Riforma, il 18 l’ultima chance. Migliucci (Ucpi): la battaglia continua di Valentina Stella Il Dubbio, 16 maggio 2018 Mentre ieri da Vienna il ministro Orlando dichiarava che “completare la riforma è tra le priorità fondamentali”, al Salone della Giustizia in corso a Roma si teneva il workshop “La riforma penitenziaria, l’articolo 27 della Costituzione e il “buonismo” dei padri costituenti” organizzato dall’Unione delle Camere Penali e dalla Camera Penale di Roma. Blando ottimismo da parte dei relatori però in merito all’atto finale dell’approvazione, più volte annunciata e altrettanto negata. Ha introdotto i lavori Beniamino Migliucci, presidente dell’Ucpi: “Anche se il 18 ci sarà l’ultimo Consiglio dei ministri che avrebbe l’ultima chance di approvare la riforma, essa al momento risulta tradita, anche se perfettamente in sintonia con l’art 27”. E sulla responsabilità mediatica nei confronti del tema: “Non si racconta mai che a fronte di una sola persona che in permesso compie reato, ce ne sono altre 45.000 che sono ammesse alle pene alternative che non commettono reati. Poi va evidenziato che abbiamo il 34% di presunti innocenti in carcere”. Alberto Matano, conduttore del programma di Rai 3 “Sono Innocente” e autore del libro “Innocenti, 12 vite segnate dall’ingiustizia”, Rai- Eri edizione ha confessato: “Prima di questo programma ero un cittadino e un giornalista che non si soffermava sulla realtà del carcere e non avevo dubbi quando una persona veniva indagata. La presunzione di innocenza non esiste più, puntiamo subito l’indice e giudichiamo a prima vista. In carcere vengono riprodotte spesso le dinamiche criminali che stanno fuori: violenza, bullismo, minacce. Dal carcere si esce inquinati”. Rita Bernardini, della Presidenza del Partito Radicale, ha replicato: “Abbiamo lottato molto per questa riforma, compresi 20.000 detenuti che hanno rinunciato al vitto. La Rai è colpevole: i telegiornali sono esclusivamente puntati sui fatti di cronaca, sugli arresti di questo o quel potente. Non ci si può limitare solo a questo però. Papa Francesco ha parlato di amnistia in sostegno della lotta di Marco Pannella; persino il pontefice è stato censurato dalle televisioni in questa circostanza”. A moderare il panel di relatori Cesare Placanica, presidente dei penalisti romani: “I detenuti sono persone marginali e marginalizzate, non invochiamo grazia generica né impunità ma pretendiamo il rispetto dei diritti di chi è nelle custodia dello Stato”. Ha dato poi la parola a Maria Antonia Vertaldi, presidente del Tribunale di sorveglianza di Roma, al suo primo intervento pubblico da quando si è insediata nella capitale: “Siamo dinanzi a una crisi generale della società civile che non si sente sicura: per questo però non si può ricorrere semplicemente al carcere ma occorre prevenire. In merito all’art. 27: la prima fase della rieducazione deve tutelare e riconoscere i detenuti e i loro diritti a cui far corrispondere doveri e responsabilità. Certezza della pena non significa necessariamente carcere perché è definitiva ma comun- que flessibile. Noi magistrati di sorveglianza dobbiamo cooperare per realizzare una dignitosa detenzione, dare significato alla pena e ridurre il rischio di recidiva. Poi c’è il rischio che la scarsezza delle risorse - a Roma mancano 4 magistrati di Sorveglianza - possa non consentire il cambiamento del trattamento detentivo”. A replicare Santi Consolo, direttore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria: “Non bisogna sempre lamentarsi per l’assenza di risorse e mezzi ma impegnarsi ancor più affinché si creino le opportunità. A breve ci sarà un protocollo del Dap con Autostrade spa per avviare ad attività professionale le persone in esecuzione. Ci daranno il know now per riparare le buche delle strade: questo è costruire sicurezza perché si recuperano le persone. Lancio la sfida a qualsivoglia forza politica perché è su queste cose che dobbiamo discutere. Tenere chiuse in una stanza delle persone significa incattivirle. Su 58.000 detenuti riusciamo a farne lavorare 19.000. Perché non raddoppiamo insieme questo numero? Così l’amministrazione penitenziaria diventerebbe la più importante impresa”. Per Lucia Castellano, direttore generale esecuzione penale esterna e di messa in prova del ministero della Giustizia “le pene devono corrispondere alla privazione della libertà. La mancanza di essa basta a essere una pena durissima. Ed è bene sottolineare che non può esistere solo carcere o nulla a fronte di un ventaglio di infrazioni del patto sociale a cui devono corrispondere diverse risposte”. E a tal proposito ha presentato dei dati interessanti su chi è affidato a misure alternative, lavoro di pubblica utilità, misure sicurezze non detentive e sanzioni sostitutive aggiornate al 30 aprile 2018: affidamento in prova 15.748; semilibertà 912; detenzione domiciliare 10.978; messa alla prova 12.649; lavoro di pubblica utilità 7.356; libertà vigilata 3.857; libertà controllata 170; semidetenzione 6. Riccardo Polidoro, responsabile Osservatorio carcere Ucpi, ha concluso: “Per l’opinione pubblica e per l’informazione il carcere è l’ultimo di problemi. L’ordinamento penitenziario prevede che il magistrato di sorveglianza è obbligato a comunicare al ministero se ravvede qualcosa che non va nelle carceri ma ciò non è mai successo, al ministero non è giunto quasi nulla ed è dovuta intervenire la Cedu nel 2013. Per questo la battaglia continua”. Stage e laurea? Anche per gli studenti-detenuti di Annalisa Ausilio repubblicadeglistagisti.it, 16 maggio 2018 Sono universitari, faticano sui libri, sostengono esami puntando alla laurea. Tutto dietro le sbarre. Sono “studenti-detenuti” iscritti nei sedici poli universitari penitenziari, nati da protocolli di intesa fra università, amministrazioni carcerarie, enti regionali, cooperative e associazioni. Da Torino a Bologna, passando per Sassari e Roma, i carcerati che ambiscono a diventare dottori beneficiano di appositi spazi adeguati allo studio. Su 66mila detenuti, circa trecento sono universitari (secondo l’ultima ricerca relativa al 2010) di cui ottanta donne e quaranta stranieri, i meno agiati in regola con gli esami ricevono borse di studio e rimborso tasse dagli enti regionali. E per molti il percorso universitario, così come per gli studenti “a piede libero”, comporta anche lo svolgimento di tirocini formativi. “La detenzione comporta la necessità di trovare continuamente accordi per conciliare le esigenze della didattica con quelle dell’istituto”, spiega alla Repubblica degli Stagisti Antonio Vallini docente di diritto penale e delegato alla facoltà di Scienze politiche del polo penitenziario dell’università di Firenze che nel 2000, a seguito della convenzione fra Regione Toscana e amministrazione penitenziaria, ha istituito una sede didattica nella casa circondariale di Prato. Due sezioni del carcere, in media e in alta sicurezza, sono dedicate interamente al polo universitario: sono reclusi solo i sessanta “studenti-detenuti” che hanno accesso a sale comuni per poter studiare, ricevere i professori e sostenere esami. Le difficoltà non mancano, soprattutto quando per ottenere crediti formativi lo studente è chiamato a svolgere uno stage. I permessi giornalieri “È chiaro che il tirocinio non è una motivazione sufficiente per aprire le porte del carcere”, chiarisce Vallini: “l’università e l’istituto studiano delle soluzioni a seconda del singolo caso”. Diversi sono i fattori da prendere in considerazione: durata dello stage, pena residua e condizione del detenuto. Se il numero di ore è limitato, si possono ottenere i crediti formativi attraverso permessi di uscita rilasciati dalla direzione dell’istituto. In questi casi lo studente può acquisire conoscenze pratiche delle materie che ha conosciuto solo attraverso i libri in alcune strutture prossime al carcere come cooperative o associazioni individuate dall’università. Ma quando il tirocinio prevede oltre 150 ore i permessi giornalieri non sono più sufficienti. Le misure alternative per i tirocinanti Qualcuno ottiene dall’amministrazione penitenziaria il regime di semilibertà o l’articolo 21 esterno, un beneficio che consente di svolgere attività formative o lavorative fuori. “Sono valutazioni che non competono a noi, in diverse occasioni ci siamo trovati ad affrontare un diniego da parte dell’istituto”, afferma Vallini. In queste situazioni la carriera universitaria dello studente detenuto può subire un rallentamento in attesa di ottenere misure alternative o trovare, di intesa con il delegato della propria facoltà, altre soluzioni come esami integrativi o tesine supplementari. Se invece l’amministrazione concede il beneficio, il tirocinio diventa non solo l’occasione per ritornare all’esterno ma anche per entrare in contatto con il mondo del lavoro. Le strutture sono individuate dal delegato del corso di laurea e soggette alla valutazione dell’amministrazione penitenziaria. E dopo lo stage? Parlare di inserimento lavorativo dopo lo stage per un detenuto è azzardato non solo per le difficoltà economiche del momento ma anche per gli ostacoli legati al percorso di reinserimento. “Lo scopo del tirocinio è formativo, l’università non ha il compito di trovare lavoro”, chiarisce Vallini. Insomma una volta fuori, terminato il tirocinio e conseguita la laurea, anche loro, entrano nella condizione comune a tutti i neolaureati: cercare un impiego. E, come per tutti i neolaureati, l’impresa non è semplice. Molto dipende, oltre che dalla condizione individuale di ognuno, dal titolo di studio conseguito. A determinare la scelta del corso di laurea concorrono diversi fattori: non solo la spendibilità lavorativa, ma anche la pena residua e gli interessi personali. Sull’inserimento nel mondo del lavoro degli ex detenuti diventati dottori dietro le sbarre non ci sono dati specifici: certo laurearsi in carcere, oltre ad essere un importante elemento nel percorso rieducativo, potrebbe accorciare le distanze con il mondo del lavoro - ma una volta fuori l’ex detenuto deve fare i conti con la complessità, e le difficoltà, del reinserimento. I numeri Dopo dodici anni di attività, nel carcere di Prato si contano venti laureati e attualmente oltre sessanta studenti iscritti alle diverse facoltà. Sono 53 i corsi di laurea attivi: la maggior parte degli studenti predilige l’indirizzo giuridico, letterario e politico-sociale. Nel 2010, si legge nella ricerca di Antonella Barone “I numeri del trattamento”, su 300 iscritti si sono laureati 19 detenuti, di cui dieci uomini e nove donne. Studiare dietro le sbarre I poli universitari penitenziari sono sedi universitarie a tutti gli effetti: i docenti sono tenuti ad entrare in carcere per permettere agli studenti di sostenere gli esami. I professori più volenterosi possono decidere di tenere anche delle lezioni per gli iscritti al loro corso di laurea, a volte anche un solo studente. Le associazioni apportano un fondamentale contributo: seguono i detenuti nello studio, forniscono i testi e curano i contatti con i docenti. I volontari sono l’anello di congiunzione fra il contesto universitario e quello penitenziario: contribuiscono, fra mille ristrettezze, a portare avanti il difficile percorso universitario degli studenti-detenuti. Perché come scriveva Victor Hugo quasi duecento anni fa nel suo poema Mélancholia “se si apre una scuola si chiude una prigione”. Più intercettazioni, più carcere e meno prescrizioni. Ecco la giustizia grillo-leghista di Davide Varì Il Dubbio, 16 maggio 2018 Exit strategy dall’Euro, cancellazione di 250 miliardi di debito pubblico, “previa richiesta” alla Banca centrale europea. E poi: vendita di beni pubblici pari a 200 miliardi di euro, superamento (e non dunque abolizione) della Fornero, reddito di cittadinanza di 780 euro mensili con uno stanziamento di 17 miliardi annui ed estensione della legittima difesa. Sono solo alcuni dei punti del “contratto di governo” che Lega e 5Stelle stanno sottoscrivendo in queste ore. Pubblicato in esclusiva dall’Huffington Post, il patto prevede anche l’istituzione di un comitato di conciliazione : “Nel caso le diversità persistano - è