Orlando, le carceri e l’ultimo Cdm di Dimitri Buffa L’Opinione, 15 maggio 2018 “Mi sono battuto negli ultimi due Consigli dei ministri per l’approvazione definitiva della riforma dell’ordinamento penitenziario. Lo farò anche in occasione dell’ultimo Cdm, perché sono convinto che non soltanto è importante in sé, ma è importante come messaggio politico per la fase nuova che si apre”. Finché queste cose si scrivono sulla propria pagina Facebook va tutto bene. Ma come dimenticare le promesse a raffica fatte a ogni sciopero della fame prima di Marco Pannella e poi di Rita Bernardini? Tutte puntualmente smentite dalla realtà cinica della politica del Partito Democratico. In realtà, il ministro della Giustizia Andrea Orlando che carte ha da giocare in materia? Venerdì prossimo, 18 maggio, data dell’ultimo Consiglio dei ministri del Governo Gentiloni, Orlando sarà in grado di ottenere e non solo chiedere all’Esecutivo di esercitare il proprio diritto e potere di approvare il disegno di legge così come è? Con o senza l’ultimo parere stucchevolmente consultivo del Parlamento? Che, a dirla tutta e visibilmente, lo ha boicottato prima e dopo e che quindi ha già espresso il proprio parere. Quello che in ogni caso non si doveva fare è stato il permettere a questo ostruzionismo-melina spazio temporale dei partiti di immobilizzare e condizionare il Parlamento. Cosa che ha portato alla conseguenza di una grande decisione che finisce a ridosso di una grande scadenza. Non è la leale cooperazione tra le istituzioni di cui parla la Costituzione. È, al contrario, la prassi barbara e prepotente, quando non addirittura violenta, del bullismo politico esercitato da certi leader e da certi partiti che banalmente definiamo “populisti”. E che forse invece dovremmo chiamare bugiardi, infingardi, incoerenti, disonesti intellettualmente e imbroglioni con i cittadini. Andrea Orlando, visto che anche nel Pd non mancano esemplari del genere suddetto, magari travestiti da buonisti ipocriti, farebbe bene a compiere un vero e proprio “atto di forza” finale. Da Schwarzenegger politico. Così da compensare quelli di debolezza che hanno caratterizzato un po’ tutto il suo mandato ministeriale. Un ragazzo bravo, nobile d’animo e di buone intenzioni, che però mai una volta che provi a forzare un po’ la mano e a distinguersi per coraggio di intenti. Ora però, caro Orlando, se fallirà anche l’ultima meta, “quella sporca ultima meta”, per infilare un riferimento cinematografico che nel Pd ci sta sempre bene, il rischio è quello di passare alla storia politica italiana come il Fantozzi del ministero della Giustizia. Il massimo responsabile cui l’hanno fatta tutti dietro le spalle. Vanificandone i progetti e sfilandogli sotto il naso i dossier più scottanti. Ministro Orlando, per un giorno si dimentichi i sondaggi, che poi sono la forma di soggezione psicotica con cui la classe politica asseconda e imita il perbenismo delle famiglie. Quelle che vivono preoccupandosi solo del “che ne diranno i vicini” o del “cosa penserà la gente”. Orlando faccia sentire, per una volta, durante questa ultima seduta del Cdm della breve storia del Governo Gentiloni, quell’urlo liberatorio del mitico ragioniere interpretato da Paolo Villaggio. Con l’attore che corre velocissimo verso la foresta per sfogarsi. Questo urlo lei, Orlando, lo deve fare senza nascondersi nel bosco come Fantozzi. Ma davanti a tutti i suoi colleghi. Non lo deve fare perché glielo chiede un giornale, un lettore e nemmeno un giornalista. Potrebbe farlo, invece, per rendere onore alla sua parola. E a persone come quel Marco Pannella, o quella Rita Bernardini, sempre adulate a parole ma mai assecondate nelle azioni. Lo faccia anche per tutti quegli italiani che, nelle carceri o fuori da esse, sono morti da tanti, troppi anni a questa parte per le continue emergenze giustizialiste. E “per la mancanza conseguente dello Stato di diritto”, per citare Maurizio Turco del Partito Radicale. Da ultimo - e non per ultimo - lo deve anche a quegli esperti altrimenti invano convocati per i famigerati “Stati generali della giustizia”. Non sia anche lei, come la maggior parte dei suoi predecessori, un uomo che non lascerà alcuna impronta nella politica italiana. Se non farà l’atto di coraggio di convincere il Consiglio dei ministri a votare la riforma dell’ordinamento penitenziario, il suo destino politico rimarrà inevitabilmente tale. Quanto al Pd, non si preoccupi: niente da perdere. E magari invece una bella figura di coerenza politica da guadagnare. Tanto, “peggio di così potrebbe solo piovere”. Per citare Woody Allen. E se ci ha fatto caso - ministro - ha già pure piovuto tanto. Per quasi tutto il mese di maggio. Almeno sinora. Recidiva, non si calcola sugli arresti ma sulle sentenze definitive di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 maggio 2018 È falso che le pene alternative diminuiscono le recidive? Ancora una volta, tramite un articolo de Il Fatto, si mettono in discussione i dati sulla recidiva. Questa volta, il Fatto intervista Roberto Russo, un ricercatore e docente di Diritto, il quale cita lo studio che risale al 2007 elaborato dall’Osservatorio delle misure alternative del Dipartimento dell’amministrazione della polizia penitenziaria. Il ricercatore sorridendo dice che “Molti lo citano, ma pochi l’hanno letto”. Sorridiamo anche noi visto che l’abbiamo letto eccome. Così come l’ha letto Luigi Ferrarella, giornalista di punta del Corriere della Sera che con un articolo ha decostruito per bene l’articolo del Fatto a firma di Gianni Barbacetto. Lo studio che fa sorridere il ricercatore segnala che nel 1998 furono scarcerate 5.772 persone e che 3.951 queste si trovavano di nuovo dentro nel 2005: quasi il 70 per cento era tornato a delinquere. Sempre dai dati elaborati dal ministero emerge che la percentuale dei recidivi scende invece al 19 per cento se il rilevamento si restringe a chi è stato destinatario di misure alternative. Altro dato interessante che emerge da questo studio è l’efficacia dell’affidamento in prova al servizio sociale rispetto al reinserimento sociale dei condannati. Un elemento importate visto che la riforma dell’ordinamento penitenziario prevedeva proprio l’implementazione di questa misura alternativa alla detenzione. Il ricercatore intervistato da Il Fatto, in sostanza dice che questo studio non è attendibile visto che dalla statistica restano fuori quelli che hanno compiuto reati, ma non sono stati presi e coloro che ancora non hanno ricevuto una condanna definitiva. Qui però siamo nel campo della probabilità, a meno che non viviamo in un romanzo di Philip Dick, dove si ha la possibilità di arrestare una persona prima che commetta un reato. Non esistono dati scientifici dove si attesta che le stesse persone uscite dal carcere nel 1998 sono quelle che hanno commesso un reato, ma ancora non arrestate. Così come non esiste una sfera di cristallo che ci indica le persone che saranno condannate definitivamente. La recidiva si calcola sulla sentenza definitiva e non sull’arresto o al fatto che alcune persone ancora non sono state individuate. Il dato emerso da quello studio è chiaro. Così come è stato chiarissimo un altro riscontro statistico, con un approccio scientifico ancora più rigoroso: quello elaborato nel 2012 e condotto dall’Einaudi Institute for Economics Finance (Eief), dal Crime Research Economic Group (Creg) e dal Sole 24Ore. La ricerca, prima in Italia nel suo genere che, su basi scientifiche, misura il rapporto di causalità tra modalità di esecuzione della pena e recidiva, dimostra come le pene alternative possono essere la soluzione per ottenere una significativa riduzione della recidiva (fino a 9 punti percentuali), trasformando il carcere in una fabbrica di risocializzazione, e non del crimine. La ricerca evidenzia che, a parità di pena da scontare in carcere, chi ha avuto la possibilità di trascorrere più tempo in un carcere “aperto” - il preludio all’ammissione dei detenuti a espiare parte delle loro condandi ne in misure alternative al carcere - ha una recidiva inferiore di chi invece è stato detenuto più a lungo in un tradizionale carcere “chiuso”. Per ogni anno passato nel primo tipo di carcere, invece che nel secondo, la recidiva si riduce di circa 9 punti percentuali. Un abbattimento rilevante, con conseguenze importantissime in termini di risparmi, (dati i costi della recidiva), di miglioramento della sicurezza sociale e di riduzione del sovraffollamento carcerario. I dati contano più delle opinioni e i sorrisetti: come ha rilevato il Consiglio d’Europa, lì dove sono stati costruiti nuovi penitenziari per arginare il sovraffollamento si è spesso registrato un incremento della popolazione carceraria, senza alcun vantaggio in termini di sicurezza sociale. Proprio per questo motivo diverse direttive europee premono per le pene alternative. Non è una questione ideologica, ma puramente scientifica. Riforma e recidiva, numeri e statistiche così non tornano Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2018 Reazioni forsennate sulla carta stampata e sul web all’articolo del Fatto Quotidiano di sabato scorso sui rapporti tra pene alternative e recidiva. Tutto nasce dalla riforma penitenziaria approvata il 16 marzo dal governo Gentiloni: ha al centro l’ampliamento delle misure alternative al carcere. Criticata da una parte dell’Antimafia (a partire dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho), per la preoccupazione che le nuove norme finiscano - nella realtà, anche se la forma lo esclude - per indebolire il carcere duro per i mafiosi regolato dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. E avversato da una parte del mondo politico (soprattutto Lega e M5S), che lo giudica inadeguato a risolvere i problemi del carcere italiano. La Lega non esita a definirlo una misura “svuota carceri”. In questo clima di dibattito e di contrasti, il Fatto, dopo alcuni articoli che nel tempo hanno raccontato i contenuti della riforma e del dibattito, ha proposto sabato l’intervista a un ricercatore, il professor Roberto Russo, che smentisce quella che ritiene la fake news su cui si regge il sostegno ideologico alla riforma penitenziaria: l’esistenza di statistiche e dati scientifici che proverebbero la correlazione tra diffusione delle pene alternative e calo della recidiva. Che cosa dicono, infatti, i fan della riforma? Che esistono dati certi per provare che chi sconta la pena in cella torna a delinquere tre volte di più di chi è invece ammesso alle pene alternative. Ebbene: queste statistiche non esistono. Esistono studi realizzati in altri Paesi