Nel “contratto” tra Lega e 5Stelle l’idea di un carcere senza speranza di Liana Milella La Repubblica, 17 maggio 2018 Sono numerose, nel “contratto”, le misure in tema di giustizia e lotta alla corruzione. Sul primo fronte è prevista la legittima difesa domiciliare, l’inasprimento delle pene per violenza sessuale, furto, scippo, rapina e truffa, nonché “una seria riforma della prescrizione dei reati” senza tuttavia specificare come. Oltre a una stretta sulla imputabilità e gli sconti di pena per i minori. Contro la corruzione si pensa invece di aumentare tutte le pene per i reati contro la pubblica amministrazione vietando il ricorso a sconti e riti premiali alternativi; di istituire il Daspo a vita per corrotti e corruttori; di introdurre gli “agenti provocatori” sotto copertura per favorire l’emersione dei fenomeni corruttivi. Sappiamo da dove sono partiti, non può meravigliare dove sono arrivati. Sulla giustizia il libro di M5S e Lega era già scritto, e stupisce lo stupore di noti pasdaran di Berlusconi come Gelmini e Costa. La fotografia era lì, in archivio. Quella delle platee grilline che a Roma e Ivrea applaudono entusiaste Davigo e Di Matteo, due pm da anni in battaglia per una lotta alla corruzione seria, leggi severe su chi evade, pene più alte per tenere in carcere i colpevoli (adesso ce ne sono meno di dieci). Idem per le platee leghiste che hanno sottoscritto la candidatura di Giulia Bongiorno, l’avvocato di cui si ricorda lo scontro con Berlusconi sulle intercettazioni. Lui voleva cancellarle, lei rafforzarle. E certo, proprio sul programma della giustizia, si celebra il funerale del rapporto Salvini-Berlusconi. Quest’ultimo, fresco di riabilitazione, non potrà benedire la prescrizione bloccata, gli agenti sotto copertura o infiltrati contro i corrotti, il Daspo per l’imprenditore che corrompe, né tantomeno la cancellazione tout court di qualsiasi sconto o indulto (proprio lui che ne ha goduto). Ma è sulla galera cieca e senza speranza che M5S sbaglia facendosi trascinare dai furori leghisti, come quelli sulla legittima difesa sempre e comunque che, nella versione salviniana, contiene in sé lo scenario del Far West. D’un colpo via tutte le leggi che hanno sì alleggerito le carceri, ma anche dato speranza a chi si ravvede. Costruiamo più celle e sbattiamo tutti dentro. Né Davigo, né Di Matteo, né tantomeno la Bongiorno l’hanno mai chiesto. Testo tratto dal contratto tra Lega e 5Stelle, Area ordinamento penitenziario Per far fronte al ricorrente fenomeno del sovraffollamento degli istituti penitenziari e garantire condizioni di dignità per le persone detenute, è indispensabile dare attuazione ad un piano per l’edilizia penitenziaria che preveda la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento ed ammodernamento delle attuali. Bisogna provvedere alla preoccupante carenza di personale di Polizia Penitenziaria con un piano straordinario di assunzioni, nonché intervenendo risolutivamente sulla qualità della vita lavorativa degli agenti in termini di tutele e di strutture. Occorre realizzare condizioni di sicurezza nelle carceri, rivedendo e modificando il protocollo della c.d. “sorveglianza dinamica” e del regime penitenziario “aperto”, mettendo in piena efficienza i sistemi di sorveglianza. È opportuno consentire al maggior numero possibile di detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane, di scontare la propria condanna nel Paese d'origine attraverso l’attivazione di accordi bilaterali di cooperazione giudiziaria con gli Stati di provenienza. È infine necessario riscrivere la c.d. "riforma dell’ordinamento penitenziario" al fine di garantire la certezza della pena per chi delinque, la maggior tutela della sicurezza dei cittadini, valorizzando altresì il lavoro in carcere come forma principale di rieducazione e reinserimento sociale della persona condannata. Si prevede altresì una rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali. Occorre rivedere altresì le nuove linee guida sul cd. 41bis, così da ottenere un effettivo rigore nel funzionamento del regime del "carcere duro". “Più carcere per tutti”, la giustizia da brividi di Lega e Cinque Stelle di Errico Novi Il Dubbio, 17 maggio 2018 Addio riforma penitenziaria e riti abbreviati: stretta totale. Nel contratto tra Lega e 5Stelle c’è anche la riapertura dei piccoli tribunali, ma per il resto domina una “furia giustizialista”. Una giustizia tagliata con l’accetta. Sotto la spinta di uno spirito a tratti anche “popolare”, ma il più delle volte sbrigativo e furibondo. È il tratto che si coglie nel capitolo 11 del “contratto” Lega- M5S. Una svolta su tutto, spesso in peggio. Seppur non priva di idee condivisibili, come quella di “rimuovere” il correntismo dal Csm attraverso una “revisione del sistema elettorale”, per i togati ma anche per i laici. Come la prevista riapertura dei Tribunali soppressi dalla legge Severino riportare la giustizia “vicino ai cittadini”. Ma troppe, davvero, sono le abiure che Salvini e Di Maio pretendono di imporre rispetto a tante scelte doverose della passata legislatura. Innanzitutto con la abrogazione di “tutti quei provvedimenti tesi unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari”. E ovviamente con la sostanziale cancellazione della riforma dell’ordinamento penitenziario: si prevede di “riscrivere” le nuove norme, e una “rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali”: a rischio dunque anche la legge Gozzini. Qui lo spirito draconiano raggiunge lo zenit, perché si parla di ripristinare la “certezza della pena” e si dà per scontato che le pene alternative siano caramelle di cortesia. Si rinnega tutto, si cancella il lavoro compiuto da magistrati, avvocati e accademici ai tavoli degli “Stati generali” voluti da Andrea Orlando. Ma forse la cosa più insopportabile nella sua inumanità, è il proposito di rivedere le linee guida di Consolo sul 41bis, quelle che ora consentono, a chi si trova nel “regime speciale”, di poter svolgere i colloqui con i familiari in condizioni più umane, soprattutto di poter toccare, abbracciare, i figli piccoli. Quando si prevede di sopprimere queste aperture in modo “da ottenere u effettivo funzionamento del regime del carcere duro”, così testualmente nominato, si dà sfogo a un mero impulso di violenza politica. Difficile soffermarsi su tutti i dettagli: il capitolo 11 del “Contratto per il governo del cambiamento” affronta la giustizia con uno spirito draconiano, scrupoloso e implacabile, a volte come detto segnato anche da un’apprezzabile idea di Stato più vicino ai cittadini e di argine alle derive del correntismo in magistratura. Difficile essere definitivi nella filologia del programma: alla versione pubblicata due giorni fa dall’Huffington post ieri è ne è subentrata una nuova, con limature solo lievi in materia di giustizia. In ogni caso, una veloce carrellata non può trascurare i punti di segno positivo. Si è detto delle “logiche spartitorie e correntizie in seno all’organo di autogoverno” su cui “sarà opportuno operare una revisione”. Giusta l’idea di chiudere in modo definitivo la partita “toghe in politica” con la previsione che il magistrato intenzionato a “intraprendere” una carriera da deputato o ministro debba “essere consapevole del fatto che non potrà tornare a vestire la toga”. Idea condivisa da Anm e Csm. Doppio segnale importante sull’accessibilità della giustizia. Sia in termini di vicinanza fisica, come detto, che di costi. Prevista la “rivisitazione della geografia giudiziaria - modificando la riforma del 2012”, cioè la Severino “con l’obiettivo di riportare Tribunali, Procure e Uffici del Giudice di pace vicino ai cittadini e alle imprese”. Doverosa e inevitabile la “completa implementazione del processo telematico” e ambiziosa l’idea di ampliare il piano di assunzioni realizzato da Orlando, sia per la “magistratura” che per il “personale amministrativo”. Maggiori incognite sulla “completa modifica della recente riforma” della magistratura onoraria, anche è se il proposito di affrontare “le coperture previdenziali” è sacrosanto. Giusto il progetto di formazione delle forze di polizia sulla “ricezione delle denunce” relative ai reati sessuali, come chiesto di recente dal Csm. Costosa ma inoppugnabile la dichiara volontà di sopprimere l’ultimo aumento del contributo unificato. C’è dunque una vocazione anche “popolare” nella giustizia di Lega e M5s. Ma è impressionante la venatura davighiana, ipergiustizialista, e appunto iconoclasta sul carcere, che segna tutto il paragrafo sul penale. Detto dell’abominio sul 41 bis e sul divieto di abbracciare i figli piccoli, arriva il temuto de profundis sulla riforma penitenziaria: si scorge l’addio al potenziamento delle misure alternative, e persino l’addio alla “sorveglianza dinamica” nelle carceri, che significa tenere tutti chiusi in cella 22 ore su 24. Nell’ultima versione è comparso un richiamo al “lavoro in carcere come forma principale di rieducazione e reinserimento sociale”, che è un’implicita chiusura alle pene alternative. Una visione cupa che sconfina nel nonsense, quando si prescrive la “abrogazione” degli “svuota carceri” : non una parola sul fatto che tra gli “sconti” introdotti di recente ci sono anche i rimedi riparatori imposti, di fatto, dalla sentenza Torreggiani. Se la sezione penitenziaria è distruttiva (tranne che in campo edilizio, considerata la volontà di “costruire nuove carceri”) quella su processi e pene fa tremare le vene ai polsi. Intanto si pensa di buttare a mare quel po’ di depenalizzazione attivata di recente e la stessa norma sulla archiviazione dei reati per tenuità del fatto. Torna il fantasma della “legge Molteni”, proposta dal plenipotenziario di Salvini sulla giustizia, che escluderebbe il rito abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo. Ma l’ombra di Davigo si staglia perentoria soprattutto a proposito della “seria riforma della prescrizione”, seppur bilanciata dall’obiettivo di un “processo giusto e tempestivo” che sarebbe realizzabile con le sole nuove assunzioni. Lo spirito draconiano si materializza appieno al solo evocare della parola “corruzione”: a parte una interessante volontà di “potenziare l’Anac”, che limiterebbe la giurisdizionalizzazione di ogni ipotesi di illecito, nel contratto si assiste alla seguente raffica: divieto di accesso ai riti premiali alternativi per i tutti i reati contro la Pa, aumento delle relative pene, “Daspo” per corrotti e corruttori, fino alla più davighiana delle proposte, la figura dell’”agente provocatore”. Scontato il potenziamento delle intercettazioni, che si tradurrebbe nell’estensione dell’uso dei trojan. Restano sullo sfondo le prevedibili asprezze sulla legittima difesa, terreno scivoloso e poco compatibile con la Costituzione vigente. Che vacilla in più punti, come sul “vincolo di mandato” spuntato in extremis, strappo uguale e contrario al paradosso segnalato ieri dal segretario di Radicali italiani Riccardo Magi: “Chi giura fedeltà ai Cinque Stelle anziché alla Nazione può fare il ministro?”