 maggio 2018 Il coach Max Zancuoghi racconta la storia del Giallo Dozza, squadra di detenuti. La vicenda ha ispirato il film “La prima meta”, che sarà proiettato ad Alghero. Se per Oscar Wilde il rugby era “il modo migliore per tenere trenta energumeni lontani dal centro della città”, e per l’attore Marco Paolini, come ripete in un suo spettacolo, è invece uno sport da gentlemen, “perché prima di tirare il pallone indietro al tuo compagno tu devi controllare che lui stia bene, che sia ben disposto, aperto e disponibile ad affrontare due bestioni che gli fanno del male”, per Massimiliano Zancuoghi - da un anno allenatore dell’Amatori Alghero, promozione in Serie A appena sfiorata - un calcio a una palla ovale può abbattere le mura di un carcere. Almeno metaforicamente. Max ne è così convinto che quando cinque anni fa, a Bologna, gli proposero di allenare una squadra di circa quaranta detenuti di nazionalità diverse (italiani e stranieri con pene da quattro anni all’ergastolo) non ha esitato un attimo a dire “sì, eccomi qua”. Ne è nata inizialmente una meravigliosa esperienza di vita e inclusione sociale, e in seguito anche un documentario dal titolo “La prima meta”, diretto da Enza Negroni. Lo stesso film che, grazie alla Società Umanitaria e alla principale squadra di rugby di Alghero, mercoledì prossimo sarà proiettato al cinema Miramare dalle 19.30. La storia del “Giallo Dozza” - formazione che milita nel campionato di C2 giocando ovviamente tutte le partite in casa - colpisce già dal nome della squadra. “Dozza - racconta Max Zancuoghi - sta per carcere della Dozza, cioè il penitenziario di Bologna, mentre il colore sociale è stato scelto per un motivo preciso: nel rugby se l’arbitro ti mostra il cartellino giallo significa che hai commesso una scorrettezza e devi star fuori per dieci minuti. Ma, attenzione, poi però rientri in campo senza alcuna penalità. È esattamente quello che vogliamo che succeda ai nostri giocatori detenuti, che invece di scontare dieci minuti di squalifica, magari prima di rientrare in gioco devono attendere dieci anni”. Nessuno, prima di entrare a far parte del “Giallo Dozza”, aveva mai giocato a rugby. Di più: i detenuti selezionati non si conoscevano tra loro, ma hanno presto imparato a stare insieme. Nel docufilm come nella realtà, il duro allenamento e le partite del campionato si alternano ai ritmi lenti della vita in cella trascorsi nell’attesa di scendere in campo. “Allenare questa squadra - continua Zancuoghi - mi ha dato grande soddisfazione sin dall’inizio. Non abbiamo cominciato da zero, ma da meno dieci, nel senso che prima delle questioni sportive c’erano da affrontare tutte quelle ambientali e sociali. Il “Giallo Dozza” non è una squadra come le altre, e non solo perché nessuno conosceva il rugby, ma anche perché ognuno dei miei giocatori aveva storie difficili e dolorose sulle spalle. Prima di fare la prima partita vera - continua Max - ci siamo allenati mentalmente e fisicamente per tre mesi. E agli esordi i match finivano con una nostra sconfitta per 150-0. Può far sorridere, ma giuro che è così. Poi però, ed è questo l’aspetto straordinario, pian piano i ragazzi si sono dati una disciplina, ci hanno messo un grandissimo impegno e dopo appena un anno ci siamo piazzati al quinto posto”. Lezioni di vita fondamentali. “Credo che inatnto abbiano imparato che il lavoro paga sempre, il rispetto per tutti, compreso per la polizia penitaziaria, ma in particolare che la meta più importante è fare squadra, perché da soli si è destinati a perdere”. Anche Max, tuttavia, dice di aver imparato molto. “Per accettare un impegno come questo - svela - devi veramente toglierti da dosso ogni pregiudizio sul carcere e su chi ne è ospite. Ho visto con i miei occhi quanto è duro stare dietro le sbarre, capisci che non certo una bella vita e che non vale mai la pena di finire dentro”. E l’idea di un documentario? “All’epoca allenavo anche una formazione del Bologna 1928, la società di rugby più antica d’Italia, e tra i miei ragazzi c’era il figlio di una produttrice cinematografica. le parlai del progetto in carcere e lei ne parlo con la regista Enza Negroni”. “È’ un film commovente e poetico - dice Alessandra Sento, direttrice dell’Umanitaria di Alghero- che racconta senza patetismi e retorica come un gruppo di uomini ritrova la propria dignità”. Migranti. Il “contratto” M5S-Lega è disumano e fallimentare di Liana Vita Il Manifesto, 19 maggio 2018 A leggere il capitolo dedicato