scritto - verrà convocato un Comitato di Conciliazione”. I contraenti si confronteranno in questo Comitato per “giungere a un dialogo in caso di conflitti, al fine di risolvere i problemi”. E poi c’è la questione giustizia. Nel contratto sembra prevalere “la visione davighiana” dei 5Stelle. A cominciare dalla riforma in senso restrittivo della prescrizione. Ecco dunque i punti siglati dalle delegazioni giallo-verdi: potenziamento delle intercettazioni, potenziamento della legislazione anti-corruzione da realizzare “aumentando le pene per i reati contro la pubblica amministrazione”, introducendo il “Daspo per i corrotti e corruttori”, l’introduzione “dell’agente sotto copertura” e “dell’agente provocatore”. Infine una concessione a Matteo Salvini lì dove il contratto prevede l’estensione della “legittima difesa”. Più in generale, si spiega poi, “per garantire il principio di certezza della pena è essenziale abrogare tutti i provvedimenti emanati nel corso della precedente legislatura, tesi unicamente a conseguire effetti deflattivi in termini processuali e carcerari a totale discapito della sicurezza della collettività”. Insomma, più carcere e meno misure alternative. Tante le reazioni allo scoop dell’Huffington Post. La prima è dei diretti interessati, Salvini e Di Maio, che hanno confermato l’originalità del documento pubblicato, spiegando però che si tratta di “una versione vecchia”. Entro qualche giorno il documento finirà sul tavolo del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il quale, c’è da giurare, lo leggerà con molta attenzione. Mille nuovi braccialetti elettronici disponibili da agosto, li fornisce Fastweb Il Dubbio, 16 maggio 2018 Domani saranno presentati da Fastweb, la società vincitrice della gara per la fornitura. Ad agosto finalmente i braccialetti elettronici saranno disponibili. È passato un anno da quando la commissione del bando di concorso nominata per le valutazioni tecnico-economiche delle offerte pervenute ha affidato a Fastweb la fornitura, l’istallazione e attivazione mensile di 1.000 braccialetti elettronici, fino a un surplus del 20 per cento in più, con connessi servizi di assistenza e manutenzione per un arco temporale di 27 mesi. La compagnia telefonica, in tandem con l’azienda Vitrociset, aveva presentato l’offerta più conveniente dal punto di vista economico: poco più di 19 milioni di euro, oltre l’iva al 22 per cento. La gara di appalto a normativa Europea, infatti, con aggiudicazione sulla base del criterio dell’offerta più vantaggiosa, aveva un importo complessivo a base di gara pari a più di 45 milioni di euro. Alla gara erano state ammesse 3 società. Fastweb con Vitrociset, Engineering e BT Italia e infine Telecom Italia. Telecom sarebbe risultata la migliore nella parte tecnica per mezzo punto rispetto a Fastweb, ma questa alla fine l’ha spuntata perché ha fatto un’offerta economica dimezzando l’importo di partenza. A partire da agosto, quindi, finalmente centinaia di detenuti potranno usufruire degli arresti domiciliari. In sostanza si darà effettività agli articoli 275 bis del codice penale e 58 quinquies dell’ordinamento penitenziario. Si metterà così fine a una vicenda paradossale. Il problema di oggi, e che è finalmente destinato a risolversi, è l’opposto di quello che si era manifestato nel corso degli anni dopo l’introduzione dei dispositivi elettronici: superata la diffidenza e i disguidi iniziali, che nei primi sei mesi del 2013 aveva portato all’attivazione di soli 26 braccialetti, la nuova modalità di concessione della misura di custodia cautelare, aveva iniziato a farsi largo nei tribunali anche grazie al cosiddetto decreto svuota-carceri del 2013. La quantificazione dei duemila braccialetti che Telecom Italia si era impegnata a fornire, senza gara d’appalto, al ministero della Giustizia, risale all’accordo siglato con l’allora ministro Angelino Alfano dopo uno studio ad hoc commissionato sull’applicabilità della misura: un appalto - che sarebbe durato fino al 2018 - per un valore complessivo di 500 milioni. La vicenda dei braccialetti elettronici nasce però nel 2001 da un accordo di due membri dell’allora governo Amato: il ministro dell’Interno, Enzo Bianco, e il Guardasigilli, Piero Fassino. Ma dei ben 400 dispositivi elettronici che il Viminale aveva noleggiato dalla Telecom, solo 11 erano stati utilizzati: in poche parole, per una decina di braccialetti utilizzati, si impose una spesa pubblica di circa 11 milioni di euro all’anno per un affare complessivo da 110 milioni di euro. Un gap che la ex ministra Cancellieri aveva tentato di risolvere con un decreto del 2013 che caldeggiava l’utilizzo dei braccialetti per le persone agli arresti domiciliari. Però, fino al 2014, ne erano attivi solo 55 in otto uffici giudiziari. Perché? La risposta è in una lettera scritta allora da una gip di Torino, Alessandra Bassi, e da un sostituto procuratore di Firenze, Christine von Borries. Furono loro a spiegare ai colleghi ignari che potevano chiamare Telecom per installare le centraline. Da allora, anche in seguito ai provvedimenti che ne incentivavano l’utilizzo, c’è stato un boom delle richieste fino a esaurire i braccialetti disponibili. Giovedì prossimo i braccialetti saranno presentati da Fastweb e dal ministero dell’Interno al Salone della Giustizia, a Roma. Oltre ai detenuti, la novità è che i braccialetti - su decisione del magistrato - potranno essere utilizzati anche per monitorare gli stalker e anche la stessa vittima che potrà, tramite il dispositivo, rilevare la presenza dell’aggressore generando immediatamente un allarme alla questura. La lotta dei cittadini di San Luca per difendere la democrazia di Aldo Varano Il Dubbio, 16 maggio 2018 Non vanno a votare perché sanno che poi verranno commissariati. La legge sullo scioglimento dei comuni deve essere cambiata. I cittadini di San Luca, siamo nel cuore dell’Aspromonte, per la terza volta consecutiva si sono rifiutati di recarsi alle urne per eleggere sindaco e Consiglio comunale. Nessuna lista è stata presentata per le prossime comunali. La notizia è stata accolta, anzi seppellita, da un diluvio di luoghi comuni che hanno chiamato in causa la ‘ndrangheta sostenendo che i 4.000 cittadini residenti nel paesino (in realtà sono molti di meno) non eleggono il sindaco perché le cosche così hanno deciso. Da qui le accuse di lontananza, anzi di ostilità allo spirito democratico della Repubblica e di subalternità alla mafia. San Luca è stato sbattuto in passato sui giornali come la Capitale dell’anonima sequestri e tra le sue strade sono nate le radici cresciute fino Duisburg per una strage ormai famosa quanto quella americana di San Valentino. Ma questo carico drammatico di problemi e sofferenza, mai negati in Calabria e a San Luca, non c’entra nulla con le ragioni per cui lì non si vota, scelta peraltro rafforzata da una petizione popolare perché resti il commissario prefettizio. Il fatto è che anche le pietre sanno benissimo che con l’attuale legge sullo scioglimento dei comuni a San Luca potranno andare a votare mille volte e la Prefettura potrà sciogliere, anzi scioglierà con certezza, il Comune mille e una volta, con tanto di timbro, in realtà un atto dovuto, del ministero dell’Interno. Com’è noto la legge sullo scioglimento dei comuni è una legge interamente discrezionale ed è anche ampiamente riconosciuto che non ha mai, dicesi mai, risolto un problema ma anzi li ha sempre aggravati nelle comunità in cui è scattata. Un totale fallimento peraltro dimostrato dagli scioglimenti a raffica di uno stesso Comune imposti proprio da mancata soluzione del problema. Come, appunto, San Luca. Per sciogliere un Consiglio comunale interamente formato da incensurati può bastare una parentela malavitosa o ritrovarsi in un bar con un pregiudicato. E a San Luca di bar ce ne sono due, forse tre, ed è difficile non avere almeno un parente, sia pure lontano, pregiudicato. Può mai essere la democrazia un giochino per cui i cittadini votano e lo Stato annulla le loro decisioni? A San Luca, per fortuna, hanno deciso di no. Non sembri un paradosso: la ribellione di San Luca, piaccia o no, difende la democrazia dove e quando viene logorata da leggi prive di garanzia che la infragiliscono. Perfino la ex presidente dell’antimafia, Rosy Bindi, e il procuratore nazionale antimafia de Raho, hanno criticato, sia pure con mille cautele e in modo insufficiente, la legge sullo scioglimento dei Comuni. Ma una politica interamente subalterna ai professionisti dell’antimafia, non solo non ha mai proposto di cancellarla, ma non ha neanche provato a modificarla per farne uno strumento a sostegno delle persone perbene (comprese quelle di San Luca) che vorrebbero impegnarsi a favore della propria comunità. Per questo bisognerebbe dire Grazie a San Luca che a votare non va. “Massacrato dai carabinieri”: la verità al processo Cucchi di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 16 maggio 2018 Nove anni dopo la morte. Parlano i due testimoni in divisa, Riccardo e Maria, che nel frattempo si sono sposati. Due carabinieri, un uomo e una donna, condividono la consapevolezza di un segreto terribile: i loro superiori hanno massacrato di botte un giovane e scaricato la colpa del pestaggio sulla polizia penitenziaria, poi il ragazzo è morto. L’uomo e la donna sono estranei al massacro e parlandone si riconoscono nella reciproca umanità, alla fine si innamorano e si sposano. Ma non finisce come nelle favole. Vengono minacciati, insultati, impauriti affinché non parlino con quella sorella che continua imperterrita a esibire la foto del ragazzo pestato a morte, che non si dà per vinta davanti al potere in divisa che uccide sicuro di rimanere impunito. È questa la nuova storia, un po’ rosa e molto nera, che è emersa ieri platealmente all’udienza per la morte di Stefano Cucchi, processo bis davanti alla I corte d’Assise del Tribunale di Roma che vede questa volta imputati non i poliziotti della penitenziaria, scagionati nel primo processo, ma cinque carabinieri allora in forza alla stazione di Tor Vergata, tre dei quali sono ora accusati di omicidio preterintenzionale. I due carabinieri che hanno testimoniato ieri contro i loro superiori di allora si chiamano Riccardo Casamassima e Maria Rosati e sono in effetti i due testimoni chiave che hanno consentito ai pm di riaprire il caso Cucchi. “All’inizio la vicenda Cucchi non mi aveva coinvolto in prima persona - ha spiega Casamassima disfacendosi d’un colpo dell’aura di eroe - ma troppe cose fatte dai miei superiori non mi erano piaciute, come l’abitudine di falsificare i verbali e di coprire gli autori di illeciti. E vergognandomi di ciò che sentivo e vedevo, ho deciso di testimoniare”. In realtà gli ci sono voluti anni di angherie e, si immagina, di notti insonni e tormentate. Ieri ha però deciso di “vuotare il sacco”, come suole dirsi, di rompere una volta e per sempre la congiura del silenzio durata anni, la paura di ritorsioni, che del resto erano già state usate per metterlo alle strette, screditarlo, impedirgli di parlare ai magistrati. Quella sera di metà ottobre 2009 - ha raccontato - il maresciallo Roberto Mandolini entrò nella caserma di Tor Vergata, e prima di andare a rapporto dal comandante Enrico Mastronardi disse “che c’era stato un casino, un ragazzo era stato massacrato di botte dai ragazzi”. Il ragazzo massacrato era il 32enne Stefano Cucchi, mentre per i massacratori il termine “ragazzi” sta ad indicare, spiega, che si trattava “dei nostri”, carabinieri dunque. Questo sentì il carabiniere Casamassima. Poi Maria Rosati, all’epoca appuntato gli raccontò di una conversazione ascoltata da lei tra il comandante della stazione e il maresciallo Mandolini. “Maria - ha raccontato Riccardo Casamassima - mi rivelò che Mandolini e Mastronardi stavano cercando di scaricare le responsabilità dei carabinieri sulla polizia penitenziaria. Lei stava lì perché fungeva da autista del comandante e capì il nome “Cucchi” ma visto che la vicenda non era ancora nota, deduco che quando ci fu questo colloquio il ragazzo fosse ancora vivo”. Stefano morì il 22 ottobre 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo l’arresto e le botte. Casamassima ebbe poi un’ulteriore conferma di ciò che era successo parlando con il figlio del comandante Mastronardi, Sabatino, maresciallo anche lui e suo amico. “Sabatino venne in caserma, si portò la mano sulla testa e, parlando della morte di Cucchi, disse che non aveva mai visto una persona così messa male. Lo aveva visto la notte dell’arresto quando Cucchi venne portato a Tor Vergata”. Ilaria Cucchi, dopo l’udienza, punta il dito senza più timore verso il maresciallo Mandolini. “è lui il principale responsabile - dice - e ricordo bene quando venne in aula nel primo processo, quello sbagliato, a raccontarci la storiella che quella era stata una serata piacevole e che Stefano era stato anche simpatico. Adesso è il processo giusto e si parla di pestaggio. Ogni volta in quest’aula ho la pelle d’oca”. Market abuse, doppie sanzioni frenate di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2018 La riforma del market abuse salva (per ora) il doppio binario penale-amministrativo delle sanzioni, ma ne limita l’impatto. Estende l’area del penalmente rilevante. Aumenta il numero di anni di carcere che potrà essere inflitto, ma limita l’effetto della confisca. Approda oggi in via preliminare al Consiglio dei ministri il testo del decreto legislativo che adegua il nostro ordinamento, soprattutto il Testo unico della finanza, al regolamento Ue n. 596 del 2014. Il provvedimento sarà oggetto di un confronto serrato tra i ministri anche perché alcuni nodi restano ancora da sciogliere. Nei sei articoli dello schema di decreto si affronta una serie di questioni aperte in materia di repressione delle condotte di market abuse. A partire dalla coesistenza di misure sia penali sia amministrative (inflitte da Consob) per reprimere le medesime condotte. Il provvedimento formalizza un abbozzo di soluzione, che salva il doppio binario, ma impone ad autorità giudiziaria e Commissione di tenere conto, al momento di decidere sulle sanzioni di competenza, delle misure punitive già inflitte; dispone poi che l’esecuzione delle sanzioni, penali o amministrative, sia limitata alla parte eccedente a quella già eseguita o scontata. Un abbozzo, appunto, anche perché, nel frattempo, ammette anche la relazione al decreto, sono arrivate le sentenze della Corte di giustizia sulla questione del ne bis in idem. Pronunce, assai critiche sul complessivo regime sanzionatorio, tanto da fare scrivere adesso nella relazione appunto che l’intervento proposto è “minimale” rispetto alla norma in vigore, “in attesa di ulteriori approfondimenti”. Venendo all’area del penalmente rilevante, lo schema di decreto interviene sulla fattispecie della manipolazione del mercato, allargando la misura della contravvenzione oltre che alle condotte che hanno per oggetto strumenti finanziari negoziati su Mtf, anche alle condotte relative a strumenti finanziari negoziati, come prevede Mifid “, su Otf, derivati e quote di emissioni. Ma in maniera esplicita rientreranno nel penale anche le condotte di manipolazione del benchmark. L’intervento sul versante dell’abuso di informazioni privilegiate fa aumentare il massimo della misura pecuniaria che può essere inflitta facendola salire da 3 a 5 milioni. La decisione di non intervenire sul minimo deve essere letta in parallelo alla conservazione dell’effetto moltiplicatore che ammette un incremento fino al triplo o fino al maggior importo di 10 volte non solo del profitto conseguito ma anche delle perdite evitate nel caso di inadeguatezza delle sanzioni applicate nel massimo. Ipotesi che potrà scattare adesso non solo a causa delle qualità del colpevole, ma anche della gravità della violazione e del suo impatto sistemico (di tutti i criteri comunque previsti dall’articolo 194 bis del Tuf). Quanto alla confisca, sempre prevista per le varie fattispecie di market abuse punite sul piano amministrativo, questa, ma è uno dei punti controversi, dovrebbe essere circoscritta e riguardare non più sia il profitto del reato sia i beni utilizzati per commettere la violazione, ma solo il profitto. Sul piano delle violazioni rilevanti sul piano amministrativo, il decreto introduce un nuovo articolo nel Tuf (l’articolo 187 ter.1) per colpire le violazioni agli obblighi soprattutto di comunicazione imposti dal Regolamento comunitario. Un esempio: significativa la disposizione che nel Regolamento, impone alle società la comunicazione delle informazioni privilegiate (tra l’altro, l’emittente non deve coniugare la comunicazione di informazioni privilegiate al pubblico con la commercializzazione delle proprie attività e deve pubblicare e conservare sul proprio sito per un periodo di almeno 5 anni tutte le informazioni privilegiate che è tenuto a comunicare al pubblico. Il decreto, a chi infrange queste prescrizioni, e molte altre, infligge una sanzione da 5.000 fino a 2 milioni e 500.000 euro oppure il 2% del fatturato per gli importi superiori. Rafforzato poi il sistema delle misure accessorie, meglio dettagliate nell’ipotesi base, che accompagnano quelle pecuniarie: scatta in maniera automatica, per esempio, l’interdizione automatica per i recidivi dell’abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato sia sul fronte penale sia su quello amministrativo. L’Italia dei condoni e la favola di Andersen di Antonella Boralevi La Stampa, 16 maggio 2018 Le tasse sono il fondamento del patto tra persone che crea lo Stato. Il “patto sociale”. Le tasse sono anche, e soprattutto, una speranza. La speranza che quei soldi che con fatica (la maggioranza di noi) abbiamo guadagnato lavorando, servano a migliorare la vita di tutti. La speranza che vengano destinati con saggezza e con onestà. La speranza che siano il motore della crescita economica del Paese. In Italia, si sa, la pressione fiscale è altissima. Si lavora, dicono, 6 mesi, per lo Stato e solo 6 mesi per sè. Non pochi evadono le tasse. Alcuni non esistono addirittura, per l’anagrafe fiscale. Altri truffano. Altri si sbagliano. E dunque non pagano quello che devono. Che le tasse siano troppo alte, è una evidenza. Che ci siano non pochi evasori fiscali in Italia, anche. A me incuriosisce il metodo con cui vengono calcolati. Su che base, per dire, ci dicono che l’evasione da noi è al 23%? Se qualcuno è in grado di contare gli evasori, perché non obbligarli a fare il loro dovere? Se ci si basa sui dati dei condoni pregressi, perché supporre che il numero non cambi? Gli evasori fiscali che tradiscono il patto sociale in tutti Paesi, almeno sulla carta, vengono sanzionati. In certi paesi, come negli Stati Uniti, vengono arrestati e chiusi in carcere. Da noi, tuttavia, questa che a me sembra una logica elementare, non viene applicata. Da noi, gli evasori vengono premiati. Certo, c’é sempre una buona ragione. Fare cassa. Purché paghino (poco, la metà, un terzo, senza multe), gli evasori vengono corteggiati, pregati, coccolati. Purché il “condono fiscale” renda qualche soldo. Siccome le parole sono pietre, il regalo agli evasori ha sempre un nome simpatico. Per esempio “rottamazione”. Viene sempre prolungato oltre la scadenza iniziale. Adesso pare che ce ne sarà un altro. Allora io avanzerei una proposta modestissima. Nel filone della favola di Andersen sul vestito del Re. In attesa di una pacificazione fiscale, che abbassi la tassazione a livelli ragionevoli,perché non cambiare il punto di vista? Invece di premiare chi ha evaso (per i più vari motivi, lo capisco, ma sempre di evasione si tratta), perché lo Stato non premia chi paga subito e tutto? Magari con una percentuale di sconto Pronta Cassa / Cittadino Onesto. Certo, é una tautologia. I cittadini devono pagare le Tasse. È su questo patto sociale che si fonda lo Stato. Ed è anche una resa. Ma se alcuni cittadini pagano e altri no, perché premiare chi, questo patto, lo tradisce? Solo perché lo Stato non é in grado di farlo rispettare? Malati psichiatrici: Rems o carcere? di Francesca Servadei (Avvocato) studiocataldi.it, 16 maggio 2018 Rinviata alla Consulta la legittimità costituzionale dell’art. 47 ter comma 1 ter dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la detenzione domiciliare in caso di grave infermità psichica sopravvenuta. Parola alla Consulta per decidere se l’art. 47 ter comma 1 ter dell’ordinamento penitenziario è legittimamente costituzionale, nella parte in cui non prevede l’applicazione della detenzione domiciliare nel caso di grave infermità psichica sopravvenuta durante l’esecuzione della pena. Così ha deciso la Cassazione, con l’ordinanza n. 13382/2018 (sotto allegata) nella vicenda riguardante un detenuto, al quale era stato diagnosticato un disturbo borderline che aveva compiuto atti di autolesionismo. Con l’ordinanza 999 del 2017, il Tribunale di Messina, alla luce dell’interpretazione conforme alla Carta Costituzionale ha disposto la detenzione domiciliare ai sensi dell’articolo 47, comma 1 ter, dell’ordinamento penitenziario nel caso in cui, in pendenza di esecuzione della pena detentiva, sia sopravvenuta una infermità psichica. Tale fattispecie si rintraccia ai sensi dell’articolo 148 del Codice Penale, il quale, riferendosi al detenuto a pena detentiva superiore a tre anni prevede il suo differimento e che il condannato sia collocato presso un ospedale psichiatrico giudiziale ovvero in una casa di cura e di custodia; il problema è sorto con la chiusura di dette strutture, pertanto, la soluzione è il ricovero presso le Rems, ossia strutture riabilitative per malati psichiatrici. Grave infermità psichica: parola alla Consulta - Tale soluzione però è stata criticata, in quanto trattasi di strutture volte ad ospitare soggetti non imputabili al momento del fatto ovvero semi-imputabili o socialmente pericolose, da ciò ne deriva che sia l’ordinanza della Prima Sezione della Corte di Cassazione in commento che il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza di Messina, ritengono che l’articolo 148 del Codice Penale debba ritenersi abrogato nella parte in cui rievoca gli ospedali psichiatrici giudiziari e la casa di cura e di custodia. Problematica risulta essere la collocazione dei soggetti portatori di disturbi nelle specifiche sezioni speciali per infermi o minorati, come contempla l’articolo 65 dell’Ordinamento Penitenziario, pertanto sembrerebbe più che comprensibile la detenzione domiciliare consentita oggi dall’articolo 47, I comma dell’Ordinamento Penitenziario. La soluzione indicata dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Messina risulta essere conforme a i principi dettati dalla Costituzione, perciò la Suprema corte ha adito la Consulta affinché venga adottata la via della detenzione domiciliare così come prevista dal Tribunale di Messina. Facebook diverso dalla stampa, sì a sequestro preventivo pagine di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 maggio 2018 Corte di cassazione -?Sentenza 15 maggio 2018 n. 21521. È legittimo il sequestro preventivo della pagine Facebook di chi è indagato per diffamazione per aver ripetutamente offeso la reputazione di più persone. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza 15 maggio 2018 n. 21521, dichiarando inammissibile il ricorso dei due inquisiti contro l’ordinanza confermativa del tribunale del riesame di Grosseto. Per i ricorrenti invece in tal modo si violava il diritto alla libera manifestazione del pensiero ed anche il principio di uguaglianza dal momento che le pagine web erano soggette ad una tutela diversa da quella accordata alle testate giornalistiche online. La Cassazione, per prima cosa, ricorda che il provvedimento aveva riguardato “le pagine Facebook attraverso le quali i due ricorrenti avevano pubblicato messaggi o video o commenti dal contenuto reputato offensivo per le persone offese e che il Gip ne aveva ordinato il sequestro preventivo in relazione all’ipotizzato delitto di diffamazione, tramite l’oscuramento, prescrivendo al fornitore del servizio di renderle inaccessibili agli utenti”. “È evidente - si legge nella decisione - che le forme di comunicazione telematica come i blog, i social network come Facebook, le mailing list, e newsletter, sono espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero garantito dall’articolo 21 della Costituzione ma non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa, anche nella forma on line, poiché rientrano nei generici siti Internet che non sono soggetti agli obblighi ed alle garanzie previste dalla normativa sulla stampa”. “In essi, infatti - prosegue la Corte - chiunque può esprimere il proprio pensiero su ogni argomento, suscitando opinioni e commenti da parte dei frequentatori del mondo virtuale”. Così stando le cose, argomentano ancora i giudici, “è agevole rispondere alla perplessità circa la prospettata diseguaglianza di trattamento tra siti web e testate giornalistiche on-line, semplicemente osservando che le situazione disciplinate diversamente sono tra loro molto diverse”. Infatti, conclude la Cassazione, “è evidente che un quotidiano o un periodico telematico, strutturato come un vero e proprio giornale tradizionale, con una sua organizzazione redazionale e un direttore responsabile non può certo paragonarsi a uno qualunque dei siti web innanzi citati, in cui chiunque può inserire dei contenuti, ma assume una sua peculiare connotazione, funzionalmente coincidente con quella del giornale tradizionale, sicché appare incongruo, sul piano della ragionevolezza, ritenere che non soggiaccia alla stessa disciplina prevista per quest’ultimo”. Cagliari: Sdr “serve un piano multidisciplinare anti suicidi per il carcere di Uta” Ristretti Orizzonti, 16 maggio 2018 “I tentativi di suicidio non possono essere affrontati con interventi risolutori in extremis. Sono troppo alti i rischi che ne conseguono. Occorrono progetti multidisciplinari che coinvolgano tutti gli operatori realizzando una rete forte, attiva, motivata”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento al tentativo di suicidio verificatosi nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta la scorsa notte. “È noto inoltre che per ogni tentativo di suicidio sventato venuto alla luce - osserva Caligaris - ce ne sono altri che non si conoscono. Occorre quindi interrogarsi su quali condizioni favoriscono le pratiche autolesionistiche all’interno di una struttura detentiva. Gli aspetti sono molteplici e non riguardano solo persone con gravi disturbi psichici. Per questo sono necessari progetti con più figure professionali. Sarebbe opportuno, oltre ai test psicologici che vengono somministrati per individuare le persone maggiormente a rischio, promuovere azioni concrete per migliorare la convivenza”. “La prevenzione degli atti estremi di autolesionismo deve quindi contemplare attività culturali, ricreative, momenti produttivi e di riflessione ma anche risposte alle “domandine” o alle istanze in tempi ragionevolmente brevi. Il mancato o eccessivamente ritardato responso a un quesito attinente la sfera personale della persona privata della libertà - sottolinea la presidente di Sdr - genera una pesante frustrazione. Significa per chi non si sente considerato vivere uno stato di umiliazione e inutilità”. “La convivenza dentro un carcere non è facile e trovare soluzione ai problemi non sempre è possibile. Ecco perché diventa di fondamentale importanza il dialogo e la collaborazione tra le diverse figure professionali all’interno della struttura che, a loro volta, devono essere poste nella migliore condizione di operare per rafforzare la personale motivazione e poter attivare quella relazione con i detenuti che - conclude Caligaris - genera fiducia reciproca e possibilità di rendere l’esperienza penitenziaria meno afflittiva”. Milano: a San Vittore progetto contro le recidive delle detenute di origini Rom con figli di Daniel Bidussa lamilano.it, 16 maggio 2018 Si è avviato in data 14 Maggio un progetto che andrà avanti fino a Giugno con l’obiettivo di accompagnare in un percorso di riabilitazione completo le detenute di origini Rom con figli. Si tratta di un progetto che vuole distinguersi da altri già esistenti per come coinvolge anche le famiglie delle detenute e per il fatto di andare avanti anche dopo la detenzione: un progetto che vuole accompagnare in quello che può essere un difficile rientro nella propria comunità. Il progetto prende il nome di F.A.Se. (Formare, Accompagnare, Sensibilizzare) ed ha avuto inizio nel carcere di Milano San Vittore con un incontro in cui sono state spiegate le modalità e le finalità con cui si svolgerà il progetto. Finanziato da Regione Lombardia e Fondazione Cariplo si avvale dell’apporto di numerose associazioni fra cui Sesta Opera San Fedele, Caritas Ambrosiana, Opera Nomadi, Progetto Onesimo e la cooperativa Dike. Viene aperto uno sportello di ascolto pensato appositamente per queste detenute e si vuole rafforzare lo scambio interculturale fra volontari società civili e le detenute di origine Rom. Marianna Grimaldi, Direttrice dell’Icam (Istituto a Custodia Attenuata per detenute Madri), ha illustrato i contenuti dell’istituto: una struttura sperimentale unica in Italia pensata per la particolare condizione di quelle detenute che hanno figli a carico. Si tratta di un progetto che va ad operare in situazioni specifiche con l’obiettivo di evitare la recidiva una volta scontata la pena a beneficio quindi dell’intera collettività portando a rendere efficace non solo il percorso di riabilitazione svolto all’interno delle mura del carcere ma anche con interventi di accompagnamento nel primo periodo di libertà. Roma: al via l’ottava edizione del Salone della Giustizia ilcorrieredelgiorno.it, 16 maggio 2018 Tre giorni di dibattiti, tra temi terrorismo e Brexit, Oltre ai cinque convegni, una serie di workshop sulle carriere in magistratura, il made in Italy, il diritto di famiglia, la tutela dell’infanzia, il cyber-bulllismo, il femminicidio e la fibromialgia, un’occasione di aggiornamento professionale per avvocati e giornalisti Per la prima volta, quest’anno, i lavori potranno essere seguiti nella lingua dei segni. L’alternanza scuola-lavoro, la domanda di autonomia amministrativa, l’economia tra globalizzazione e nuovi protezionismi, e la minaccia del terrorismo: sono alcuni dei temi che verranno approfonditi al Salone della Giustizia, la cui ottava edizione ha aperto i battenti ieri a Roma al Centro congressi del Parco dei Principi, per una tre giorni di seminari. Il Salone quest’anno ruota intorno alla domanda ‘dove i cittadini vorrebbero ci fosse più giustizia?’. Assente per la prima volta il governo, sono stati gli esperti chiamati a confronto a dare le risposte. Ha aperto i lavori il presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, il ministro della Giustizia argentino German Garavano e la presidente della Fondazione Gerusalemme Johanna Arbib. Nel primo dibattito si è parlato di futuro, di giovani e lavoro con, tra gli altri, il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, il rettore di Tor Vergata Giuseppe Novelli e due sindacalisti di lungo corso come Raffaele Bonanni ed Emilio Miceli. Nel pomeriggio si sono affrontati, dal punto di vista politico e costituzionale, il tema delle autonomie regionali con il presidente della Puglia Michele Emiliano, l’Avvocato generale dello Stato Massimo Massella Ducci Teri, il presidente di Unioncamere Ivan Lo Bello.Oggi il Salone si aprirà con un dibattito sulla “Globalizzazione e nuovi protezionismi”. Saranno in particolare messe a fuoco le future strategie di Italia e Regno Unito. Philip Willan, corrispondente dall’Italia del ‘The Times’, porrà la questione ai relatori che partecipano a questo importante incontro. Beniamino Quintieri, presidente della Sace, Donato Iacovone, AD di Ernst e Young, Mauro Moretti, già AD di Ferrovie dello Stato e di Leonardo Spa, Gianni Letta. Sarà presente il Ministro plenipotenziario Ken O’ Flaherty, vice Capo Missione dell’ Ambasciata Britannica di Roma. Il tema del pomeriggio è il ricatto del terrorismo: Un argomento, quello del terrorismo, di strettissima attualità. Nel mondo tra la gente è sempre più diffusa una sensazione di pericolo e di forte insicurezza. L’argomento concluderà la seconda giornata dei lavori dell’8° Salone della Giustizia. Ne parlerà Franco Gabrielli, Capo della Polizia di Stato e della Pubblica Sicurezza, Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia e anti terrorismo, Giuseppe Amato, procuratore Capo di Bologna, Ofer Sachs, ambasciatore dello Stato di Israele, Kieran L. Ramsey, attaché legale del FBI dell’Ambasciata americana in Italia. Giovanni Soccodato, vice presidente Strategie e Innovazione di Leonardo Spa illustrerà i progressi della tecnologia italiana per il contrasto alle attività terroristiche. Moderatrice Fiorenza Sarzanini, giornalista del Corriere della Sera. L’ultimo giorno del Salone sarà dedicato al rapporto tra media e magistratura. Ad introdurre il dibattito Tommaso Marvasi, vice presidente del Comitato scientifico del Salone della Giustizia e presidente del Tribunale delle Imprese. L’incontro sarà moderato dal direttore di Rainews24 Antonio Di Bella, a cui parteciperanno il direttore del Messaggero Virman Cusenza, il direttore dell’ANSA Luigi Contu, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, il presidente della Cassazione Giovanni Mammone e il presidente dell’Anm Francesco Minisci. Il presidente del Salone della Giustizia Carlo Malinconico concluderà i lavori assieme alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Per quanto riguarda i workshop, l’Unione Camere Penali insieme alle Camere Penali di Roma ha promosso due incontri nel corso della giornata inaugurale. I temi trattati riguarderanno: giudici e pubblici ministeri, due carriere per un giusto processo e il pianeta carcere, la riforma penitenziaria, a cui parteciperà il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Santi Consolo. La seconda giornata prevede quattro argomenti: banche e imprese, in quanto in questo momento di particolare crisi, le aziende stanno riformulando il modo di fare impresa, dando sempre più evidenza alle reali necessità e rivalutando il rapporto con il mondo bancario, che deve anch’esso mutare il proprio antico rapporto con il mercato; tutela giuridica dell’infanzia, in un mondo in continua evoluzione, dove i “valori” vengono quotidianamente ridefiniti, dove i mali genitoriali si allargano e si comprimono a seguito di ingerenze di aria natura, è necessario ridefinire i confini della tutela dell’infanzia sotto ogni profilo; diritto di famiglia e food law e made in Italy, il “made in Italy” è uno dei marchi più diffusi al mondo ma anche uno dei meno tutelati. Nel campo del “food and beverage” si sta formando una nuova legislazione che prende spunto proprio dalla eccellenza dei nostri prodotti. Due i temi che concluderanno la serie di workshop dell’8° Salone della Giustizia. Il primo su stalking e femminicidio: qual è il confine tra la cattiveria e la pazzia? In Italia vengono commessi almeno 130 femminicidi l’anno, un fenomeno che rimbalza sempre più spesso nelle cronache dei giornali e dei telegiornali con dettagli a volte raccapriccianti. Si tratta nella gran parte dei casi di veri e propri delitti annunciati, preceduti da violenza fisica o psicologica, e avvengono spesso in contesti socio-culturali non marginalizzati. Si tratta quindi di un problema con motivazioni, assai complesse e con implicazioni psicologiche che non vanno sottovalutate. L’incontro si propone di approfondire il linguaggio della cronaca, il panorama delle misure di prevenzione e di sanzione di questi reati e gli aspetti più puramente psichiatrici. I relatori: Annelore Homberg, Simonetta Matone, Federica Federici, Paola Guerci, Adriana Pannitteri. Il secondo incontro riguarda due milioni e mezzo di italiani affetti dalla sindrome della fibromialgia. Questa patologia invalidante, ancora oggi non gode di tutela sanitaria e di riconoscimento da parte del SSN. La malattia è caratterizzata da dolore diffuso, stanchezza profonda e disturbi del sonno che sono quindi determinanti anche ai fini lavorativi e sociali. Presenti all’incontro medici, rappresentanti delle istituzioni e sindacali, le due associazioni principali di pazienti. Trani (Bat): Associazione Antigone “nel carcere femminile cresce il sovraffollamento” Giornale di Trani, 16 maggio 2018 Nei giorni scorsi osservatori dell’associazione Antigone sono stati in visita nel carcere di Bari e in quello femminile di Trani per monitorare le condizioni di detenzione. Ciò che emerso nell’istituto barese è un’impennata del numero di detenute della quale gli stessi operatori non si danno una spiegazione. Per una capienza di 299 posti letto, i detenuti presenti erano 353 alla fine dello scorso gennaio, mentre sono arrivati a 442 al momento della nostra visita. Di recente si è dovuto aggiungere il terzo letto a castello in tutte le sezioni di media sicurezza e molti dei detenuti sono costretti in uno spazio compreso tra i 3 e i 4 mq, al limite di quanto previsto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, prima che si configuri la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea, riguardante il trattamento inumano e degradante. Al momento della visita gli stranieri erano 76, provenienti principalmente dall’Albania, la Georgia e la Somalia, e i detenuti con una sentenza definitiva 136. 