. Forse no, ma vaglielo a spiegare. Don Grimaldi (Ispettore generale Cappellani): “nelle carceri è emergenza sanitaria” agensir.it, 17 maggio 2018 “Occorre portare umanità e attenzione alla persona al di là della legge, prendersi cura e annunciare il Vangelo per ravvivare la luce della speranza”. È l’esortazione di don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, al convegno nazionale Cei di pastorale della salute “Uno sguardo che cambia la realtà. La pastorale della salute tra visione e concretezza” che si chiude oggi a Roma. “Non bisogna mettere la legge al di sopra della vita”, afferma ricordando il diritto alla salute e alla cura per ogni individuo stabilito dalla Costituzione italiana, ma anche la realtà “molto complessa” della salute in carcere. “Soprattutto per i più poveri”, dal momento che “i ricchi fanno venire da fuori i migliori specialisti e si fanno curare”. La popolazione carceraria “è vulnerabile, in carcere è vera emergenza sanitaria. Per questo c’è bisogno di uno sguardo particolare”. “L’attuazione dei programmi per la salvaguardia della salute passa attraverso la formazione degli operatori della salute che operano a fianco degli operatori della sicurezza” ma passa anche attraverso la “difficoltà - permessi del magistrato, scarsità di mezzi e personale - di far curare un detenuto in strutture esterne al carcere”. E se dal 1° aprile 2018 il ministero della Giustizia “ha ascritto le competenze della sanità penitenziaria alle regioni, a fronte di risvolti positivi questo solleva anche molti interrogativi, soprattutto per la lentezza delle procedure”. Sui 198 istituti di pena solo 38 sono dotati di un centro clinico, ma di questi 13 non sono mai stati aperti. In carcere c’è un diffuso disagio psicologico, soprattutto fra gli stranieri, ma manca l’assistenza necessaria. Molti detenuti sono affetti da patologie croniche: cancro, leucemia, diabete, Alzheimer, depressione. “I cappellani - conclude Grimaldi - con la loro presenza sono di grande aiuto, ma la malattia vissuta nella solitudine di una cella è tremenda e la solitudine senza speranza uccide”. Sulla giustizia l'impossibile conciliazione degli opposti di Carlo Nordio Il Messaggero, 17 maggio 2018 Lega e Movimento 5 Stelle hanno dunque concluso il contratto di governo. Uno dei punti più controversi è stato, e temiamo sarà ancora, quello che riguarda la giustizia, e soprattutto la giustizia penale. Perché mentre la giustizia civile riflette essenzialmente conflitti di interessi economici o familiari, sui quali le convergenze sono più facili, quella penale esprime una vera e propria filosofia politica. E su questa le parti erano, fino a ieri, profondamente divise: lo erano per la loro storia "genetica", per i loro modelli anche personali di riferimento, e soprattutto, almeno la Lega, per contiguità e alleanze. Il partito di Salvini non perde infatti occasione di ribadire la fedeltà alla coalizione di centrodestra, che peraltro lo legittima come forza preminente di un raggruppamento con la maggioranza relativa dei voti e dei seggi. Ma il centrodestra ha, altrettanto geneticamente, una visione giudiziaria liberale e garantista, che Salvini non può smentire e nemmeno affievolire, pena lo sgretolamento della già vacillante impalcatura. Alcuni punti del contratto, quelli più generici, sono ovviamente condivisibili da tutti, e ripetono i programmi dei governi precedenti: processi più rapidi, risorse meglio distribuite, efficienza manageriale eccetera. Si tratterà semmai di vedere come, e con quali risorse, saranno (sarebbero) attuati. Altri sono particolarmente cari alla Lega, e su uno pare che i pentastellati abbiano, almeno in parte, ceduto. Alludiamo alla legittima difesa, che effettivamente, come abbiamo qui scritto più volte, riflette l'ideologia di un codice mussoliniano che costringe la vittima di un' aggressione, dopo essersi difesa in casa, a difendersi anche in tribunale. Incidentalmente tuttavia notiamo che l'attuale disciplina è stata rimodulata più di dieci anni fa dal leghista Ministro Castelli, e che non ha sortito effetto alcuno. Questo perché la sola modifica dell'articolo su questa "esimente" è del tutto inutile, se non si cambia l'intero sistema delle "cause di giustificazione" in cui è inserito. Ma questo è un problema tecnico che speriamo sia stato rappresentato al tavolo di lavoro. Restano invece gli altri punti di compromesso, sulle quali emergeranno difficoltà. Non potendo elencarli tutti, ci limitiamo ai più significativi. La certezza della pena: giustissimo, purché non sia a scapito del principio costituzionale della sua funzione rieducativa. Chiudere irrevocabilmente le porte della galera senza possibilità di trattamenti premiali significa non solo umiliare il condannato ma altresì favorire il suo comportamento antisociale e le rivolte carcerarie. L'aggravamento delle pene: inutile e irrazionale. Le nostre pene sono già esageratamente alte, mentre l'esperienza e la statistica ci dimostrano che ai loro aumenti non corrispondono affatto le diminuzioni dei reati: l'omicidio stradale è l'ultimo di questi prevedibili fallimenti. Le intercettazioni: abbiamo già detto che, per quanto utili e talvolta necessarie costituiscono una pericolo mortale per la libertà e la dignità individuali, oltre ad essere uno strumento odioso e improprio di estromissione politica. La prescrizione: aumentare i termini significa vulnerare il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, e scaricare sull'imputato, magari innocente, le inefficienze del sistema. La corruzione: la Lega ha più volte condiviso l'analisi che essa è figlia della nostra sconclusionata proliferazione normativa, e che la terapia può consistere solo in una massiccia e radicale riduzione delle leggi e nella semplificazione delle procedure. Sarebbe un peccato se avesse cambiato idea. Concludo. Queste antiche differenze sembrano ora conciliate, come lo sono la flat tax con il reddito di cittadinanza, dove, peraltro, si tratta di confidare su una possibile maggiorazione di entrate e sulla benevolenza dell'Europa. Ma per la giustizia è diverso. Cedendo al programma grillino, buona parte dell'elettorato leghista storcerà il naso, e comunque la coalizione di centrodestra rischia il collasso. D'altro canto, assecondando le esigenze di Salvini, Di Maio rischia di trovare, nel settore più giustizialista e forse maggioritario, del suo elettorato, resistenze formidabili. Possiamo già immaginare i richiami alla legge del Far West se il principio dell'autotutela in casa propria sarà pienamente applicato. Ora la parola passa agli attivisti dei due schieramenti, e sarà interessante vederne le reazioni. Il rischio è che la Giustizia, dopo aver per venticinque anni condizionato la nostra politica, diventi ora causa di una lunga paralisi o di una crisi fatale. Lo scandalo di una giustizia matusalemme di Valter Vecellio L'Indro, 17 maggio 2018 Nove anni senza verità per il caso Cucchi e quest' anno già tredici detenuti suicidi. Un carabiniere, Riccardo Casamassima, ascoltato nell’ambito del processo che cerca di accertare le responsabilità per la morte di Stefano Cucchi, dichiara: “È successo un casino, i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato. Me lo disse una mattina dell’ottobre del 2009, senza fare il nome degli autori, un preoccupatissimo maresciallo dei carabinieri, portandosi la mano sulla fronte”. Scandaloso, vergognoso che una persona, privata della sua libertà, entri vivo in una struttura dello Stato, e ne esca poi morto. Ma quello che appare ancora più scandaloso e vergognoso è che questi fatti siano accaduti nell’ottobre del 2009. E la vicenda, nel maggio 2018 sia ancora aperta. Giustizia e buon diritto non sono solo accertamento di fatti e delle responsabilità. È che questo accertamento avvenga in tempi rapidi. Non da matusalemme come accade per il caso Cucchi e migliaia di altri simili di cui non si parla. Tutto da rifare: non sono minacce ma “tentata violenza privata”. Lo stabilisce il giudice monocratico del tribunale di Roma nell’ambito del processo che vede imputato Armando Spada, esponente dell’omonimo clan che spadroneggia nel litorale romano, di minacce ai danni della cronista di “Repubblica” Federica Angeli. Per questo gli atti devono essere rinviati al pubblico ministero che dovrà istruire nuove indagini. Spada rivolto a Federica Angeli ha detto: “Te sparo in testa”. Che si tratti di minaccia o di tentata violenza privata, e che differenza ci sia tra le due cose, non lo so, e neppure mi interessa saperlo. La minaccia, o la tentata violenza privata, risale al 23 maggio 2013. Dopo cinque anni si sta ancora a parlarne. È questa la vergogna, lo scandalo. Lo scandalo e la vergogna sono mesi di campagna elettorale e di tentativi di formare un governo, e nessuno che ponga alla cima della sua agenda politica la necessità di assicurare soluzioni urgenti ai tanti problemi legati alla giustizia. A conferma di questa affermazione la vicenda delle riforma carceraria avviata dal ministro Andrea Orlando, approvata dal Parlamento nel 2017 e bloccata dal mancato inserimento dei decreti attuativi della riforma nei lavori delle Commissioni speciali parlamentari. Per cercare di smuovere la situazione una quantità di pressanti appelli: nel mese di aprile, da parte dei componenti degli Stati generali dell’esecuzione penale (che hanno lavorato alla stesura della riforma), poi all’inizio di maggio, da parte dell’Unione Camere Penali, che ha indetto due giorni di astensione dalle udienze degli avvocati penalisti e una manifestazione nazionale. Per non dire della mobilitazione del Partito Radicale e dei numerosi, lunghi digiuni di Rita Bernardini. Va ricordato che la mancata riforma Orlando viene dopo la condanna dell’Italia, nel 2013, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti legati al sovraffollamento delle carceri: la Corte impose al nostro Paese di provvedere entro un anno dalla sentenza. Vale anche la pena di ricordare che l’ultima riforma è datata 1975 e riguardava un contesto sociale che oggi non esiste più. Un esempio per tutti: a quel tempo i detenuti stranieri erano l’1 per cento, oggi sono il 33 per cento. Alla riforma si oppone chi la definisce “salva-ladri” o “svuota-carceri”. Ma non è così. La riforma va esattamente nella direzione opposta: non contiene nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti, mafiosi o terroristi, non risponde a un criterio indiscriminata indulgenza; piuttosto elimina piuttosto alcuni automatismi dei benefici e prevede la concessione di misure alternative e permessi premio a seconda della condotta del detenuto. In linea con la Costituzione che bandisce i “trattamenti contrari al senso di umanità” e afferma che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Infine è opportuno ricordare la situazione delle carceri italiane: è fotografata dai dati riguardanti i suicidi; nel 2017 sono stati 52, quest’anno già 13. Beh, confessiamolo: siamo tutti un po’ delinquenti... di Piero Sansonetti Il Dubbio, 17 maggio 2018 A me il risultato elettorale del 4 marzo non è piaciuto. Avrei preferito un risultato molto diverso e ci sono rimasto male. Però non ho detto, né tantomeno scritto, che l’Italia - l’Italia che ha scelto Di Maio e Salvini - è un paese di farabutti. Né, il giorno dopo la sentenza di Palermo sulla trattativa Stato- mafia (che considero una sentenza ingiusta e infondata) ho detto o scritto che i giurati e i magistrati che l’hanno sottoscritta sono dei venduti o dei manigoldi. Nella vita, privata e pubblica, ci sono degli avvenimenti che ci innervosiscono, magari, ma questo non dovrebbe autorizzarci a dare in escandescenze. Invece la sentenza che ha riabilitato Silvio Berlusconi - restituendo, tra l’altro, al paese, un protagonista della nostra vita politica recente - è stata accolta dal Fatto Quotidiano con una vera e propria crisi di nervi. L’altro giorno ha titolato a caratteri di scatola, in prima pagina: “Berlusconi delinquente era e delinquente resta”. Non riesco a ricordare nessun precedente. Cioè nessun grande giornale nazionale, in Occidente, che ricorra a questo linguaggio per dare sostanza e pepe alla polemica. Ve lo immaginate il New York Times, dichiaratamente clintoniano, che dà del truffatore, nel titolo di apertura, a Trump o qualcosa del genere? O la Cnn che definisce Bill Clinton un maniaco sessuale? L’altra sera Marco Travaglio ha insistito in Tv, sulla Sette. Ha definito Berlusconi “tecnicamente” un delinquente. Ripetendo a voce il titolo del suo giornale. Perché delinquente? Perché Travaglio sostiene che, sebbene il tribunale lo abbia riabilitato, essendo stato condannato in via definitiva per il reato di evasione fiscale, è comunque un delinquente, in quanto l’evasione fiscale è un reato, e dunque un delitto. Giustamente il direttore del Giornale, Sallusti, con molta calma gli ha risposto che essendo stato lui stesso - cioè Travaglio - condannato più volte per diffamazione, può essere tranquillamente definito un diffamatore. Poiché anche la diffamazione è un reato, probabilmente sarebbe corretto anche definire lo stesso Travaglio delinquente. Del resto anch’io sono stato condannato per diffamazione, e quindi anch’io posso essere definito diffamatore o delinquente. Credo che possano esserlo anche Sallusti e la stragrande maggioranza di coloro che hanno diretto un giornale o svolto il lavoro di giornalista giudiziario. Qualcun altro magari potrebbe essere definito addirittura “tecnicamente omicida” se è stato condannato per un incidente mortale. E così via. Serve a qualcosa usare gratuitamente le ingiurie per arricchire e rendere attraenti i propri ragionamenti? Francamente credo di no. Non sono tra quelli che immaginano la polemica e la lotta politica come un affare di galateo. Capisco perfettamente le asprezze, che spesso sono la conseguenza della passione e di convincimenti profondi. Ma una cosa è l’asprezza di un confronto tra persone che hanno idee molto diverse, e che si fronteggiano, un’altra cosa è l’ingiuria a tavolino, preparata con freddezza, con calcolo, che serve solo a delegittimare l’avversario, e cioè a combattere le sue idee - o la sua posizione politica - infangando la sua persona e danneggiando la sua dignità. Mi chiedo: chi sono i principali responsabili di questa deriva - un po’ barbara - che sta prendendo il dibattito pubblico? Naturalmente molto dipende dalla profonda trasformazione che negli ultimi quarant’anni ha investito il ceto politico. Aldo Moro, o Fanfani, o Saragat, o lo stesso Berlinguer, di solito, dicevano “convergenze”, o “dissenso”, o “approccio”. Beppe Grillo (che è un po’ il padre della nuova maggioranza) più frequentemente dice “vaffanculo” o “vi vomito”. Ma non è il solo: anche Renzi, o Berlusconi, o Brunetta, per non dire Sgarbi, hanno un buon rapporto con la parolaccia, l’invettiva gratuita, l’intervento a gamba tesa. E del resto, persino nella prima Repubblica, non mancavano i personaggi rudi, soprattutto nel Pci, nel Msi, ma anche nel Psi (Craxi non era un tipo tenero né esageratamente diplomatico…). E tuttavia non credo che siano i politici i responsabili principali della “Repubblica dell’Insulto”. I responsabili principali sono i giornalisti, che molto più dei politici influenzano l’opinione pubblica, e da quando sono diventati personaggi televisivi brillano per la durezza del linguaggio che sostituisce gli argomenti, la conoscenza dei fatti, l’uso della logica. I giornalisti considerano ormai l’approdo ai talk show la loro missione principale, e nel talk show immaginano di dover tralasciare qualunque principio dell’informazione e di doversi trasformare in attori, in saltimbanchi, in gladiatori. Il più delle volte, tra l’altro, lo fanno senza che il presunto avversario (il bersaglio delle loro contumelie) sia presente, e questo rende anche più semplice il loro lavoro. Questo atteggiamento provoca un effetto-emulazione drammatico. Perché influenza gli stessi politici e soprattutto influenza in modo travolgente i social, che ormai sono diventati un luogo dove se non insulti nessuno sei un cretino. Dopodiché i social, a loro volta, influenzano i giornalisti e i politici. E diventa una spirale infernale. Chissà se l’ordine dei giornalisti avrà voglia, un giorno, di occuparsi di questo tema. O se invece assisterà impotente al degenerare della nostra professione, e al suo trasformarsi in arte dell’offesa e non più della conoscenza. Enzo Tortora, la ferita ignorata di Giovanni Verde Il Mattino, 17 maggio 2018 Ci sono eventi, nella vita di ciascuno di noi, che ci segnano. Sono i momenti in cui tutto non è più come prima. Spesso mi chiedo se non sia lo stesso per la vita di un popolo e per la sua storia. Vorrei dare una risposta affermativa. Ma non sono sicuro. Enzo Tortora moriva giusto trenta anni fa. Il 18 maggio 1988. E la sua vicenda era di quelle che possono rappresentare una svolta, piccola quanto si vuole, ma una svolta nella vita di un popolo e nel suo modo di approcciarsi ai problemi della giustizia. In quella vicenda c'era tutto ciò per cui non pochi scrittori hanno rappresentato la giustizia a toni cupi e il processo come un dramma: c'era la difficoltà degli inquirenti nell'utilizzare le informazioni dei pentiti, che non poche volte sono fuorvianti; c'era il pregiudizio dell'indagatore che, sposata un'ipotesi accusatoria, non è in grado di manovrare le risultanze probatorie con il necessario distacco e con la egualmente necessaria capacità critica; c'era la deformazione di un dibattimento nei quale chi è chiamato ad esprimere il verdetto finisce con l'essere condizionato dall'ambiente e dai processi paralleli che, a dispetto di ogni regola di elementare civiltà, si celebrano sui “media”; c'era l'afflizione di una pena preventiva e di una privazione della libertà ad una persona che sapeva di essere ed inutilmente si protestava innocente. Avremmo avuto il diritto di pensare che il sacrificio di Enzo Tortora (e il sacrificio di tanti che, dopo di lui, si sono trovati a vivere vicende analoghe) non sarebbe stato inutile; di credere che quella vicenda ci abbia segnato e ci abbia insegnato che il processo è di per sé una pena e che chi ne è coinvolto spesso finisce con l'esserne stritolato; che il diritto penale rappresenta, in una collettività che vuole vivere in democrazia, la risorsa estrema a cui si debba fare ricorso con prudenza e con assoluta moderazione. Purtroppo non è così. Il popolo sovrano ha dato, in larga misura, le sue preferenze a due formazioni politiche che hanno il giustizialismo come bandiera. Di più. Infatti, una delle due formazioni ha nel suo programma anche una non nascosta propensione al farsi ragione da sé. Chi, come me, coltiva la democrazia tutti i giorni della settimana, e non soltanto la domenica (e tutti i giorni legge la Costituzione), non può che inchinarsi alla volontà degli elettori e, quindi, non può che rassegnarsi a vedere che il nostro Paese si orienta verso un sistema in cui il vivere collettivo sarà pesantemente condizionato da un sistema giudiziario che, inconsapevolmente e senza la convinta partecipazione degli stessi operatori di giustizia, andrà evolvendosi verso forme e costumi di vita autoritari. Il M5S e la Lega stanno elaborando i punti programmatici della loro azione di governo; ed ovviamente non possono lasciare fuori la giustizia. Raccoglieranno questi punti, se alla fine riusciranno a mettersi d'accordo, in un contratto. L'enfasi delle parole e l'uso e l'abuso di una nuova retorica! Il contratto, si diceva un tempo, è “legge” per le parti; le vincola al punto che possono essere costrette ad adempiere. Il contratto tra due formazioni politiche che intendono dare un governo al Paese non è più che un'intesa destinata a resistere fino a quando le parti vorranno continuare ad operare insieme, talvolta, come diceva il poeta, lo spazio di un mattino. È bene tenerlo a mente ed è bene che gli attori politici, almeno questa volta, vestano abiti più dimessi senza creare soverchie illusioni. Si sente dire che per rafforzare la giustizia nel Paese è necessario inasprire le pene. Per chi ritiene, come il sottoscritto, che la sanzione penale costituisca l'extrema ratio a cui fare ricorso, il problema da risolvere non è quello della misura della pena (le sanzioni sono già severe abbastanza), ma quello della effettività della stessa. Il che presuppone che essa sia scontata effettivamente e non dopo anni luce dal fatto (che, in tal caso, la pena finisce con l'assomigliare molto alla vendetta. Si pensi, per farsene un'idea, al genitore che punisce la marachella del figlio non nell'immediatezza del fatto, ma a freddo e dopo molti giorni). Si sente dire che occorre allungare i tempi di prescrizione, in un Paese che si consente il lusso di celebrare processi penali a distanza di un quarto di secolo dai fatti e con dibattimenti che si protraggono per anni, là dove il problema è quello di arrivare in tempi rapidi al processo e di concluderlo altrettanto rapidamente. Si sente dire che occorre escogitare meccanismi per stanare i malfattori che si camuffano e si nascondono (quali, ad esempio, il ricorso ad agenti provocatori) e non si pensa quale è il prezzo che, in termini di libertà, già stiamo pagando per le molte concessioni che abbiamo fatto alla possibilità di estendere la maglia delle intercettazioni. Si vuole, a quanto pare, ampliare l'area dell'uso legittimo delle armi per difendere sé e il proprio patrimonio dalle aggressioni. E senza scomodare valutazioni etiche, non si pensa sul piano pratico che una simile riforma può essere la ragione per la quale l'aggressore spari o colpisca sempre e per primo. L'elenco potrebbe continuare. Di sicuro per la nostra democrazia si prospettano tempi di lune nere. Gli italiani, con il loro voto, lo hanno voluto. Non resta che prenderne atto e pensare amaramente che la vicenda di Enzo Tortora, come quella di tanti altri, ci è scivolata addosso, come una pioggia