all’immigrazione nel “contratto per il governo del cambiamento”, si ha l’impressione che al “clandestino”, da anni bersaglio della propaganda leghista sull’invasione, si sia aggiunto un secondo target, il richiedente asilo. Tutto l’impianto di proposte sembra reggere sull’assunto che il nostro paese, in attesa di superare il regolamento di Dublino, possa permettersi di accogliere chi fa richiesta di protezione solo compatibilmente con gli interessi di sicurezza e ordine pubblico da un lato, e di sostenibilità economica dall’altro. Non una parola sull’integrazione, sull’inclusione lavorativa, sulle buone prassi del sistema Sprar da replicare. La parola accoglienza è associata a business e criminalità. E non mancano punte discriminatorie, come l’esclusione delle famiglie straniere dalle misure di welfare. Via libera, quindi, a enunciazioni piuttosto vaghe e temerarie per fermare il flusso di profughi alla partenza: non c’è il tanto evocato blocco navale - che avrebbe ricevuto la condanna in sede europea per violazione palese del principio di non respingimento - ma si ipotizza che “la valutazione dell’ammissibilità delle domande di protezione internazionale deve avvenire nei Paesi di origine”, scavalcando la motivazione fondante del diritto d’asilo, nato per quanti sono costretti a lasciare il proprio paese perché in pericolo. Vengono poi previsti una serie di interventi sulla scia della strategia europea di esternalizzazione del diritto di asilo, già contenute nella proposta di riforma del regolamento in merito della Commissione europea: procedure accelerate, anche alla frontiera, e individuazione di paesi terzi “sicuri” a cui rimandare e affidare chi è bisognoso di protezione. Per i richiedenti già presenti in Italia, nell’ambito di un più generale impulso securitario e repressivo, è prevista l’introduzione di “specifiche fattispecie di reato che comportino, qualora commessi da richiedenti asilo, il loro immediato allontanamento”. E anche per quanti non ottengano alcuna forma di protezione, espulsioni e rimpatri a tutto spiano, da finanziare sottraendo risorse all’accoglienza. Centinaia di migliaia di persone irregolari - la stima è di 500mila - di cui però solo una parte sono richiedenti asilo giunti negli ultimi anni e poi diniegati. Il resto sono spesso stranieri residenti in Italia da molti anni, magari con famiglia, che hanno avuto difficoltà a rinnovare il permesso di soggiorno perché i criteri sono troppo rigidi e lavorano in nero. Come le badanti o i braccianti agricoli nel territorio pontino e nelle campagne del Nord. Come è noto da tempo, è questa la popolazione che riempie i Cie, ora Cpr, dalla loro istituzione. Sui centri di permanenza di rimpatrio punta il futuro governo, portando a estreme conseguenze quanto avviato dal precedente e prevedendo la costruzione di un centro in ogni regione, con capienza “sufficiente per tutti gli immigrati irregolari, presenti e rintracciati sul territorio nazionale”, si legge, e quindi incalcolabile. E andando a modificare il tempo massimo di trattenimento da tre a diciotto mesi, nella convinzione - negli anni già dimostratasi errata - che sia la lunghezza della detenzione a favorire il buon esito delle procedure di rimpatrio. Peccato che i dati del ministero dell’Interno confermino l’inefficacia dell’intero sistema: negli anni, la media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute continua a essere costante intorno al 50%, a prescindere dal numero delle strutture e dai tempi di trattenimento, già portati a 18 mesi nel 2011 senza nessun risultato rilevante in termini di efficacia. Fanno bene le associazioni Asgi, Caritas e Arci a preoccuparsi. E fa bene il deputato radicale Riccardo Magi a dire che sembra di essere tornati indietro nel tempo. Dalla nostalgia per gli anni pre Maastricht al fallimentare approccio securitario sull’immigrazione, come se non l’avessimo già sperimentato. Consiglio Diritti Umani: subito inchiesta su strage a Gaza di Michele Giorgio Il Manifesto, 19 maggio 2018 La risoluzione, contro la quale hanno votato solo Usa e Australia, è stata respinta da Israele. Anche l’Organizzazione della conferenza islamica condanna Washington e Tel Aviv. Ieri proteste meno intense al venerdì della Marcia del Ritorno, forse per una intesa tra Hamas ed Egitto. Il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ieri ha dato via libera a una commissione d’inchiesta chiamata ad indagare sulle uccisioni di oltre cento palestinesi compiute dal 30 