108 i detenuti nella sezione di alta sicurezza. In molte sezioni si cerca di rispettare le indicazioni sulla sorveglianza dinamica e la possibilità di stare fuori dalla propria cella per almeno 8 ore al giorno, anche grazie allo sforzo degli operatori nel tentare di organizzare una vita interna conforme agli standard legali. La caratteristica più rilevante dell’istituto è la presenza di un grande centro clinico, che serve l’intera Puglia, la Sicilia, la Campania e la Calabria. Il centro clinico ha 19 posti di degenza, ma molti detenuti che alloggiano nei reparti sono seguiti. Il Policlinico di Bari ha inoltre un reparto penitenziario con 7 posti. Circa 120/130 detenuti soffrono di patologie psichiche. Sono continue le uscite per ricoveri o visite esterne, cosa che comporta un utilizzo maggiore di personale. Di recente hanno diminuito la pianta organica, e ciò ha creato problemi. Sulla carta si legge la presenza di 10 educatori, ma circa la metà non esercita per motivi vari. I medici del centro clinico portano avanti uno straordinario lavoro di assistenza, pur nella solitudine nella quale la Regione li lascia. Per ciò che riguarda la casa di reclusione femminile di Trani invece le detenute presenti sono 34 per una capienza di 28 posti. Nove di loro sono straniere. La struttura necessita di ristrutturazione in diversi locali dove sono presenti muffe e umido. Le celle sono vecchie e anguste e le detenute per ognuna sono tre. Il bagno è in alcuni casi stato ricavato grazie a un divisorio. Le docce sono in ambiente separato e sono presenti macchie di umidità con alcuni calcinacci cadenti. Il cortile esterno è senza copertura e privo di qualsivoglia confort (nemmeno delle sedute). Non c’è una palestra, così come non esistono spazi adeguati per far incontrare le detenute con i loro figli. È presente invece un refettorio comune che funziona anche da sala polivalente. Sono presenti anche due spazi non in uso nella struttura: il laboratorio adibito a calzificio e l’ultimo piano dell’istituto. Per quanto riguarda l’ex calzificio, questo è inutilizzato perché la strumentazione al suo interno è rotta o non più utilizzabile. Da segnalare anche la mancanza di attività trattamentali e il fatto che quasi tutte le detenute lavoranti siano impegnate alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, senza contatti con il mondo dell’imprenditoria esterna. Roma: dal carcere di Rebibbia detenuto da 23 anni prende il dottorato, premiato rainews.it, 16 maggio 2018 Si chiama Alessandro, ha 46 anni e da 23 è in carcere a Rebibbia. È il primo detenuto ad aver conseguito il dottorato durante la detenzione e ad aggiudicarsi il premio nazionale “Sulle ali della libertà”, che ha come obiettivo la promozione della cultura negli istituti di pena Tweet 15 maggio 2018 46 anni di cui 23 passati in carcere. Alessandro, recluso a Rebibbia dal 1995, è il primo detenuto a vincere il premio nazionale “Sulle ali della libertà” per aver conseguito dietro le sbarre, per primo in Italia, il dottorato di ricerca in Sociologia e scienze applicate. Il titolo della tesi? “Rieducazione, formazione e reinserimento sociale dei detenuti. Uno studio comparativo ed etnografico dei detenuti rientranti nella categoria “Alta sicurezza” in Italia: percorsi di vita, aspettative, e reti sociali di riferimento”. Il premio ricevuto, un buono di 1.000 euro da poter spendere in libri. Con questo lavoro Alessandro ha vinto la prima edizione dell’iniziativa, promossa e ideata dall’associazione “L’isola solidale”, che da oltre 50 anni si occupa di accogliere i detenuti che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, arrivati a fine pena, non hanno una famiglia da cui tornare né risorse economiche. “È una bella iniziativa la vostra”, ha commentato Alessandro durante la premiazione. “Il 95% dei detenuti italiani proviene da uno strato socio culturale basso, entra in carcere con la licenza di scuola media inferiore. Studiando qui, però, ha la possibilità di rompere l’appartenenza all’ambiente da cui proviene e che è stato la causa delle sue azioni delinquenziali”. Un modo per evolversi, la possibilità di abbandonare il degrado dell’ambiente socio-culturale di provenienza. Ma per Alessandro il dottorato non è l’ultimo dei titoli da conquistare. A breve, infatti, porterà a casa anche una seconda laurea in Servizi Sociali. “Mi auguro che possa essere in futuro di aiuto anche per gli altri detenuti”, ha detto commosso in un video girato dal carcere, esprimendo tutta la sua soddisfazione per il riconoscimento. “Questa storia di vita dimostra come la formazione scolastica e universitaria in carcere siano lo strumento fondamentale per la risocializzazione ed il reinserimento sociale dei carcerati”. Così il sottosegretario uscente alla Giustizia, Cosimo Ferri, si è complimentato con il detenuto, sottolineando il grande impegno che l’Associazione mette in campo per l’accoglienza e la riabilitazione dei carcerati. La Spezia: progetto “Controvento”, per la formazione professionale dei detenuti di Guido Ghersi levantenews.it, 16 maggio 2018 Insegnare ai detenuti una professione per consentire a loro, una volta saldati i conti con la giustizia, di trovare un lavoro ed evitare il rischio di essere emarginati dalla società. Accade nel Comune di Sesta Godano, in Media Val di Vara, guidato da Marco Traversone. Qui formazione ed inclusione sociale si sono unite nel progetto rivolto ai detenuti del penitenziario di “Villa Andreino” della Spezia. Merito dell’idea “Controvento” della “Lega Coop” capofila di un partenariato che ha coinvolto diversi Enti, avviato con l’obiettivo di promuovere un percorso formativo di avviamento all’attività lavorativa per soggetti a rischio emarginazione. Il corso è stato strutturato in parte nozionistica, dedicata al restauro, alla conoscenza e al trattamento dei diversi materiali, alle metodologie di intervento. Poi gli allievi, sotto la guida di docenti specializzati, hanno imparato ad utilizzare decespugliatori, motoseghe, imbragature, ecc., operando in siti archeologici e luoghi di interesse del territorio comunale, quale il “Ponte Garolo”, sul Torrente Gottero; il sito archeologico del castello di Godano dove si sono svolte delle esercitazioni con le citate attrezzature, e sul ponte romanico nel centro di Sesta Godano. Al termine del percorso sono stati attivati sei mesi di stage per alcuni dei detenuti mentre al progetto ha contribuito anche il “Rotary” spezzino. La sinergia tra il doppio bisogno sociale, di inclusione e di valorizzazione dell’identità territoriale sembra essere il circolo virtuoso, reso possibile grazie all’impegno di diversi attori. Padova: successo per i concerti del coro dei detenuti del Due Palazzi, presto sarà in tour di Alberta Pierobon Il Mattino di Padova, 16 maggio 2018 Giovedì scorso all’auditorium del Due Palazzi e domenica pomeriggio al Centro universitario di via Zabarella. Due repliche dell’esibizione dei detenuti che partecipano al laboratorio di letture teatrali e di quelli che fanno parte del coro composto da detenuti e volontari. Il doppio appuntamento rientrava nel programma del “festival biblico”. Domenica è stato “pienone” con centinaia di persone partecipi e coinvolte, e in prima fila il vescovo don Claudio Cipolla, il direttore del due palazzi Claudio Mazzeo e il provveditore Enrico Sbriglia. A ranghi completi nello spettacolo dentro il carcere, mentre domenica i detenuti che hanno potuto fruire di un permessa erano tre. Sorridente il vescovo Claudio ha ufficialmente invitato il coro (composto da 15 detenuti e 6 volontari) a cantare in duomo ma, rivolgendosi al direttore Mazzeo ha insistito: “Lei si impegna con i permessi, vero?”. Toccanti le letture (sotto la guida di Cinzia Zanellato) di Arbi e Riad, entrambi con anni di cella sulle spalle e con un percorso di cambiamento che ha dato una nuova rotta alle loro vite. Poi, dirompente, il coro diretto da Giulia Prete e nato da una rete tra scuola pubblica del carcere e associazione “Coristi per caso”. Il provveditore Sbriglia ha invitato il gruppo canoro a portare la propria voce in uno specialissimo “tour” nel nuovo carcere - opificio a San Vito al Tagliamento. Il direttore Mazzeo, sorridendo, ha accolto le proposte mirate a inserire la “città carcere” in una rete, a renderla una realtà con cui confrontarsi. Dietro quelle mura ci sono centinaia di persone per le quali la parola riabilitazione vuol dire concretamente possibilità di una vita. Una nuova vita. Che quasi sempre ha bisogno di una mano per emergere: lo studio, un lavoro, la possibilità di esprimersi attraverso attività. Gli eventi hanno avuto il supporto dell’associazione “Incontrarci” e di Fondazione Cariparo. Pavia: detenuti sul palco con Pinocchio senza fili di Donatella Zorzetto La Provincia Pavese, 16 maggio 2018 “Uomini senza barriere” è la compagnia teatrale del carcere di Pavia che andrà in scena al Politeama. Il teatro del carcere esce dalle mura in cui è nato e cresciuto, per salire sul palcoscenico del Politeama. Si chiama “Pinocchio senza fili” lo spettacolo che nove detenuti di Torre del Gallo, più cinque attori esterni, metteranno in scena il 24 maggio alle 21 nella sala di corso Cavour. Sotto scorta, la compagnia teatrale U.S.B (Uomini senza barriere) affronterà in esterna la pièce firmata dalla regista Stefania Grossi. Uno spettacolo promosso dagli “Amici della Mongolfiera”, di cui è presidente Vanna Jahier, anche garante dei diritti dei detenuti. Che ha spiegato: “Il gruppo è formato da detenuti di diverse etnie ed è nato da un confronto con il lavoro dei volontari in carcere. Così si è costruito un percorso legato alla loro identità”. “È la prima volta che uno spettacolo di U.S.B. esce dalle mura della prigione - ha detto Alice Moggi, assessore alle Politiche sociali. Pavia ha un carcere importante e spesso viene visto in modo distaccato. Grazie a progetti condivisi, si cerca di renderlo parte della città”. “Esprimo soddisfazione per questa iniziativa coraggiosa e di straordinario valore civico - ha affermato l’assessore alla Cultura Giacomo Galazzo. Non possiamo pensare che il fine rieducativo della pena sia lasciato solo all’amministrazione penitenziaria”. “Pinocchio senza fili” è un percorso drammaturgico originale, nato dalla condivisione con gli attori della compagnia, che si articola intorno alle difficoltà dei ragazzi nel loro percorso di crescita, sia nei rapporti familiari, che nella relazione con il mondo degli adulti, che troppo spesso li abbaglia e li intrappola. Tuttavia il messaggio di Pinocchio è un richiamo alla fiducia verso l’animo umano. La svolta, per gli attori di U.S.B., è arrivata dopo cinque produzioni andate in scena nel teatro della Casa circondariale: l’uscita dalle mura apre una relazione tra detenuti e cittadini in un’ottica di inclusione sociale e che rientra nel cartellone nazionale della V Giornata Nazionale del teatro carcere. “Tutto questo - sottolineano gli organizzatori - grazie alla collaborazione tra il direttore del carcere, Stefania D’Agostino e il commissario capo Angelo Napolitano, comandante della polizia penitenziaria”. Spettacolo il 24 maggio alle ore 21 al Teatro