europei. Esistono analisi fatte anche in Italia. Ma le sbandierate statistiche che provano scientificamente che meno carcere sia uguale a meno recidiva non ci sono: sarà anche vero, ma non è provato. Apriti cielo. Gli attacchi al Fatto, colpevole di aver dato voce a uno studioso che ha detto che il re è nudo, si sono saldati con la denigrazione del ricercatore intervistato, nella peggior tradizione di chi per indebolire un’idea cerca di screditare chi la propone. Eppure è così: le statistiche inoppugnabili citate con tanto di numeri e percentuali non esistono. Esiste uno studio molto citato (e poco letto), Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva, scritto da Fabrizio Leonardi nel 2007 e pubblicato sulla rivista Rassegna penitenziaria e criminologica. Prende in esame 8.817 soggetti, casualmente scelti su 11.336 persone ammesse al beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale che nel 1998 hanno concluso il loro percorso. Di questi, a settembre 2005 solo 1.677 “sono risultati recidivi”: il 19 per cento. Peccato però che come “recidivi” siano stati considerati solamente coloro i quali sono stati entro il settembre 2005 di nuovo condannati in via definitiva. Conteggiati dunque soltanto quelli che, usciti dal carcere nel 1998, hanno commesso un nuovo reato, sono stati individuati (cosa non scontata vista l’alta percentuale dei crimini impuniti) e poi processati in primo grado, appello ed eventualmente anche Cassazione, con sentenza definitiva emessa entro il settembre 2005. Altri, sul Corriere della Sera, hanno fatto riferimento a studi condotti nel carcere di Bollate. Saranno certamente significativi, ma sono altro da statistiche attendibili: sarebbe come pretendere di ricavare dati scientificamente generali sulla longevità degli italiani esaminando solamente il paese in Italia dove la vita media è più lunga, o cercare dati sulla ricchezza nazionale solo nella regione più ricca del Paese. È prevedibilmente vero che un detenuto si incattivisca di più a stare in un carcere dove lo rinchiudono con altri otto in una cella di due metri quadri, lo maltrattano e lo affamano, piuttosto che in un istituto dove siano riconosciuti la sua dignità umana e i suoi diritti, e dove gli sia data la possibilità di lavorare, di studiare, di preparare un’alternativa alla sua vita precedente. È prevedibilmente vero che in futuro delinquisca di meno chi ha la possibilità di fare un percorso meno afflittivo di quello di stare chiuso in carcere. Ma questo ce lo dicono studi sociologici e analisi delle esperienze virtuose (come Bollate), oltre che il buonsenso: non statistiche certe che (per ora) non esistono, eppure sono sbandierate come prova provata da chi mette le proprie convinzioni ideologiche prima della realtà dei fatti, per sostenere una riforma che, confezionata dopo le sanzioni dell’Unione europea per il sovraffollamento delle carceri italiane, ha preferito la (più facile) de-carcerazione alla (più complessa) riqualificazione dei percorsi di vita dei detenuti. Rems. L’ultima rivoluzione di Basaglia, ancora da compiere di Giada Zampano Internazionale, 15 maggio 2018 La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. È una mattina calda di fine aprile quando arrivo a Ceccano, un comune in provincia di Frosinone noto per il castello medievale dei Conti, ma anche perché per settant’anni la sua storia si è intrecciata con un luogo che tutti qui chiamano ancora “il manicomio”. Dell’edificio oggi resta un rudere che si staglia imponente su una collinetta, con le sue finestre cieche e il parco ormai abbandonato. Hanno provato a riconvertirlo più volte, senza riuscirci del tutto. A poca distanza, nella casa che ospitava una comunità terapeutica, tre anni fa è stata realizzata una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (rems). È qui che viene accolto chi ha commesso un reato ed è stato giudicato dal tribunale “infermo o seminfermo di mente”, cioè non in grado di intendere e volere al momento in cui l’ha compiuto, ma socialmente pericoloso; e chi ha ricevuto una sospensione della pena perché in carcere ha cominciato a soffrire di disturbi psichiatrici. La struttura è gestita dall’azienda sanitaria locale. Tutti sono sottoposti a cure psichiatriche e devono seguire un percorso di riabilitazione stabilito con i dipartimenti di salute mentale, al termine del quale sono affidati a strutture residenziali psichiatriche o a gruppi-appartamento, oppure possono tornare a casa - se ne hanno una - monitorati dai centri di salute mentale. Per trovare la rems di Ceccano ci vuole un po’ di tempo, nascosta com’è dagli alberi e da un’alta rete metallica - una barriera che separa in modo netto il mondo esterno da quello interno. Al primo sguardo sembra un bunker. Al pesante cancello blindato mi accolgono le guardie in divisa, che poi scopro essere vigilantes privati e non armati, che aiutano medici e infermieri a “ristabilire l’ordine” nel caso qualcuno degli ospiti diventi aggressivo, come a volte capita. A quarant’anni dalla legge 180 del 1978, voluta dallo psichiatra e neurologo Franco Basaglia, le rems come quella di Ceccano hanno archiviato l’esperienza vergognosa degli ex manicomi criminali. Gli ospedali psichiatrici giudiziari (opg) non erano contemplati tra le strutture prese in esame dal provvedimento per la chiusura. Dipendevano dall’autorità penitenziaria - e quindi dal ministero della giustizia - e così le persone rinchiuse tra le loro mura ci restarono fino alla legge 81 del 2014 e alla chiusura dell’ultimo a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, nel febbraio 2017. Erano luoghi di “estremo orrore”, per citare le parole dell’allora presidente della repubblica Giorgio Napolitano e porvi fine è stato un grande passo in avanti, un completamento della rivoluzione basagliana. Ma ancora oggi ci sono delle difficoltà da superare, come mi spiegano a Ceccano. Fuori dell’edificio di tre piani ci sono un piccolo giardino con panche e tavoli in legno, e un campetto da calcio recintato. Nell’orto, un’operatrice sta togliendo le erbacce insieme ad alcuni pazienti - una delle tante attività di gruppo organizzate nella residenza. Il personale - una dozzina tra medici e operatori - si assicura che i malati psichiatrici siano sempre impegnati in progetti comuni, come le lezioni di italiano e geografia per gli stranieri nella sala multimediale, la pet therapy, la lettura dei giornali, le gite per pescare in un laghetto a pochi chilometri da Ceccano, le uscite per gli acquisti al centro commerciale e i pomeriggi al cinema di Frosinone. C’è stato anche un corso per pizzaioli che alcuni pazienti hanno seguito e che potranno sfruttare una volta usciti. All’interno domina una calma quasi irreale. Una luce soffusa irradia dalle pareti dipinte di rilassanti tonalità di verde. Il silenzio è interrotto di tanto in tanto dalle urla di un paziente grande e grosso con un ritardo cognitivo, sopravvissuto all’opg. Le stanze, quasi tutte doppie, sono scarne ma pulite, e arredate con mobili nuovi di legno chiaro. Le pareti sono quasi immacolate, con pochi poster affissi e qualche foto di amici e parenti, a testimonianza di vite rimaste sospese in una sorta di limbo. I pazienti sono venti, tutti uomini. Molti sono fuori in giardino a fumare, al sole. La sigaretta è un “rito intoccabile”, sorride Luciano Pozzuoli, psichiatra di 58 anni che dirige la struttura. Altri stanno finendo di mangiare nella sala mensa, intorno a un lungo tavolo comune con sedie colorate. Qualcuno è rimasto a letto nella sua stanza, con le porte rigorosamente aperte - le chiudono a chiave solo la notte, spiegano i medici, per la sicurezza di operatori e pazienti. Quando sono chiuse, si può controllare cosa succede dentro attraverso degli oblò. In una stanza della struttura sono applicate le tecniche di “de-escalation” per gestire i comportamenti aggressivi dei pazienti. Ma Pozzuoli ci tiene a mostrare che è una stanza come le altre: niente letto di contenzione, nessuna traccia di quelle cinghie con cui i pazienti dei vecchi manicomi criminali erano legati per giorni, una pratica che resiste ancora in alcune strutture e non si cancella per chi ha vissuto sulla sua pelle l’ergastolo bianco - cioè una pena di cui non si conosceva la fine - degli opg. Il fallimento degli opg - È quello che è successo a Gianni - nome di fantasia - che ha 58 anni e da due vive nella rems di Ceccano. Per 27 anni è stato recluso in diversi opg: una storia drammatica che l’ha reso completamente impermeabile ai tentativi dei medici di integrarlo nella comunità, con attività di svago e scambio reciproco. “Non mi interessa uscire da qui, voglio solo restare nella mia stanza singola. E vorrei anche un fornellino per cucinare i miei pasti, un frigorifero e una televisione, perché i programmi che guardano gli altri non sono di mio gradimento”, dice da dietro a un paio di occhiali scuri a farfalla. Indossa una camicia a righe su pantaloni di fustagno e un cappellino da pesca. Ha commesso un omicidio trent’anni fa ed è finito in carcere. Ci è rimasto nove mesi, poi gli è stato riconosciuto il “vizio di mente” - cioè l’incapacità di intendere e volere nel momento in cui ha commesso il reato - e gli è stata diagnosticata una forma di schizofrenia paranoide. A quel punto è stato mandato in un opg. Lo scopo delle rems è garantire il reinserimento sociale degli individui. Ci tiene a dirmi che lo preferiva alla rems, perché là gli permettevano di stare da solo e imponevano a tutti regole rigide. Dà segni di fastidio quando le voci di altri pazienti, a tratti rumorose, arrivano nella stanza attrezzata a palestra dove siamo seduti. Con naturalezza racconta che nell’ex opg di Aversa, dove ha passato anni per poi essere trasferito a Barcellona Pozzo di Gotto, le guardie penitenziarie lo picchiavano spesso “anche se in teoria non potevano farlo”. Dice anche di essere stato punito con la contenzione per aver ferito alla gola un altro detenuto con una lametta. “Sono rimasto legato al letto per giorni, ed è molto peggio che essere picchiato, perché i muscoli si contraggono e il dolore diventa insopportabile”. Gianni dice che uscirà tra un anno. “Ma continuerò a vivere come qui, da solo, guardando i miei programmi in tv e leggendo i miei libri di storia. Voglio limitare i miei contatti con l’esterno al minimo indispensabile. Fare la spesa, magari scambiare due chiacchiere con i negozianti, ma niente di più”. Stefano Anastasia, garante dei diritti dei detenuti del Lazio e fondatore dell’associazione Antigone, nota che Gianni è un esempio classico del fallimento dell’istituzione “totalizzante e alienante” dell’opg. “Lo