marzo dall’esercito israeliano sulle linee tra Gaza e Israele e sulle violazioni dei diritti umani nei Territori occupati. Ad approvarla sono stati 29 dei 47 Paesi membri. Scontato il voto contrario degli Stati uniti così come quello dell’Australia uno dei Paesi più allineati alla politica di Washington in Medio oriente. Quattordici le astensioni, due Paesi erano assenti al momento del voto. Rabbiosa la reazione di Israele. “Nulla di nuovo sotto il sole. L’organismo che si autodefinisce Consiglio dei diritti umani ha di nuovo dato prova di sé come organizzazione ipocrita e deplorevole il cui unico obiettivo è attaccare Israele e sostenere il terrorismo”, ha commentato Benyamin Netanyahu. Il voto è giunto mentre alcune migliaia di palestinesi hanno di nuovo raggiunto le linee di demarcazione con Israele per il “Venerdì dei martiri” della Grande Marcia del Ritorno. Le proteste sono state meno intense e partecipate del solito, in ogni caso ieri sera si parlava di alcune decine di palestinesi feriti dai proiettili e dai lacrimogeni sparati dai soldati israeliani. È dura l’accusa lanciata ieri dall’Alto commissario per i diritti umani, Zeid Raad al Hussein, in apertura della sessione del Consiglio. Israele ha “ingabbiato 1,9 milioni di abitanti nella Striscia di Gaza in una baraccopoli tossica dalla nascita alla morte”, ha denunciato. L’inviata israeliana a Ginevra, Aviva Raz Shechter, ha replicato accusando i Paesi membri di voler “potenziare Hamas e premiare la sua strategia terroristica”. Secondo la diplomatica, Israele avrebbe addirittura fatto “uno sforzo reale per evitare le vittime tra i civili palestinesi”. Due giorni fa il ministro della difesa Lieberman, anticipando il voto a Ginevra, aveva chiesto l’uscita del suo Paese dal Consiglio Onu - dimenticando che Israele non ne fa parte - e sollecitato gli Stati uniti a fare altrettanto, come è avvenuto con l’Unesco. Una condanna esplicita di Israele e Usa, per i morti di Gaza e per il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, è stata pronunciata anche a Istanbul dove ieri si è svolta una riunione straordinaria dei 57 Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci) convocata dal presidente turco Erdogan che nel suo discorso ha detto che “Gerusalemme non può essere lasciata nelle mani sporche di sangue dello Stato terrorista di Israele”. L’Oci ed Erdogan, almeno nei toni, sono stati più duri della Lega araba che due giorni fa al Cairo ha condannato la decisione degli Usa di spostare l’ambasciata a Gerusalemme ma non ha accolto la richiesta palestinese per il richiamo in patria degli ambasciatori arabi a Washington. I limitati “successi” diplomatici ottenuti dai palestinesi non bloccano la Marcia del Ritorno. Si fanno però insistenti le voci di un accordo non scritto tra Hamas e l’Egitto per affievolire le proteste lungo le barriere con Israele, malgrado il leader del movimento islamico, Ismail Haniyeh, abbia smentito qualsiasi intesa con il Cairo e promesso che le manifestazioni continueranno. “Andremo tutti, e io prima di voi, al confine di Gaza. Le marce non si fermeranno sino a quando l’assedio non sarà completamente rimosso”, ha proclamato ieri durante un sermone. Gli abitanti di Gaza comunque hanno compreso che l’improvvisa generosità del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, che terrà aperto per tutto il mese del Ramadan il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto - l’anno scorso in totale è rimasto aperto solo per 35 giorni - è una contropartita per l’ammorbidimento delle proteste. Ne scriveva ieri anche il sempre ben informato giornale libanese al Akhbar, secondo il quale l’accordo prevede il divieto di sfondare la barriera di separazione e di azioni armate, in cambio di aiuti umanitari. Hamas, aggiungeva al Akhbar, avrebbe accettato di far partecipare alle manifestazioni un numero minore di persone e di diminuire i punti di maggior frizione con i soldati israeliani. L’Egitto da parte sua si impegnerà per ottenere uno scambio di prigionieri tra Israele e Hamas. Stati Uniti. Il Messico protesta con Trump: “I migranti non sono animali” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 maggio 2018 Il governo messicano ha consegnato alle autorità statunitensi una protesta formale contro Il presidente Donald Trump che ha definito “animali” alcuni dei migranti che attraversano la frontiera. “Le parole del presidente statunitense sono assolutamente inaccettabili, dal momento che creano un clima