fastidiosa o, peggio ancora, come polvere da spazzare via. “Giuseppe Uva morì per lo stress causato dai carabinieri” Il Dubbio, 17 maggio 2018 Il pg ha chiesto per gli imputati, tutti assolti in primo grado, pene fino a 13 anni. Tredici anni di carcere per due carabinieri e 10 anni e sei mesi per sei poliziotti. Questa è la richiesta da parte del pg di Milano Massimo Gaballo nei confronti degli imputati nel processo in corso davanti alla Corte d’Assise d’Appello per la morte di Giuseppe Uva, deceduto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese. Nella requisitoria, il pg di Milano, Massimo Gaballo, ha sottolineato che Giuseppe Uva morì 'a causa di un’aritmia provocata dalla violenta manomissione sulla sua persona col trasferimento coatto in caserma, anche a prescindere dalle eventuali percosse subite e dalle lesioni riscontrate sul suo corpo. A ucciderlo, secondo il rappresentante dell’accusa, furono la tempesta emotiva e lo stress originati dal suo trasferimento in caserma illegittimo, non motivato dalla commissione di alcun reato e nemmeno da ragioni di identificazione dal momento che i carabinieri sapevano bene chi fosse per i suoi precedenti. Inoltre, il pg ha spiegato che è stata chiesta una condanna più lieve per i poliziotti perché a loro viene addebitata una condotta omissiva. I reati contestati son omicidio preterintenzionale e sequestro di persona aggravato dalla qualifica di pubblico ufficiale. Il processo in corso è scaturito dall’impugnazione da parte della procura di Milano della sentenza di primo grado del 2016 che aveva assolto i due carabinieri e sei poliziotti dall’accusa di omicidio preterintenzionale ai danni di Giuseppe Uva. Ma cosa accade a Uva? Tutto iniziò il 14 giugno del 2008, quando Giuseppe, 43 anni, di professione falegname, venne fermato ubriaco alle 3 di notte in centro a Varese. Insieme al suo amico Alberto Biggiogero stava spostando una transenna. Arrivarono i carabinieri e li portarono entrambi nella caserma di via Saffi. Qui comincia un buco di due ore, che porta direttamente alle 5 del mattino, quando Giuseppe Uva sarebbe entrato al pronto soccorso con un Tso. Alle 10 la morte per arresto cardiaco, su un lettino del reparto di psichiatria. Sette anni di indagini - compreso il processo con l’assoluzione poi impugnato non hanno chiarito cosa sia effettivamente successo durante le due ore in caserma. In realtà, già nel 2012 un processo per la morte di Giuseppe Uva fu celebrato, sempre a Varese. L’accusa decise di seguire la pista della malasanità e sul banco degli imputati ci finì un medico, che venne assolto con formula piena nell’aprile del 2012. Nel leggere la sentenza, il giudice ordinò anche di effettuare nuove indagini su quello che sarebbe accaduto in caserma, prima dell’ingresso di Giuseppe in ospedale. Il pm allora incaricato delle indagini, Agostino Abate, non la prese affatto bene e parlò apertamente di pregiudizi nei confronti del suo operato. Proprio Abate divenne protagonista dell’incredibile interrogatorio all’unico testimone di quella nottata, Biggiogero. Il video di quanto accadde è su Youtube: quattro ore di sostanziale massacro, con il teste finito nel pallone, bombardato da domande e da atteggiamenti che in molti hanno definito quasi intimidatori, o quantomeno molto aggressivi, più del lecito per una persona che, in fondo, è soltanto informata dei fatti e non accusata di niente. Biggiogero voleva un caffè, Abate gli risponde: “Ha bisogno di drogarsi? Il caffè è una droga”. Un’aria pensante, tanto che se ne occupò anche il Csm su questa vicenda dell’interrogatorio. Secondo la denuncia dei militari, durante le due ore di fermo, Giuseppe Uva era agitato, quasi incontenibile nella sua furia: “Hanno scritto che quella notte lì Giuseppe si picchiava. Ma io dico, cosa facevano loro? Godevano a vedere una persona che si picchiava?”, si domandò la sorella Lucia. Comunque sia, in ospedale a Uva vengono somministrati vari farmaci per sedarlo. In mattinata, il cuore dell’uomo smetterà di battere per sempre. Da sempre la tesi dei familiari è che il decesso sia stato provocato dalle percosse e dalle manganellate inflitte all’uomo dagli agenti che lo tenevano in custodia. Detenzione inumana: l'indennizzo si prescrive in dieci anni di Annamaria Villafrate studiocataldi.it, 17 maggio 2018 Per le Sezioni Unite della Cassazione si prescrive in dieci anni il diritto all'indennizzo per i pregiudizi subiti per detenzione inumana. Le Sezioni Unite della Cassazione con la pronuncia n. 11018, dopo aver condiviso il ragionamento e le conclusioni della recentissima S.U. penale n. 3775/2018 sanciscono il principio secondo cui il diritto alla somma di denaro per detenzione inumana previsto dall'art. 35-ter comma 3 dell'ordinamento penitenziario, si prescrive in dieci anni, a decorrere dal compimento di ciascun giorno di detenzione. La Suprema Corte precisa inoltre che, anche chi ha espiato la pena detentiva prima dell'entrata in vigore della nuova legge, se non è decaduto ai sensi dell'art. 2 del Decreto legge 92/2014, ha diritto all'indennizzo. In questo caso però il termine di prescrizione non opera prima del 28 giugno 2014. La vicenda processuale - Convenuto in giudizio il Ministero della giustizia, un ex detenuto chiede il risarcimento dei danni, ai sensi dell'art. 35-ter dell'ordinamento penitenziario, esponendo di essere stato "ristretto in varie case circondariali per una pluralità di periodi tra il 1996 e il 2014 e di aver subito un trattamento inumano a causa delle condizioni di detenzione." Il Tribunale di primo grado accoglie la domanda, respingendo l'eccezione di prescrizione sollevata dal Ministero "perché il diritto al risarcimento del danno da detenzione in stato di degrado, non era riconosciuto dalla normativa interna prima dell'entrata in vigore della nuova legge e perché, la previsione di un termine di decadenza per l'esercizio di un diritto, è incompatibile con la decorrenza della prescrizione." Il Ministero propone quindi ricorso per Cassazione. Indennizzo detenzione inumana: prescrizione decennale - Sulla questione della "fondatezza o meno della eccezione di prescrizione (quinquennale o, in subordine, decennale) del diritto sollevata dal Ministero ricorrente" la Cassazione precisa che: "sul tema sono intervenute le sezioni unite penali, con la sentenza 26 gennaio 2018. Il Ministero della giustizia ha eccepito la prescrizione del diritto del detenuto con riferimento al periodo di carcerazione anteriore al quinquennio decorrente dal 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del d.l. n. 92 del 2014, muovendo dall'assunto che il diritto al ristoro del pregiudizio da detenzione preesistesse al d.l. 92/2014". Le sezioni unite penali hanno affermato il seguente principio di diritto: "La prescrizione del diritto leso dalla detenzione inumana e degradante azionabile dal detenuto ai sensi dell'art. 35-ter, commi 1 e 2, ord. pen., per i pregiudizi subiti anteriormente all'entrata in vigore del decreto legge n. 92 del 2014, decorre dal 28 giugno 2014" (data di entrata in vigore del decreto legge). La sentenza richiama i precedenti di legittimità sul carattere innovativo della previsione dell'art. 35-ter, ed afferma che la prescrizione inizia a decorrere solo dall'introduzione dell'art. 35-ter ord. pen., in quanto "il rimedio risarcitorio in esame non era prospettabile prima della entrata in vigore della novella del 2014". Aggiunge poi che l'assenza di un precedente strumento di tutela, accessibile ed effettivo "integra un impedimento all'esercizio del diritto rilevante ai sensi del generale principio di cui all'art. 2935 cod. civ. in base al quale la prescrizione decorre soltanto dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere". Condividendo il principio enunciato dalla recentissima S.U. penale n. 3775/2018 le S.U. civili enunciano il seguente principio di diritto: "Il diritto ad una somma di denaro pari a otto euro per ciascuna giornata di detenzione in condizioni non conformi ai criteri di cui all'art. 3 della Convenzione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, previsto dall'art. 35-ter, terzo comma, ord. Pen., si prescrive in dieci anni, che decorrono dal compimento di ciascun giorno di detenzione nelle su indicate condizioni. Coloro che abbiano cessato di espiare la pena detentiva prima dell'entrata in vigore della nuova normativa, se non sono incorsi nelle decadenze previste dall'art. 2 d.l. 92/2014 convertito in L. 117/2014, hanno anch'essi diritto all'indennizzo ex art. 35-ter, terzo comma, ord. pen., il cui termine di prescrizione in questo caso non opera prima del 28 giugno 2014, data di entrata in vigore del decreto legge". Applicando questi principi, nel caso di specie, la Cassazione rigetta il ricorso del Ministero "perché il diritto previsto dall'art. 35 - ter, terzo comma, ord. pen., nel caso in esame relativo a detenzione conclusasi prima dell'entrata in vigore del d.l. 92/2014 e quindi soggetto alla disciplina transitoria (...) non si è prescritto". Al via dati personali e cyber security di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2018 Via libera definitivo del Consiglio dei ministri ai decreti dedicati: al trattamento dei dati personali a fini di pubblica sicurezza e penali, all’uso dei codici di prenotazione aerea e alla ciber security. Provvedimenti con i quali vendono rese operative le direttive in materia (2016/680, 2016/681 e 2016/1148). Il primo provvedimento, fornisce regole organiche per trattare i dati personali delle persone fisiche con l’intento di prevenire, accertare o perseguire i reati o eseguire le sanzioni penali. Il testo sostituisce in gran parte l’attuale Codice della privacy sul fronte giudiziario e dei trattamenti effettuati dalle forze dell’ordine. I dati vanno tenuti quanto basta a raggiungere lo scopo, periodicamente va verificata l’attualità dell’esigenza di conservarli e devono essere cancellati o anonimizzati una volta scaduto il tempo a disposizione. Il decreto “divide” e disciplina i dati per categorie: quelli fondati su fatti o su valutazioni e in base alla posizione processuale degli interessati. In ambito giudiziario i diritti delle persone coinvolte sono assicurati dalla normativa di “settore”, con la possibilità di un limite in base alle esigenze di prevenzione, di indagine o processuali. D’obbligo, anche per l’autorità giudiziaria, la nomina di un responsabile per la protezione, mentre sarà il Garante a vigilare sul rispetto della corretta attuazione della direttiva: un potere di controllo che cede il passo alla giurisdizione giudiziaria, Pm compreso. La violazione delle nuove norme fa scattare sanzioni dai 50 mila euro ai 150 mila. Semaforo verde ieri anche per l’uso dei codici di prenotazione aerea. I vettori devono trasmettere determinate informazioni, sui passeggeri di voli extra Ue e all’interno dell’Unione, in ingresso e in uscita, all’Unità di informazione sui passeggeri (Uip) istituita presso il ministero dell’Interno, per