scopo delle rems deve essere esattamente l’opposto”, spiega. “Le misure devono essere limitate nel tempo, come prevede la legge, e garantire il reinserimento sociale degli individui col coinvolgimento di tutti i servizi di salute mentale territoriali, prima e dopo la rems”. Passi avanti e problemi - A quattro anni dall’approvazione della legge che li ha istituiti, uno dei nodi irrisolti di questi istituti è il fatto di essere delle strutture a metà tra gli ospedali e le carceri. “Purtroppo siamo divisi tra la funzione di cura e quella di detenzione, e a volte è difficile conciliare questi due aspetti. Soprattutto quando arriva un paziente aggressivo, pericoloso, perché è in gioco anche la nostra incolumità”, aggiunge Pozzuoli. Lo psichiatra ricorda di aver ricevuto una testata sul naso a Ceccano, ma dice che gli episodi violenti non sono frequenti. Comunque, in occasioni del genere, non sono i medici della rems a doverli gestire, ma le strutture ospedaliere dove i pazienti vengono portati per il trattamento sanitario obbligatorio (tso). Tuttavia, questo non è il problema più grave delle rems. Il sistema è stato organizzato sulla base di strutture piccole, ognuna con venti posti. Ma in tutta Italia sono solo trenta, e questo ha due conseguenze: liste di attesa molto lunghe e persone private di un diritto. Continuare la rivoluzione di Basaglia significa puntare a far scomparire le stesse rems - Oggi le persone assistite sono 604 - di cui 54 donne. Quelle che aspettano di entrarvi sono 441, mentre tra le cinquanta e le sessanta sono in carcere, come mi ha confermato il dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap). Il fatto è che non tutte le regioni hanno recepito e attuato per tempo la legge 81. A intasare il sistema - privo tra l’altro di un coordinamento nazionale, come lamentano molti psichiatri - ci pensano poi le misure di sicurezza provvisorie (il corrispettivo della custodia cautelare in carcere) in base a cui i magistrati mandano nelle rems persone in attesa di giudizio, che in alcuni casi potrebbero essere inserite in comunità o case famiglia. Secondo il rapporto dell’associazione Antigone pubblicato ad aprile, il numero delle misure provvisorie è in crescita: sono infatti il 22 per cento in più rispetto al 2017, e ormai rappresentano il 46 per cento del totale dei pazienti delle rems. “I prosciolti per vizio totale di mente, ma socialmente pericolosi, che dovrebbero costituire la categoria giuridica paradigmatica del ricoverato nelle rems, sono 215, pari al 37 per cento del totale, una netta minoranza”, si legge nel rapporto. È evidente, notano gli autori del rapporto, che con la chiusura degli opg sia venuta meno la “valvola di sfogo” attraverso cui il sistema giudiziario e il carcere si liberavano dei casi più problematici. Il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dal canto suo, dice di non potersi occupare della cura dei detenuti che aspettano di essere trasferiti nelle rems, e accusa le regioni di ostinarsi a ignorare la questione. “Non abbiamo le risorse necessarie per assisterli, ma dalle rems continuano a dirci che non hanno posto e che non possono accoglierli”, spiega il capo della direzione generale Detenuti e trattamento, Calogero Piscitello. “Il passaggio dagli opg alle rems è stato un fallimento, e nessuno se ne sta assumendo le responsabilità”. Il corto circuito tra servizi territoriali, carcere e rems ha generato casi estremi di illegalità, come quello di Massimiliano Spinelli, 46 anni, romano. Giudicato incapace d’intendere e di volere, ma ritenuto socialmente pericoloso, doveva essere destinato a una delle cinque rems del Lazio. Ma in nessuna c’era posto, e così ha passato quasi un anno nel carcere di San Vittore a Milano. Solo ad aprile, grazie all’intervento degli attivisti di Opera Radicale e del garante dei detenuti Anastasia, ha potuto essere accolto dalla rems di Palombara Sabina. Una via per superare le rems - La rivoluzione di Basaglia cominciò alla fine degli anni sessanta con una serie di critiche: contro l’istituzione del manicomio, contro il ruolo tradizionale dello psichiatra come custode e carceriere di malati considerati irrecuperabili, contro la malattia mentale come stigma sociale. “Ogni negazione è possibile, nella pratica, se insieme costruisci altro”, ha scritto Franca Ongaro Basaglia nell’introduzione alla ristampa di L’istituzione negata(1998). L’utopia di Basaglia continua a camminare sulle gambe delle allieve e degli allievi dello psichiatra. Una di loro è Giovanna Del Giudice, presidente dell’associazione Con/F/Basaglia e attivista di Stop opg. “Continuare la sua rivoluzione significa puntare a far scomparire le stesse rems, come alla fine degli settanta scomparvero i manicomi”, dice Del Giudice. “Ci sono tante differenze tra una struttura e l’altra, ma una cosa che le accomuna è il lavoro straordinario degli operatori, che dovrebbe diventare patrimonio dei dipartimenti di salute mentale sul territorio. Grazie a loro, i servizi locali potrebbero prendersi carico dei pazienti che ora sono nelle rems, finendo per renderle inutili”, spiega. E cita il caso del Friuli-Venezia Giulia, terra basagliana di manicomi liberati, che ha fatto la scelta coraggiosa di non costruire nuove strutture e destinare i fondi per le rems ai servizi di salute mentale. Tuttavia, nonostante i buoni auspici, ancora oggi resistono pratiche che fanno pensare più al passato che a un futuro senza rems. È il caso dell’uso della contenzione fisica. Secondo il rapporto del comitato per la prevenzione della tortura (Cpt), organo del Consiglio d’Europa, stilato sulla base di visite fatte nel 2016, la contenzione sarebbe stata usata nelle rems di Castiglione delle Stiviere, in Lombardia. Nella relazione sul passaggio dagli opg alle rems, il commissario Franco Corleone parla di “918 episodi che interessano 59 pazienti”, in un periodo compreso tra il 1 aprile 2015 e il 31 marzo 2016. “Si tratta di un numero di contenzioni molto alto, ma in ogni caso va segnalato che tra queste contenzioni, 742 sono rivolte a una donna che presenta un quadro di ritardo mentale grave e manifesta comportamenti etero e autoaggressivi”, si legge nel documento. La direttrice di Castiglione, Maria Gloria Gandellini, spiega che contenzione meccanica e farmacologica sono usate solo in casi estremi, per salvaguardare l’incolumità di pazienti e operatori, e seguendo rigorosamente i protocolli. “Si può ancora ricorrere alla contenzione, strumento necessario quando il paziente rischia di diventare pericoloso per sé e per gli altri. Ma cerchiamo di farlo sempre meno, secondo regole molto precise, e valutando tutte le alternative, come la possibilità di fare trattamenti sanitari obbligatori in ospedale”, dice. Nel panorama disastrato degli opg, Castiglione aveva strutture più nuove e moderne rispetto a quelle fatiscenti di altri istituti. Proprio per questo, la regione Lombardia, dopo l’approvazione della legge 81, decise di investire nella sua riconversione. Tuttavia, dopo poco si è ritrovata a pagare i ritardi delle altre regioni e ad affrontare una situazione di grave sovraffollamento. Le sei rems di Castiglione dovrebbero ospitare al massimo centoventi pazienti. Oggi ce ne sono circa 160, un numero che resta alto nonostante stiano nascendo nuovi spazi e si stia investendo nella formazione di altri operatori e progetti per la cura e la riabilitazione. “Per lavorare bene noi dovremmo avere novanta pazienti, e potremmo fare cose eccezionali. Ora stiamo facendo cose decorose”, conclude Gandellini. Un impegno plurale - Psichiatri ed esperti concordano sul fatto che, al di là degli sforzi delle singole rems e delle carceri che stanno provando a occuparsi dei detenuti con patologie psichiatriche, per prendersi davvero cura di loro è necessario allargare le responsabilità e coinvolgere l’intera rete sociale, come insegnava Basaglia. “Abbiamo bisogno di risorse e strumenti sempre nuovi”, spiega Ivan D’Amato, 38 anni, convinto basagliano e responsabile del reparto psichiatrico del carcere di San Vittore a Milano. “Anche i disturbi si evolvono, influenzati dall’uso di sostanze stupefacenti, e cambiano anche le persone coinvolte. Oggi, per esempio, ci troviamo a lavorare con molti senza fissa dimora e immigrati che, traumatizzati e abbandonati a se stessi, finiscono per commettere reati”. “È un dato di fatto che sarebbe meglio lavorare con i malati psichiatrici fuori dal carcere”, aggiunge. “Ma se le alternative non ci sono, succede inevitabilmente che la galera sia l’unico posto riservato alle persone mentalmente fragili che hanno compiuto dei reati e che non hanno né un lavoro né una famiglia. Bisognerebbe assisterli prima, per evitare che compiano dei crimini, e dopo, per individuare i migliori percorsi di recupero”. A Matteo - nome di fantasia - uno degli ospiti più giovani della rems di Ceccano, l’impegno degli psichiatri e il costante lavoro dell’assistente sociale hanno consentito per la prima volta in vita sua di godersi uno spettacolo teatrale. È successo all’Antares, il piccolo teatro cittadino, dove Matteo è arrivato con altri tre compagni della rems in una tiepida serata di un sabato primaverile. “Mi è piaciuto molto lo spettacolo, anche se del dialetto ceccanese non ho capito tanto”, ammette sorridendo e fumando l’ennesima sigaretta all’uscita. “Ma voglio sicuramente tornarci a teatro, quando sarò fuori, libero”. Scontro su migranti e manette agli evasori di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 15 maggio 2018 I Cinquestelle spingono per regole più severe sul Fisco, no della Lega. La battaglia sui rimpatri. Uno, Matteo Salvini, ha ribadito la volontà di avere “mani libere sull’immigrazione”. L’altro, Luigi Di Maio, ha introdotto una novità rispetto al programma elettorale: “Carcere per chi evade”. E basterebbe questo a comprendere quanto si stia allargando la distanza tra Carroccio e 5 Stelle. In realtà i punti su cui si continua a discutere sono diversi e tutti “strategici” per la nascita del governo. Ma è su questi due in particolare che l’intesa potrebbe arenarsi, soprattutto tenendo conto della reazione che provocherebbe nella base dei due schieramenti. Del resto basta leggere i programmi che erano stati presentati in campagna elettorale per scoprire che su questi temi sono state evidentemente introdotte adesso ulteriori modifiche. I migranti Il titolo scelto dalla Lega nel programma è eloquente: “L’Africa in Italia non ci sta”. E per questo si vogliono introdurre regole in linea con quanto chiedono gli Stati dell’Unione Europea nettamente contrari a una redistribuzione dei