Politeama. Ingresso gratuito su prenotazione alla mail u.s.b.teatrocarcere@gmail.com. Latina: teatro-carcere, i detenuti vanno in scena con “Sugli spalti del castello” latinaquotidiano.it, 16 maggio 2018 Uno spettacolo teatrale realizzato dai detenuti del carcere di via Aspromonte a Latina. La performance andrà in scena venerdì 18 maggio alle 12 nella casa circondariale, sezione maschile. “Sugli spalti del castello” è a cura di Maria Sandrelli e Valentina Lamorgese e si tratta di uno studio sul teatro shakespeariano che si pone a conclusione di uno dei due laboratori teatrali realizzati da King Kong Teatro per il progetto Senzaporte realizzato con il contributo della Regione Lazio Assessorato alla Cultura per Officine di Teatro Sociale. Il progetto realizza, infatti un ciclo di 25 incontri nel carcere di Latina e di altrettanti nel carcere di Velletri dove la conduzione è affidata a Caterina Galloni e Iris Basilicata durante i quali i detenuti, 20 per ciascun carcere, hanno sperimentato un percorso di training e pratica teatrale sul tema del passaggio dalla pagina scritta al palcoscenico e la conseguente messa in scena di un racconto shakespeariano. Nel carcere di Latina l’esercitazione è stata fatta su Amleto, mentre con la sezione protetta del carcere di Velletri lo spunto è stato Romeo e Giulietta. “Sugli spalti del castello” e “Romeo e Giulietta Frames” sono la messa in prova di un lavoro nel suo farsi, una composizione tra l’improvvisazione jazzistica e il dietro le quinte prima di andare in scena. Uno spettacolo senza spettacolo dove il palcoscenico è il campo segnato dell’incontro. Brescia: evadere con il cinema, 15 detenuti alla rassegna del Nuovo Eden Corriere della Sera, 16 maggio 2018 Si dice che il cinema sia evasione. Un’evasione non in senso letterale, ovviamente. Ma un buon film può allontanare dai problemi quotidiani, può fra vivere la vita di qualcun altro, può generare immedesimazione. Sarà un’evasione anche per i quindici detenuti di Brescia parteciperanno alla rassegna cinematografica “Prison for human rights”. Sei proiezioni, organizzate da domani al io giugno, dentro le sale del Cinema Nuovo Eden e negli spazi della Casa di reclusione di Verziano. A due di queste proiezioni saranno i reclusi stessi a introdurre i film per il pubblico. Come i detenuti immortalati nel documentario “Dustur”, del regista Marco Santerelli, girato nella biblioteca del carcere di Bologna, dove quelli musulmani si confrontano con insegnanti e volontari sui valori della Costituzione italiana, dell’Islam e delle primavere arabe. La rassegna è promossa da Fondazione Brescia Musei - Cinema Nuovo Eden, la Camera penale di Brescia, l’Ufficio del garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia e l’Associazione carcere e territorio Onlus. Tra le pellicole selezionate, “Fèlicitè“, la lotta di una madre per il diritto alla salute del figlio nel Congo contemporaneo; “Harvest”, docu-musical sullo sfruttamento nei campi dell’Agro Pontino e “Pitza e datteri” una commedia che narra la vicenda di una moschea abusiva di Venezia sgomberata per lasciare spazio a dei collettivi femministi. Ci sono anche due opere che raccontano un tentativo di evasione, sì, ma dal proprio Paese più che da un penitenziario. È lo Sri Lanka in guerra civile a fare da sfondo a “Deeepan. Una nuova vita” dove tre migranti fingono di essere una famiglia per raggiungere Parigi. Mentre “Mediterranea” racconta di Ayiva che dal Burkina Faso arriva a Rosarno per raccogliere le arance, n programma completo della rassegna è disponibile su www.nuovoeden.it. Massa Marittima (Gr): “Delitto di gola, a cena con il commissario Bordelli” ilgiunco.net, 16 maggio 2018 Incontro in carcere tra mistero, cibo e teatro. Il prossimo 18 maggio, la Casa circondariale di Massa Marittima ospiterà l’iniziativa “Delitto di gola, a cena con il commissario Bordelli”, un’occasione che combina cultura, enogastronomia e solidarietà. Dalle ore 18.00, Marco Vichi incontrerà la comunità locale in un incontro condotto da Roberta Pieraccioli, direttore della Biblioteca comunale, durante il quale lo scrittore parlerà dei suoi romanzi, del suo personaggio più famoso, il Commissario Franco Bordelli, e dell’ultimo romanzo “Nel più bel sogno” (Feltrinelli, 2017) che lo vede protagonista tra delitti ai quali deve trovare un colpevole, nostalgie del tempo di guerra e un grande amore che gli ha segnato la vita e dal quale non riesce a staccarsi. Alcuni brani verranno letti dall’attore teatrale Lorenzo degli Innocenti. A seguire, una cena basata sulle ricette tratte da “Il vangelo del Botta”, scritto dallo stesso autore: detenuti, docenti e studenti dell’indirizzo enogastronomico dell’I.I.S. “B. Lotti” porteranno in tavola piatti della tradizione, capaci di incontrare i gusti della comunità locale. La serata sarà arricchita dalla performance teatrale “Il passato che ha sbagliato. Il futuro che può errare” allestita dall’associazione Sobborghi Onlus di Siena: un progetto sostenuto dall’Ufficio Pastorale Caritas della diocesi Massa Marittima - Piombino che coinvolge detenuti e studenti dell’I.S.I.S. “Carducci - Volta Pacinotti” di Piombino. La serata ha diversa finalità: sostenere e sviluppare interessi culturali, dare la possibilità ai detenuti di far apprezzare le proprie competenze ad un “pubblico” esterno, agevolare l’interazione tra carcere e territorio ospitante e infine, scopo non meno importante, raccogliere fondi a sostegno di progetti utili alla comunità massetana. “Siamo proseguendo con i progetti dedicati all’integrazione dei detenuti a fine pena che ospitiamo, nella società in cui a breve rientreranno - spiega il direttore della Casa Circondariale Carlo Mazzerbo - stiamo puntando molto sulla scuola e sulla cultura in generale e siamo contenti della collaborazione con le istituzioni e della risposta da parte della comunità, che già abbiamo potuto apprezzare in termini di presenze, in occasione della cena di Natale”. “Spero che questo diventi un appuntamento fisso annuale - prosegue il vicesindaco Luana Tommi - e siamo davvero soddisfatti dei numerosi progetti portati avanti insieme al carcere. Del resto non dimentichiamo che un ospite della struttura ha vinto per due anni consecutivi il premio Mariella Gennai e in quella occasione mi ha detto di voler provare a scrivere un libro. È così che immagino la casa circondariale di Massa Marittima, come un trampolino di vita, che dia lo slancio a chi ne esce per ripartire con ritrovata fiducia e nuovi valori a partecipare alla vita pubblica”. L’evento è frutto di diverse e imprescindibili sinergie: il Comune di Massa Marittima, il Cpia 1 di Grosseto - sede di Follonica, l’IIS “B. Lotti” di Massa Marittima, la condotta slow food del Monteregio, Unicoop Tirreno, l’orto di Valpiana, l’azienda “La Cura”, l’associazione “Il pulmino Contadino” e il panificio Montomoli di Boccheggiano. “Quello con il carcere- conclude il responsabile della Biblioteca e del settore Politiche Culturali Roberta Pieraccioli - è un rapporto ormai consolidato. Abbiamo già avuto con noi vari volontari che ci aiutano per svolgere alcuni lavori e c’è tutta l’intenzione di ripetere anche il percorso orientato verso la letteratura, insieme allo scrittore Sasha Naspini che realizza laboratori di lettura e scrittura aperti sia agli ospiti del carcere che al pubblico”. La cena è, quindi, aperta alla cittadinanza; il costo è pari a 20 euro e occorre prenotarsi entro le ore 12 del 17 maggio mediante inoltro di copia del documento di identità alla mail: cc.massamarittima@giustizia.it. Tutti i protagonisti dell’iniziativa partecipano come volontari a titolo gratuito. Genova: Dori Ghezzi presenta il suo libro ai detenuti di Marassi La Repubblica, 16 maggio 2018 La moglie De Andrè in carcere “Parole e poesia sono importanti per voi”. “Ci tenevo che la presentazione del mio libro a Genova fosse qui davanti a voi e in nessun altro posto”. È stato quasi un recital la presentazione del libro di Dori Ghezzi scritto con Giordano Meacci e Francesca Serafini, “Lui, io, noi” (ed. Einaudi) davanti ai detenuti nel Teatro dell’Arca all’interno del carcere di Marassi, con l’accompagnamento alla chitarra di Federico Sirianni. “Per voi la parola, la poesia contano molto. Per questo ho pensato di venire qui - ha detto Ghezzi riferendosi a un progetto di magliette realizzate in carcere con le parole di Faber. Dal libro volevo uscisse il rapporto con Fabrizio, molti pensano che fosse una relazione impegnativa, con aspetti ombrosi. Invece Fabrizio era molto divertente e anche lo scontro con lui era bello”. Accanto ai suoi coautori, Meacci e Serafini, sceneggiatori del film prodotto dalla Rai “Principe libero”, Ghezzi ha spiegato che “il noi del titolo del libro sono tutti quelli che ho incontrato: da Nanda Pivano a don Gallo che per me ha rappresentato la bussola per proseguire la strada, quindi quel noi siamo anche noi qui, oggi”. Rispondendo alle domande dei detenuti, Ghezzi ha detto che “dopo il sequestro ti rendi conto di non essere completamente appagato della tua libertà, quando ce l’hai”. Tra gli episodi curiosi e inediti nel libro ha raccontato di un cucciolo di tigre vinto a una festa nell’astigiano e portato a casa a Milano come niente fosse. Sul perché non le abbia mai dedicato una canzone, Dori ha detto che: “Fabrizio non ha mai voluto raccontare gli amori in corso, non voleva travisarmi. D’altra parte il nostro amore è ancora in corso”. Applausi per le canzoni “Il pescatore” al famoso verso sull’assassino. All’incontro sono intervenuti anche Lorenzo Coveri dell’Università Genova, studioso del De Andrè dialettale, e l’assessore regionale alla cultura Ilaria Cavo. Massimo Carlotto messo all’indice per lesa memoria di Benedetto Vecchi Il Manifesto, 16 maggio 2018 L’attacco allo scrittore italiano per la sua apparizione in video a partire dal 18 Maggio su Rai 4. L’accusa è di offendere la memoria dei famigliari di una giovane donna morta oltre quaranta anni fa. Lo scrittore fu condannato per l’uccisione della giovane donna. Accusa che ha sempre respinto. Ad aprire il fuoco è stato Il Giornale con un articolo in cui viene considerata scandalosa e irrispettosa, per la memoria dei parenti della vittima, la presenza in video di Massimo Carlotto: lo scrittore introdurrà un ciclo della serie Criminal Minds tratto da fatti di cronaca realmente accaduti che hanno visto come protagonisti serial killer. Lo scandalo è dovuto al fatto che Carlotto è stato condannato per la morte di Margherita Magello, avvenuta ormai oltre quaranta anni fa. Lo scrittore veneto fu condannato in contumacia. Era fuggito dall’Italia urlando la sua innocenza. Ha vissuto prima in Francia, poi Messico, prima di tornare in Italia per finire in prigione, da dove è uscito per la grazia concessa dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Di questa vicenda ha dato conto ne Il fuggiasco, il libro che lo ha fatto conoscere come scrittore pubblicato dalle edizioni e/o (ne è stato tratto anche un film). Dal suo ritorno in Italia, Massimo Carlotto ha continuato a scrivere, pubblicando romanzi di successo, diventando uno dei migliori autori del noir mediterraneo, utilizzando politicamente questo genere per raccontare il marcio del Belpaese. Nei suoi romanzi ha, infatti, analizzato la globalizzazione compresa quella della grande criminalità, denunciando il suo intreccio con il potere politico locale e come gestisca ormai una parte rilevante dell’attività economica. Diversi suoi libri sono finiti sul grande schermo, film mandati poi in onda anche sulla tv pubblica e commerciale. Per l’articolista del Giornale, tuttavia, i cinque minuti introduttivi a ogni puntata della serie Criminal Minds rappresentano uno scandalo perché offendono la memoria della giovane morta nel 1976 custodita dai suoi famigliari. La memoria, per il giornalista, è sacra e a destare scalpore è che uno scrittore condannato in passato appaia in video, cioè che esponga il suo punto di vista a un pubblico diverso, e più ampio, di quello, già numeroso, che acquista i suoi romanzi. Scandalosa è quindi la sua meticolosa e rigorosa analisi di come è cambiata la criminalità, di come interi settori