individuare i “viaggiatori” implicati in reati di terrorismo o altri gravi “crimini”. All’insegna della cooperazione anche l’attuazione della direttiva Ue in materia di cyber security, per mettere in sicurezza la rete e i sistemi informativi dell’Unione. Il testo, guarda ai principali attori economici e in particolare agli operatori che forniscono servizi essenziali per mantenere attività economiche e sociali e ai fornitori di servizi digitali. Dovranno mettersi in linea con le norme Ue per garantire prevenzione e difesa contro gli attacchi le grandi imprese di energia, trasporti, sanità, fornitura e distribuzione acqua potabile, il settore bancario e le infrastrutture dei mercati finanziari. Regole organiche anche per “mercato on line, motori di ricerca on line, servizi di cloud computing”. Per chi non allinea sanzioni da 12 mila a 120 mila euro. Market abuse, modifiche con nodo penale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2018 Il decreto legislativo sul market abuse è stato approvato ieri dal Consiglio dei ministri. Ma solo con la formula “salvo intese”, che vela le perplessità sulla parte penale del testo. Sulla sua stessa esistenza, ma anche su alcuni, almeno, dei suoi contenuti. Già oggi una riunione tra gli uffici legislativi dei ministeri dell’Economia e della Giustizia potrebbe però smarcare il testo e permetterne l’approdo in Parlamento per i pareri delle commissioni. Formalmente, il provvedimento adegua la normativa nazionale alle disposizioni del regolamento Ue n. 596/2014, che ha istituito un quadro normativo armonizzato in materia di abusi di mercato e introdotto misure per la prevenzione (cosiddetto regolamento Mar). Del testo fa parte anche un significativo segmento penale, che estende la fattispecie della contravvenzione anche alle condotte che hanno per oggetto strumenti finanziari negoziati su Otf, in aderenza a quanto previsto da Mifid 2, e ai casi di manipolazione del benchmark, intervenendo sull’articolo 185 del Tuf. Proprio su questa parte si è concentrata una serie di perplessità nel corso della riunione del Consiglio dei ministri: l’intervento potrebbe essere considerato al di fuori della necessità di adeguamento dell’ordinamento con riferimento a un Regolamento che è comune di esecutività automatica. Oltretutto, quando ancora è (almeno teoricamente) ancora aperta una delega di recepimento della direttiva n. 57 del 2014 che ben altro spazio e incisività lascerebbe all’intervento penale. Nello stesso tempo il decreto interviene sul versante amministrativo, elevando da una parte l’importo massimo della sanzione pecuniaria in caso di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato, dall’altro modificando il perimetro della confisca escludendo la misura sui beni/mezzo per la commissione della violazione. Una misura però, quest’ultima, che ha sollevato anch’essa forti dubbi, visto che verrebbe a creare una disparità di trattamento, suscettibile anche di una possibile questione di legittimità costituzionale, rispetto alla confisca disposta però sul fronte penale. Nel complesso poi il decreto, recependo quanto previsto dal Regolamento, ammette una serie di esenzioni agli obblighi di comunicazione e trasparenza, di condotte legittime e di pratiche di mercato accettate; la possibilità di effettuare sondaggi di mercato alle condizioni previste dal regolamento; l’estensione delle ipotesi di manipolazione del mercato anche agli ordini di negoziazione effettuati con mezzi elettronici, come le strategie di negoziazione algoritmiche e ad alta frequenza. Falso in bilancio, serve il dolo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2018 Per contestare il reato di falso in bilancio non è sufficiente che la violazione di norme contabili sia stata rilevante. Serve il dolo. E poi, l'omissione di dati contabili imposti dalla legge e suscettibili di incidere sulla consistenza del patrimonio dell'impresa può dare luogo a singoli reati istantanei di falso in bilancio, con ripercussioni sui termini prescrizione. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 21672 della Quinta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così respinto il ricorso presentato contro la condanna ai soli effetti del risarcimento delle parti civili emessa nei confronti del legale rappresentante di una società di costruzioni dalla Corte d'appello, in relazione alla mancata rappresentazione dell'importo del ricavato della vendita di una serie di unità immobiliari. Rispetto al motivo di ricorso che si concentrava sul riconoscimento della prescrizione e sul fatto che il falso in bilancio, nell'ipotesi contravvenzionale prevista dall'articolo 2621 del Codice civile, sia un reato istantaneo suscettibile di essere consumato in relazione a ciascun esercizio al momento del deposito del bilancio, senza trascinamento nel tempo, la Cassazione prende una linea diversa. Mette in evidenza cioè come una violazione, anche di natura contravvenzionale, che ha la capacità di incidere sulla consistenza del patrimonio dell'impresa nel tempo, e quindi anche negli esercizi successivi rispetto all'esercizio in cui i valori economici sono venuti ad esistenza, può andare a realizzare singoli reati istantanei di falso in bilancio riferiti a ciascun anno di esercizio, fino al momento in cui la condotta non viene a cessare. Quanto all'elemento psicologico, poi, la Cassazione, avverte che la prova del dolo non può essere individuata nella rilevanza dell'importo contabile oggetto dell'omissione. Il dolo non può essere ritenuto provato nella sola violazione di norme contabili sulla esposizione delle voci in bilancio e non può neppure essere individuato nello scopo di fare vivere artificiosamente la società; l'accusa deve invece trovare elementi specifici e incontestabili in grado di mettere in evidenza nel redattore del bilancio la consapevolezza della sua azione irragionevole attraverso la realizzazione di artifizi contabili. Eternit-bis: niente omicidio volontario senza certezze sulla “morte da amianto” di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 maggio 2018 Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 16 maggio 2018 n. 21732. Nel procedimento Eternit-bis la Cassazione ha escluso l'omicidio volontario a carico dell'imputato Schmidheiny Stephan Ernst e, quindi, ha confermato il precedente verdetto di legittimità (sentenza n. 7941/15) che di fatto aveva decretato la prescrizione del disastro. I Supremi giudici (sentenza n. 21732/18) a tal proposito hanno dichiarato inammissibile la richiesta della Procura per il riconoscimento dell'imputazione ex articolo 434 cp (“Crollo di costruzioni o altri disastri dolosi”) a carico del responsabile della società Industria Eternit Casale Monferrato spa. Il dolo eventuale - Si legge nella sentenza, infatti, che per poter configurare il dolo anche eventuale non è sufficiente che l'agente abbia accettato il rischio dell'evento non voluto, ma occorre che la realizzazione dell'evento sia stata “accettata” psicologicamente dal soggetto a seguito di una deliberazione con la quale egli abbia subordinato consapevolmente un determinato bene a un altro, cosicché possa riconoscersi che non si sarebbe trattenuto dall'agire, anche se avesse avuto la certezza del verificarsi dell'evento. Mai come in questa occasione vale la massima di comune esperienza secondo cui tempus regit actum. E questo perché sia da un punto di vista delle conoscenze sanitarie e quindi anche sul fronte normativo nel periodo in cui si era verificata l'esposizione alle polveri di amianto che avevano procurato così tanti decessi non c'era conoscenza scientifica così netta sulle conseguenze tragiche legate all'esposizione. O meglio non era stato dimostrato il nesso causale tra esposizione alla sostanza e l'insorgere della patologia tumorale. Esisteva solamente una relazione al congresso di Neuss che evidenziava una certa tossicità e pericolosità di un'esposizione per lungo tempo. Pericolosità e divieti sono stati riconosciuti solo con Dlgs 277/1991 cui era seguita la legge 257/1992 ossia dopo diversi anni dalla chiusura degli stabilimenti Eternit (avvenuta nel 1986). E così la Cassazione ha ritenuto che la responsabilità apicale attribuita allo Schmidheiny e la protrazione per un lungo arco temporale (10 anni) di tale attività non dimostrasse di per sé che il soggetto fosse stato informato e consapevole che l'unica scelta possibile per salvaguardare la salute dei dipendenti era quella di cessare la produzione. Così come i giudici di legittimità hanno ritenuto che il fine perseguito, che aveva ispirato il risparmio sulle misure di sicurezza da adottare, non apportasse dati illuminanti sull'atteggiamento soggettivo dell'imputato, anche perché risultava generica e non adeguatamente dimostrata l'obiezione basata sulle relazioni dei consulenti di parte. Nella sentenza, si legge, inoltre che il contesto nel quale la condotta è proseguita nel tempo e la diffusione di notizie rassicuranti, anche se non corrette, non dimostrano che le opinioni scientifiche che si erano formate allora, non chiaramente orientate a proibire la lavorazione dell'amianto o il suo impiego per usi civili, fossero state strumentalmente indotte dall'imputato a giustificazione delle proprie scelte illecite, tanto che anche la legislazione dell'epoca non era ancora orientata a una drastica proibizione del trattamento all'amianto. Conclusioni - In definitiva applicando tali principi al caso concreto, risulta giuridicamente corretto e ben motivato il convincimento espresso dal giudice, per il quale, nelle specifiche condizioni in cui si era trovato a operare l'imputato, l'omissione di alcune cautele a tutela della salute dei lavoratori e la protrazione delle lavorazioni all'amianto evidenziava che costui non fosse determinato “ad agire comunque, anche a costo” di cagionare la morte di numerose persone venute in qualche modo a contatto con quel materiale, e quindi i decessi prodottisi anche diversi anni dalla cessazione delle produzione e pur prevedibili, non erano certo volute dall'agente, che non ne ha accettato la verificazione. Calabria: essere calabresi non può diventare una condanna di Mimino Cangemi Panorama, 17 maggio 2018 Difendo la mia terra che si vuol far passare per criminale solo perché c'è la criminalità. Sono queste generalizzazioni ad affossarla ancor di più. A pochi giorni dalla manifestazione “In campo per il futuro - un anno dopo”, promossa dal Consiglio dei ministri, dalla Prefettura, dal Csm, dal Coni e disertata dai cittadini, San Luca ha scelto, per la terza volta, di non votare. Non crede alle parate. Non ci sta a offrirsi vittima sacrificale. Avverte addosso il peso della criminalizzazione ben oltre i demeriti. Ha perso fiducia nello Stato. Apposta non compaiono candidati a sindaco. Balle che si preferisca la Commissione prefettizia. Si ha solo paura d'incappare nelle ire della Legge, se bastano sospetti da poco, vaghi indizi, sussurri di vento a lesionare libertà e democrazia, Stato di diritto e