profughi. I grillini spiegano invece che “il migrante diventato il nemico da combattere e l’Ue descritta come matrigna che impone decisioni e regole calate dall’altro” sono soltanto “concetti utili a distogliere l’attenzione dalla responsabilità dei governi che si sono succeduti”. Il Carroccio vuole “rifondare e implementare i Centri di identificazione ed espulsione, prolungare fino a sei mesi il termine per il trattenimento per rendere eseguibile l’espulsione”. Ma la vera rivoluzione riguarda “il trasferimento delle competenze per il controllo e la gestione dei Cie e dei centri di accoglienza alle Regioni”, per cui è necessaria una modifica Costituzionale. I 5 Stelle, che chiedono “un’equa ripartizione delle responsabilità tra i Paesi dell’Ue” e una “gestione trasparente, controllata e tracciata dei fondi destinati all’accoglienza” che rimane però di competenza dello Stato. E mentre la Lega prevede rimpatri forzati, i grillini mettono tra i punti fondamentali quelli “volontari” con “tutela dei soggetti vulnerabili (minori, donne, anziani, vittime di tortura)”. Gli evasori Nel programma elettorale del Movimento ci si sofferma in maniera ampia sulla volontà di “potenziare la lotta all’evasione fiscale”, ma senza nemmeno ipotizzare quello che Di Maio ha detto invece ieri uscendo dalla sala della Vetrata al Quirinale: “Carcere per chi evade”. Una posizione molto lontana da quella di Salvini che, presentando la linea del partito in vista delle urne aveva evidenziato la necessità di “invertire l’onere della prova in materia di tributaria perché oggi il contribuente è in una condizione di forte svantaggio nei confronti dello Stato che gli contesta un’infedeltà fiscale. E dunque il sistema sarà abolito: non sarà più il contribuente a dover dimostrare a proprie spese la sua innocenza, ma lo Stato a sue spese a dover eventualmente dimostrare la colpevolezza”. E con l’entrata in vigore della Flat tax l’idea era quella di introdurre sanzioni amministrative più severe che però prevedono al massimo “il ritiro della patente o del passaporto fino a tre anni”. Arriva il braccialetto elettronico anche per le vittime di stalking di Sara Menafra Il Mattino, 15 maggio 2018 La volante impiegata per controllare chi viola i domiciliari, i Daspo non rispettati o i casi di violenza su donne che avevano già denunciato il loro persecutore. Potrebbe essere la tecnologia a cancellare gli aspetti più laboriosi della gestione della sicurezza, portandoci verso una società più controllata e controllante, coi rischi sulla privacy che ogni passo in questa direzione comporta, ma probabilmente migliorando fin da subito vita di centinaia di detenuti che oggi non escono dal carcere nemmeno durante la custodia cautelare. Giovedì, nel corso del salone della Giustizia, Fastweb e ministero dell’Interno presenteranno al pubblico i nuovi braccialetti elettronici, frutto Convenzione tra Fastweb e il ministero della Giustizia: pronti i nuovi dispositivi di una convenzione stipulata a dicembre ma che inizierà a funzionare dal mese di agosto. Se oggi i braccialetti sono in tutto duemila e hanno spesso problemi di funzionamento perché basati su un software risalente al 1999, i nuovi dispositivi elettronici saliranno di numero e possibilità di utilizzo. Con costi molto ridotti rispetto al passato, visto che in media l’attivazione di ciascuno costerà 200 euro. Massimo Mancini, Chief Enterprise Officer di Fastweb, spiega che i numeri potrebbero essere importanti: “L’accordo che abbiamo firmato ci consente di attivarne fino a 1000 al mese per 36 mesi. Dunque, in teoria, potremmo averne fino a 36mila, dipende da quante richieste arriveranno e per quale durata”. Tra i nuovi usi già implementati forse il più interessante è quello dedicato allo stalking. Su decisione del magistrato, ad essere monitorati potrebbero essere non solo l’indagato ma anche la vittima degli avvicinamenti non desiderati: il primo, tramite il braccialetto, viene monitorato e i suoi spostamenti tracciati, mentre l’altro (ma quasi sempre è un’altra”) ha a sua volta un dispositivo portatile che rileva la presenza dell’aggressore e genera immediatamente un allarme, inviato al centro di monitoraggio, sia della questura sia dei tecnici di Fastweb chiamati a valutare se e quando possano prodursi degli errori. Quando scatta l’allarme, la centrale può contattare l’indagato, verifícarne le intenzioni e provare a parlarci, mentre la vittima, tramite un bottone, può chiamare la centrale in qualunque momento; “Siamo particolarmente ottimisti - aggiunge Mancini - perché le statistiche di paesi che usano questo genere di tecnologia da anni, dicono che i numeri si sono fortemente ridotti nel corso del tempo. A Madrid, che la impiega dal 2009, i femminicidi sono calati del 33 per cento, nell’intera Spagna quasi del 19 per cento”. Sempre in Spagna, nessuna delle vittime sottoposte a controllo elettronico è stata più oggetto di violenza. Visto che la tecnologia permette di tracciare sia le zone in cui un soggetto è obbligato a stare, sia quelle a cui non deve avvicinarsi, potrebbe essere usata oltre che nei domiciliari nel controllo degli obblighi o dei divieti di dimora. In prospettiva, anche il divieto di avvicinarsi allo stadio potrebbe essere controllato tramite braccialetto elettronico (anche se per ora il dispositivo sarà impiegato solo su ordine di un magistrato). Fastweb assicura che tutte le attuali normative relative alla privacy, conservazione dei dati inclusa, saranno rispettate. Di certo, la possibilità di attivare i braccialetti potrebbe rendere più facile concedere i domiciliari. 41bis e accesso ai colloqui con i Garanti territoriali di Veronica Manca giurisprudenzapenale.com, 15 maggio 2018 Si impone il limite massimo di un incontro al mese, alternativo tra familiari e terzi. Tribunale di Sorveglianza di Roma, Ordinanza, 20 aprile 2018. Con l’ordinanza in esame, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha preso una ferma posizione rispetto all’interpretazione della normativa circa l’accesso dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis O.P. ai colloqui con i Garanti territoriali. In particolare, il Tribunale di Sorveglianza si è soffermato sui due orientamenti interpretativi oggi diffusi nella Magistratura di Sorveglianza: da una parte, infatti, si colloca la posizione (ben espressa nell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Perugia, di data 21 febbraio 2016), per cui l’accesso ai colloqui con i Garanti territoriali sarebbe sottratto al vincolo normativo, di cui al co. 2-quater lett. b) dell’art. 41-bis O.P., che - come è noto - prevede il limite di un colloquio al mese “da svolgersi ad intervalli di tempo regolari ed in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti”. Secondo tale impostazione, i due istituti (ossia il colloquio con i familiari e l’incontro con il Garante, seppur territoriale) muovono da logiche completamente differenti e non equiparabili tra loro (“sul versante opposto vi è la tesi che muovendo, appunto, dalla radicale differenza e non equiparabilità - logica e normativa - delle esigenze che sottendono i colloqui coi familiari e terzi e quelle che sottendono i colloqui coi Garanti, valorizzando la natura istituzionale e “paragiurisdizionale” dei Garanti territoriali e la circostanza che nell’art. 18 o.p. tali colloqui vengono disciplinati autonomamente da quelli previsti per i familiari e ritenendo che gli artt. 18 e 67 o.p. si riferiscano a qualunque detenuto (compresi quelli in regime differenziato), conclude che i colloqui con i Garanti territoriali dei detenuti in regime differenziato di cui all’art. 41bis non vanno computati in quelli - e dunque non sono alternativi a quelli - svolti coi familiari ed i terzi e non sono soggetti a quelle regole e modalità di svolgimento. Il punto di forza di questa ricostruzione è quello di sanare l’evidente differenza di finalità e di natura che sottende i colloqui coi familiari (o terze persone) e quelli con i Garanti territoriali e che distingue profondamente tali soggetti; nonché quella di ampliare la sfera dei diritti dei detenuti, favorendo un ulteriore e più affinato controllo sul rispetto dei medesimi. Il punto di debolezza, sul piano ermeneutico, è costituito da una certa distanza dal dato letterale e da una scarsa considerazione del principio di specialità”). Orientamento contrario, peraltro, avallato anche dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, secondo cui, dato che il co. 2-quater lett. b) non menziona in alcun modo la possibilità che i reclusi di cui al 41-bis O.P. possano accedere a colloqui con i Garanti territoriali sta a significare che “i detenuti sottoposti a questo regime possono fare un solo colloquio al mese, con i familiari o con le terze persone, con le modalità e limiti prescritti. In questa prospettiva lo spazio per i colloqui con i Garanti territoriali - ove da intendersi ipotizzabile - è da enucleare in tale ambito e - considerato l’unico colloquio mensile previsto - è inevitabilmente alternativo a quello coi familiari o terze persone ed è disciplinato da quelle modalità. Il punto di forza di questa tesi è il dato testuale della norma e la specialità della normativa inerente questa tipologia di detenuti, nonché la sua ratio fondante, finalizzata ad una limitazione ed un controllo capillare ed estremamente rigoroso dei contatti intrattenuti da questi soggetti eccezionalmente pericolosi e pervasivi”. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha propeso inequivocabilmente per tale secondo orientamento: secondo i giudici il discrimine starebbe proprio nella specialità dell’istituto del 41-bis O.P., nella differente finalità e ratio del regime differenziato. A ben vedere, però, più che rendere conto delle motivazioni giuridiche che sorreggono la specialità dell’istituto in generale e delle ragioni in forza delle quali si ritiene che il detenuto non possa usufruire nemmeno eccezionalmente dell’incontro con un soggetto terzo, tenuto conto della sua pericolosità soggettiva, il Tribunale di Sorveglianza si è soffermato a lungo sul ruolo e sulle funzioni della figura del Garante territoriale, esprimendo una profonda sfiducia in tale istituto, che non pare fondata su dati oggettivi e concreti, se non da un’eccessiva generalizzazione del tutto immotivata. Ne risulta un’ordinanza intrisa di convinzioni soggettive e personali, che poco hanno a che fare con il diritto e soprattutto con la valutazione del caso concreto (situazione soggettiva del singolo detenuto, rapporti con la criminalità organizzata, infiltrazioni concrete ed oggettive rapportabili alla singola figura di Garante, etc.). Anche perché, in realtà, ad una valutazione oggettiva e più pertinente della questione, si sarebbe potuto concludere diversamente: la stessa norma di cui al 2-quater lett. b) dell’art. 41-bis O.P. permetterebbe di regolare diversamente l’accesso del Garante territoriale, non necessariamente computato nel colloquio con i familiari, nella misura in cui consente al direttore dell’istituto di regolare incontri con soggetti terzi. Del resto, l’amministrazione penitenziaria aveva consentito in precedenza al detenuto di incontrare il Garante territoriale, prassi che, quindi, risultava conosciuta anche alla stessa direzione. In ogni caso, volendo far rientrare la disciplina dei colloqui con il Garante territoriale nei stretti limiti dei colloqui con i terzi, questa non incide in alcun modo sul limite di un colloquio al mese con i familiari: tale interpretazione peraltro è oggettiva e testuale. Si consideri, inoltre, che l’art. 16.6. della Circolare Dap del 16 ottobre 2017 è chiara e lineare nel sancire che “i garanti dei diritti dei detenuti comunque denominati, possono accedere in istituto per effettuare le visite ex art. 67 O.P:, con possibilità di incontrare detenuti/internati 41-bis. Tali incontri non incidono sulla determinazione del numero dei colloqui cui il detenuto/internato ha diritto ex art. 41-bis, co. 2-quater lett. b)”. Si ritiene che un’eccessiva generalizzazione - pur sollevando quesiti e preoccupazioni fondati in ordine alla mancanza di uniformità di nomina, gestione e rinnovo degli incarichi (aspetti che, in ogni caso, riguardano plurimi istituti pubblici in merito alla pubblicità, trasparenza e correttezza della pubblica amministrazione, ma che non possono ricadere comunque sulla compressione dei diritti soggettivi dei cittadini, siano essi anche detenuti) - non possa giustificare una delegittimazione della funzione del Garante territoriale tout court, soprattutto perché tali considerazioni non attengono alla soluzione del caso pratico (né alla tutela dei diritti soggettivi del singolo) e, come ha affermato lo stesso Tribunale, sono valutazioni di competenza esclusiva del legislatore. Alle Sezioni unite la pena per l’omicidio stradale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV - Ordinanza 14 maggio 2018 n. 21286. Saranno le Sezioni unite a stabilire se, in caso di omicidio stradale, vada applicata la pena in vigore al momento della condotta o dell’evento, e dunque della morte del pedone investito. Con l’ordinanza 21286, i giudici della quarta sezione penale chiamano in causa le Sezioni unite per stabilire “ se a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore della legge penale più favorevole di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione il trattamento sanzionatorio vigente al momento della condotta, ovvero quello vigente al momento dell’evento”. Il caso esaminato riguardava l’investimento di un pedone, avvenuto prima dell’introduzione delle norme sull’omicidio stradale (legge 41/2016, articolo 589-bis), diventate però operative al momento della morte dell’uomo. Al ricorrente, anche in assenza di dolo, era stata applicata la pene prevista dalla nuova norma, certamente mano favorevole di quella vigente quando al tempo dell’azione incriminata. Nello specifico la Cassazione precisa che la pena era rimasta all’interno degli stessi limiti edittali previsti prima dell’ingresso nel codice dell’omicidio stradale, ma questo solo perché nel caso dell’omicidio colposo era configurabile un’aggravante, mentre per l’omicidio stradale si parla di ipotesi autonoma di reato. Non c’è dubbio quindi che il trattamento sarebbe stato più favorevole se si fosse seguito il criterio della condotta. La sezione remittente dà conto dei diversi orientamenti sul punto sia dal punto di vista della dottrina sia della giurisprudenza di legittimità. La giurisprudenza prevalente si richiama alla legge penale in vigore nel momento della consumazione del reato. E questo, nel caso di reati di evento, coincide con la data in cui questo si verifica, anche se a distanza di tempo. Un principio applicato, ricorda la Cassazione, in occasione della condanna (sentenza 22379/2015) dei direttori di uno stabilimento in relazione alla morte di due dipendenti per mesotelioma pleurico collegato all’esposizione all’amianto. In quella vicenda la condotta degli imputati si collocava per intero “a monte” del duplice innalzamento dei limiti edittali previsto per il reato di omicidio colposo. I giudici analizzano anche i reati permanenti e non permanenti, per arrivare al reato a forma libera, che interessa nell’ipotesi in esame. I giudici, respingono la tesi dell’applicazione della pena in base all’evento e abbracciano quella della condotta, soprattutto quando “istantanea” e non di durata. La quarta sezione condivide e cita un precedente lontano (sentenza 8448/1972) secondo il quale nel caso di successioni di leggi penali che regolano la stessa materia, la norma da applicare è quella vigente al momento dell’esecuzione dell’attività del reo e non quella del momento in cui si è verificato il “fatto” che determina la consumazione del reato. Una diversa conclusione impedirebbe al soggetto di adeguare la propria condotta alle mutate prescrizioni di legge. La nuova norma verrebbe così applicata retroattivamente a fatti commessi in un tempo in cui non era conoscibile. Ad avviso dei giudici i casi nei quali la Cassazione ha aderito al criterio dell’evento riguardano fattispecie diverse, riconducibili ai reati di durata (abituali o permanenti). La sezione remittente indica dunque la via, ricordando che sono in gioco i principi fondamentali dell’ordinamento: da quello di uguaglianza a quello di legalità della pena. E anche in dovere di far aderire l’ordinamento ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (articolo 117 della Carta). E, in particolare, a quelli previsti dall’articolo 7 della Cedu sull’accessibilità della norma penale per il destinatario, sia sotto il profilo del precetto sia della sanzione, e sulla “prevedibilità” delle conseguenze della sua condotta in caso di trasgressione dei precetti penali. La Cassazione indica i limiti della movida in condominio di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 17131/2018. La convivenza tra i locali notturni, i pub, i disco bar, le paninoteche e i condomini non sempre è facile. In particolare la stampa riferisce quasi quotidianamente i dissidi che, cagionati dalla rumorosità di detti esercizi, sorgono tra gli abitanti delle zone interessate dalla movida notturna e gli esercenti, tanto da comportare spesso la svalutazione economica degli immobili interessati ed addirittura problemi di ordine pubblico. Spesso i sindaci intervengono sul fenomeno, al fine di evitarne gli eccessi, con ordinanze contingibili ed urgenti, la cui violazione è sanzionata penalmente dall’articolo 650 del Codice penale. Gli uffici del pubblico ministero, a seguito della presentazione degli esposti degli abitanti molestati dal rumore, spesso ricorrono al sequestro preventivo dei locali, che viene mantenuto fino alla loro completa insonorizzazione e regolarizzazione, per violazione della normativa sul rumore (articolo 659 del Codice penale), della sicurezza sul lavoro con particolare riferimento alla prevenzione degli incendi (articoli 18,36,37,36 e 46 del Dlgs 81/2008) e all’apertura abusiva di locali di pubblico spettacolo (articolo 681 del Codice penale). La Corte di Cassazione recentemente (sentenza 17131/2018) ha confermato la condanna di un esercente di un locale di pubblico spettacolo per disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone (articolo 659, comma 1, del Codice penale). In particolare la Corte ha ritenuto che nel caso esaminato non ricorreva l’ipotesi dell’articolo 659, comma secondo in quanto: • l’illecito amministrativo della legge 447/1995 ricorre qualora si verifichi il mero superamento dei limiti di emissione del rumore fissati dalla normativa specifica ; • il reato di cui all’articolo 659, comma 1, del Codice penale si avvera qualora il mestiere o la attività vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio in modo da realizzare una condotta idonea a turbare la pubblica quiete; • il reato di cui all’articolo 659, comma 2, del Codice penale si realizza quando siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni dell’autorità che regolano l’esercizio del mestiere e dell’attività, diverse da quelle relativi ai valori limite della legge 447/1995. Nel caso esaminato dalla Cassazione ricorre la violazione dell’articolo 659, comma 1, del Codice penale, perché il Tribunale ha accertato che l’esercizio pubblico non aveva alcuna autorizzazione a svolgere manifestazioni od eventi con diffusione di musica e/o a utilizzare strumenti musicali. Si trattava di un’attività che poteva somministrare bevande ed alimenti, ma non poteva diffondere musica fino a tarda notte: mancando detta autorizzazione non poteva applicarsi l’articolo 659, comma 2, del Codice penale. Invece ricorre il reato di cui al comma 1, perché l’attività rumorosa si svolge in un ambito condominiale e produce rumori idonei ad arrecare disturbo e a turbare la quiete e le occupazioni non solo degli abitanti dell’appartamento sovrastante ma anche di una più consistente parte degli occupanti del predetto edificio (Cassazione, sentenza 45616/2013). Il Tribunale ha stabilito, mediante le deposizioni dei condòmini e i rilievi tecnici dell’Arpa, che quel locale pubblico ha dato disturbo al riposo ed alle occupazioni dei condomini, abitanti tutti nello stesso edificio, attraverso l’impianto di diffusione sonora. In particolare i condòmini sentenza nel dibattimento sono stati concordi nell’affermare che la musica ad alto volume proveniva dal predetto pubblico esercizio. La Corte di cassazione ha annullato la sentenza limitatamente alla liquidazione del danno in favore della costituita parte civile con rinvio per un nuovo giudizio al giudice civile competente. La Corte non ha, invece, condiviso la sentenza impugnata laddove ha liquidato equitativamente il danno morale perché non erano state motivate le circostanze di fatto considerate in sede di valutazione. Concessioni demaniali scadute, sì al sequestro dell’area di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 14 maggio 2018 n. 21281. Sì al sequestro cautelare dell’area demaniale, e dello spazio d’acqua prospicente, per “occupazione abusiva di spazio marittimo” per chi dopo la scadenza della concessione non abbia liberato l’area confidando di muoversi all’interno del regime di proroghe automatiche previsto dalla legge per le aree