produttivi si basino sul lavoro schiavistico dei migranti e delle modalità con le quali la criminalità ormai esercita la sovranità su regioni della penisola. E scandalosa è la sua analisi della “mente criminale”, come già ha fatto nel romanzo Il turista, dove un serial killer è espressione di una patologia non individuale, bensì sociale. È meglio, dunque, indurre il sospetto che il suo punto di vista sia offensivo e forse criminale anch’esso. Da qui il fuoco preventivo sulla trasmissione, che inizierà su Rai 4, a partire dal 18 maggio, in prima serata. Buona visione. Spike Lee: “Odio e razzismo si stanno diffondendo in tutto il mondo” di Giovanna Branca Il Manifesto, 16 maggio 2018 “Con Blackkklansman siamo dalla parte giusta della Storia”. Diretto come il suo film, Spike Lee lo dichiara alla presentazione del suo nuovo lavoro a Cannes, dove lo accompagnano i protagonisti John David Washington, Adam Driver, Laura Harrier e Topher Grace. “A sottopormi la vicenda di Ron Stallworth - il poliziotto nero che nei primi anni 70 è riuscito a infiltrarsi nel Ku Klux Klan - è stato Jordan Peele (il regista di Get Out, ndr). Non ci potevo credere: più che una storia vera mi sembrava uno sketch di Dave Chapelle”. A quel punto, continua Lee, “il nostro compito era collegare questa storia che ha luogo negli anni settanta ai giorni nostri, per sottolineare come quello che sta succedendo oggi non è qualcosa di improvviso, ma viene da lontano”. Il riferimento è all’ascesa dell’estrema destra negli Stati uniti sull’onda dell’elezione di Trump, e in particolare ai violenti scontri di Charlottesville dove i manifestanti neonazisti, del Klan e dell’Alt Right si erano ritrovati nell’agosto 2017 per protestare contro la rimozione della statua di un generale confederato. Fatti mostrati in chiusura di Blackkklansman da una moltitudine di punti di osservazione - “abbiamo pubblicato delle inserzioni sui giornali per farci mandare i video di chi era presente quel giorno” - e culminati nella morte della manifestante antifascista Heather Heyer, alla quale il film di Lee rende omaggio. “I fatti di Charlottesville sono accaduti a riprese ormai terminate, ma appena ho visto quello che stava succedendo ho capito che era su questo che dovevo concludere il mio film. Così ho cercato il numero di Susan Bro, la madre di Heyer, e le ho chiesto il permesso, che lei mi ha accordato, di portare sullo schermo le immagini dell’omicidio di sua figlia”. “Il tizio che sta alla Casa bianca, mi rifiuto di chiamarlo col suo nome - aggiunge Lee, che anzi a più riprese appella il Presidente “motherfucker” - in un momento così drammatico ha perso l’occasione per condannare l’estrema destra, per dire che gli Stati uniti rifiutano l’odio”. Due anni fa fa alla Berlinale Spike Lee aveva commentato la rapida ascesa di Trump, all’epoca non ancora il candidato ufficiale dei repubblicani alla Casa bianca, e si era detto terrorizzato dalla possibilità che il tycoon si ritrovasse un giorno a controllare i codici per l’utilizzo dell’atomica. Da Cannes, quando l’incubo dell’elezione di Trump è ormai diventato realtà, il regista racconta di essere perseguitato dall’idea della valigetta con i codici ormai saldamente nelle mani di The Donald: “Ogni notte prima di addormentarmi non posso fare a meno di pensarci”. Interpellato sulle prossime elezioni di metà mandato, si dichiara altrettanto scoraggiato: “Ho l’impressione che ormai lo voterebbero anche se si mettesse a sparare in mezzo alla 5th Avenue a New York”. Ma il regista ci tiene a sottolineare che il razzismo e l’odio affrontati dal suo film non riguardano solo gli Stati uniti: “Queste cose stanno succedendo in tutto il mondo ormai, non possiamo restare indifferenti. Voi in Europa per esempio come state trattando i musulmani? Che accoglienza riservate ai migranti?”. Scontri a Gaza, i morti saliti a 61. La Turchia espelle l’ambasciatore d’Israele La Stampa, 16 maggio 2018 La Lega araba chiede un’indagine alla Corte dell’Aia per presunti crimini. Gli Usa: “Colpa di Hamas, Israele ha usato moderazione”. È salito a 61 morti il bilancio degli scontri di lunedì tra manifestanti palestinesi e soldati israeliani lungo il confine tra la Striscia di Gaza e lo Stato ebraico. Lo riferisce il portavoce del ministero della Sanità a Gaza, precisando che l’ultima vittima è un uomo di 30 anni deceduto in ospedale per le ferite riportate. Tra le 61 vittime anche 16 minorenni e una neonata. Si stima che dal 30 marzo, quando il movimento islamico di Hamas ha lanciato la Grande Marcia del ritorno, sono almeno 110 i palestinesi uccisi dal fuoco israeliano. Il bilancio più grave si è registrato ieri, quando i manifestanti palestinesi hanno contestato l’inaugurazione dell’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme. Intanto la Turchia ha convocato l’ambasciatore di Israele in relazione al bagno di sangue a Gaza e gli ha chiesto di lasciare temporaneamente il Paese.La conferma arriva dal ministero degli Esteri turco. La commissione permanente per i diritti umani della Lega araba ha chiesto alla procura della Corte penale internazionale, con sede all’Aia, di indagare urgentemente “sui crimini dell’occupazione israeliana” contro i palestinesi. “Israele è un’entità oppressiva e omicida e i suoi politici e funzionari devono essere portati alla Corte penale internazionale”, ha dichiarato il presidente della commissione, Amjad Shamout, riferendosi all’uccisione di decine di manifestanti palestinesi da parte delle forze israeliane durante le proteste di ieri contro l’apertura dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. Mercoledì, la Lega araba terrà una riunione d’emergenza per discutere di quello che definisce il trasferimento “illegale” dell’ambasciata Usa nella città contesa. Lo status di Gerusalemme è forse la questione più spinosa nel conflitto israelo-palestinese. Israele considera l’intera città come sua capitale, mentre i palestinesi ritengono che Gerusalemme Est sia la capitale del loro futuro Stato. La colpa per le violenze di ieri a Gaza è di Hamas: lo afferma l’ambasciatrice americana all’Onu, Nikki Haley, secondo cui “nessun Paese in questa situazione agirebbe con più moderazione di quanto ha fatto Israele”. “Hamas è felice di quanto accaduto, chi tra noi accetterebbe questo tipo di azioni sui suoi confini? Nessuno”, ha detto durante la riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza. “Gli Usa sono preoccupati per la perdita di vite in Medio Oriente, ma c’è molta violenza nella regione e in questo Consiglio c’è sempre un doppio standard”. “Qualcuno ha suggerito che le violenze di ieri a Gaza hanno una connessione con l’apertura della nuova ambasciata Usa a Gerusalemme. Per alcune persone la nuova ambasciata è una ragione per commettere violenze, ma come viene giustificato ciò?”, ha proseguito l’ambasciatrice americana all’Onu. “L’apertura della sede a Gerusalemme non pregiudica un accordo di pace, ma promuove la realtà e il desiderio di pace”, ha aggiunto: “gli Usa non vogliono niente più della pace, dove le persone di tutte le religioni vengono rispettate”. Il Belgio ha convocato l’ambasciatore d’Israele, Simona Frankel, dopo l’intervista choc rilasciata stamattina in cui la diplomatica ha affermato che le 55 vittime degli scontri a Gaza erano tutti terroristi. “Si possono sentire molte cose, ma ci sono dei limiti”, ha detto il ministro degli Esteri belga Didier Reynders. L’ambasciatore, intervistata dalla radio pubblica La Première, aveva detto: “Mi dispiace molto per ogni essere umano deceduto anche se sono dei terroristi, 55 terroristi che vengono vicino alla barriera di confine per cercare di passare sul territorio israeliano”. “Ascoltare che tutte le persone che sono state uccise erano dei terroristi, questo supera la ragione”, ha affermato il ministro degli Esteri, denunciando l’uso sproporzionato della forza fatto da Israele. “L’idea della proporzionalità è chiara, non c’è stato alcun ferito da parte di Israele”, ha concluso Reynders. Stati Uniti. Un murales di mille km per nascondere il muro della vergogna con il Messico di Noemi Penna La Stampa, 16 maggio 2018 Mille chilometri d’arte. È questo l’ambizioso obiettivo di Enrique Chiu, artista di Tijuana illegalmente sconfinato in California, che ha deciso di armarsi di colori e pennelli per trasformare il Muro della vergogna che già divide il Messico dagli Stati Uniti d’America in una tela da record. Il Mural of Brotherhood ha un solo obiettivo: promuovere la pace e abbattere i muri invalicabili, e costosissimi, di cui il presidente americano Donald Trump ha fatto il punto focale della sua campagna elettorale. Mentre al Congresso sono stati chiesti 18 milioni di dollari per completare l’opera, un confine fisico già esiste, ed ha preso forma sotto l’amministrazione Bush. Il Muro della vergogna dovrebbe essere ora rafforzato e prolungato di 500 chilometri. Ma almeno sarà coloratissimo, e metterà in mostra un “provocatorio” messaggio positivo. È a “tutti coloro che stanno cercando una vita migliore, anche se questo comporta enormi rischi, e a tutti coloro che sono stati espulsi o sono stati separati dalle loro famiglie” che Chiu sta dedicando la sua impresa, aiutato metro dopo metro dalla popolazione locale. In 18 anni di attività, Enrique Chiu ha dipinto oltre 80 murales in dieci città, in California, Messico e Guatemala. Cinque chilometri di lunghezza ha raggiunto il suo progetto realizzato all’Arkansas River in Colorado, altra opera candidata al Guinness ma andata distrutta nel 2015, a causa di un intervento di messa in sicurezza degli argini del fiume, prima che potesse ottenere il titolo. I primi chilometri di murales si possono ammirare a Tijuana, Tecate, Mexicali, Ciudad Juarez, Naco City e Reynosa. E, una volta conclusa, l’opera coprirà qualcosa come 18 mila metri quadrati di superficie per 600 miglia di lunghezza. Diversissimi i soggetti, ma con un unico filo conduttore, ovvero i simboli del folklore messicano. Insomma, “un modo per unire le due nazioni che sono divise” e “lasciare un messaggio positivo a sostegno del popolo latino”. “Se l’interesse fosse mantenere la pace nel mondo - ha dichiarato l’artista, l’amministrazione Trump promuoverebbe l’educazione e l’uguaglianza negli Stati Uniti, non violenza e razzismo”. Bielorussia. Ultimo paese Ue con la pena di morte italiastarmagazine.it, 16 maggio 2018 Drammatico servizio della Bbc sul braccio della morte nelle carceri di Minsk. Detenuti giustiziati all’improvviso, sepolti in aree segrete. I familiari informati solo con la restituzione di vestiti e oggetti. Il caso Yakovitsky. Per i 10 mesi trascorsi nel braccio della morte, Gennady Yakovitsky ha potuto capire se era giorno o notte dalla luce fioca che filtrava attraverso il coperchio di protezione della finestra della sua cella, dove le luci bianche rimangono accese anche durante il sonno. Facile perdere il senso del tempo. È stato tenuto in isolamento, qualsiasi passeggiata all’aperto era vietato. Le visite strettamente controllate e, oltre agli avvocati, solo i parenti stretti potevano incontrarlo una volta al mese. In quei giorni, Yakovitsky è stato prelevato dalla sua cella e scortato, le mani ammanettate dietro la schiena, con le guardie che gli impongono di volgere lo sguardo verso il basso. Come tutti gli altri, non gli veniva mai detto dove andava, spiega sua figlia Alexandra. “È per incontrare parenti? Avvocati? Da girare”? Padre e figlia si vedevano attraverso una finestra di vetro, sempre sotto gli occhi delle guardie. “Non abbiamo parlato del caso, era proibito. Potevamo parlare solo di cose familiari”. Durante una delle visite, Alexandra, allora 27enne, si lamentò con lui per il lungo tempo necessario a ricevere un nuovo passaporto. “Le guardie hanno detto sarcasticamente: hai ancora un po’ di tempo a disposizione”. Pochissimo si sa dei detenuti nel braccio della morte, fotografati a Minsk nel 2006 in una cella. Spesso descritta come “l’ultima dittatura d’Europa”, la Bielorussia è l’unico paese in Europa e nell’ex Unione Sovietica a non aver ancora eliminato la pena di morte, e i processi sono avvolti nella segretezza. Le esecuzioni vengono