Costituzione. Che c'è di nuovo un anno dopo? La 'ndrangheta si mantiene in buona salute, infetta l'aria e danna le vite. Il M5s, al 43,4 per cento, è quello che è ma ha sbriciolato l'assunto che a orientare i voti sia la 'ndrangheta. Il ministro Minniti ha preferito essere sconfitto altrove e non nella sua Reggio. La politica ha perso la signora Bindi, senza che quaggiù si tenga lutto. Abbatteva pesante la mannaia del pregiudizio, ringraziava così la terra che l'aveva accolta quando altrove la scansavano. Salvini è stato eletto senatore nella colonia. L'ex governatore Scopelliti è in carcere per falso ideologico - caso unico nella storia giudiziaria - a fronte di responsabilità fumose, a cui non viene da credere. Aumentano i Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa e diminuisce il peso delle motivazioni, talvolta d'inconsistente banalità, e c'è l'evidenza che la legge non funziona se gli scioglimenti si ripetono tre, quattro volte. Le interdittive antimafia alle imprese crescono, nel Reggino oltre 150 dall'arrivo dell'attuale Prefetto, per colpe spesso basate su illazioni e indizi fragilissimi, e, in aggiunta alla crisi, ma incidendo molto più di questa, hanno comportato un calo degli iscritti alla Cassa edile da 8.642 del 2008 a 3.685 del 2017 - vale anche per certi frettolosi sequestri preventivi dei beni - con il rischio di irrobustire le fila della 'ndrangheta. Non finiscono mai gli arrestati che risultano poi innocenti a un esame più attento e sereno. La popolazione continua a sentirsi compressa tra criminalità e criminalizzazione. Le manette facili, a cui seguono scarcerazioni e indennizzi per ingiusta detenzione, tolgono credibilità alla Giustizia - nonostante la riparazione dei giudicanti, rimangono il peso del carcere sull'innocenza e la vergogna del pubblico ludibrio perpetrato anche con le spettacolarizzazioni. È stato cancellato il principio di non colpevolezza sancito dalla Costituzione. Si pagano le colpe dei padri - persino di un cugino, di un compare, di una frequentazione - pure ad avere comportamenti irreprensibili. Questo è. Bisogna riscrivere la Calabria, quella vera, non la mistificata e irredimibile proposta da chi presume gli competa decidere se il cielo dovrà piovere pioggia, lacrime, cacca o brillare d'azzurro. L'abbiamo distrutta e negata al progresso. Abbiamo detto ai giovani “andatevene, non investite qui il vostro futuro”, agli imprenditori di fuori di non venire, a quelli locali di non avviare attività - la 'ndrangheta vi vedrebbe - ai turisti di starsene alla larga, senza affacciare uno spicchio di testa. Roma: internato da un anno a Regina Coeli in attesa di un posto in una Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 maggio 2018 È detenuto illegalmente da quasi un anno nel carcere di Regina Coeli, in attesa che si liberi un posto nella residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) in ottemperanza a quanto indicato nel dispositivo dell’ordinanza del gip di Roma. L’avvocata difensore Simona Filippi, la quale sta seguendo il caso dell’internamento e non il processo penale che ha subito, ha scritto una lettera alla Corte Europea di Strasburgo per denunciare il caso. Una volta che i giudici di Strasburgo risponderanno, il legale potrà inoltrare il formale ricorso. Se tutto procede come dovrebbe, per la prima volta il governo Italiano dovrà pronunciarsi sul caso degli internamenti illegali nelle carceri italiane. Come già denunciato più volte da Il Dubbio, c’è un numero enorme di internati psichiatrici reclusi in carcere. La legge 81 (quella che fece chiudere gli Opg) stabilisce un limite per la permanenza nelle Rems e i Dipartimenti di salute mentale devono elaborare piani terapeutici individuali. Però le Rems sono piene - questo è anche dovuto dal fatto che i giudici, con grande facilità, emettono troppi ordinanze di misure di sicurezza - e si creano le liste d’attesa. Alcuni internati attendono in libertà e altri, invece, sono reclusi anche se non sono ufficialmente dei detenuti. Purtroppo non sono casi estremi i pazienti psichiatrici in lista d’attesa detenuti in carcere: secondo l’ultimo rapporto di Antigone, viene calcolato che nel 2017 i detenuti in coda erano 289. Un numero enorme. Il caso denunciato con una lettera alla Corte europea riguarda Paolo Pasquariello, un uomo di 42 anni che soffre di gravi patologie psichiatriche (disturbo schizo-affettivo cronico con sintomatologia delirante nonostante la terapia in atto) ed era stato denunciato proprio dai genitori perché a casa era ingestibile e provocava maltrattamenti in famiglia, estorsioni e lesioni gravi. Il processo si era concluso con una sentenza di assoluzione in quanto il giudice ha riconosciuto Pasquariello persona incapace di intendere e di volere e pertanto “non imputabile”. Inizialmente, nei confronti di Paolo, era stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare in carcere e, pertanto, lo stesso veniva tradotto presso la Casa circondariale “Regina Coeli” di Roma. Successivamente, su richiesta del Tribunale, veniva dato incarico per perizia psichiatrica al professor Fabrizio Iecher il quale, dopo aver dichiarato Pasquariello incapace d’intendere e di volere nonché socialmente pericoloso, concludeva come non fosse opportuna la permanenza in carcere auspicando “un pronto trasferimento in una Rems ove il periziando potrà essere seguito in ambiente terapeuticamente idoneo e protetto”. A quel punto, la difesa ha emesso una istanza per chiedere la revoca della custodia cautelare in carcere, ma il pm, pur dando il parere favorevole, aveva evidenziato l’opportunità di non disporre la revoca non “dal momento in cui vi sarà la disponibilità della struttura individuata dal Dap”. Nel medesimo provvedimento, il pm auspicava di collocare temporaneamente il Pasquariello presso una Comunità terapeutica disponibile ad accoglierlo. Ma niente da fare. Nonostante le diverse opzioni, Paolo Pasquariello è tuttora detenuto in carcere. È recluso in una sezione ordinaria, senza nemmeno essere sottoposto in reparti speciali per infermi psichici. L’avvocata Simona Filippi, nella lettera alla Corte europea propedeutica al ricorso, denuncia l’avvenuta violazione dell’ articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (“nessuno può essere privato della libertà se non nei casi stabiliti dal medesimo articolo e nei modi previsti dalla legge”) e l’articolo 3 in quanto la permanenza in carcere del Pasquariello, alla luce delle sue compromesse condizioni di salute, sta avvenendo in violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Una volta giunta la risposta, verrà inoltrato il ricorso e sarà ancora una volta il diritto internazionale a costringere l’Italia a rispettare la legge. Rimini: detenuti impiegati in lavori socialmente utili e per il decoro della città riminitoday.it, 17 maggio 2018 Accordo col Comune per rimuovere i graffiti e le scritte che deturpano gli immobili, curare il verde pubblico e piccole opere di manutenzione. Puliranno i graffiti e le scritte che deturpano gli immobili della città, si occuperanno del verde pubblico, di piccole manutenzioni: un modo per contribuire alla vita della comunità, lasciando per qualche ora il carcere, e rafforzare quel percorso di recupero e rieducazione che è tra i fini ultimi della pena detentiva. È questo lo scopo della nuova convenzione tra Comune di Rimini e Casa Circondariale di Rimini per consentire a cinque detenuti di svolgere lavori di pubblica utilità sul territorio. I detenuti, individuati dall'Equipe Osservazione e Trattamento della casa circondariale, saranno chiamati a svolgere attività non retribuite come cura e manutenzione del verde, recupero e pulizia del demanio marittimo, manutenzione delle strade pubbliche e dei muri della città, in particolare per la rimozione di graffiti e scritte. Saranno inoltre coinvolti nella cura e nel controllo degli animali d'affezione ricoverati nelle strutture comunali e in altre prestazioni di lavoro di pubblica utilità pertinenti la specifica professionalità del detenuto. Il Comune, insieme alla Direzione della Casa Circondariale, definirà il programma di lavoro con cadenza mensile, indicando tipologia, luoghi e orari di lavoro. La convenzione, il cui schema è stato approvato ieri dalla Giunta comunale, avrà durata di due anni, rinnovabile a seguito accordo tra le parti. “Ci sono anche studi scientifici che dimostrano come i progetti di studio, lavoro e formazione quali misure integrative o alternative alla permanenza in carcere diminuiscano la recidiva e cioè il fatto che chi ha commesso un reato possa delinquere di nuovo una volta scontata la pena in cella - spiega il vicesindaco Gloria Lisi - Crediamo fortemente nel valore di questa convenzione: dare la possibilità ad alcuni detenuti di dare il proprio contributo alla vita di comunità, mettersi all’opera facendo qualcosa di utile, come ad esempio ripulire i muri e gli immobili o prendersi cura di un pezzetto della città, può essere decisivo nell’ambito di un percorso di reintroduzione nella comunità stessa e magari di avvio ad un lavoro una volta espiata la pena. Ed è importante anche per avvicinare la città al mondo e alla realtà del carcere”. Roma: "da quando ho iniziato a studiare mi sento libero" di Giorgio Marota retisolidali.it, 17 maggio 2018 Primo dottore di ricerca ad aver conseguito il titolo in carcere, A.L. potrà continuare a studiare grazie al premio "Sulle ali della libertà". “Da quando ho iniziato a studiare mi sento un uomo libero, anche da dietro le sbarre”: la storia di A.L. merita di essere raccontata. Perché comunica speranza e voglia di rinascere e perché dimostra che anche nelle condizioni più difficili la vita ti presenta sempre una nuova opportunità. Dopo i 40 anni A.L. è tornato a vivere grazie allo studio. È in stato di detenzione dal 1995 e oggi è il primo dottore di ricerca in Italia ad aver conseguito il titolo accademico tra le mura di un carcere. Non ha avuto percorsi facilitati, ha studiato e sbattuto la testa sui libri come tutti gli studenti italiani, dando gli esami presso l’Università La Sapienza di Roma. Il titolo in Sociologia e scienze applicate è stato conseguito con la tesi “Rieducazione, formazione e reinserimento sociale dei detenuti. Uno studio comparativo ed etnografico dei detenuti rientranti nella categoria “Alta sicurezza” in Italia: percorsi di vita, aspettative e reti sociali di riferimento”. La storia di A.L. non è passata inosservata. Istituzioni, associazioni di volontariato e diversi enti del terzo settore hanno fatto sinergia, consegnandogli il premio “Sulle ali della libertà”, che consiste in un buono per l’acquisto di libri pari a 1000 euro. Serviranno allo studente-detenuto per continuare la sua formazione in servizio sociale. Quando la detenzione è un’opportunità. Promosso e ideato da Isola Solidale (in collaborazione con Agenzia Comunicatio), un’associazione che da oltre 50 anni accoglie i detenuti che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica, il premio è stato riconosciuto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con la medaglia di rappresentanza, sostenuto dai Ministeri dell’Istruzione, della Salute, della Giustizia e dei beni e delle attività culturali. Hanno espresso la propria vicinanza anche la Regione Lazio, Roma Capitale, il Dicastero del Vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale e tante associazioni ed enti del terzo settore. La cerimonia di consegna simbolica si è svolta il 15 maggio a Roma, a Palazzo Altieri, nella sede del banco BPM. A.L. non c’era, ma ha affidato il suo pensiero a un video messaggio: “La detenzione serve” ha raccontato, “Senza il carcere io non avrei migliorato la mia condizione. Invece di piangermi addosso ho iniziato a studiare e quello che mi sento di dire agli altri detenuti è che la detenzione può essere un’opportunità per rinascere”. A.L., il dottore, dice la verità perché - lo dimostrano i dati - chi studia delinque meno e chi in carcere sceglie la strada della cultura, una volta uscito di galera non ripete gli stessi errori. “Il diritto all’istruzione è la leva fondamentale per costruire una società civile equa e solidale” ha sottolineato la Ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, presente all’evento. “L’articolo 3 della nostra Costituzione ci dice che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona. È nostro dovere, quindi, incentivare iniziative come questa affinché ci siano altri A.L.”