ricreative e sportive. La Cassazione, sentenza 14 maggio 2018 n. 21281, ha così respinto il ricorso del gestore di una circolo di tennis e vela siciliano (e relativo campo boe) contro la misura preventiva disposta dal Tribunale della libertà di Messina. Per i giudici di legittimità che ripercorrono l’intera disciplina alla luce della direttiva Bolkestein e delle pronunce giurisdizionali della Corte Ue, dei tribunali amministrativi e della Corte costituzionale, il regime di proroghe automatiche delle concessioni è contrario alle regole comunitarie, ed in particolare ai principi di libertà di stabilimento e tutela della concorrenza. La Corte richiama poi la recentissima pronuncia di Palazzo Spada (12 febbraio 2018 n. 873) che ha ritenuto “irrilevante la sopravvenuta disposizione di cui all’articolo 24, comma 3-septies, del Dl 24 giugno 2016, n. 113, convertito dalla legge 7 agosto 2016, n. 160”. In particolare, osservano i giudici amministrativi, “tale disposizione, laddove stabilizza gli effetti della disciplina dichiarata in contrasto con il diritto euro-unitario, incorre essa stessa nel vizio di incompatibilità” e va dunque disapplicata. Mentre per accedere alla eccezioni, previste dal paragrafo 3 dell’articolo 12 della direttiva 2006/123/CE, occorre “una valutazione in concreto, rapportata alla fattispecie specifica delle esigenze giustificatrici di una deroga al principio dell’evidenza pubblica funzionale all’apertura del mercato”. Per la Cassazione l’obbligo di disapplicazione “graverebbe anche sul giudice penale”. Infatti “il potere-dovere del giudice di disapplicare la normativa nazionale in contrasto con la normativa comunitaria sussiste solo laddove tale ultima normativa sia dotata di efficacia diretta nell’ordinamento interno”. “Ed è indubbio, prosegue, dopo la pronuncia della Corte costituzionale (n. 227/2010), che l’art. 12 della direttiva Bolkenstein è self-executing”. In definitiva, prosegue la Corte, sussiste il reato di occupazione abusiva di area demaniale, per due ordini di ragioni. La prima è che le concessioni demaniali erano scadute e non potevano ritenersi prorogate, in quanto la proroga delle concessioni in scadenza al 31 dicembre 2015, fino al 31 dicembre 2020 (Dl 194/2009, convertito in legge 25/2010), “vale per le concessioni “nuove” (nel senso di successive al decreto), e cioè “in essere alla data di entrata in vigore del decreto e in scadenza”. Mentre tali non erano le concessioni originariamente emesse a favore del ricorrente. Né sul punto ha innovato il Dl n. 113/2016 (conv. dalla legge n. 160/2016) che si limita a prevedere che “conservano validità i rapporti già instaurati e pendenti”, rapporti dunque, argomenta la Cassazione, riferiti alle sole concessioni “nuove”. Inoltre, come visto, la normativa di cui l’articolo 24, comma 3 septies, del Dl 113/2016 “deve essere disapplicata, poiché, laddove stabilizza gli effetti della disciplina dichiarata in contrasto con il diritto euro-unitario, incorre essa stessa nello stesso vizio di incompatibilità” con la Bolkenstein e il Tfue. Sardegna: il Consiglio emana bando per il Garante dei detenuti sardegnalive.net, 15 maggio 2018 Don Cannavera e Partito Radicale sostengono la candidatura di Irene Testa. Il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito ringrazia il Consiglio regionale della Sardegna e, in particolare, il Presidente Gianfranco Ganau per aver dato corso alla legge regionale del 2011 che istituisce il Garante dei detenuti, facendo pubblicare il bando per la presentazione delle candidature. Il PRT “Sostiene con Don Ettore Cannavera la candidatura di Irene Testa, militante del Diritto a iniziare da quello degli ultimi, fondatrice dell’associazione radicale il Detenuto Ignoto, impegnata sin dai tempi universitari presso l’Università di Cagliari con una tesi su “Il sistema carcerario come organizzazione aziendale”, in cui sottolineava l’importanza fondamentale del lavoro per il trattamento dei detenuti nel rispetto del dettato costituzionale, conoscitrice e studiosa del sistema penitenziario, delle carceri italiane e di quelle sarde in particolare che ha visitato più volte, a lungo consulente parlamentare in materia penitenziaria e per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari”.? Monza: formazione, al via i corsi per i detenuti di Valentina Gioia Il Giornale, 15 maggio 2018 Non smettere di credere nella funzione rieducativa della pena. Vincere la disperazione, l’autodistruzione, la sofferenza. Questo è quello che si evince dall’articolo 27 della nostra Carta Costituzionale. Tale norma fa riferimento ad un concetto di relazione, presupponendo la necessità del reinserimento del reo nella comunità dalla quale si era estraniato, oltre ad eliminare o ridurre il pericolo che il soggetto possa ricadere in futuro nel reato. Imprese, enti e istituzioni del territorio, insieme hanno siglato ieri presso la casa circondariale di Monza il primo protocollo d’intesa, unico a livello nazionale, che va a promuovere un modello di collaborazione e comunicazione ben definiti. Nel concreto, questa sinergica cooperazione, favorirà la formazione e il reinserimento sociale di adulti e minori detenuti con l’assunzione o la proroga di un contratto di lavoro presso imprese, enti pubblici o privati, cooperative o associazioni. “Mi è capitato più volte, in questi mesi, di visitare la nostra casa circondariale, in occasione dei progetti promossi e di ascoltare direttamente le voci dei detenuti - spiega il sindaco di Monza Dario Allevi - La richiesta più frequente era quella di dare loro un’altra chance. Credo che questo protocollo sia la risposta più concreta che il sistema Brianza potesse mettere in campo in questa direzione”. A sostegno dei reclusi saranno inoltre individuati alcuni corsi di formazione specifici, che potranno preparare il soggetto nello svolgimento del proprio lavoro. Dal 2015 al 2017 si sono svolti all’interno del carcere di Monza diversi laboratori (falegnameria, pastificio, sartoria, vetreria, lavanderia, assemblaggio componenti elettrici, etichettatura), raccogliendo svariate adesioni tra i detenuti. Le imprese, in tutto questo, hanno giocato e continueranno ad avere un ruolo significativo. “L’imprenditore non è solo un importante attore economico, ma sempre più deve diventare un attore sociale che vive in modo consapevole e pro-attivo la propria comunità e l’ecosistema in cui opera - spiega Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza - Il protocollo ben interpreta questo ruolo. Diamo pertanto, nostra piena disponibilità a coinvolgere in questo progetto quante più aziende del nostro territorio”. La rieducazione si traduce, pertanto, in una solidaristica offerta di opportunità, affinché al soggetto sia data la possibilità di un progressivo reinserimento sociale, correggendo la propria anti-socialità e adeguando il proprio comportamento alle regole giuridiche. Roma: laurearsi in carcere, prima edizione del premio “Sulle Ali della Libertà” quotidianosanita.it, 15 maggio 2018 Le ministre Fedeli e Lorenzin premieranno oggi a Roma il detenuto della Casa circondariale di Rebibbia che ha conseguito la laurea in Antropologia culturale e il dottorato in Teoria e ricerca sociale. L’iniziativa è ideata e promossa dall’Associazione Isola Solidale ed ha ottenuto la Medaglia di rappresentanza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Oggi, martedì 15 maggio 2018, alle ore 12, presso la sede di rappresentanza del Banco BPM, Piazza del Gesù, 49 a Roma, si terrà la I edizione del premio nazionale “Sulle ali della libertà” che ha come obiettivo quello di promuovere la cultura negli istituti di pena. Quest’anno il premio verrà assegnato ad un detenuto della Casa circondariale di Rebibbia che ha conseguito in carcere la laurea in Antropologia Culturale e il dottorato in Teoria e ricerca sociale. L’evento è promosso e ideato dall’Associazione Isola Solidale, che a Roma da oltre 50 anni accoglie i detenuti (grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000) che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunti a fine pena, si ritrovano privi di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. L’iniziativa, che ha ottenuto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la Medaglia di rappresentanza, riconoscimento che viene attribuita a iniziative ritenute di particolare interesse culturale, scientifico, artistico, sportivo o sociale, è patrocinato dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, Ministero di Grazia e Giustizia, Ministero della Salute, dalla Regione Lazio, dalla Comunità ebraica di Roma, da Roma Capitale, dalle Acli di Roma, dal Coordinamento nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.), dalla Fondazione Ozanam, dall’associazione Antigone e da Fidu (Federazione Italiana Diritti Umani). Intervengono, tra gli altri: Valeria Fedeli Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca; Beatrice Lorenzin Ministro della Salute; Alessandro Pinna presidente dell’associazione Isola Solidale; Riccardo Vita Turrini direttore generale della formazione del Ministero di Grazia e Giustizia; Fabio Perugia portavoce italiano del congresso ebraico mondiale; Mons. Paolo Cesar Barajas del Dicastero Vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale; Paolo Ciani consigliere regionale del Lazio delegato dal presidente della Regione. Avellino: a Bellizzi consegna degli attestati di qualifica regionale per i detenuti scrivonapoli.it, 15 maggio 2018 Ciambriello e Marciani al carcere di Bellizzi Irpino alla cerimonia di consegna della qualifica regionale per i detenuti e in visita al padiglione femminile. Si è tenuta, presso la Casa circondariale “Antimo Graziano” - di Bellizzi Irpino Avellino, la cerimonia per la consegna degli attestati di qualifica regionale per i detenuti nell’ambito del progetto: Garanzia Giovani “Key competence mix”, promosso dall’ente di formazione Adim srl. L’attestato di qualifica è stato consegnato dall’assessore regionale alla formazione Chiara Marciani e dal garante dei detenuti regionale Samuele Ciambriello. Alla cerimonia di consegna erano presenti il direttore del carcere Paolo Pastena, il capoarea della sezione educativa Ranucci, il comandante Attilio Napolitano, Carlo Mele, garante dei detenuti provinciale e Luciano Mattina direttore dell’ente di formazione Adim srl. Ad aprire la cerimonia di consegna è stato Pastena che ha dichiarato : “Il percorso di Garanzia Giovani è stato accolto dalla direzione positivamente perché pensato e ideato per una fascia d’età giovanile 18-29 anni che ha bisogno di alternative positive, professionalizzati, bisogna