eseguite con un colpo alla testa, ma il numero esatto non è noto: si ritiene che ne siano state eseguite più di 300 dal 1991, anno in cui la Bielorussia è diventata un paese indipendente. Secondo Amnesty International, l’anno scorso vi sono state due esecuzioni capitali. Attualmente, si ritiene che almeno sei uomini si trovino nel braccio della morte - mentre, secondo le leggi del paese, le donne non possono essere condannate a morte. I condannati - di solito per omicidi con circostanze aggravanti - sono tenuti in una delle celle di alta sicurezza nel seminterrato del Centro di detenzione pre-processuale, una prigione allestita nella costruzione di un castello del XIX secolo, ora parzialmente crollato, nel centro della capitale Minsk. Raramente gli attivisti e i giornalisti hanno accesso a tali informazioni. Il concetto Sono trattati come se fossero già morti, il concetto del Dead Man Walking, come negli Usa. Gravi le violazioni dei diritti umani, tra cui la “pressione psicologica”, con agenti che spesso usano “torture e altri trattamenti crudeli, disumani e degradanti”, ha detto un rapporto di Viasna, un gruppo locale per i diritti umani, nel 2016. Ai detenuti non è consentito sdraiarsi o sedersi sui letti al di fuori dell’orario di sonno stabilito, ha detto al gruppo un ex operatore carcerario, e trascorrere la maggior parte della giornata passeggiando per le loro celle. Spesso si dice che anche il loro diritto di inviare e ricevere lettere non sia rispettato. “Le condizioni sono spaventose”, ha dichiarato Aisha Jung, attivista di Amnesty International per la Bielorussia, che ha lavorato per un decennio alle esecuzioni capitali del paese. Gennady Yakovitsky, che ha vissuto a Vileyka, una città a circa 100 km da Minsk, era stato accusato di aver ucciso la sua convivente di 35 anni nel loro appartamento dopo due giorni di bevute con gli amici nel luglio 2015, secondo i rapporti dei gruppi per i diritti umani. Dopo un litigio, in cui l’avrebbe colpita con pugni, si erano divisi, Yakovitsky si era poi addormentato. Quando si svegliò, la donna era già morta, con la mandibola rotta e parzialmente nuda. Tre giorni dopo fu arrestato. Gli attivisti hanno detto che Yakovitsky ha affrontato pressioni psicologiche durante il suo primo interrogatorio e che le persone che erano in appartamento al momento ha dato testimonianza contraddittoria. “Alcuni testimoni erano ubriachi in tribunale”, disse sua figlia. “Più tardi] dissero che non riuscivano a ricordare quello che era successo. Non è stato fornito alcun elemento di prova”. Yakovitsky era già stato condannato a morte per omicidio nel 1989, ma questo è stato commutato in un periodo di 15 anni di carcere. Alexandra ha detto che il tribunale di Minsk aveva usato questo come “la prova principale” contro suo padre. Nel gennaio 2016 è stato giudicato colpevole di un secondo omicidio, che ha negato, e condannato a morte. Il giorno dell’esecuzione, un pubblico ministero comunica ai detenuti che il loro appello per l’indulto presidenziale è stato respinto. Aleh Alkayeu, ex capo del carcere in cui vengono eseguite le esecuzioni, ha dichiarato a Viasna: “Tremavano per il freddo o per la paura”. Spesso descritta come “l’ultima dittatura d’Europa”, la Bielorussia è l’unico paese in Europa e nell’ex Unione Sovietica a non aver ancora eliminato la pena di morte, e il processo è avvolto nella segretezza. Le esecuzioni vengono eseguite con un colpo alla testa, ma il numero esatto non è noto: si ritiene che ne siano state eseguite più di 300 dal 1991, anno in cui la Bielorussia è diventata un paese indipendente. Secondo Amnesty International, l’anno scorso vi sono state due esecuzioni capitali. I detenuti sono bendato e portato in una stanza appositamente predisposta in cui l’accesso è limitato solo a quelli consentiti dal procuratore: mai un membro del pubblico, secondo i conti da ex agenti. Sono poi costretti alle ginocchia e uccisi a colpi di arma da fuoco. Si dice che l’intera procedura duri circa due minuti. Solo settimane o addirittura mesi dopo i loro parenti ne vengono informati. In alcuni casi, questo accade quando una scatola viene inviata per posta con alcuni degli effetti personali del condannato. I corpi non vengono mai restituiti alle famiglie e i luoghi in cui sono stati sepolti rimangono un segreto di Stato, una violazione dei diritti umani dei detenuti e dei loro familiari, ha affermato il relatore speciale dell’Onu Miklós Haraszti nel 2017. Questo, ha aggiunto, è stato un atto di tortura. Alcuni parenti scoprono che le esecuzioni sono state effettuate solo quando una scatola con gli effetti personali del detenuto arriva per posta. Il governo del Presidente Alexander Lukashenko, al potere dal 1994, utilizza ancora questo risultato per giustificare la sua politica e ha subordinato qualsiasi cambiamento a un altro voto popolare. Nel frattempo, un gruppo parlamentare sta discutendo su ciò che si può fare, ma gli osservatori affermano che potrebbe essere necessario un po’ di tempo prima di prendere una decisione. Fino ad allora, la Bielorussia rimarrà probabilmente l’unico paese europeo al di fuori del Consiglio d’Europa, il principale organismo di sorveglianza dei diritti umani del continente. “Alla fine la Bielorussia dovrà scegliere il modo in cui abolire la pena di morte”, ha dichiarato Tatiana Termacic, della Direzione per i diritti umani e lo stato di diritto del Consiglio. “È sulla via dell’abolizione e speriamo che lo faccia prima o poi”. Eppure, ha detto, si trattava di una “macchia nera” in un continente quasi totalmente libero dalla pena di morte. L’avvocato di Gennady Yakovitsky ha presentato ricorso alla Corte suprema contro la sua condanna, sostenendo che il processo non era stato equo e che la sua colpevolezza non era stata inequivocabilmente accertata. E ‘stato citato come dicendo prova vitale era stata omessa, tra cui un esame forense che aveva trovato tracce di sangue non identificato sotto le unghie della vittima. Ma il tribunale ha confermato la sua sentenza e, nel novembre 2016, Yakovitskyc è stato giustiziato, aveva 49 anni. Un mese dopo, la sua famiglia ha ricevuto una lettera per posta che confermava l’esecuzione della sentenza. “Non ho ricevuto i suoi effetti personali, non abbiamo visto il corpo”, ha detto Alexandra, che ora si batte contro la pena di morte in Bielorussia. Russia. L’oppositore russo Navalny torna dietro le sbarre di Giuseppe Agliastro La Stampa, 16 maggio 2018 È colpevole di aver messo in piedi “manifestazioni non autorizzate”. Nel corso dell’ultimo anno e mezzo ha trascinato nelle piazze migliaia di persone per protestare contro il governo. Aleksey Navalny torna dietro le sbarre. L’oppositore russo è stato condannato a 30 giorni di arresto amministrativo per la protesta anti-Putin “Per noi non è lo zar” che lo scorso 5 maggio ha portato in piazza migliaia di oppositori in oltre 90 città russe: da Vladivostok, in estremo oriente, a Kaliningrad, sul Baltico. La manifestazione - organizzata alla vigilia dell’insediamento del leader del Cremlino per un quarto mandato presidenziale - è stata repressa dalla polizia con oltre 1.600 fermi in tutta la Russia, 700 dei quali nella sola capitale, tra cui appunto Navalny. Per il giudice Dmitry Gordeyev del tribunale distrettuale moscovita Tverskoy, Navalny è colpevole di aver messo in piedi “manifestazioni non autorizzate”. Ma l’oppositore è accusato anche di disobbedienza agli ordini della polizia. Il dissidente ha reagito alla sentenza definendo “ridicole e illegali” le imputazioni che gli vengono mosse. “Non ho bisogno di alcun permesso per manifestare, la Costituzione mi garantisce questo diritto e non mi può essere negato arbitrariamente”, ha dichiarato Navalny in aula, dicendosi sicuro che la Corte europea dei diritti dell’uomo gli darà ragione. Mentre il suo avvocato, Vadim Kobzev, ha denunciato che dietro la condanna “ci sono chiaramente dei motivi politici”. La sentenza era attesa già per venerdì scorso, ma il giudice ha poi deciso di rinviare l’udienza per poter ascoltare come testimoni i poliziotti che hanno arrestato Navalny. Uno di loro oggi ha sottolineato che il gruppo di 15 agenti che ha effettuato il fermo era autorizzato all’uso della forza e ha accusato Navalny di aver ignorato gli avvertimenti della polizia a interrompere la protesta perché non consentita. Navalny è stato arrestato il 5 maggio durante le proteste antigovernative. Era arrivato in piazza Pushkin, nel cuore di Mosca, da appena dieci minuti e aveva appena iniziato ad arringare la folla quando gli agenti lo hanno preso di peso afferrandolo per le braccia e per le gambe e lo hanno portato via. Navalny, 41 anni, giurista di formazione, nel corso dell’ultimo anno e mezzo ha trascinato nelle piazze della Russia migliaia e migliaia di persone per protestare contro il governo, contro Putin e contro la corruzione. Le manifestazioni sono però state regolarmente soffocate con ondate di fermi. All’oppositore è stato impedito di candidarsi alle presidenziali dello scorso 18 marzo a causa dei suoi guai con la giustizia, che molti ritengono di matrice politica. Putin ha trionfato alle urne aggiudicandosi oltre il 76% dei voti e assicurandosi un altro mandato di sei anni al Cremlino. Pakistan. Una campagna di attacchi informatici contro i difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 maggio 2018 I difensori dei diritti umani del Pakistan sono al centro di una campagna di attacchi informatici mirati. Lo ha denunciato Amnesty International, al termine di una ricerca durata quattro mesi, nel corso della quale l’organizzazione per i diritti umani ha riscontrato una sequela di hackeraggi di profili social e di infezioni trasmesse da pc e telefoni cellulari. È in atto una sofisticata campagna di attacchi da parte di falsi profili che attirano l’interesse dei difensori dei diritti umani i cui mezzi di comunicazione vengono colpiti da malware per sorvegliarli e intimorirli. Già difendere i diritti umani offline è un’attività estremamente pericolosa in Pakistan. Negli ultimi mesi giornalisti, blogger e attivisti sono stati sottoposti a minacce, intimidazioni e aggressioni e in alcuni casi a sparizioni forzate. Catturare le loro password e intrufolarsi nella corrispondenza privata li mette ulteriormente a rischio. Diep Saaeda è una nota attivista della società civile di Lahore. Dirige l’Istituto per la pace e gli studi laici. Il 2 dicembre 2017 un suo amico, Raza Mehmood Khan, un pacifista che porta avanti una campagna di amicizia tra le popolazioni dell’India e del Pakistan, sparisce nel nulla (a sinistra nella foto, Diep Saaeda manifesta per chiedere il rilascio di Raaz Mehmood). Diep lancia una petizione per chiedere il suo rilascio. Immediatamente, inizia a ricevere messaggi da parte di persone che sostengono di essere amici di Raza. Su Facebook Messenger un’utente che si qualifica come Sana Halimi e si dice afgana, residente a Dubai e funzionaria delle Nazioni Unite, contatta ripetutamente Diep sostenendo di avere informazioni su Reza. Le invia una serie di file che contengono il virus StealthAgent che, se aperto, procura disastri. Il falso profilo convince Diep a fornire la sua e-mail, che inizia a ricevere messaggi infettati col virus Crimson. Diep riceve mail anche da un soggetto che si presenta come un funzionario dell’ufficio del primo ministro del Punjab, che la invita a un’inesistente riunione al ministero dell’Istruzione. Riceve mail anche da falsi profili di studenti che chiedono il suo tutoraggio. “Ogni volta che apro una mail mi prende il terrore. Non riesco a lavorare. La mia attività online è compromessa”, ha raccontato Diep ad Amnesty International. Quanto accaduto a Diep è successo a tanti altri difensori dei diritti umani pakistani. Il team di esperti su Tecnologia e diritti umani di Amnesty International è stato in grado di rintracciare l’origine di questi attacchi: singole persone e aziende che risiedono e operano in Pakistan. Il Pakistan fa parte del Consiglio Onu dei diritti umani e dunque ha (meglio, avrebbe) il dovere di rispettare gli standard internazionali in materia di diritti umani. Ma si comporta al contrario.