. La Fedeli ha voluto ribadire un concetto che probabilmente oggi va controcorrente, ma che sembra quanto mai necessario per recuperare il valore della cultura nella nostra società: dobbiamo smetterla di considerare l’istruzione come finalizzata soltanto al lavoro. Lo studio è un valore primario, un numero primo dei diritti umani. Alba (Cn): la pet therapy ora si fa anche in carcere ilcorriere.net, 17 maggio 2018 Occasione di riscatto. Per i detenuti inseriti nei progetti di recupero organizzati dal carcere albese e dai volontari di Recuperamiamoli Insegnare ai detenuti a fare qualcosa per gli altri per dare loro un’occasione di riscatto e coinvolgerli in un percorso capace di lasciare un segno, anche dal punto di vista emozionale. Si tratta dell’obiettivo che il carcere “Montalto” di Alba, in collaborazione con l’associazione Recuperamiamoli, sta progettando per il mese di giugno. Si tratterà del momento iniziale di un corso di formazione che coinvolgerà da una parte chi ha avuto guai con la giustizia, dall’altro i cani dell’associazione, tutti giunti da situazioni di abbandono e maltrattamento e, con il tempo, recuperati e addestrati per svolgere sedute di pet therapy. Un compito delicato, quello di avvicinare a persone in difficoltà, soprattutto anziani e disabili, persone costrette a scontare una pena in carcere e animali che, purtroppo, con l’uomo hanno avuto in passato un brutto rapporto. Una sfida che, tuttavia, non spaventa la direzione della struttura di detenzione, convinta che attraverso il rapporto umano e l’emozione di rendersi utili per gli altri si possano toccare le giuste leve per insegnare ai detenuti la responsabilità di essere buoni cittadini. Con cadenza settimanale gli ospiti del carcere seguiranno lezioni teoriche e pratiche finalizzate all’acquisizione di tutte le competenze necessarie alla conduzione di sedute di pet therapy. Ad accompagnarli ci saranno i volontari di Recuperamiamoli e otto cani che hanno già superato sia l’esame dell’Enci (Ente nazionale cinofilia italiano), che ne attesta il pieno recupero comportamentale dopo i maltrattamenti subiti, sia il successivo corso per l’impiego in terapia assistita. Dopo la preparazione i detenuti potranno collaborare ad attività di pet therapy presso centri per anziani e disabili del territorio; infine saranno accompagnati nelle scuole dell’Albese per raccontare la positività della loro esperienza. Sanremo (Im): ho accompagnato di nuovo Guareschi in carcere di Paolo Gulisano riscossacristiana.it, 17 maggio 2018 Giovannino Guareschi è tornato in carcere. No, caro lettore, non ti preoccupare: nessuna condanna postuma. Fu più che sufficiente quello che gli venne inflitto ingiustamente da vivo, e non è il caso che a 50 anni dalla morte salti fuori qualche altra brutta sorpresa. Giovannino è tornato in carcere accompagnato da me. È successo lo scorso 5 maggio (Ei fu siccome immobile…) nel carcere di Sanremo. La perla della Riviera ha infatti nel suo entroterra un grande carcere che ospita oltre duecentocinquanta detenuti. Nel penitenziario opera un gruppo di volontari che cerca di dare vita tra i detenuti a iniziative di tipo culturale, e anche religiose, con il giovane cappellano, il bravo don Alessio, grande ammiratore di papa Pio IX. Tra le volontarie c’è la professoressa Luisa Marchetti, che più di 40 anni fa fu mia insegnante di latino e greco, una giovane insegnante piena di amore e passione per la cultura classica, un amore che riuscì pienamente a infondermi. Con Luisa poi nacque una autentica amicizia che è continuata nel corso degli anni. Dopo aver raggiunto la meritata pensione, l’insegnante lecchese si è trasferita nella meravigliosa Riviera di Ponente, dove tuttavia la pace dopo tanti anni di lezioni, studenti e consigli docenti le dava un po’ di noia. Ha deciso così di riprendere a insegnare, facendolo come volontariato tra i detenuti, facendo inoltre da capo redattore al giornalino del penitenziario. Luisa ha avuto dunque l’idea di proporre alla direzione del carcere un incontro su Guareschi, una conferenza tenuta dal sottoscritto. Devo dire che nel corso degli anni sono state numerose le occasioni in cui ho avuto la possibilità di raccontare Giovannino Guareschi, ma questa è stata assolutamente unica. Devo dire che l’incontro con la trentina di detenuti che hanno accolto l’invito a partecipare all’incontro è stato molto particolare: fa una certa impressione parlare dietro le sbarre, e parlare di un uomo come Guareschi che ha conosciuto il lager nazista prima e la prigione della repubblica italiana poi. Le persone che avevo di fronte - lo sapevo e lo benissimo - si trovano in carcere in seguito a condanne sul cui merito non ho voluto sapere niente. Ciò che mi interessava era farle incontrare con un grande uomo che in carcere era finito - paradossalmente - per salvaguardare la propria integrità morale. Giovannino era entrato in carcere a testa alta, con orgoglio, con lo stesso zaino militare che aveva avuto con sé nei lager nazisti. La galera fu un’esperienza molto dura, da cui uscì molto provato, estremamente amareggiato, soprattutto da quella amata patria italiana verso di lui tanto ingrata. In carcere aveva tuttavia sentito l’affetto dei tanti lettori che gli scrivevano, che non lo avevano abbandonato, e l’amore dei familiari. Ennia poteva venire in visita ogni quindici giorni, e si portava dietro i figli Alberto (quattordici anni) e Carlotta (undici). Ai figli di Giovannino sarebbe sempre rimasto impresso nella memoria l’odore disgustoso della galera. “Odore - interpretava Guareschi - di umanità malata”. Anche in carcere, tuttavia, c’era Gesù. Era nel volto buono di sorella Luisa Minardi, una crocerossina che aveva cura dei detenuti e che Guareschi prese a chiamare “madre Lino”, in ricordo di padre Lino Maupas, il grande apostolo della carità della Parma della sua giovinezza. Luisa Minardi era sorella di un giornalista, Alessandro, che avrebbe in seguito assunto la direzione di “Candido” dopo Giovannino. Durante la guerra aveva salvato la vita alla figlia del rabbino di Parma, fuggita dal campo di concentramento di Fossoli. Portò a Giovannino la carità del suo sorriso, della sua cura. Ancora oggi ci sono persone che portano un po’ di umanità sincera a chi si trova detenuto. E all’opera di questi volontari ho voluto aggiungere l’incontro con Giovannino Guareschi, maestro di umanità, nella speranza e nell’auspicio che la lettura delle pagine di Guareschi possa portare loro conforto, e un po’ di allegria salutare. Durante l’incontro il detenuto che in carcere si occupa della biblioteca si è cimentato con ottimi risultati nella lettura di “Peccato confessato”, il primo racconto della saga di Mondo piccolo; si tratta di un racconto ovviamente divertente, ma con una morale profonda: Peppone va a confessarsi alcuni giorni dopo aver rifilato a don Camillo delle pesanti randellate, avendogli teso un agguato notturno e colpito alle spalle. Il racconto vede don Camillo concedergli l’assoluzione, ma naturalmente l’uomo oltre il prete freme per il desiderio di infliggere al furfante una bella punizione. Gesù ricorda al pretone che le sue mani sono fatte per benedire, e non per percuotere, ma don Camillo arriva comunque al suo obiettivo, visto che là dove non possono le mani, è lecito arrivare coi piedi. Il bello è che dopo la pedatona, Peppone appare sollevato, perché ammette che se l’aspettava. Sarebbe a dire che trovava giusto pagare per quello che aveva fatto. Una morale che, letta in carcere, assume un valore tutto particolare, di bontà autentica, se vogliamo, e non di buonismo spicciolo. Da ultimo, un momento davvero commovente è stata la lettura - stavolta da parte del sottoscritto - del celebre brano “Signora Germania”. Devo dire che la commozione ha preso anche me, quando ho letto quel passaggio: “io non posso uscire, ma entra chi vuole, i miei ricordi, i miei affetti”. Quando alla fine sono scrosciati gli applausi dei detenuti, ho girato immediatamente quegli applausi a Giovannino, che quando poté tornare a casa dal lager, e poi dal carcere di Parma, disse “io non odio nessuno”. Spero davvero che l’esempio di quest’uomo che svolse onorevolissimamente la sua attività di giornalista libero e onesto fino all’ultimo giorno della sua vita, che mostrò come sia bello, come sia virile, come sia civile battersi per gli ideali in cui si crede, possa aiutare i detenuti di Sanremo, e magari non solo loro, a ritrovare la strada di una vita dignitosa. Migranti. L'accordo Ue-Turchia non funziona più, aumentano gli arrivi via mare e terra di Emanuele Bonini La Stampa, 17 maggio 2018 “La situazione rimane fragile”. Il commissario europeo per l’Immigrazione, Dimitris Avramopoulos, non si nasconde e non lo nasconde. In questi anni dei progressi sono stati compiuti, ma non abbastanza per poter dire di aver trovato la quadra alla non semplice gestione del fenomeno migratorio. I numeri, gli ultimi forniti dalla Commissione Ue nel rapporto sui progressi compiuti nella gestione dei flussi, sono lì a ricordare quanto tutto è ancora lontano dall’essere risolto. Solo ieri lo stesso Avramopoulos ha chiesto all’Italia di non cambiare politiche in tema di immigrazione. Interventi che non sono piaciuti a chi oggi è impegnato a preparare il governo di domani, ma la situazione dipinta nel documento prodotto a Bruxelles rischia di essere ancora più indigesto. L’accordo con la Turchia non funziona più? Nel 2016 Ue e Turchia hanno sottoscritto un patto per arginare gli arrivi dei