insistere nella rieducazione dei ragazzi perché sono giovani e hanno bisogno di alternative legali e concrete, una vera e propria opportunità per chi vuole realmente cambiare”. “Con la cultura si cresce e chi lo fa realmente davvero riesce a voltare pagina” ha sottolineato Mele; “la Regione Campania intende valorizzare i percorsi formativi per i giovani per aumentarne le competenze in un’ottica di qualifica professionalizzante, è questo uno degli obiettivi che la politica regionale sta portando avanti e che sarà presente nel prossimo catalogo formativo regionale - ha evidenziato l’assessore Marciani. “I percorsi formativi per i giovani e in questo caso per i “diversamente liberi”, sono vere e proprie opportunità per i detenuti, secondo una giustizia ripartiva ed rieducativa - ha detto Ciambriello, bisogna canalizzare le risorse positive di chi vuole cambiare e apprendere un mestiere che sia alternativo ai propri negativi trascorsi”. “Il corso regionale iniziato il 14 marzo che si è concluso il 7 maggio è uno dei percorsi che abbiamo previsto in carcere avviato anche a Poggioreale e Secondigliano - ha detto Mattina, abbiamo scelto gli istituti penitenziari perché riteniamo che bisogna lavorare in contesti difficili e dare opportunità ai dei ragazzi, perché ristretti con maggiore bisogno di un’alternativa e costruire reali attività educative”. Ancona: le favole dei detenuti diventano un motion comic di Teresa Valiani Redattore Sociale, 15 maggio 2018 Ricca di collaborazioni la seconda edizione di “Fiabe in Libertà”, progetto realizzato nella casa circondariale di Montacuto dagli operatori di Radio Incredibile, Musicandia e del Laboratorio Minimo Teatro. Al lavoro anche gli studenti del liceo artistico di Ascoli Piceno. “Un viaggio tra le storie dell’infanzia, quando gli errori non avevano nomi e ci si poteva ancora inventare chi e cosa diventare”. Tornano le Fiabe in Libertà scritte dai detenuti e diffuse fuori dal carcere, nel progetto lanciato nelle Marche dall’associazione culturale Radio Incredibile. Torna la potenza della scrittura e il suo carisma assoluto, quando le parole infrangono i muri e superano tutte le barriere. Dopo il successo del primo audiolibro, il progetto si presenta rinnovato e con significative contaminazioni: prima fra tutte la collaborazione degli studenti del Liceo artistico ‘Osvaldo Licini’ di Ascoli Piceno. “Da un carcere a un liceo artistico, dal sogno della Fiaba alla tecnica del Motion Comic - spiega Claudio Siepi, responsabile del Laboratorio di Idee di Radio Incredibile -. Tutto questo è stata la seconda edizione di Fiabe in Libertà. Le Fiabe sono diventate voce, le voci un audiolibro, le immagini un Motion Comic. E tutto ha trovato spazio in un sito dedicato (fiabeinliberta.it): quello che d’ora in poi ospiterà tutta questa magia”. Il progetto nasce nel 2015 nella casa circondariale di Montacuto (Ancona) e, nell’anno successivo, coinvolge anche quella di Ascoli Piceno. I detenuti scrivono i racconti e gli operatori di Radio Incredibile, Musicandia e del Minimo Teatro li aiutano a trasformarli in un audiolibro, affidando ad un dispositivo magnetico il forte desiderio di cullare con la voce e con la musica i propri figli lontani, la sera, prima di dormire. È così che i dialetti, le inflessioni, gli accenti e i pensieri si fondono in una stessa storia, dando vita ai personaggi e speranze agli autori. “Fiabe in Libertà - spiega Siepi - è un progetto realizzato grazie alla Fondazione Cariverona, nell’ambito di Esodo, il programma vicino ai percorsi giudiziari di inclusione socio-lavorativa per detenuti, ex detenuti e persone in misura alternativa. La seconda edizione è stata ideata, curata e seguita grazie alla collaborazione della Casa circondariale di Montacuto, in particolare dell’Area educativa e del personale di sicurezza”. “Fiabe in libertà 2.0” raccoglie quattro storie scritte tra le sbarre, illustrate dai ragazzi della quarta classe del corso di Arti figurative, diventate un Motion Comic grazie agli studenti della quinta classe di Arti multimediali dello stesso Istituto. Il training teatrale e la costruzione delle storie e dei personaggi sono stati seguiti dal Laboratorio Minimo Teatro mentre Musicandia ha realizzato le attività di audio-engineering e post-produzione. La realizzazione web è stata realizzata dallo studio di Patrizia Principi, che ha curato nella precedente edizione 1.0 l’interfaccia del dispositivo multimediale e Hacca Edizioni ha seguito la realizzazione editoriale. “Abbiamo consegnato le fiabe scritte dai detenuti ai ragazzi del liceo artistico - racconta Claudio Siepi - e loro hanno realizzato le tavole. Hanno scelto una storia e ci hanno fatto un motion comics, la forma di animazione che combina elementi pittorici e animazione. Ora stiamo già lavorando alla terza edizione. Ed è bello immaginare un progetto che inizia in un carcere e finisce in una scuola”. Novara: “Voltapagina”, il carcere per la prima volta “aperto” alla città Corriere di Novara, 15 maggio 2018 Lo scrittore Catozzella ha incontrato detenuti e studenti nell’ambito di “Voltapagina”, progetto del Salone Internazionale del Libro di Torino. “Una giornata storica per il carcere di Novara che, per la prima volta, si apre al pubblico”. Ha esordito così Rosalia Marino, direttrice dell’istituto di pena di via Sforzesca, sabato mattina nel presentare l’incontro con lo scrittore Giuseppe Catozzella nell’ambito di “Voltapagina”, progetto del Salone Internazionale del Libro di Torino, che dal 2007 porta gli autori della narrativa italiana nelle carceri, durante i giorni della fiera torinese. L’iniziativa di impegno sociale, è organizzata in collaborazione con il Ministero di Giustizia. Nelle settimane che precedono gli incontri, i detenuti che hanno volontariamente scelto di partecipare a “Voltapagina” vengono guidati alla lettura e all’approfondimento dei libri proposti da un gruppo di assistenti sociali, educatori e volontari dei penitenziari. In questo caso hanno lavorato sul nuovo libro di Catozzella dal titolo “E tu splendi”. Sabato mattina, nella tensostruttura collocata all’interno della casa circondariale, oltre al gruppo di detenuti partecipanti al progetto, era presente anche un pubblico esterno al carcere formato da persone che avevano prenotato e da un gruppo di studenti della scuola “Castelli”. Accanto a Catozzella a dialogare con lui Salvatore “Sasà” Striano, ex detenuto per reati di camorra e da alcuni anni attore attore di teatro, cinema e televisione. Nel corso dei vari interventi, pur parlando di letteratura, è emerso l’universo carcerario con tutte le sue problematiche. Nel suo intervento la direttrice Marino ha sottolineato le diverse analogie tra la vicenda narrata nel libro e il mondo della prigione. La storia è quella di un bambino emigrato al Nord che torna, dopo aver appena perso la madre, in Lucania dai nonni, per una vacanza, in un’estate che segnerà il suo passaggio verso la vita adulta entrando a contatto con “il diverso” nelle figure di un gruppo di migranti. Non caso la direttrice Marino ha evidenziato come il detenuto, in maniera uguale al protagonista del romanzo debba “crearsi un mondo diverso per sopravvivere. La privazione della libertà una realtà difficile da accettare e l’essere umano deve trovare il modo mentalmente di farlo. Inoltre, in merito al rapporto con chi è diverso, il carcere è un esempio di integrazione sociale. In uno spazio davvero ridotto bisogna condividere tutto con persone di lingua, religione, ceto sociale diversi”. Nel chiudere il suo intervento Rosalia Marcino ha voluto “ringraziare Giuseppe Catozzella per essere venuto in carcere. grazie a lui possiamo far conoscere all’esterno l’enorme l’impegno di Polizia penitenziaria, educatori, volontari, che fanno un lavoro sconosciuto, così come è sconosciuto alla società esterna il mondo carcerario”. “Tutti abbiamo il bene e il male dentro” - Giuseppe Catozzella si è dichiarato emozionato “non capita spesso di fare incontri come questo. Tutti abbiamo il bene e il male dentro e siamo capaci di fare l’una o l’altra cosa. Io racconto storie, e credo che la storia più bella sia quella di coloro che hanno conosciuto il male e hanno scelto di fare un cammino inverso. Credo che cambiare sia difficilissimo, perché costa fatica, sforzo. Siamo in un’epoca in cui la fatica è vista come una cosa da sfuggire. Ognuno di noi è unico, sta al singolo individuo far splendere la propria persona. Un lavoro non semplice ma che da delle soddisfazioni”. Due detenuti hanno letto alcuni brani del libro e dialogato con lo scrittore, come hanno fatto gli studenti presenti. Al termine la direttrice ha annunciato che “questa è solo la prima iniziativa di apertura al pubblico. Altre ne seguiranno”. Salerno: “Liberare la pena”, secondo convegno sull’inclusione sociale dei detenuti salernotoday.it, 15 maggio 2018 Il convegno ha visto la partecipazione, oltre che del cappellano del carcere di Fuorni don Rosario Petrone e del direttore Stefano Martone, anche del sacerdote Virgilio Balducchi, già ispettore generale delel carceri italiane. Grande successo per il secondo convegno Liberare la Pena, la manifestazione organizzata dall’Associazione Migranti senza Frontiere, dalla Diocesi di Salerno, dalla Caritas Diocesana e dall’Ispettorato dei Cappellani Carcerieri Italiani, che si è tenuto venerdì 11 maggio presso la Colonia San Giuseppe di via Allende a Salerno. Il convegno, organizzato nell’ambito del Progetto Nazionale Carceri, ha visto la partecipazione, oltre che del cappellano del carcere di Fuorni don Rosario Petrone e del direttore Stefano Martone, anche del sacerdote Virgilio Balducchi, già ispettore generale delle carceri italiane. Grande emozione hanno suscitato le parole di Pietro Crescenzo, psicologo della Domus Misericordiae, che ha spiegato come dietro ogni detenuto c’è una storia, a volte costellata di privazioni di natura sociale o economica, e che spesso si inizia a delinquere perché non si trova altra via d’uscita dalla propria condizione ed è l’unico modo che gli hanno insegnato di stare al mondo. Proprio per questo, all’interno della Domus Misericordiae, ha iniziato a far leggere e far scrivere ai detenuti delle favole. “Il racconto - ha spiegato Crescenzo - deve tramandare un’esperienza ed è l’unico modo che abbiamo per trasmettere al futuro le nostre esperienze. Questo è il potere della narrazione - ha concluso - ed è un potere enorme”. Nuoro: i detenuti di Mamone “cari studenti non usate la droga” di Bernardo Asproni La Nuova Sardegna, 15 maggio 2018 “Il carcere va a scuola”, progetto di educazione alla legalità I reclusi della Colonia penale con gli allievi dell’Itc Satta. “Il carcere va a scuola” è il nome del progetto che ha visto protagonisti gli alunni dell’Istituto Itc Satta di Nuoro e i detenuti-alunni della Casa di reclusione di Mamone. L’iniziativa è stata portata avanti, riprendendo il tema “Educazione alla legalità e bullismo”, dal dirigente scolastico del Cpia Antonio Alba e dalle docenti Maria Lucia Sannio e Raffaela Podda, in collaborazione con la dirigente dell’Itc Satta Pierina Masuri e con le docenti Carmela Podda, Gabriela Mastio e Gavina Manunta. “Il progetto mira a far conoscere la realtà del carcere e dell’esclusione sociale, e a far riflettere sul tema della legalità attraverso scritti e testimonianze” hanno precisato i docenti. Ed è con questa prospettiva che sette detenuti-alunni della scuola di Mamone, in permesso premio, hanno partecipato al dibattito con gli studenti dell’Itc Satta di Nuoro sul tema della legalità e bullismo. Sono stati letti i testi scritti dagli alunni di Mamone. Il momento più coinvolgente è stato il confronto tra i detenuti e i ragazzi. L’incontro appassiona molto gli alunni in uno scambio di esperienze e curiosità difficilmente vivibili se non in un momento così privilegiato. I detenuti hanno esposto con serenità i momenti di difficoltà della propria vita, senza vergogna ma con molta attenzione e pudore a sottolineare gli errori che li hanno portati in prigione (in modo particolare l’uso e lo spaccio della droga) e il mancato ascolto delle sollecitazioni parentali più volte disattese. I ragazzi hanno fatto tante domande ai detenuti con molte curiosità, dalle più banali alle più profonde della vita carceraria ma soprattutto sulla mancanza della libertà, mancanza degli affetti e delle cose più banali che una persona che vive fuori non immagina minimamente quanto possano essere importanti (tipo il desiderio di un gelato d’estate o di una bibita fresca o un cappuccino caldo o l’acqua calda per la doccia d’inverno). Il consiglio dei detenuti è: “non usare droga perché è una morte lenta e non spacciare perché la droga porta solo sofferenza e la fine della vita”. Trapani: “Espiazione dell’Arte” detenuti coinvolti in un progetto artistico lasberla.com, 15 maggio 2018 Al Palazzo della Vicaria, nel centro storico di Trapani, si è svolta la mostra conclusiva della seconda edizione del progetto “Espiazione dell’Arte”. Dopo la positiva esperienza della prima edizione del progetto, realizzato nell’anno rotariano 2016/2017, il Rotary Club Trapani Birgi Mozia, presieduto da Dorotea Messina, ha riproposto la programmazione anche nel suo anno rotariano, in collaborazione con i Clubs di Castelvetrano, Marsala e Trapani. Alla presenza del direttore del Carcere di San Giuliano, Renato Persico, del Comandante Giuseppe Romano e del capo area tratta mentale Antonio Vanella, e dei Presidenti dei Rotary Club sono state illustrate le modalità di intervento del progetto che si è posto come obiettivo quello “di fare della creatività artistica un luogo di condivisione, un’esperienza unica e straordinaria e, al tempo stesso, promozione delle energie finalizzate alla valorizzazione dell’arte, della cultura e della crescita”. Presenti anche alcuni detenuti che hanno partecipato al progetto ai quali i Magistrati di Sorveglianza hanno concesso un permesso.20180512_104804 Il progetto, coordinato dal dottor Francesco Paolo Sieli, si è svolto all’interno della Casa Circondariale di Trapani, con attività principalmente orientate “verso l’arte come strumento di integrazione, di riabilitazione sociale e riscatto, ha offerto a soggetti limitati nella libertà, una concreta opportunità per accrescere e approfondire le doti artistiche, grazie allo svolgimento di attività creative”. I laboratori artistici sono stati diretti dalla coordinatrice artistica Rosadea Fiorenza e dall’artista Giovanna Colomba. La presentazione del progetto “Espiazione dell’Arte”, costituisce “un importante momento di sintesi e di conferma dei risultati, ottenuti attraverso un duro percorso disciplinare, un evento unico che dimostra come l’arte non conosca confini, un’arte espressa tra le “mura” che ha generato sensazioni particolarmente intense, che vanno oltre la semplice ammirazione per le forme, i colori, le prospettive disegnate, schizzate, dipinte, diventando una opportunità di riflessione e di presa di coscienza”. Oltre alla presentazione delle opere artistiche, è stato presentato il catalogo del progetto con all’interno inseriti testi, immagini ed esito finale del percorso formativo. Palermo: un gruppo di detenuti del Pagliarelli in visita a Palazzo Reale blogsicilia.it, 15 maggio 2018 L’arte rende liberi. Un gruppo di detenuti del Carcere di Pagliarelli per una giornata in visita premio a Palazzo Reale. Alcuni detenuti che hanno frequentato il corso “L’uomo in relazione con se stesso, con Dio, con gli Altri” curato dal professore Alfio Briguglia avranno la possibilità, il prossimo mercoledì 16 maggio, di visitare la Cappella Palatina e la mostra “Sicilië, pittura fiamminga” al Palazzo Reale di Palermo. Un’esperienza premiale, promossa dal Direttore della Casa Circondariale Pagliarelli di Palermo, Francesca Vazzana e denominata “Alla scoperta del Bello: conoscere la bellezza per diventare Uomini di bellezza” che è stata, con grande slancio ed emozione, accolta dal Direttore Generale della Fondazione Federico II, Patrizia Monterosso. Oggi i temi legati al carcere e ai detenuti sono molto attuali, se ne parla, però troppe volte, sottolineando principalmente i risvolti peggiori come il sovraffollamento, i suicidi e gli atti di autolesionismo. Questa iniziativa portata avanti dalla Casa Circondariale di Pagliarelli punta, invece, al risarcimento educativo dei detenuti. “La reale funzione del carcere dovrebbe essere - sottolinea il Direttore Generale della Fondazione Federico II - quella di produrre libertà individuale e sicurezza collettiva. Un’azione che dovrebbe, ancora una volta, avere come obiettivo quello di praticare il reinserimento sociale e di favorire la coesione. Abbiamo il dovere di fare la nostra parte e offrire un contributo laddove viene segnalata la possibilità di un reale reinserimento nella società civile”. E, in effetti, il fondamento iniziale del lavoro penitenziario, così come recita l’articolo 27 della Costituzione, acquisisce un ruolo sempre più strategico all’interno del percorso di reintegrazione e di rieducazione del detenuto nella società. “La Fondazione Federico II, già da qualche tempo, - continua Patrizia Monterosso - ha avviato una programmazione di interventi in cui la cultura viene espressa anche attraverso l’attenzione e la dedizione al sociale; auspichiamo di farlo, efficacemente, portando avanti iniziative come questa rivolta ai detenuti ma anche con altri progetti condivisi con associazioni dislocate sul territorio che si occupano di categorie disagiate e meno fortunate”. La sinergia tra le Istituzioni che si pongono al servizio del cittadino è, certamente, il fondamento di questa lodevole iniziativa. Ne è convinto il professore Giuseppe Verde, ordinario di Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Palermo. “Questo appuntamento si inquadra in una più ampia azione volta al riavvicinamento alle istituzioni. Questa è un’iniziativa che ha come fine l’umanizzazione della società seguendo due linee imprescindibili: la cultura del bello e il rilievo delle istituzioni siciliane. Tutto questo - conclude Verde - costituisce uno stimolo per una riflessione più complessiva”. Aiutarli a diventare cittadini; invitandoli laddove non sono mai stati accolti. Appunto nei luoghi delle Istituzioni. Ci tiene a sottolinearlo il curatore del corso, professore Alfio Briguglia. “Tengo questi corsi da tre anni. Il titolo potrebbe sembrare ambizioso: “L’uomo in relazione a sé stesso con Dio, con gli Altri”. Ma ciò che cerco di fare non è quello di fare delle lezioni ma di abituarli al dialogo e al confronto con l’altro. Oggi è evidente come tanti di noi siano più inclini a parlare di sé e poco, davvero poco, ad ascoltare gli altri. Ecco, cerco di metterli in relazione con la parte umana e più intima di sé stessi. Dimostrandogli che solo dall’ascolto e dall’accoglienza dell’altro si diventa dei cittadini migliori”. Dopo la visita a Palazzo Reale i detenuti incontreranno Sua Eminenza, Corrado Lorefice in Episcopio; quindi pranzeranno con le loro famiglie grazie alla generosità del direttore della Caritas, Giuseppe Noto. Poi, nel pomeriggio alle 16 e 30, il momento più toccante della giornata. Saranno accompagnati nella chiesa di San Domenico e lì incontreranno la professoressa Maria Falcone e renderanno omaggio alla tomba del magistrato ucciso dalla mafia. A Giovanni Falcone i detenuti esprimeranno alcuni momenti di preghiera e leggeranno lettere indirizzate al giudice. Appello. Combattiamo la povertà, non le persone povere Il Manifesto, 15 maggio 2018 Il consiglio comunale di Trento si accinge ad approvare una delibera che comporterà la modifica del regolamento di polizia municipale, estendendo a praticamente tutta la città, certamente all’intero centro storico, il divieto di effettuare questua, comportamento indicato nel testo proposto dal sindaco alla commissione capigruppo con il termine, ad accezione negativa, di accattonaggio. Il divieto di chiedere elemosina, se approvato, sarà esteso alle zone vicine a: uffici pubblici, scuole, ospedali, residenze per anziani, luoghi di culto o destinati alla memoria dei defunti, pubblici esercizi, esercizi commerciali o artigianali, fiere e mercati. Ma anche in prossimità di intersezioni stradali, semaforiche o meno, o dove la questua sia di intralcio alla circolazione dei veicoli. Ancora, all’interno o in corrispondenza degli accessi alle zone adibite a parcheggio. La proposta di delibera non tiene evidentemente conto delle sentenze n. 519 del 1995 e n.115 del 2011 della Corte Costituzionale per cui la mendicità non può essere oggetto di azioni repressive, se si limita alla semplice richiesta d’aiuto, e neanche dell’esito di un ricorso straordinario presentato al presidente della Repubblica e accolto con sentenza del 9 novembre 2016, che rende illegittima un’ordinanza del sindaco di Molinello (Bo) che prevedeva analoghi provvedimenti. Ciò che prevale, infatti, è un’ideologia del decoro urbano secondo cui le persone povere, le persone che si prostituiscono, fanno parte della categoria degrado e vanno allontanate dallo sguardo di noi, persone benestanti, che non siamo capaci di integrare nel tessuto sociale, lavorativo, economico chi vive o si trova in condizioni di svantaggio socio economico. