Giustizia, il populismo penale diventa patto per il governo di Eleonora Martini Il Manifesto, 18 maggio 2018 Aumento delle pene per tutti, nuove carceri e via libera ai pistoleri nel “contratto” tra Lega e M5S. Il populismo giustizialista è sicuramente uno di quei terreni su cui meglio si incontrano M5S e Lega. E la bozza di “contratto” che dovrebbe sancire l’accordo tra le due forze politiche per la nascita di un nuovo governo lo dimostra. Anche se nelle tre pagine che compongono il capitolo “Giustizia” poco rimane delle “riforme” “votate in rete” che i pentastellati avevano inserito nel programma di governo pre-elettorale, dichiarando di voler combattere un sistema “debole con i forti e forte con i deboli”. Più spazio guadagna invece il concetto di sicurezza da pistoleri sponsorizzato dal Carroccio. Al primo punto c’è quel chiodo fisso dei grillini definito “separazione dei poteri”, tra magistratura e parlamento, che nel contratto giallo-verde si concretizza in una revisione del sistema di elezione dei membri laici e togati del Csm, e nell’avvertimento al “magistrato che vorrà intraprendere una carriera politica” che, “una volta eletto, non potrà tornare a vestire la toga”. Mentre dell’intervento per ridurre la prescrizione, diritto sancito in tutti i Paesi civili ma che nella vulgata a 5S “aiuta delinquenti e corrotti a sfuggire alle pene”, nella bozza negoziale rimane appena un passaggio (e forse qui c’è lo zampino di Berlusconi) che affianca la promessa di “assunzioni nel comparto giustizia”, nell’obiettivo di “ottenere un processo giusto e tempestivo”. Resta invece ben evidenziato il supporto al “whistleblowing” come strumento di lotta alla corruzione, introdotto dalla legge Severino ma di difficile applicazione. Il M5S infatti è da sempre convinto che occorra agevolare la segnalazione, in cambio di un premio, di un illecito all’interno dell’azienda da parte dei lavoratori, così come l’introduzione della figura dell’”agente sotto copertura” o addirittura dell’”agente provocatore”, al fine di “favorire l’emersione dei fenomeni corruttivi nella Pa”. Nella stessa ottica il patto prevede di potenziare l’uso delle intercettazioni “soprattutto per i reati di corruzione”. Porta l’inconfondibile imprinting leghista invece il capitolo riguardante l’”area penale”. A cominciare dalla “legittima difesa domiciliare” estesa eliminando dalla legge qualunque riferimento alla “proporzionalità tra difesa e offesa” che costituisce, secondo i due contraenti, “elementi di incertezza” che “pregiudicano la piena tutela della persona che ha subito un’intrusione” a casa o nel posto di lavoro. Per rendere poi “certa la pena”, il governo nascente si prepara ad abrogare tutte le riforme varate negli ultimi anni, frutto di un lungo e serio lavoro, come la depenalizzazione dei reati bagatellari e “l’estinzione del reato per condotte riparatorie anche in assenza del consenso della vittima”. Più pene per tutti, insomma. In modo da soddisfare chi è particolarmente sensibile ai reati di furto, definiti “particolarmente odiosi”, e chi gradisce inasprimenti e nuove aggravanti per la violenza sessuale. Da rivedere “in senso restrittivo” anche le norme che riguardano “l’imputabilità, la determinazione e l’esecuzione della pena per il minorenne”. E, naturalmente, per combattere il sovraffollamento carcerario basta costruirne di nuove. E siamo tornati al punto di partenza. Giustizia, la morsa del “contratto di governo” sull’esecuzione penale di Teresa Valiani Redattore Sociale, 18 maggio 2018 Più carceri contro il sovraffollamento, modifica della sorveglianza dinamica, trasferimento nei paesi di origine per i detenuti stranieri, valorizzazione del lavoro e stretta sulle misure alternative. Glauco Giostra: “Serve un carcere migliore, non più capiente”. “Per far fronte al ricorrente fenomeno del sovraffollamento degli istituti penitenziari e garantire condizioni di dignità per le persone detenute, è indispensabile dare attuazione ad un piano per l’edilizia penitenziaria che preveda la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento ed ammodernamento delle attuali”. Parte così, nell’ultima versione del programma di Governo Lega-M5S, la parte di “contratto” dedicata all’esecuzione penale che riprende molti dei temi al centro della riforma Orlando, andando però nella direzione opposta. In attesa di approfondire tutti i punti del ‘contratto’, quando sarà nota la versione definitiva, abbiamo chiesto a Glauco Giostra, presidente della commissione ministeriale per la riforma dell’Ordinamento penitenziario, coordinatore del comitato scientifico degli Stati generali sull’esecuzione penale, di commentare alcuni passaggi del programma e fare il punto sull’iter di una riforma che resta bloccata sull’ultimo metro. Nuove carceri contro il sovraffollamento. Un argomento che torna di moda, nonostante i fallimenti del passato. “Sì. Ricorrentemente - risponde il prof. Giostra -, qualcuno annuncia, quasi fosse un’originale e provvidenziale intuizione, che per la questione penitenziaria la soluzione c’è: costruire più carceri. Si potrebbe far notare che ormai da 20 anni il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la Raccomandazione (99)22 riguardante il sovraffollamento carcerario, ha suggerito di cercarne i rimedi in un ampio ricorso alle misure alternative e alla depenalizzazione, nonché, in casi di emergenza, ai provvedimenti di amnistia e di indulto. Decisamente sconsigliata, invece, la creazione di nuove strutture penitenziarie: un rimedio inappropriato ed anzi controproducente - vi si legge - poiché, dove sono stati intrapresi vasti programmi di costruzione di nuovi penitenziari, si è spesso registrato, parallelamente all’aumentata ricettività, un incremento della popolazione carceraria”. “Del resto - sottolinea il presidente -, che accrescere il numero e la capienza dei penitenziari significhi soltanto aumentare la domanda di carcere lo dimostra l’esperienza statunitense: la politica di ‘più carceri’ e ‘più carcere’ ha quasi decuplicato la popolazione penitenziaria (fatti i debiti rapporti, in Italia dovremmo avere all’incirca 500.000 detenuti in luogo degli attuali quasi 60.000), senza che a ciò abbia corrisposto alcuna riduzione della criminalità. Secondo il Rapporto Eures del 2013 il tasso omicidiario medio (cioè, ogni 100.000 abitanti) negli Usa risultava del 3,7 per cento negli Stati che non hanno la pena di morte e del 4,7 per cento in quelli con pena di morte (a riprova, sia detto incidentalmente, dell’inefficacia deterrente della pena). L’ Italia ha un tasso omicidiario dell’1 per cento”. “Si potrebbe anche aggiungere - prosegue il professore - che la storia patria sconsiglia un tale approccio "edilizio" al problema dell’esecuzione penale. Il ministro Castelli, all’inizio di questo millennio, progettò un imponente piano di edilizia penitenziaria, affidandolo ad una società a ciò deputata: la Dike Aedifica s.p.a. Non solo non si costruì neppure un muro di cinta, ma la società fu liquidata nel 2007 con cospicue perdite e gli sprechi finirono sotto l’attenzione della Corte dei Conti”. Molte delle attuali strutture penitenziarie sono fatiscenti e hanno bisogno di interventi urgenti. “Non c’è dubbio - risponde Glauco Giostra - che sarebbe un apprezzabilissimo proposito quello di ristrutturare alcuni penitenziari e di costruirne di nuovi: non per aumentare la ricettività complessiva del sistema però, ma per far in modo che anche la struttura architettonica sia funzionale ad una nuova concezione dell’esecuzione penale che non si preoccupi soltanto di tenere in cattività un soggetto, ma di consentirgli di rendere proficuo e meno desocializzante possibile il periodo di espiazione della pena. In questo senso ci sono moltissimi suggerimenti nei lavori degli Stati generali, alcuni dei quali ripresi nella proposta di riforma che sembra ormai abbandonata su un binario morto. Ma ho ragione di ritenere che non a questa nuova filosofia dell’architettura penitenziaria ci si riferisca quando stentoreamente si afferma: ci vogliono più carceri”. Nel contratto di Governo anche “un piano straordinario di assunzioni” per “provvedere alla preoccupante carenza di personale di Polizia Penitenziaria” e intervenire “risolutivamente sulla qualità della vita lavorativa degli agenti in termini di tutele e di strutture. Occorre realizzare condizioni di sicurezza nelle carceri - si legge ancora nell’ultima bozza del programma, rivedendo e modificando il protocollo della "sorveglianza dinamica" e del regime penitenziario "aperto", mettendo in piena efficienza i sistemi di sorveglianza. È opportuno consentire al maggior numero possibile di detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane, di scontare la propria condanna nel Paese d’origine attraverso l’attivazione di accordi bilaterali di cooperazione giudiziaria con gli Stati di provenienza. È infine necessario riscrivere la cosiddetta "riforma dell’ordinamento penitenziario" al fine di garantire la certezza della pena per chi delinque, la maggior tutela della sicurezza dei cittadini, valorizzando altresì il lavoro in carcere come forma principale di rieducazione e reinserimento sociale della persona condannata. Si prevede altresì una rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali. Occorre rivedere altresì le nuove linee guida sul 41bis, così da ottenere un effettivo rigore nel funzionamento del regime del carcere duro”. “Quello dell’incertezza della pena - commenta Glauco Giostra - è un logoro cliché. A nessuno è mai venuto in mente di sostenere che sia un indice di incertezza della pena il fatto che il giudice possa infliggere al rapinatore da 4 a 10 anni di reclusione, perché ognuno comprende che serve discrezionalità giudiziaria per meglio commisurare la pena alla gravità del fatto in concreto. Perché, allora, quando le modalità di esecuzione e talvolta la durata della pena sono calibrate dal giudice sulla base dell’evoluzione comportamentale del soggetto, si parla di incertezza della pena? Come non si pretende che tutti i rapinatori siano puniti con x anni a prescindere dal fatto di cui si sono resi protagonisti, non si dovrebbe pretendere che tutti i condannati a x anni scontino la stessa pena a prescindere dal loro comportamento nel corso dell’espiazione. Tener conto dell’avvenuta, profonda rielaborazione del male commesso e del conseguente impegno per un operativo riscatto non significa rendere incerta la pena, ma individualizzarne i contenuti per il recupero sociale del condannato, come la nostra Costituzione prescrive, e per la maggiore tutela della sicurezza dei cittadini. La riforma Orlando, al contrario, vuole che sia applicata la pena necessaria: quella, cioè, che non serve per infierire e per vendicarsi, ma per punire il colpevole e per tutelare la collettività, anche offrendo al condannato che dimostri di meritarlo, la possibilità di farvi graduale rientro”. Riforma penitenziaria, ci sono ancora speranze? “Il Governo - spiega Giostra - ha presentato alle Camere della precedente