ostile per i messicani che si trovano nel paese, indipendentemente dalla loro situazione migratoria”, recita la lettera consegnata dal ministero degli Esteri messicano a Washington. Nel documento, ripreso dai media messicani, si sottolinea come la parole di Trump siano contrarie al rispetto dei diritti umani e “violino il principio di responsabilità condivisa che deve reggere la relazione bilaterale”. Nel corso di un evento tenuto in California, il presidente Trump era tornato a toccare il tema migratorio rilanciando le polemiche sulle leggi che normano i flussi e sulla pericolosità delle persone in movimento. I migranti che gli Stati Uniti stanno “espellendo in quantità senza precedenti”, “non sono persone, sono animali”, aveva detto The Donald tornando a denunciare le leggi migratorie della California, “le più stupide del mondo”: per “colpa della loro debolezza”, i migranti “entrano facilmente, li prendiamo, li liberiamo, li torniamo e prendere e li liberiamo un’altra volta. È da matti”. Parole che il governatore californiano, il democratico Jerry Brown, aveva rimandato al mittente definendole “bugie”. Arabia Saudita. Arrestate cinque attiviste: si battevano per il diritto delle donne di guidare di Francesca Caferri La Repubblica, 19 maggio 2018 Fra poco più di un mese la storica voluta dal principe ereditario che abolirà il divieto per le donne di mettersi al volante. Ma il blitz getta ombre sulla reale volontà di metterla in pratica. Con una mossa a sorpresa l’Arabia Saudita ha messo a tacere alcune delle più importanti voci critiche del regno. Almeno cinque attiviste per i diritti delle donne sono state prelevate fra mercoledì e giovedì dalle loro case e portate in carcere. Fra di loro ci sono le principali animatrici della campagna per il diritto alla guida delle donne e per l’abolizione del sistema del guardiano, che obbliga le saudite ad avere il permesso scritto del padre, del fratello, del marito o di un parente per lavorare, viaggiare, gestire affari. La mossa arriva a poco più di un mese dalla data stabilita dal governo per mettere fine al divieto di guida per le donne, unico al mondo. Dal 24 giugno le saudite potranno finalmente mettersi al volante e il fatto che a essere arrestate siano quelle che per anni hanno combattuto per questa svolta dimostra tutti i limiti delle riforme di Mohammed Bin Salman, il principe ereditario che di fatto guida il Paese per volontà del padre, re Salman, ed è il fautore delle aperture che in pochi anni stanno cambiando il volto del Paese più conservatore del mondo. Già mesi fa, quando venne dato l’annuncio della fine del bando le tre più importanti attiviste fermate in queste ore, Loujan Al Hatloun, Eman al Najaf e Aziza Yousef, erano state minacciate. Telefonate arrivate prima della diffusione della notizia da parte del ministero dell’Interno le avevano messe in guardia dal parlare con la stampa straniera: il merito della svolta andava ascritto al governo e non alle attiviste. I contatti che avevano mantenuto aperti con il mondo esterno, seppur in forma anonima, potrebbero aver segnato la loro sorte. Secondo fonti saudite, le tre donne sarebbero state accusate di tradimento e di aver cospirato per dividere il Paese. Un’accusa gravissima, che può portare a anni di carcere e che al momento non trova conferme ufficiali. Le autorità saudite hanno diffuso un comunicato in cui parlano dell’arresto di sette persone per tradimento, ma non fanno i nomi di chi è coinvolto. Due anni fa Loujan al Hatloun ha passato più di 70 giorni in carcere per aver guidato la sua auto dagli Emirati Arabi Uniti al confine saudita. Eman Al Najaf, insegnante, è stata per anni l’animatrice di Saudiwoman, un blog che raccontava al mondo l’Arabia Saudita: negli ultimi mesi era quasi scomparsa dai social network dopo ripetuti avvertimenti da parte delle autorità. Aziza Yousef è una delle voci più critiche dell’universo femminile saudita: imprenditrice, aveva visto revocata la licenza commerciale qualche anno fa a suo parere proprio a causa dell’attività politica. La retata delle attiviste segue quella di 200 fra funzionari e principi voluta a novembre da MBS: accusati di corruzione, dopo mesi di detenzione erano stati costretti a cedere più di 100 milioni di dollari in totale per tornare liberi. Prima ancora nel mirino del principe erano finiti dissidenti liberali e islamisti: anche in questo caso centinaia di persone erano state arrestate a settembre. La maggior parte sono ancora in carcere.