migranti. Rispetto ad allora il numero dei richiedenti asilo “è ancora estremante inferiore”, segno che ha funzionato. Adesso però qualcosa sembra non funzionare più. Gli arrivi dalla Turchia, rilevano a Bruxelles, “hanno visto un aumento significativo dal marzo 2018 sia per le isole greche (9.349 dall’inizio del 2018) che per il confine terrestre (6.108 fino a oggi)”. Qui in particolare il numero di cittadini extra-comunitari è aumentato di nove volte rispetto allo stesso periodo del 2017. Un campanello d’allarme. Balcani occidentali, aumentano i "movimenti". Ma non c’è solo la rotta del Mediterraneo orientale, quella appunto che portano i richiedenti asilo su territorio Ue via Turchia. C’è anche la rotta balcanica, quella teoricamente chiusa dall’Ue con uno sforzo diplomatico ed economico che ha visto investimenti con i Paesi candidati. L’esecutivo comunitario non può fare a meno di ammettere che sì, la situazione “si è complessivamente stabilizzata lungo la rotta dei Balcani occidentali”, ma allo stesso tempo “negli ultimi mesi sono stati segnalati maggiori movimenti attraverso Albania, Montenegro e Bosnia-Erzegovina”. Può voler dire che si assiste a sconfinamenti interni tra questi Paesi da parte di quanti sono rimasti chiusi a seguito delle politiche di controllo dei flussi. Ma certo sono segnali da non sottovalutare, e c’è da giurare che i leader dell’Ue che stasera si ritroveranno a Sofia per il summit dei Balcani ne discuteranno con i partner balcanici. Meno sbarchi in Italia. C’è poi la rotta del Mediterraneo centrale, quella che riguarda da vicino l’Italia. Qui, durante i primi mesi dell’anno in corso, si registra una diminuzione del 77% degli sbarchi rispetto allo stesso periodo del 2017. Una buona notizia per le autorità italiane, che rischia di tramutarsi nel più classico dei boomerang. Se il Paese dovesse essere considerato non più in situazione emergenziale, la diretta conseguenza sarebbe un ulteriore disimpegno dei partner europei. A proposito di Europa: l’Ue ha dato un mano, ricordano a Bruxelles. Assieme all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom), nel 2018 sono stati compiuti ritorni volontari dalla Libia per 6.185 persone, tutta gente che non è salpata alla volta delle coste italiane. L’impressione però è che tutto questo nel Paese non sia percepito, mentre al contrario è diffuso il malcontento per le resistenze di alcuni Stati membri a farsi carico di una parte dei richiedenti asilo che arrivano in Italia. L’Ue insiste sulla riforma del sistema comune di asilo. Avramopoulos insiste sulla necessità di riformare il sistema comune di asilo entro giugno. È probabilmente uno degli ultimi a non accettare il fatto che la riforma del regolamento di Dublino, l’impianto giuridico del meccanismo di accoglienza a dodici stelle, non avverrà in questi termini. “La situazione è ancora fragile e il nostro lavoro è tutt’altro che finito”, ribadisce una volta di più. Da qui l’invito a tutti a inviare “con urgenza” guardie e attrezzature di frontiera per le operazioni della Guardia costiera e di frontiera europea, ma anche a “raggiungere un accordo sulla nostra riforma in materia di asilo a giugno”. Il quadro della situazione “ci ricorda che non abbiamo assolutamente tempo da perdere”. Ma gli Stati non seguono la Commissione. Ne è riprova l’ammanco di risorse nel fondo fiduciario per l’Africa, concepito per investire nel continente così da evitare le partenze. Mancano 1,2 miliardi di euro, tutte risorse che le capitali hanno promesso senza ancora mantenere. Migranti. In Libia numero record di intercettamenti in mare di Riccardo Noury Corriere della Sera, 17 maggio 2018 Negli ultimi due mesi, almeno 2.600 persone intercettate dalla Guardia costiera della Libia sono state trasferite negli squallidi centri di detenzione del paese, noti per le violenze e le torture che vi si praticano. Così, mentre la tendenza degli ultimi mesi era di una sostanziale diminuzione, il numero dei migranti e dei rifugiati trattenuti in Libia è risalito a circa 7000. Si parla, ovviamente, solo delle presenze dei centri ufficiali, quelli gestiti dal Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale. Se dunque da un lato il programma di rimpatri “volontari” avviato dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni procede (5620 dall’inizio dell’anno), dall’altro la Guardia costiera libica assicura il “ricambio” della popolazione carceraria: le persone intercettate in mare e trasferite nei centri di detenzione sono dall’inizio dell’anno 5000. Come è noto, dalla fine del 2016 gli stati membri dell’Unione europea hanno attuato una serie di misure per sigillare la rotta migratoria attraverso la Libia e il mar Mediterraneo, tra l’altro rafforzando la capacità della Guardia costiera libica di intercettare migranti e rifugiati e riportarli in Libia. L’Italia ha avuto un ruolo di primo piano, fornendo alla Guardia costiera libica almeno quattro motovedette e formando il personale. All’inizio di quest’anno, inoltre, la Guardia costiera italiana ha iniziato a trasferire a quella libica il coordinamento delle operazioni di soccorso in acque internazionali vicine alla Libia. Amnesty International ha rinnovato la richiesta all’Unione europea e ai suoi stati membri di rivedere la cooperazione con la Libia e di subordinare ogni sostegno, finanziario o di altra natura, alla piena collaborazione delle autorità libiche a rispettare i diritti dei migranti e dei rifugiati, a partire dal rilascio di tutte le persone che si trovano nei centri di detenzione del paese e dalla fine alla detenzione automatica dei migranti e dei rifugiati. Gli stati membri dell’Unione europea dovrebbero impegnarsi ad aumentare le quote dei reinsediamenti per garantire la protezione dei rifugiati che sono abbandonati in Libia. Le autorità libiche dovrebbero inoltre negoziare un Memorandum d’intesa con l’Alto commissariato Onu per i rifugiati che riconosca il suo status e gli consenta di svolgere in pieno il suo mandato. I suicidi in carcere nei Balcani sono meno frequenti che nel resto d'Europa di Lorenzo Ferrari balcanicaucaso.org, 17 maggio 2018 Il tasso di suicidio nei penitenziari del sud-est Europa è relativamente basso, in parte per la composizione della popolazione carceraria. Nei paesi del Sud-Est Europa, il tasso di suicidio in carcere è molto più basso rispetto alla media europea. Se si guarda al periodo 2011-2015, nei Balcani ci sono stati ogni anno in media 53 casi di suicidio ogni 100.000 detenuti, mentre nel resto d'Europa la media è di 87 casi. I dati sono raccolti annualmente dal Consiglio d’Europa e vengono pubblicati dopo un processo attento di verifica, per cui sono generalmente ritenuti affidabili; i dati relativi alla Bosnia Erzegovina e al Kosovo non sono attualmente disponibili. Inoltre, nel Sud-Est Europa c'è una differenza relativamente contenuta tra il tasso di suicidio della popolazione carceraria e quello della popolazione generale (i detenuti sono circa 5 volte più propensi a commettere suicidio rispetto ai loro connazionali). In altri paesi europei, come la Francia, il Belgio o la Norvegia, la probabilità che un detenuto commetta suicidio è molto più alta - addirittura 10 volte maggiore rispetto a quella di un cittadino in libertà. Bisogna dunque concludere che il trattamento dei detenuti nei penitenziari balcanici è migliore rispetto al resto d'Europa? A suggerire cautela nelle conclusioni sta la diversa composizione delle popolazioni carcerarie dei Balcani e del resto d'Europa, che aiuta a spiegare almeno in parte tali differenze di comportamento. Vari studi hanno infatti rilevato correlazioni significative tra il profilo generale dei detenuti e il loro tasso di suicidio: le violenze auto-indotte tendono a essere più frequenti nei sistemi carcerari dove il tasso di imprigionamento è basso, cioè dove vengono incarcerate relativamente poche persone. In quei casi, coloro che si trovano nei penitenziari perché non riescono ad accedere a pene alternative sono spesso persone con seri problemi psichici o di marginalità sociale, e dunque particolarmente fragili. I suicidi in carcere tendono poi a essere più frequenti laddove si fa ampio ricorso alla carcerazione preventiva: è accertato che le persone più a rischio sono quelle arrestate da poco tempo o in attesa di giudizio. Nei paesi dei Balcani il tasso di imprigionamento è piuttosto alto - le carceri non sono dunque popolate da persone particolarmente fragili - ma allo stesso tempo il ricorso alla carcerazione preventiva è piuttosto limitato. La combinazione di questi due fattori rende la popolazione carceraria di questi paesi meno esposta al rischio di suicidio rispetto al resto d'Europa. Nonostante questo quadro complessivamente positivo per la regione, esistono delle variazioni nazionali marcate. Ad esempio, il tasso di suicidio in carcere è estremamente basso in Croazia (19 casi annuali per 100.000 detenuti, perfettamente in linea col resto della popolazione - caso unico in Europa), mentre è più di cinque volte maggiore nella vicina Slovenia. Venezuela. I detenuti della più grande prigione politica si sono ribellati ilpost.it, 17 maggio 2018 E hanno preso il controllo della struttura, dicono diversi attivisti, per protestare contro le sistematiche torture compiute contro di loro. Attivisti venezuelani hanno detto che i detenuti della più nota prigione politica del Venezuela, El Helicoide, a Caracas, hanno preso il controllo della struttura per protestare contro le presunte torture compiute dalle guardie carcerarie sull’attivista Gregory Sanabria, e in generale contro la sistematica violazione dei loro diritti. Roderick Navarro, attivista venezuelano esiliato che è in contatto con i detenuti di El Helicoide, ha detto al Guardian: “I prigionieri si sono infuriati e hanno deciso di fermare la situazione. Chiedono la libertà, chiedono un sistema sanitario, chiedono il rispetto dei diritti umani, vogliono che l’aggressione e la tortura si interrompano”. Sui social media stanno circolando da ieri immagini e video che sembrano mostrare le prime fasi della protesta. In un video si vedono i detenuti correre fuori dalle rispettive celle e chiedere aiuto all’esterno. In un altro un detenuto dice in camera: “Siamo qui perché siamo stanchi di essere torturati”. El Helicoide è una struttura enorme che si trova nel quartiere Roca Tarpeya di Caracas: è a forma di piramide e negli anni Cinquanta era un centro commerciale che fu poi convertito nella sede centrale dell’agenzia di intelligence venezuelana, il Servizio Bolivariano de Inteligencia Nacional, diventando il simbolo del sempre maggior autoritarismo del regime. La rivolta dei detenuti è iniziata ieri, quattro giorni prima delle elezioni presidenziali che si terranno domenica in Venezuela e che sono state definite da diversi altri paesi sudamericani, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea “illegittime”, perché non rispettano gli standard minimi richiesti dalla comunità internazionale.