legislatura uno schema di decreto che attua soltanto una parte, ancorché qualificante, del complesso progetto di riforma imbastito dalla legge delega. Nei 45 giorni di tempo previsti le competenti Commissioni parlamentari hanno espresso i loro pareri. Non avendo recepito tutte le osservazioni in essi contenute, il Governo il 20 marzo ha ritrasmesso, come vuole la delega, la versione aggiornata dello schema di decreto legislativo alle Camere. La legge di delega stabilisce che a questo punto i pareri definitivi devono essere "espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione" e che, "decorso tale termine, i decreti possono essere comunque emanati" (di qui il potere del Governo attuale di emettere comunque il decreto di riforma). Ora, se l’avvio della nuova legislatura non ha comprensibilmente reso possibile al nuovo Parlamento di rispettare il termine, si sarebbe però dovuto assegnare l’esame della riforma alla Commissione speciale, che ha appunto un compito-cerniera tra vecchie e nuove Camere in attesa dell’istituzione delle Commissioni permanenti”. “Una delle ragioni addotte a giustificazione dell’omessa assegnazione - sottolinea Giostra - è la mancanza di urgenza, essendoci tempo sino al mese di luglio per esercitare la delega penitenziaria. Ebbene, questo stesso formalistico argomento, se fosse stato addotto in buona fede, avrebbe dovuto coerentemente indurre ad assegnare alla Commissione speciale quelle parti della riforma (lavoro penitenziario, ordinamento penitenziario minorile, giustizia riparativa) che iniziano ora il non breve iter istituzionale e che hanno tempi strettissimi per completarlo in tempo utile. La realtà è che abbiamo una maggioranza parlamentare ciecamente ostile a questa riforma e un Governo in ordinaria amministrazione che difficilmente avrà la forza politica di emanare comunque la parte di riforma già passata al vaglio parlamentare, come sarebbe giuridicamente legittimato a fare”. Nel mirino le misure “svuota carceri” e le pene alternative di Dino Martirano Corriere della Sera, 18 maggio 2018 “Per garantire il principio della certezza della pena è essenziale abrogare i provvedimenti emanati nel corso della legislatura precedente...”. Nel “contratto” si dichiara guerra alla depenalizzazione e alle misure alternative al carcere che hanno consentito fin qui di arginare il sovraffollamento nei penitenziari oggetto anche di condanne per l’Italia in sede di Corte europea per i diritti dell’uomo. M5S e Lega invertono la rotta. “È necessario” cancellare molti provvedimenti che hanno trasformato alcuni reati in illeciti amministrativi: via la non punibilità per la particolare tenuità del fatto, l’estinzione del reato per condotte riparatorie. Nessun cenno alla recidiva la cui curva crolla in presenza di misure alternative. Rimpatri più veloci. Salta l’obbligo di sermoni in italiano Sui rimpatri c’è un riferimento ai “diritti costituzionalmente riconosciuti” ma qui la Lega ha lasciato l’impronta: con la proposta di introdurre “procedure accelerate e/o di frontiera... per la verifica del diritto allo status di rifugiato o per la sua revoca”. Si indica la necessità di allestire un Cie (sedi di permanenza temporanea per il rimpatrio) in ogni regione e si fa un cenno ai tempi del trattenimento del migrante irregolare già previsti dalla Ue. Viene anche esplicitata la “garanzia per la tutela dei diritti umani”: “Il trattenimento deve essere disposto per tutto il tempo necessario ad assicurare che l’allontanamento sia eseguito in un tempo massimo di 18 mesi”. Salta invece l’obbligo per gli Imam di pronunciare i sermoni in italiano. Agenti provocatori, più severità e daspo contro la corruzione La lotta alla corruzione è una priorità per il governo giallo verde anche con l’istituzione dell’”agente provocatore” che offre tangenti come esche. Il contratto M5S-Lega (il Carroccio, che pur sempre fa parte del centro destra, su questo approccio giustizialista dovrà fare i conti con il garantismo di Forza Italia) prevede l’aumento delle pene “per tutti i reati contro la pubblica amministrazione”, per i quali devono essere preclusi sconti di pena e riti alternativi; il Daspo per i corrotti e i corruttori (si parla di interdizione perpetua dai pubblici uffici che però presenta profili di incostituzionalità). Si chiede di rafforzare le tutele per il “whistleblower” (la protezione per chi denuncia la corruzione), per altro già introdotte nella scorsa legislatura. “Lasciate che i bambini vadano in carcere...” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 maggio 2018 Nel “contratto” M5S-Lega c’è anche più prigione per i minori. secondo l’ultimo rapporto di Antigone nelle carceri minorili ci sono poco meno di 500 ragazzi: oltre metà di loro sono giovani adulti, cioè detenuti con meno di 25 anni. “Alcune persone portavano i loro bambini a Gesù e volevano farglieli benedire, ma i discepoli li sgridavano. Quando Gesù se ne accorse, si arrabbiò e disse ai discepoli: “ Lasciate che i bambini vengano da me; non impediteglielo, perché Dio dà il suo regno a quelli che sono come loro”“ (Matteo, 19- 13). Matteo, in questo caso, è l’evangelista, e queste righe che avete letto sono un passo molto bello del Vangelo. Però, si sa, il Vangelo non piace a tutti. E così nel programma di governo di Lega e 5Stelle, nella parte che riguarda la giustizia (e la repressione), è previsto un trattamento molto severo verso i bambini e la riduzione dell’età nella quale si è punibili e responsabili penalmente (oggi è fissata a 14 anni). Ieri il programma di governo, che ora però si chiama contratto, è stato definito da Di Maio e Salvini. Sono stati superati - hanno detto i due leader - gli ultimi scogli. Nelle prossime ore dovrà essere superato anche il padre di tutti gli scogli: il nome del Presidente del Consiglio. Più carceri da costruire, via la sorveglianza dinamica dunque detenuti da far marcire in cella per 20 ore al giorno, meno misure alternative, abbassare l’età della imputabilità per i minori (12, 10 anni?), più galera ancora nel caso di furti, uso sempre legittimo delle armi per difendersi, più libertà per i poliziotti nell’uso delle pistole Taser e tante altre robacce. Contro la caduta nel baratro si sveglino le coscienze democratiche”. Così tuona pubblicamente il presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella riferendosi alla bozza del contratto Lega - M5S che, dopo gli ultimi ritocchi, verrà presentato al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sul fronte giustizia e area penitenziaria ci sono diversi punti: la legittima difesa domiciliare, l’inasprimento delle pene per violenza sessuale, furto, scippo, rapina e truffa, nonché ' una seria riforma della prescrizione dei reati' senza tuttavia specificare come attuarle. Si parla di una stretta sulla imputabilità e sugli sconti di pena per i minori in maniera vaga e senza stabilire in che modo. Nella bozza c’è scritto testualmente: “A fronte di una progressiva precocità di comportamenti criminali, anche gravi, da parte di minori, occorre rivedere in senso restrittivo le norme che riguardano l’imputabilità, la determinazione e l’esecuzione della pena per il minorenne, eliminando inoltre la possibilità di trattamento minorile per il c. d. ‘ giovane adulto’ infra - venticinquenne”. In che modo verranno riviste le norme? Un indizio lo ritroviamo quando scrivono che intendono rivedere “in senso restrittivo” le norme che riguardano l’imputabilità. Sottintendono quindi l’abbassamento dell’età minima di punibilità. Ma perché nel sistema della giustizia minorile esiste una soglia d’età? Se l’autore del fatto criminoso è un ragazzo che non abbia ancora compiuto il quattordicesimo anno di età, egli non potrà essere giudicato e punito. Diversa è la questione se il minore abbia un’età compresa tra i 14 e i 18 anni. Egli sarà considerato giudicabile, e il procedimento penale non avrà corso innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria, ma innanzi al giudice del Tribunale per i Minorenni. Tale situazione è frutto della fondamentale impostazione del nostro sistema penalistico, in forza della quale per essere considerati punibili con riguardo alla commissione di un dato fatto è necessario essere capaci di intendere e volere, ossia capaci di comprendere e volere, autodeterminandovisi, il mantenimento di una data condotta avente rilevanza penale. Il minore che abbia compiuto i quattordici anni potrà essere sottoposto a procedimento penale, ma a condizione che si sia correttamente rappresentato e abbia coscientemente voluto il comportamento penalmente rilevante per il quale subisce il giudicato. Abbassare la soglia, quindi, creerebbe un enorme problema e non servirebbe a nulla. Se ci trovassimo a discutere se un dodicenne sia in grado di intendere e volere, ovviamente la risposta sarebbe negativa. Ma funziona attualmente la giustizia minorile? È il nostro fiore all’occhiello. Sarebbe deleterio modificarlo. Le cifre aggiornate dall’ultimo rapporto di Antigone riferiscono che nelle celle ci sono poco meno di 500 ragazzi: oltre metà di loro sono giovani adulti, cioè detenuti con meno di 25 anni che stanno scontando nelle carceri minorili le pene per reati commessi quando ancora non avevano raggiunto la maggiore età. Decisamente più ampio è invece il numero di coloro che passano per la cosiddetta “messa alla prova”, una soluzione che permette ai giudici di imporre ai ragazzi un periodo in comunità al termine del quale valutare il percorso di maturazione ed eventualmente dichiarare estinto il reato, senza lasciarne traccia sul casellario giudiziario. Nel 2016 ne hanno beneficiato oltre 3.700 giovani. Ed è lì che muovono i primi passi verso il ritorno alla normalità. Il punto del contratto leghista e pentastellato è evidentemente scaturito dall’allarmismo suscitato dai gravi fatti di cronaca: le famigerate baby gang. Eppure dai dati messi a disposizione dal Dipartimento Giustizia Minorile, i soggetti presi in carico per la prima volta dalla giustizia minorile, sono diminuiti dai 5.607 del 2017 ai 5.148 di quest’anno. La peculiarità del sistema giudiziario minorile è che non si basa sulla mera punizione. Il principio del diritto penale minorile italiano si basa perseguendo sempre il recupero del minore sia con lo strumento della sanzione che con la rinuncia ad essa. Dopo l’arresto in flagranza o il fermo di polizia, inizia a carico del minore il provvedimento giuridico. Durante le indagini preliminari, il pubblico ministero decide se il minore debba essere rimesso subito in libertà oppure condotto in un Centro di Prima Accoglienza in cui rimane per il tempo necessario all’autorità giudiziaria per decidere della sua sorte. In caso di imputazioni lievi il minore può anche essere accompagnato presso la propria abitazione o presso Comunità pubbliche, private, associazioni o cooperative riconosciute, che lo ospitano fino all’udienza di convalida. Trascorso questo periodo preliminare, il giudice stabilisce il provvedimento da adottare che può essere: la custodia cautelare, ossia il trasferimento del minore in un Istituto penale minorile prevista per i reati con pene superiori a 9 anni, giustificata dal pericolo di inquinamento delle prove, di fuga, di reiterazione del reato; il collocamento in Comunità, cioè l’affidamento a una comunità pubblica o autorizzata, imponendo eventuali prescrizioni sull’attività di studio o di lavoro per la sua educazione; permanenza in casa, ovvero l’obbligo di rimanere presso l’abitazione familiare o altro luogo di privata dimora con limitazioni o divieti alle facoltà del minore di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono, salvo eccezioni come le esigenze di studio o di lavoro o altre attività educative; sospensione del processo e messa alla prova, ovvero quando il giudice richiede al servizio sociale un progetto di intervento alla fine del quale sarà tratto un bilancio. Se il Tribunale ravvisa un’evoluzione della personalità dell’imputato, dichiara con sentenza l’estinzione del reato. Perché cambiare un sistema che funziona? Nicola Quatrano: “fermare la violenza giovanile con la galera è pura demagogia” di Giulia Merlo Il Dubbio, 18 maggio 2018 “Come gettare benzina sul fuoco”. Nicola Quatrano, storico magistrato anticamorra del Tribunale di Napoli e oggi avvocato, commenta così le proposte di modifica del sistema giustizia e dell’ordinamento penitenziario contenute nel contratto Lega-5Stelle: previsioni che “rischiano solo di peggiorare la situazione e che vanno contro ogni logica di riduzione del danno”. La bozza di contratto prevede che, “a fronte di una progressiva precocità di comportamenti criminali da parte di minori, occorre rivedere in senso restrittivo le norme che riguardano l’imputabilità e l’esecuzione della pena per il minore”. E’ una possibile risposta a un fenomeno che effettivamente esiste? Il problema della crescita della violenza giovanile esiste e una risposta serve. Questa di inasprire le pene, tuttavia, è la più semplice e anche la più sbagliata. Certo, capisco che faccia gioco nel mercato del consenso, eppure si tratta di un fenomeno che in qualche modo è frutto proprio dell’inasprimento delle pene. In che modo la violenza giovanile è un prodotto del sistema penale attuale? Le cosiddette “paranze dei bambini”, le violenze dei giovani latinos al nord, le bande dello spaccio a Milano sono tutte espressioni di un disagio che si alimenta di esclusione sociale. Il fenomeno dell’esclusione sociale giovanile è riconosciuto anche da Lega e 5 Stelle quando parlano della disoccupazione, ma è questo stesso disagio che può assumere forme violente: si tratta di ragazzi che si sentono di contare meno di niente e che cercano nella violenza una manifestazione di riscatto del proprio essere nulla. Questo quadro non giustifica le loro azioni, ma dovrebbe condizionare l’approccio alla questione: se il tema è quello dell’esclusione, non è possibile combatterlo con ancora maggiore esclusione attraverso il carcere, ma si dovrebbero mettere in campo progetti di inclusione sociale. La soluzione prospettata dalla bozza di contratto di governo, quindi, peggiorerebbe la situazione? Aumentare le pene, abbassare l’età di imputabilità, togliere i bambini ai mafiosi: sono tutte parole d’ordine facili e di grande successo, ma chi le pronuncia gioca col fuoco, perchè alimenta più che reprimere questi fenomeni. Altra parola d’ordine è la “certezza della pena”, che viene inteso come un ridimensionamento tranciante delle misure alternative al carcere. Quella della pena certa è una falsificazione della realtà: la pena deve essere certa, ma il carcere non è la sola forma di pena e la stessa Costituzione stabilisce che le pene devono tendere alla riabilitazione. La semilibertà e la liberazione anticipata oppure l’affidamento in prova sono delle pene che nel caso specifico vengono ritenute più adeguate a tutelare la società, perchè servono ad evitare che il detenuto incappi nella recidiva grazie ad un percorso di reinserimento sociale. Anche in questo caso siamo davanti a un punto del programma che suscita l’applauso dell’opinione pubblica, vittima di una percezione alimentata dai professionisti della paura, ma che non serve a nulla. Se il detenuto non ha speranza di recupero, chi delinque continuerà a farlo per sempre e non mi sembra un’intelligente prospettiva criminologica. Quale sarebbe, invece, una linea intelligente? Guardi, non dico di tornare a Cesare Beccaria, ma almeno ad Alfredo Rocco, che licenziò un codice penale fascista ma che era splendido rispetto alle innovazioni annunciate in questi giorni, perché almeno era ispirato al principio della riduzione del danno. Partiva, cioè, dall’idea pessimistica ma realista che non è possibile impedire la commissione di reati e che dunque bisogna indirizzare il delinquente a commettere quelli meno gravi, grazie ad una distinzione molto accurata delle pene. Alzare la pena per i reati di furto non ha senso, in questa logica? Io credo che serva un sistema penale secondo il quale chi decide di rubare, preferisca commettere furto semplice e non rapina a mano armata. Se invece le due sono sullo stesso piano dal punto di vista della pena, è evidente che si incoraggia la rapina. A fronte di un inasprimento delle pene, è prevista anche la legittima difesa domiciliare. Una previsione che scardina il nostro sistema di difesa. Sostanzialmente, stabilisce che la protezione personale non sia più delegata allo Stato ma sia fatta in proprio dai privati. Questo stesso sistema, negli Stati Uniti, ha provocato le conseguenze sociali che tutti conosciamo in termini di violenza, ma soprattutto va contro il principio di riduzione del danno di cui prima dicevo. Come si collegano l’inasprimento delle pene e la legittima difesa domiciliare, dal punto di vista della riduzione del danno? Come dicevo prima, posto che un ladro che entra in casa per rubare purtroppo ci sarà sempre, l’ordinamento dovrebbe incentivare il fatto che entri disarmato. Se però il ladro sa che la pena per il furto e la pena per la rapina a mano armata è la stessa e che il proprietario di casa potrebbe legittimamente essere armato, sarà più facile che anche lui si presenti con una pistola e anche che spari per primo. Esiste una ratio intorno a queste posizioni di Lega e 5 Stelle? A me sembra un modo di trovare soluzioni facili, scherzando col fuoco. La nostra società oggi è piagata dalla violenza, ma in questo modo la situazione rischia di peggiorare e solo perchè qualche forza politica smania nel mostrarsi più nuova delle altre. Davanti allo scenario che ha tracciato, magistratura e avvocatura dovrebbero intervenire? Certo. Non parlo tanto dell’avvocatura, che ha sempre dimostrato particolare sensibilità, penso invece che la magistratura - o almeno quella associata - abbia completamente perso di vista questi temi. Ci sono tanti singoli magistrati che la pensano in modo diverso, ma la magistratura associata non sa fare altro che chiedere leggi repressive, più tutele per i pm, intercettazioni telefoniche e prescrizioni meno lunghe. Lei è stato magistrato per una vita, non le sembra un giudizio duro? La magistratura in cui entrai io è quella che nel 1978 si impegnò per il referendum contro la legge Reale, che conteneva un duro inasprimento della legislazione penale durante gli anni di piombo. Era una magistratura democratica che oggi non vedo più e questa è stata una delle ragioni per cui l’ho lasciata, diventando avvocato. L’agente provocatore? Attenti, la Corte Europea lo ha già bocciato di Francesco Antonio Maisano Il Dubbio, 18 maggio 2018 Da non confondere con l’agente infiltrato, questa nuova figura introdotta nel contratto Lega-5Stelle manifesta palesi violazioni perché senza il suo intervento di istigazione il reato non sarebbe commesso. L’elaborazione della bozza del “contratto di governo” tra Lega e M5S dedica ampia parte alla Giustizia penale. Si tratta, all’evidenza, di petizioni di principio che dovrebbero poi ispirare la formulazione normativa futura. Nel capitoletto dedicato alla “Lotta alla Corruzione” (Punto. 14 del Contratto) si auspica un maggior contrasto al fenomeno corruttivo nella Pubblica Amministrazione auspicando l’introduzione del c. d. “agente provocatore” al fine di “favorire l’emersione dei fenomeni corruttivi” (pag. 19). La “figura” viene correttamente distinta da quella dell’agente sotto copertura mostrando così di conoscere la (non sottile) differenza tra chi opera quale (mero) osservatore (o al più concorrente) all’interno dell’itinerario criminoso altrui, limitandosi pertanto a memorizzarlo in vista di una futura valorizzazione processuale, rispetto a chi, invece, opera per determinare la condotta delittuosa altrui. Per molti versi l’agente provocatore appare non dissimile dall’istigatore poiché agisce al fine di “stimolare” una volontà a delinquere originaria; incarna la dimensione di vera e propria condizione senza la quale non nascerebbe il proposito illecito. Stando così le cose non stupisce che, più volte, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, affrontando la tematica dell’agente provocatore e distinguendolo necessariamente dal testimone infiltrato o sotto copertura, abbia sancito che tale figura manifesti palesi violazioni della Convenzione in quanto, senza il suo intervento di istigazione, il reato non sarebbe stato commesso. Ovviamente la Corte Edu si è pronunciata sotto il profilo strettamente processuale stabilendo la non equità del processo basato su tale prova ma non è dubitabile che lo spunto di partenza sia di natura sostanziale. Lo stigma è tutto sulla condizione (esorbitante) illecita del provocatore che ha assunto efficacia causale rispetto al fatto commesso dal provocato (per tutte si veda: Mailinas contro Lituania, 1 luglio 2008). In attesa di conoscere la forma definitiva che prenderà il principio contenuto nel c. d. contratto di governo è opportuno tenere presente lo stato dell’arte nella giurisprudenza convenzionale onde evitare prevedibili condanne future in danno dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo. Casellati: “Necessarie nuove regole per le toghe impegnate in politica” Il Messaggero, 18 maggio 2018 Nella discussione sulla candidabilità dei magistrati e sulle modalità del loro rientro in ruolo, vanno considerati “i principi costituzionali della libera partecipazione alle elezioni politiche”, ma “non può essere sottovalutato il rischio che proprio a seguito di una voluta e cercata sovraesposizione mediatica, il magistrato, nel frattempo diventato personaggio pubblico, finisca per utilizzare tale visibilità per accedere all'impegno diretto in politica”. La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, intervenendo al Salone della Giustizia, sottolinea un argomento che è destinato ad animare il dibattito anche della prossima legislatura (ne parla anche il contratto di governo tra Lega e Cinque stelle). Alla tavola rotonda su Magistratura e media, con gli interventi del vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, il presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Mammone, il direttore del Messaggero, Virman Cusenza, il presidente dell'Anm, Francesco Minisci, il direttore delle relazioni esterne e istituzionali di Fastweb, Sergio Scalpelli, moderato dal direttore di RaiNews24, Antonio Di Bella, i temi affrontati hanno spaziato dal rapporto tra toghe e politica, ai rapporti sempre complessi tra media e magistratura. “Potremmo pensare alla creazione di uffici stampa per gli uffici giudiziari”, ha detto il vicepresidente del Csm Legnini. Una proposta di cui discutere, ha aggiunto Cusenza, “anche se per i giornalisti è sempre più importante puntare su precisione e competenza”. Il caso di Trani, se sono i magistrati a violare i diritti di Giuseppe Di Federico Il Mattino , 18 maggio 2018 Su La Repubblica di ieri è stata data la notizia che due pubblici ministeri della Procura di Trani avrebbero in vario modo minacciato e ricattato tre testimoni per ottenere da loro dichiarazioni corrispondenti alle loro tesi accusatorie dicendo, tra l’altro “se quello che ci dite non converge con quello che sappiamo già ve ne andate tutti in galera”. Non si tratta certo di una fenomeno nuovo, che anzi fa parte di prassi che sono abbastanza diffuse nei nostri uffici di Procura. Sull'argomento abbiamo intervistato 4.267 avvocati tra il 1992 ed il 2012. Circa il 90% di loro afferma che in varie forme il fenomeno esiste e circa il 50% di loro dice che si verifica "di frequente". Quindi ciò che è avvenuto a Trani non è certamente una novità, ma è solo una delle gravi, ricorrenti violazioni dei diritti dei cittadini che caratterizza da anni il nostro processo penale. Stando a quanto riferito da La Repubblica il caso tuttavia presenta una novità di non poco conto e cioè che in questo caso il Csm avrebbe intenzione di sollecitare un'iniziativa disciplinare nei confronti degli autori di quell'episodio. Che si tratti di una novità emerge dal raffronto con i comportamenti del Csm in un caso del tutto simile che suscitò scalpore anni addietro, nel giugno 1997, nella Procura di Roma. Un caso che, per una svista del pm, venne videoregistrato e successivamente anche descritto in un libro. La videoregistrazione mostra una testimone che piange disperatamente dicendo al pm di non saper niente di quanto le viene richiesto ed il pm che a sua volta la minaccia dicendo che finirà in prigione se non confessa quanto da lui voluto (confessione che poi avvenne). Il video di quell'interrogatorio venne trasmesso dalla nostra televisione pubblica e fu acquisito an che dal Csm. Nonostante la piena e inconfutabile evidenza di quanto avvenuto, in quel caso il Csm non solo non sollecitò l'azione disciplinare, ma successivamente promosse quel pm con una motivazione altamente laudativa della sua professionalità. In tal modo il Csm implicitamente decise che i comportamenti di quel tipo da parte dei pm sono legittimi e professionalmente corretti. Ed alla luce di questa decisione del Csm, non possono sorprendere più di tanto le risposte degli avvocati sulla diffusione del fenomeno, Se nel caso del pm di Trani il Csm agirà con rigore sarà certamente cosa positiva. Non sarà però sufficiente ad evitare che il fenomeno segnalato dagli avvocati, e da me riscontrato anche con altri strumenti di ricerca, continui a verificarsi in varie forme ed in maniera diffusa. Non è, infatti, facile individuare le varie forme in cui il fenomeno si verifica e tantomeno documentarlo a fini disciplinare o processuali. Un tentativo di rendere sistematica la documentazione degli interrogatori degli indagati e dei testimoni fu fatto negli anni 1991-92 allorquando condussi, con vari collaboratori, per conto del ministero della giustizia, con il pieno appoggio di Giovanni Falcone e del ministro Martelli, la sperimentazione in 6 sedi giudiziarie della videoregistrazione del processo penale avendo come modello le applicazione che si stavano allora effettuando negli Usa. Con particolare riferimento alla fase delle indagini organizzai anche una visita di ricerca in Inghilterra, visita cui partecipò non solo Falcone ma anche De Gennaro della polizia di Stato e, se ben ricordo anche il colonnello dei carabinieri Mori. Visitammo, tra l'altro la stazione di polizia londinese di Edmonton ove tutti gli interrogatori (in Inghilterra non li fanno i pm ma la polizia) venivano già audio-registrati (e non videoregistrati, come negli Usa). Tra i molteplici obiettivi che allora ci si proponeva con l'adozione della video registrazione vi era anche quello di documentare la correttezza dei comportamenti dei pm nella fase delle indagini per il rilievo che essi possono assumere nel processo, una documentazione che se acquisita può servire anche a fini disciplinari. A seguito della morte di Falcone quegli esperimenti e quelle ricerche non ebbero uno sbocco applicativo. Debbo aggiungere che le violazioni dell’etica giudiziaria dannose per il cittadino e per l'immagine della giustizia, come è certamente quella qui considerata, non possono efficacemente essere evitate solo con la repressione. In una ricerca di me condotta, con finanziamento dell'Osce, sulla evoluzione dei sistemi d disciplina giudiziaria nei paesi democratici si mostra come l'adozione di una serie di iniziative proattive che prevengano i fenomeno sia più efficace della repressione. Ciò non è avvenuto in Italia. Tra quegli strumenti vi è anche quello dell'attività di formazione dei magistrati, cioè un settore in cui forte è l'impegno della nostra Scuola superiore della magistratura. Un impegno che però non riguarda l'etica giudiziaria. Se ho letto bene i 248 programmi di formazione continua offerti a magistrati nel 2017 e 2018, solo uno è dedicato specificamente al tema dell'etica giudiziaria. A differenza di altri Paesi, da no l'argomento non viene considerato importante per la formazione del magistrato. Aldo Bianzino, nuova perizia. La famiglia: “riaprire il caso” di Emanuele Giordana Il Manifesto, 18 maggio 2018 Richiesta alla procura di Perugia. “Ucciso in carcere con percosse”: elementi decisivi analizzando i resti di fegato e cervello. Rudra Bianzino, il figlio di Aldo, l’ebanista che morì dieci anni fa in condizioni oscure nel carcere di Capanne a Perugia, è diventato adulto, e dopo aver preso in mano il caso della morte del padre, chiede ora alla procura umbra di riaprire le indagini. Assistito dagli avvocati Corbelli e Zaganelli - il legale che seguì la vicenda sin dall’inizio - il figlio di Aldo Bianzino e di Roberta Radici, che mori dopo soli due anni forse anche per il dolore patito, ritiene che ci siano “elementi nuovi” maturati negli ultimi mesi tanto da fornire alla procura diversi spunti che potrebbero motivare la giustizia perugina a “disporre la riapertura delle indagini del procedimento penale per l’ipotesi di reato di cui all’art. 575 c.p. (omicidio ndr) compiuta da terzi, allo stato ignoti, in danno del Sig. Aldo Bianzino nell’Istituto penitenziario di Capanne tra il 13 ed il 14 ottobre 20017”. Così si legge nell’istanza presentata in tribunale alla fine di aprile e ieri resa nota da Rudra alla stampa in un’aula del Senato con Valentina Calderone dell’associazione “A buon diritto”, i senatori Luigi Zanda (anche lui avvocato) e Luigi Manconi - icona delle battaglie sui diritti, e due professionisti che Rudra e i suoi legali ritengono la chiave di volta che dovrebbe portare alla riapertura del caso: il medico legale Antonio Scalzo e l’anatomopatologo Luigi Gaetti (ex parlamentare). Dopo aver richiesto nel gennaio dell’anno scorso al tribunale di Perugia l’autorizzazione a esaminare le sezioni di encefalo e fegato di Aldo Bianzino, fissate in formalina, i due medici sono arrivati a conclusioni clamorose che confermano le numerose zone d’ombra che già gravarono sul processo per omissione di soccorso (non per omicidio) che si concluse a Perugia con l’indicazione che Aldo non era morto per le botte ma per un aneurisma. In sostanza per cause naturali. Adesso però legali e professionisti ritengono che vi sia un “…elemento nuovo non conosciuto al momento dell’archiviazione delle indagini” e “decisivo”. L’analisi dei reperti biologici di Aldo dimostra infatti due cose. La prima riguarda proprio l’aneurisma che è infatti solo un’ipotesi mai dimostrata in tribunale: “…le argomentazioni poste a sostegno di tale affermazione sono quanto meno lacunose”, è scritto nell’istanza, poiché “non c’è evidenza dell’aneurisma come elemento di certezza sul determinismo dell’emorragia”. Insomma questo aneurisma - che sarebbe la causa del sanguinamento cerebrale - non si trova “e del resto manca buona parte del cervello, per esplicita e candida ammissione” degli stessi consulenti dell’accusa. In sostanza “a differenza di quanto affermato e non giustificato con metodo di evidenza scientifica” (dai periti), la genesi definita naturale dell’emorragia subaracnoidea “non è dimostrabile in assenza di un reperto anatomico di sacca aneurismatica”. Infine gli accertamenti hanno consentito di datare la lesione nella regione epatica: “La lesione al fegato e quella al cervello insorsero nello stesso arco temporale. L’oggettività del dato - scrivono Gaetti e Scalzo - supera tutte le argomentazioni (già inverosimili) dei Cctt (periti ndr) del pm…” e visto che le lesioni epatiche insorsero almeno due ore prima rispetto al momento del decesso non si possono ricondurre “alle manovre rianimatorie”, come era stato sostenuto, facendo risalire la lesione al fegato a un maldestro massaggio cardiaco per salvare Aldo morente dopo la ferita cerebrale dovuta all’aneurisma. La “sovrapponibilità” dei due momenti (sanguinamento cerebrale e lesione epatica) mettono in dubbio tutto l’impianto del processo. E riconducono all’ipotesi che Aldo sia stato picchiato a morte. “Spero che il caso venga riaperto. Altrimenti - dice Rudra - chiederò la revisione dell’intero processo. E se quella via mi fosse rifiutata ricorrerò alla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Procedibilità a querela al test-Cassazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2018 Corte di cassazione - Procedimento n. 18124/2018. È in vigore da pochi giorni, dal 9 maggio, e già le Sezioni unite penali sono chiamate a pronunciarsi. Le nuove condizioni di procedibilità, con l’estensione della querela e la riduzione dell’intervento d’ufficio del pubblico ministero, sono state subito oggetto di attenzione da parte dei vertici della Corte che con un’assegnazione preventiva rispetto a un futuro (e probabile) contrasto interno hanno assegnato all’udienza del prossimo 21 giugno la soluzione di due quesiti di interpretazione del decreto legislativo 36 del 2018. Le Sezioni unite dovranno cioè chiarire innanzitutto se in presenza di un ricorso dell’imputato inammissibile deve comunque essere avvisata la persona offesa del cambiamento della condizione di procedibilità, come prevede l’articolo 12 del decreto stesso, oppure se questo onere informativo deve essere escluso per effetto della mancata valida costituzione del rapporto processuale. Inoltre, andranno accertati gli effetti sulla sospensione dei termini di prescrizione durante i 90 giorni dall’avviso dato alla persona offesa per l'eventuale esercizio del diritto di querela. La fase transitoria chiama infatti in causa anche la Corte di cassazione, dopo che il Consiglio dei ministri del 6 aprile ha ritenuto che anche nel giudizio di legittimità, cosa esclusa in un primo momento, l’autorità giudiziaria deve informare la persona offesa del cambiamento delle condizioni di procedibilità. Nella nota che rinvia le questioni alle Sezioni unite si fa notare, quanto al nodo dell’inammissibilità, la problematicità di un ruolo “attivo” da parte del giudice della Cassazione nel momento in cui il ricorso è giudicato inammissibile. Infatti, va tenuto presente come tutte le ipotesi di inammissibilità viziano l’atto alla base mettendolo al di fuori della cornice normativa di riferimento: non essendo stato costituito un corretto rapporto processuale l’impugnazione non è idonea a investire il giudice del grado successivo della piena cognizione del processo. Rilevante è poi soprattutto la considerazione ai fini della prescrizione dei 90 giorni a disposizione per la decisione della parte offesa informata del cambiamento delle condizioni di procedibilità perché, sottolinea la Cassazione, spesso la scadenza del termine massimo per i processi fissati i imminente rispetto all’udienza di trattazione. La Corte, nella nota di rinvio, afferma di non considerare esclusa la possibilità di applicazione della sospensione, in presenza di una disposizione di legge cogente, anche in assenza di un’esplicita previsione in questo senso. Abusiva occupazione di alloggi popolari non è reato se c'è un minore malato di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2018 Tribunale di Frosinone - Sezione penale - Sentenza 8 novembre 2017 n. 1381. L'occupazione arbitraria di un appartamento di proprietà comunale deve ritenersi scriminata dalla causa di giustificazione dello stato di necessità quando la condotta illecita appare necessaria per evitare il concretizzarsi di un pericolo attuale di un danno grave alla persona, tenendo conto anche delle esigenze di tutela dei diritti dei terzi coinvolti. Ciò non si verifica se l'esigenza di chi invade è quella di reperire un alloggio per risolvere i propri problemi abitativi, ma si configura, invece, quando l'indisponibilità sopravvenuta di altri luoghi da adibire ad abitazione possa pregiudicare lo stato di precaria salute del figlio minore. Questo è quanto si desume dalla sentenza 1381/2017 del Tribunale di Frosinone. I fatti - La vicenda prende le mosse da una ispezione effettuata dalla Polizia locale di un comune frusinate presso alcune abitazioni popolari, all'esito della quale era emerso che una giovane coppia, assieme al loro figlio minore versante in cattive condizioni di salute, in assenza di autorizzazione aveva occupato una delle case di proprietà del Comune, nonostante questa fosse già stata assegnata ad altra persona. Di qui il decreto penale di condanna per il reato di “Invasione di terreni o edifici” previsto dall'articolo 633 c.p. e il successivo giudizio immediato in esito all'opposizione, dove la difesa dei coniugi chiedeva di ritenere scriminata l'occupazione arbitraria dell'appartamento, ai sensi dell'articolo 54 c.p. che disciplina lo stato di necessità. Per gli imputati, infatti, l'occupazione dell'immobile era la conseguenza della “improrogabile urgenza ed emergenza di procurarsi un alloggio”, a causa della precaria situazione igienico-sanitaria in cui versava l'alloggio dove gli stessi abitavano, che era stato dichiarato inagibile, nonché a causa delle precarie condizioni di salute del piccolo affetto da “bronchiti asmatiformi ricorrenti”. La decisione - Il Tribunale accoglie questa tesi e assolve la coppia con la formula “il fatto non costituisce reato”, ritenendo per l'appunto configurata nella fattispecie la causa di giustificazione dello stato di necessità. Il giudice parte dalla certezza del fatto storico, ovvero dell'illecita occupazione dell'appartamento, così come risultante dalla documentazione della Polizia, e valorizza, al fine di mandare assolti gli imputati, il duplice profilo dell'esigenza abitativa degli stessi e dello stato di malattia del figlio minore. Il Tribunale ricorda, infatti, come ormai la giurisprudenza è costante nel ritenere che l'occupazione arbitraria di un appartamento di proprietà comunale “ricada nell'ambito operativo dell'art. 54 c.p. solo qualora ricorra un pericolo attuale di un danno grave alla persona, non coincidendo la scriminante dello stato di necessità con l'esigenza dell'agente di reperire un alloggio e risolvere i propri problemi abitativi”. E ciò ovviamente vale “sempre che ricorrano, per tutto il tempo dell'illecita occupazione, gli altri elementi costitutivi della scriminante, quali l'assoluta necessità della condotta e l'inevitabilità del pericolo”, tenendo anche conto “delle esigenze di tutela dei diritti dei terzi, involontariamente coinvolti, diritti che non possono essere compressi se non in condizioni eccezionali e chiaramente comprovate”. Ciò posto, nel caso di specie l'occupazione dell'immobile è avvenuta sulla spinta non di un generico stato di disagio abitativo, bensì sulla scorta di una effettiva urgenza di procurarsi un alloggio, dopo che la vecchia abitazione era stata dichiarata inagibile dalle autorità sanitarie preposte e, soprattutto, in considerazione della patologia del figlio minore grave e non transitoria che induce a ritenere la sussistenza del pericolo attuale di un danno grave alla sua integrità. Medico senza colpa per aver dimesso il paziente che al congedo non stava male di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 17 maggio 2018 n. 21868. Non rispondono penalmente i sanitari che abbiano agito seguendo un certo protocollo e un certo convincimento sulle condizioni del paziente. Questo anche se poi quest'ultimo - una volta dimesso dalla struttura sanitaria - non abbia risolto i problemi accusati al momento del ricovero. La vicenda - Questo in estrema sintesi il ragionamento seguito dalla Cassazione (sentenza n. 21868/18) che si è trovata alle prese con una vicenda decisamente complessa. Una signora si era fatta ricoverare presso una struttura sanitaria per abortire a seguito dell'accertamento di malformazioni del feto. L'intervento era stato praticato in via farmacologica. A seguito dell'assunzione dei medicinali, però, la paziente aveva presentato una situazione di grave sanguinamento. Inizialmente il problema sembrava arginato presso la struttura sanitaria anche se alla paziente non era stato dato un medicinale antiemorragico perché non presente in ospedale. Proprio per questo era stata dimessa con l'invito a sottoporsi alla terapia con medicinale da acquistare in farmacia. Una volta a casa, tuttavia, la donna aveva continuato ad avere perdite ematiche notevoli tanto da richiamare il marito e farsi ricoverare di nuovo. Nel frattempo, presso il proprio domicilio, era svenuta battendo la faccia e riportando la rottura di un dente. Accompagnata in ospedale è stata sottoposta a trasfusione per fare alzare i livelli di emoglobina e di riportare quindi la paziente fuori pericolo. La vicenda era così terminata con dei rimpalli di responsabilità tra il sanitario di primo soccorso e il collega specialista in ginecologia. A tal proposito i Supremi giudici hanno ravvisato che di fatto entrambi i medici avevano agito secondo un protocollo preciso, ovvero la paziente era stata dimessa quando effettivamente era in condizione per potersi recare a casa. Non solo. Nell'ipotesi di cooperazione multidisciplinare fra diversi medici ognuno di loro è tenuto oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, anche all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune unico, con la conseguenza che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, seppur specialista in altra disciplina, e a controllare la correttezza, se del caso ponendo rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Conclusioni - La Cassazione, quindi, ha censurato la condanna dei professionisti operata dai giudici di merito in quanto non hanno tenuto conto di come la vicenda poteva avere esito differente se la paziente una volta dimessa avesse assunto prontamente i medicinali a essa prescritta. Quindi non si può parlare di certezza di responsabilità ma la colpa può essere rappresentata solo in maniera probabilistica. Sembra di capire dalla sentenza che con i “se” e con i “ma” non si può ricostruire la vicenda e quindi la decisione ha sancito la non responsabilità penale dei sanitari anche perché i reati nel frattempo si erano prescritti. Sul fronte del risarcimento danni saranno i giudici civili a esaminare di nuovo la vicenda e analizzare la presenza o meno di responsabilità sotto altro profilo. Riciclaggio per chi “nasconde” l'origine del denaro sottratto alla procedura fallimentare di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 maggio 2018 Scatta il reato di riciclaggio per chi, senza concorrere nella bancarotta fraudolenta, ostacola l'identificazione della provenienza illecita del bene. La Cassazione, con la sentenza 21925, respinge il ricorso contro la condanna per il reato previsto dall'articolo 648-bis del Codice penale, inflitta a una decina di ricorrenti che, con distinte di trasferimento o depositi in conto corrente, avevano cercato di cancellare le tracce dell'origine delittuosa del denaro, sottratto alla procedura concorsuale di una società fallita. Soldi acquisiti in seguito a operazioni di trasferimento fatte direttamente dai falliti o da soggetti che a loro volta le avevano ricevute da questi ultimi. Ad accomunare tutti i ricorrenti la non consapevolezza che il denaro avesse una provenienza illecita: per la difesa mancava l'elemento psicologico del reato che non poteva essere provato solo dal possesso della cosa derivata dal delitto. Inoltre il versamento di titoli, in rapida successione, su due conti correnti diversi non sarebbe idonea a rendere difficile l'identificazione della “fonte”, tanto che le somme erano state facilmente sequestrate. Alcuni ricorrenti, infine, invocavano l'applicazione della norma sulla ricettazione (articolo 648 del Codice penale) in virtù della mancata restituzione del denaro “occultato”. Ma i ricorsi non passano. La Cassazione chiarisce che per il reato di riciclaggio “l'efficacia dissimulatoria del soggetto agente rispetto all'origine delle somme non deve essere assoluta”. Sia dalla norma sia dall'elaborazione della giurisprudenza si deduce, infatti, che il reato scatta non solo quando l'operazione impedisce in modo definitivo di risalire all'origine dei beni ma anche quando rende difficile l'operazione. E' dunque ininfluente che le molteplici operazioni post fallimentari fossero tracciabili, perché l'astratta individuabilità dell'origine del bene non è parte integrante del reato. Non vale a farsi attribuire il reato di ricettazione neppure la mancata restituzione del denaro perché per il reato di riciclaggio non serve che il compendio “ripulito” torni a chi lo aveva movimentato. Pescara: detenuto di 41 anni si uccide in carcere Il Centro, 18 maggio 2018 Dramma dietro le sbarre, M.R. 41 anni, di Pescara, stava scontando una pena di 3 anni e 6 mesi per reati vari contro il patrimonio. Capece (Sappe): "Sbagliato pensare che l'emergenza sociale sia superata". Dramma dietro le sbarre. Un detenuto del carcere San Donato di Pescara si è ucciso questa mattina impiccandosi nella sua cella. L'uomo, 40 anni, di Pescara, le cui iniziali sono M.R, stava scontando una pena di 3 anni e 6 mesi per reati vari contro il patrimonio. L'allarme è scattato questa mattina nel corso del consueto giro d'ispezione nei bracci del carcere. Vani i tentativi per strapparlo alla morte. E' stata chiamata anche un'ambulanza del 118. Ma per M.R. non c'era più nulla da fare. I reati per i quali il 40enne stava scontando la condanna risalgono al 2011-2014. La direzione del carcere ha fatto scattare d'ufficio l'indagine interna. Nota di Riccardo Arena, direttore di Radio Carcere Pescara, mercoledì 16 maggio. Massimo Russi di 41 anni, si uccide nel carcere San Donato di Pescara. L’uomo, che era detenuto in attesa di una sentenza definitiva, si sarebbe impiccato con un lenzuolo attaccato sbarre della cella e, cosa assai strana, pare che i compagni di cella non si siano accorti di nulla. Ma le stranezze non finiscono qui. Infatti Massimo Russi, che era tossicodipendente, era stato visitato il giorno prima dalla psicologo che pare non avesse intravisto il rischio suicidario ed era anche sottoposto a grande sorveglianza proprio per evitare che si uccidesse. Psicologo e grande sorveglianza che di fatto non sono serviti a nulla, tanto che non hanno impedito a Massimo di farla finita. Sta di fatto che salgono così a 16 i detenuti che si sono suicidati nei primi 5 mesi del 2018, per un totale di 42 decessi avvenuti quest’anno. Teramo: s'impicca a 31 anni in carcere, il Ministero risarcirà la famiglia quotidianodipuglia.it, 18 maggio 2018 Riconosciuta la responsabilità del personale del carcere di Teramo per la morte per impiccagione di Cosimo Intrepido, di Trepuzzi, 31 anni, quando la sera del 30 giugno del 2011 fu trovato in cella senza vita. Il giudice civile Monica Croci del Tribunale dell’Aquila ha liquidato 193mila euro a titolo di risarcimento ai familiari della vittima che avevano citato il Ministero della Giustizia con la causa intentata dall’avvocato Antonio Savoia: se fossero stati osservati rigorosamente i tempi dei controlli previsti dal regime di “Grandissima sorveglianza”, ci sarebbero state buone probabilità di salvare la vita del detenuto, sostiene la sentenza. “Grandissima sorveglianza”: perché Intrepido aveva già tentato perlomeno altre quattro volte di togliersi la vita. E fra la documentazione a disposizione del personale del carcere, anche due consulenze psichiatriche che confermavano la tendenza a togliersi la vita. Negli ultimi tempi, tuttavia, non aveva manifestato comportamenti autolesionisti o tendenti al suicidio, tanto da indurre la direzione del carcere di Teramo a sostituire la “Grandissima sorveglianza, ossia passaggi dalla cella ogni 15 minuti, con la “Sorveglianza a vista”. L’ultima settimana era passata senza allarmi. Tuttavia proprio nel tempo trascorso fra un controllo a vista ed un altro che il processo civile ha individuato le ragioni per accogliere le istanze dei familiari di Intrepido: “La Grandissima sorveglianza esige controlli “almeno ogni 15 minuti”, peraltro insistendo sull’attenzione e sul rigore nel loro svolgimento. Sicchè un ritardo, anche se minimo, integra comunque una condotta colposa. Ne consegue che... (viene citato il nome di un assistente capo della polizia penitenziaria, nell’organizzare il giro insieme all’infermiera, avrebbe dovuto iniziare dalla semisezione nord, ove si trovava Intrepido. Oppure sospendere il giro, eseguire il controllo e riprenderlo subito dopo. E’ ragionevole ritenere che, ove l’intervallo prescritto fra un controllo e l’altro, fosse stato osservato con la puntualità dovuta, Intrepido sarebbe stato colto sul fatto. O, quantomeno, i soccorsi avrebbero avuto una più elevata possibilità di successo”. La sentenza dice anche che il detenuto noto nel Salento per le rapine ed i furti seriali durante le feste natalizie del 2006, l’1 giugno avesse ricevuto la notizia di un cumulo di pene che avrebbe prolungato la detenzione. E che il 28 giugno avesse presentato una istanza di trasferimento in un carcere che consentisse di ricevere con più frequenza le visite dei familiari. Napoli: nuova operazione al giovane detenuto in coma cronachedellacampania.it, 18 maggio 2018 La famiglia protesta: "Perché piantonarlo?". ”Vi scriviamo sperando che ci diate voce. Tutto ciò per far sì che la popolazione sia resa consapevole dei fatti che caratterizzano questo mondo abitato, checché se ne possa dire, anche e soprattutto da persone. Siamo attenzionati, e lo siamo quotidianamente, per il nostro vissuto, per i reati che ci addossiamo, per i comportamenti, per la mentalità e per tutto ciò che possa concernere un modo di vivere errato e che ha come paternità il disagio, la mancata istruzione, l’assenza di lavoro, l’abbandono delle istituzioni, la carenza di servizi e del controllo sociosanitario”. Inizia la lettera che i detenuti del padiglione Avellino del carcere di Poggioreale hanno inviato al quotidiano Il Roma, che l’ha pubblicata nell’edizione oggi in edicola. Sono gli stessi detenuti che hanno condiviso la detenzione con Michele Antonio Elia, detto Miky, il 20enne figlio del boss del Pallonetto di Santa Lucia e di Adriana Bianchi. Il giovane si trova ora nel reparto rianimazione dell’ospedale Cto ed è in coma per una otite curata male in carcere e che gli ha causato una infezione cerebrale per la quale è stato sottoposto a una delicatissima operazione chirurgica. Mercoledì il ragazzo ha subito il secondo intervento chirurgico alla testa per la rimozione di un’importante quantità di pus che era tornata a formarsi. “Dal giorno del ricovero non ha mai più ripreso conoscenza- hanno spiegato i familiari al giornale Il Roma- le sue condizioni sono purtroppo disperate. Come noi del resto. Secondo noi è un vero scandalo che Michele, nonostante sia in coma ormai da giorni, si trovi ancora piantonato. Un agente di polizia penitenziaria, in divisa e quindi non sterilizzato, lo tiene continuamente sotto controllo come se potesse muoversi da quel letto. La verità è che si è persa ogni forma di rispetto per il dolore e la dignità dell’uomo. Se oggi Michele è in qualche modo ancora vivo lo dobbiamo soltanto al cugino che si trovava detenuto con lui nella stessa cella. È stato lui a prenderlo di peso e ad avvertire le ‘guardie’. Le ultime parole di Michele, stando a quanto ci hanno riferito, sono state aiutatemi, sto morendo”. Dopo di che si è accasciato al suolo guardando le foto dei suoi fratellini”. Ma quello che è accaduto in carcere lo raccontano i detenuti nella lettera inviata a Il Roma: “Giorni fa un nostro compagno di detenzione ha dovuto essere ricoverato con urgenza in ospedale perché manifestava dei sintomi seri che sono stati recepiti dalla sanità interna (quella del carcere di Poggioreale, ndr) solo dopo circa un mese di lamentele messe in atto con forza civile e con un confronto diretto con le istituzioni. L’inascoltata richiesta di aiuto di Michele Elia ha sicuramente aggravato il suo problema di salute e si spera in modo non decisivo per la sua giovane vita. Troppo spesso la sanità nelle carceri ha subito, giustamente, critiche, anche se nei fatti, forse, nessuno ha poi mai pagato per i propri errori. Non vogliamo accusare nessuno, vorremmo però che fossimo considerati, almeno nell’ambito sanitario, come pazienti bisognosi di attenzioni quando il caso lo richiede e curati indipendentemente dai reati, le colpe e il luogo di restrizione. Siamo stanchi di essere il ‘sapone’ che serve per pulire le coscienze di chi ci usa per i propri scopi e si arroga il diritto di poterci manipolare certo di quell’immunità dovuta alla nostra posizione sociale. Siamo stanchi di sentire abusi di ogni genere ed essere trattati come i portatori di tutti i mali della società. Siamo costernati e avviliti per essere classificati al di sotto della razza animale ed essere etichettati tutti i giorni come se il farlo rendesse migliori i detrattori e il loro mondo. Siamo e vorremmo essere soprattutto degli uomini migliori, con le loro colpe ma consapevoli di avere un cuore, un’anima e tanto di quell’amore che i reati e chi li cavalca hanno relegato nel dimenticatoio. Non lasciate che la disinformazione si appropri della verità e dei fatti reali che hanno caratterizzato quest’ennesima brutta vicenda che ha avuto come teatro un luogo come il carcere, sempre pronto a essere additato e usato come discarica sia sociale che di convenienza”. Lecce: quelle Scappatelle (dal carcere) che sanno di buono di Licia Granello La Repubblica, 18 maggio 2018 Un nuovo prodotto nato dal lavoro dei detenuti di Bari e Nisida: biscotti biologici e vegani realizzati da Made in Carcere, l'associazione creata da Luciana Delle Donne. Si chiamano Scappatelle, pur senza avere nulla a che vedere con allegre (o riprovevoli, dipende dai punti di vista) distrazioni coniugali. Sono invece dei biscotti buoni, buonissimi, preparati con ingredienti da far invida alle migliori ricette di Slow Food: farina di grano duro Senatore Cappelli, zucchero di canna integrale biologico, vino Primitivo di Manduria Dop, olio extravergine pugliese, lievito naturale, sale marino. Vegane ante litteram perché senza latte, né uova, e soprattutto senza additivi chimici. Escono fragranti dagli stampini a forma di cuore per finire in sacchettini trasparenti, e da lì dentro eleganti scatoline a righe bianche e azzurre. Al centro, una finestrella di cartoncino a sbarre. Nessun volo di fantasia, se è vero che le Scappatelle sono prodotte nei carceri di Bari e Nisida. Ad avviare questa e molte altre produzioni “Made in carcere”, la donna che proprio con questo marchio - creato nel 2007 sotto l’egida dell’Onlus Officina Creativa - sta cambiando l’approccio alla detenzione femminile in Italia. Luciana Delle Donne (nomen omen) ha un passato di prestigiosa manager bancaria, carriera abbandonata per traslocare in quella che lei chiama “la seconda vita”, con la sicurezza di aver fatto la cosa giusta al momento giusto. In principio furono i manufatti. E lo sono ancora: borse e sciarpe, cappelli e gilet realizzati con tessuti di recupero, originali, multicolori, divertenti, funzionali. Le prime a cucire sono state le detenute del carcere di Lecce, la città natale di Delle Donne. Il piccolo laboratorio di un tempo oggi è un vero atelier, dove si lavorano pelli, stoffe e sete donate da vecchi opifici e nuove maison, ultima in ordine di tempo quella di Santo Versace, tremila kg di filati per la collezione Made in Carcere 2018/2019. Ma chi è nato in Puglia conserva un legame con terra e cucina impossibile da sciogliere. Anche per questo, negli anni è cominciata la produzione di presine, tovagliette e portabicchieri da degustazione. Di volta in volta, ritagli di camiceria e stoffe da rivestimenti, pizzi e velluti danno un tocco originale e chic a gadgets aziendali altrimenti banali e dimenticabilissimi. In carcere, malgrado tutte le statistiche premino l’impegno dei detenuti (l’80% di chi impara e svolge un mestiere dietro le sbarre non torna a delinquere, percentuale inversa per chi non lavora) l’organizzazione produttiva è alquanto complessa e solo i direttori più illuminati incentivano la produzione carceraria. Avere commesse importanti significa coinvolgere un numero crescente di detenute, che lavorando e ricevendo uno stipendio, ridanno dignità a se stesse e ai loro famigliari. Così, in occasione della Festa della Mamma, trentamila presine cucite nel carcere femminile di Trani sono finite sugli scaffali della catena di supermercati del gruppo MegaMark, alter ego meridionale di Esselunga con cinquecento punti vendita e tremila dipendenti. A distinguere la società di Francesco Pomarico è l’inusuale vocazione etica, che recentemente le è valsa l’inserimento tra le dieci grandi aziende italiane del sud dove si lavora meglio, da parte della società tedesca di ricerche di mercato Statista. A partire dalla prossima settimana, nei 500 punti vendita Megamark arrivano le buone, sane, etiche Scappatelle. Che portano la firma dei detenuti adulti di Bari e dei ragazzi - tra i 15 e i 25 anni - del carcere minorile di Nisida, Napoli, dove l’investimento sulla “second chance” è più difficile e necessario e la quantità di biscotti richiesti e prodotti direttamente proporzionale alle possibilità di successo del laboratorio. Nel frattempo, Delle Donne sta studiando la ricetta dei nuovissimi crackers Made in Carcere: buoni, etici e sani almeno quanto le Scappatelle. Torino: Premio “Goliarda Sapienza”, detenuti aspiranti scrittori al Salone del Libro di Maria Cristina Fraddosio La Repubblica, 18 maggio 2018 Al Salone del Libro di Torino per la prima volta i detenuti finalisti della settima edizione del premio di scrittura “Goliarda Sapienza”. Vincitore Eugenio Deidda. Dal 3 maggio, in libreria la raccolta di racconti dal carcere “Avrei voluto un’altra vita”. Si è conclusa la settimana edizione del premio di scrittura per detenuti, intitolato alla scrittrice siciliana Goliarda Sapienza. Un vincitore su tutti. Il suo pseudonimo è Edmond Dantès, come l’omonimo protagonista del romanzo di Dumas Il conte di Montecristo. La premiazione si è svolta per la prima volta fuori dal carcere, all’interno della Sala Rosa del Salone internazionale del libro di Torino giovedì 10 maggio. Una novità assoluta, la partecipazione dei detenuti finalisti. In totale 15 su 60 partecipanti, provenienti da diversi penitenziari: Rebibbia maschile e femminile, Santa Maria Capua Vetere e Saluzzo. Il premio, “Racconti dal carcere”, nasce da un progetto di Antonella Bolelli Ferrera, promosso da inVerso Onlus, dal Dipartimenti dell’Amministrazione Penitenziaria e dalla SIAE. Il laboratorio di scrittura eWriting. Quest’anno, diversamente dalle precedenti edizioni, le lezioni si sono svolte per quattro mesi attraverso il coinvolgimento dell’Università eCampus che ha messo in campo il metodo eWriting, una sorta di laboratorio di scrittura e-learning. Gli aspiranti scrittori hanno seguito simultaneamente le lezioni attraverso un collegamento diretto tra i vari penitenziari e l’aula universitaria. Per tutor, le eccellenze della letteratura contemporanea. A partire dalla madrina del premio, Dacia Maraini, al direttore del Salone del libro, Nicola Lagioia. Presente durante la premiazione anche Erri De Luca, che nel corso del progetto ha preferito svolgere gli incontri direttamente in carcere, e ancora Paolo Di Paolo e Pino Corrias. I quindici incontri formativi, per un totale di trenta ore, sono serviti agli aspiranti scrittori a chiarirsi le idee in merito alla storia da narrare. La giuria, presieduta da Elio Pecora e composta per la prima volta da giornalisti e scrittori, ha decretato poi i quindici finalisti. Il vincitore. Il primo premio è stato assegnato a Eugenio Deidda, ventottenne, detenuto presso la casa circondariale di Rebibbia. Una sorta di talento prodigio della letteratura, acclamato anche da alcune classi di liceali torinesi che, dopo aver letto alcuni suoi racconti, pubblicati con il titolo “Ho sogni più alti di queste mura”, hanno avviato una fitta corrispondenza con l’autore. Lo pseudonimo da lui scelto si ispira al protagonista del celebre romanzo di Dumas, Edmond Dantès. “Sette pazzi” è il titolo dell’elaborato, dedicato alla malattia mentale e premiato con una somma in denaro di tremila euro che ha deciso, in parte, di devolvere a una palestra del suo quartiere d’origine a Roma. “Dedico il premio agli ultimi”, ha detto. Il suo scrittore preferito è Jack London. Si augura, infatti, di scrivere un romanzo ispirandosi a lui. “Certo non sono finito per sbaglio in carcere: la mia vita è stata piena di errori. Ma mi sento così lontano da ciò che ero quando ho commesso quelle azioni, che inevitabilmente sono ancora più perso, e perdersi tra i perduti non aiuta”, scrive nel racconto che si è aggiudicato il primo premio. Dal carcere alla libreria. Tra le donne finaliste si è distinta Patrizia Durantini, detenuta a Rebibbia, ventidue anni, con il racconto “Ti ho ucciso”, che sviscera il rapporto paterno estremamente conflittuale attraverso una tensione che culmina con un colpo di scena. Il premio speciale Vatican News, partner della settima edizione del progetto, è andato ex aequo a due racconti di Salvatore di Torre alias Arizona: “Cose che capitano a Palermo” e “Allegoria di un’espiazione senza attenuanti”. Premio speciale, invece, a “Si prontu?” di Gesuele Ventrice. Per la prima volta fuori dal carcere lettori, studenti e detenuti, anche del reparto alta sicurezza, hanno condiviso la possibilità di trovare un punto di contatto attraverso la scrittura. Dal 3 maggio, infatti, è in libreria il frutto di questo straordinario progetto che usa - come ha detto Erri De Luca - “la scrittura come forma di liberazione e di approfondimento della propria persona”. Per chi avrà voglia di leggerlo, “Avrei voluto un’altra vita”, edito da Giulio Perrone editore, è il titolo della raccolta di racconti dal carcere. Catania: domani convegno "Tutela dei diritti fondamentali e sistema penitenziario" agenda.unict.it, 18 maggio 2018 "Prospettive e criticità alla luce della riforma Orlando". Sabato 19 maggio alle 8:30, nell'aula magna di Villa Cerami (Dipartimento di Giurisprudenza), si svolge la giornata di studi sul tema "Tutela dei diritti fondamentali e sistema penitenziario: prospettive e criticità alla luce della riforma Orlando (Legge delega n. 103/2017)". Si tratta del primo incontro dell’anno, conclusivo di tre cicli annuali di iniziative organizzate dal Centro di Diritto Penale Europeo, in collaborazione con l’Università di Catania, nel quadro del progetto “Re-launching the Centro as a leading cultural association to foster education and legal training in European Criminal law”, cofinanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma “Erasmus+ - Jean Monnet Support to Associations”, che ha l’obiettivo di contribuire all’opera di sensibilizzazione dei giuristi italiani sulle tematiche inerenti al fenomeno dell’incidenza del diritto dell’Unione europea sul diritto penale nazionale. In quest’ultimo ciclo di seminari e conferenze, in particolare, l’attenzione sarà maggiormente focalizzata sulla tutela dei diritti fondamentali degli individui, che risulta il contrappeso indispensabile in relazione al necessario bilanciamento con le esigenze di sicurezza e difesa sociale, che deve indirizzare le scelte di criminalizzazione del legislatore e l’opera ermeneutica della giurisprudenza sia a livello nazionale sia a livello sovranazionale. Le questioni generali relative alle finalità della sanzione penale e le principali tendenze di riforma del sistema sanzionatorio saranno oggetto della relazione introduttiva del prof. Luciano Eusebi ("Quali pene per quale prevenzione? Stato dell’arte e prospettive di un apparato sanzionatorio ormai (quasi) centenario"), la cui attività di ricerca da lungo tempo si è concentrata sulla rivalutazione di forme di giustizia riparativa. Viene accordata una speciale attenzione al rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti da conciliare con le esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina e vengono gettate le basi di un intervento riformatore del procedimento di sorveglianza. A tali profili, saranno in particolare dedicate le relazioni del prof. Luca Masera, che analizzerà specificamente gli effetti spiegati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu) sul sistema penitenziario italiano (Divieto di trattamenti inumani e degradanti e sistema penitenziario: le frizioni con la giurisprudenza della Corte Edu) e del dott. Marcello Bortolato che, in qualità di presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, fornirà un prezioso contributo basato sulla propria esperienza personale con riguardo alla possibilità di assolvere alle esigenze di risocializzazione del detenuto attraverso pene privative della libertà personale da scontarsi in carcere ("Carcere e risocializzazione: un binomio ancora possibile?"). Più specificamente all’analisi del recente intervento di riforma sarà dedicata la relazione del prof. Fabrizio Siracusano che, in qualità di componente della Commissione presieduta dal prof. Giostra, fornirà una prospettiva privilegiata e particolarmente esperta sulle questioni sollevate da tale intervento e sulle concrete possibilità di attuazione di esso ("Automatismi preclusivi e individualizzazione del trattamento nella legge delega in materia di ordinamento penitenziario"). Gli interventi del prof. Vincenzo Scalia, dell’Osservatorio nazionale Antigone, dell’avv. Salvo Cannata e della dott.ssa Valeria Scalia, si occuperanno di fornire una visione su alcune problematiche applicative relative alla tematica trattata, in prospettiva nazionale e sovranazionale. La presidenza della giornata di studi affidata al dott. Carmelo Giongrandi, nel suo ruolo di presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catania, garantirà un coordinamento esperto e particolarmente avveduto delle relazioni, degli interventi e del dibattito. Infine, la relazione di sintesi del prof. Giovanni Fiandaca, nella sua attuale qualità di Garante dei diritti dei detenuti della Regione Siciliana, accompagnata dalla lunga esperienza di ricerca e di attività accademica nell’ambito del diritto penale sostanziale, fornirà un’insostituibile visione prospettica delle questioni, che concilia e sintetizza i profili teorici relativi alle funzioni della sanzione penale e alle linee programmatiche della riforma del sistema sanzionatorio, con l’applicazione pratica nell’ambito dell’esecuzione della pena detentiva in carcere, derivante della sua recente esperienza come Garante dei diritti dei detenuti. Sassari: carceri e detenuti, si parla di opportunità di riabilitazione La Nuova Sardegna, 18 maggio 2018 Le carceri dovrebbero un luogo di riabilitazione, e non solo di pena. Una tematica che verrà sviluppata in tutte le sue angolazione nel convegno che si svolgerà domani, a partire dalle 15,30, nei locali dell’Hotel Carlo Felice a Sassari. L’evento è organizzato dal Rotary Club di Sassari Nord, e il titolo è “Il detenuto: opportunità rieducative intramurarie”. Alle 16 presenteranno i lavori l’avvocato Luigi Esposito, presidente del Rotary Club Sassari, e Alessandra Cuccu, presidente dell’Incoming Rotary Club. Interverranno il presidente del tribunale di sorveglianza Ida Soro, il presidente dell’ordine forense Mariano Mameli, il presidente della Camera penale Marco Palmieri. Alle 16,30 il senatore Ettore Licheri affronterà il tema “Lacune e prospettive legislative”. Luisa Diez, magistrato di sorveglianza, parlerà della funzione rieducativa della pena”. Giampaolo Cassitta, dirigente del Ministero della Giustizia, alle 17 illustrerà la rieducazione intramuraria. Il garante dei detenuti Mario dossoni descriverà invece il suo ruolo e la sua attività nella struttura penitenziaria. alle 17,30 Maria Teresa Pintus, dell’Osservatorio Camera Penale, parlerà del ruolo dell’avvocatura. Michele Gallarato, educatore della casa reclusione Momone, interverrà sul lavoro in carcere come impresa. alle 1755 Giovanni Sanna, titolare della società Studio Vacanze, parlerà dell’incontro tra prodotti, detenuti e turismo sostenibile. Piergiorgio Poddighe spiegherà il ruolo del Rotary. L’incontro terminerà con gli interventi di don Gaetano Galia, cappellano del carcere di Bancali, e con il consigliere regionale Antonello Peru, che darà la testimonianza di un detenuto. A moderare il convegno sarà la giornalista Daniela Scano, che dirige la cronaca di Sassari del quotidiano La Nuova Sardegna. La conclusione dei lavori è fissata alle 19. Rieti: Ramadan in carcere, donati ai detenuti di religione islamica latte, riso e dolci Corriere di Rieti, 18 maggio 2018 Inizia oggi il Ramadan, mese di digiuno per i fedeli di religione islamica. La Sesta Opera San Fedele Rieti - Associazione di Volontariato Penitenziario per l’Assistenza ed il Reinserimento Sociale dei Detenuti, l’Associazione Arabi Insieme della Moschea della Pace di Rieti e il Movimento Cristiano Lavoratori, donano ai detenuti di religione islamica presso la Casa Circondariale di Rieti Nuovo Complesso, 100 litri di latte, 100 chili di riso e 100 buste di dolci, per la sospensione notturna del digiuno con un piccolo nutrimento. “Come negli anni scorsi - affermano Nazzareno Figorilli presidente della Sesta Opera San Fedele Rieri ed Abdelilah Atiq presidente dell’Associazione Arabi Insieme, entrambi assistenti volontari penitenziari - invitiamo i detenuti islamici ad un’agape fraterna del corpo e dello spirito, per ritrovare insieme le ragioni della fratellanza universale, dell’amore reciproco e della pace, in un periodo di difficoltà tra popoli di etnia, cultura e religione diverse”. “L’esperienza dell’incontro e dell’ascolto del detenuto, il vissuto nell’entrare nella sua pelle per viverne la sofferenza - dichiarano Nazzareno ed Abdelilah - è un dono che viene da Dio, non è spiegabile, è vissuto con gioia tra le difficoltà ambientali che questo servizio di carità ti dona”. Venezuela. La rivolta dei prigionieri politici contro i pestaggi di Francesco Semprini La Stampa, 18 maggio 2018 Caos, disordine e degenerazione travolgono il Venezuela a tre giorni dal voto presidenziale, considerato dai più l’ennesima farsa del regime di Nicolas Maduro. Ai colpi di mano di Caracas, alla devastazione economica e sociale, alle fughe di massa e al marcio della corruzione, si aggiunge anche il dramma delle popolazioni carcerarie. Come quella di Sebin dove un gruppo di detenuti, fra i quali oltre 50 prigionieri politici, hanno preso parte a una rivolta con reiterati pestaggi. Non è chiaro ancora quali siano state le cause anche per le informazioni frammentate e filtrate delle autorità della sede centrale del Servizio Bolivariano di Intelligence, nella capitale, dove si trova il carcere. La notizia si è appresa dalle immagini pubblicate su social e siti, dove sono apparsi l’ex sindaco Daniel Ceballos e l’americano Joshua Holt, un missionario mormone accusato di trame golpiste. Sono stati loro a raccontare che la rivolta è scoppiata a causa della mancata scarcerazione di alcuni detenuti,malgrado sia stato ordinato dalla giustizia. “Violati i diritti umani” “Vogliamo vedere se esiste qualcuno capace che venga a mostrare la sua faccia in questa prigione sotterranea dove uccidono la gente, si violano i diritti umani”, ha implorato Ceballos. A far inorridire è stata la foto di Gregory Sanabria, un manifestante oppositore in attesa di giudizio dal 2014, con il viso tumefatto dai colpi ricevuti, probabilmente dal personale di sicurezza della prigione. Il Procuratore generale, Tarek William Saab, da parte sua, ha assicurato di aver inviato una delegazione al Sebin “per parlare con i reclusi e ricevere le loro richieste”. La missione diplomatica Usa a Caracas ha invece diffuso un comunicato nel quale esprime la sua “forte preoccupazione” per la situazione, che ha messo in pericolo Holt e altri cittadini americani. “Il governo del Venezuela - prosegue - è direttamente responsabile della loro sicurezza e saranno chiamati a rispondere se succedesse qualcosa ai detenuti”. Sulla stessa linea l’Alto Commissariato Onu per i Diritti umani (Unhchr) che ha “deplorato” il “severo pestaggio” di Sanabria. “Chiediamo che sia garantito un trattamento umano a tutti i prigionieri e sollecitiamo che sia aperta un’inchiesta sul ricorso a tortura e maltrattamenti “, ha aggiunto l’agenzia su Twitter, sottolineando che “tutti i prigionieri politici devono essere liberati “. La Conferenza episcopale del Venezuela ha invece chiesto al governo di Maduro di “rispettare la vita di chi si trova sotto la sua responsabilità”, perché lo Stato è responsabile della “vita e dell’integrità fisica delle persone detenute”. Venezuela. Il voto non ferma la fuga, Nicolás Maduro blinda la frontiera di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 18 maggio 2018 Donne che vendono i capelli (a 20 euro) per non prostituirsi, anche i medici si uniscono al milione di profughi in Colombia per non soffrire la fame e vedere i pazienti morire. Al ristorante Mundipollo la fila comincia all’alba. Non sono clienti, ma disperati che ricevono gli avanzi della sera prima. Un po’ di carne rimasta attaccata ad ali di pollo fritto. Molte le donne con i bambini in braccio, arrivano con sacchetti di plastica e persino secchi per portarne via il più possibile. Piazza Simon Bolivar: la statua a cavallo del Libertador, ironia nella tragedia, guarda i venezuelani ridotti alla fame dalla rivoluzione fatta in suo nome. In un’altra piazza di Cucuta, il Parque Santander, il signor Aristides ha un cartello al collo con la scritta “Si comprano capelli” e sta esaminando un paio di ciocche biondastre portate da un ragazzo. Le interessate sono accompagnate in una specie di parrucchiere clandestino al secondo piano di un edificio commerciale. Ne escono con il corrispettivo di 20 o 30 euro e gli occhi gonfi di lacrime. Il loro tesoro - nessuno tiene tanto ai capelli lunghi e lisci come una venezuelana - diventerà parrucca in una fabbrica di Medellín. Gladys schiva le domande ma l’amica, borbotta amara: “Piuttosto finisco in strada stanotte, ma questi non si toccano”. Verso la Colombia - Vendere i capelli per disperazione, in alternativa alla prostituzione; raccattare avanzi in un ristorante, piuttosto che rovistare nei bidoni della spazzatura. La grande fuga dei venezuelani attraverso questa città di confine - un tempo nota solo per i terremoti e i giganteschi alberi tropicali - accumula ogni giorno che passa storie atroci e problemi sempre meno gestibili. Un milione di persone è la stima di coloro che dagli effetti nefasti del chavismo gestito da Nicolás Maduro sono fuggiti verso la vicina Colombia, tre milioni la diaspora in tutto il mondo. È la più grave crisi umanitaria in Occidente da decenni. Ogni giorno passano attraverso il ponte che unisce i due Paesi dalle 30.000 alle 40.000 persone, molti per comprare di tutto e tornare a casa, altri per lasciare il Venezuela per sempre. Il picco in questi giorni alla vigilia delle elezioni presidenziali truffa che si svolgeranno domenica. Da stamani, per ordine di Caracas, il ponte resterà chiuso fino a dopo il voto. I rifugiati - Ad attendere i rifugiati da questo lato del confine una diabolica economia nata sulla loro tragedia: la vendita di passaggi in autobus per qualunque città della Colombia, ma anche Perù, Ecuador e giù giù fino a Santiago del Cile o Buenos Aires, il ritiro della loro moneta ridotta a carta straccia, l’offerta di qualunque forma di lavoro nero e sfruttamento. Ma ci sono anche notevoli sforzi di aiuto umanitario. In città funzionano una decina di rifugi messi in piedi dal governo con l’aiuto dell’Onu e di organizzazioni religiose. “La Colombia non è mai stato un Paese di immigrazione, non eravamo pronti ma ora le cose sono molte migliorate”, ammette nel suo ufficio Juan Carlos Cortes, il responsabile della frontiera nel governo locale. In un’altra piazza del centro la fila dei venezuelani sotto un sole implacabile è lunga tre isolati per andare a ritirare soldi arrivati da amici e parenti all’estero. Gestisce i numerini una signora con la mascherina sulla bocca. Non si sa mai. Le notizie vere o esagerate sulla diffusione di malattie portate dai venezuelani sono circolate in fretta, qui come alla frontiera con il Brasile, l’altro sbocco di fuga. In Venezuela è al collasso anche il sistema sanitario. Il ponte - Per averne un’idea occorre fare il cammino inverso della marea umana lungo il ponte Simon Bolivar (da tre anni si passa solo a piedi) poi prendere un taxi e dopo un’ora arrivare all’ospedale centrale di San Cristobal, la prima città venezuelana della regione. Epicentro della rivolta del 2014 soffocata nel sangue, questa comunità ne ha pagato duramente le conseguenze. Il sindaco legittimo Daniel Ceballos è da quattro anni sotto arresto e ora è in una cella dei servizi segreti del regime a Caracas. I suoi ex governati stanno appena un po’ meglio. Una dottoressa dell’ospedale racconta che il 70 per cento dei medici e degli infermieri si sono volatilizzati nel giro degli ultimi sei mesi e che in pratica la sanità pubblica a San Cristobal non esiste più. Con salari frantumati dall’inflazione a pochi dollari al mese (tre, secondo il cambio nero) in molti sono stati costretti a fare altro. O hanno passato il ponte per Cucuta, o sono entrati nella catena dell’economia informale, che all’apice della necessità diventa contrabbando. “Anche se tornassero tutti, ormai metà delle apparecchiature qui è sparita”.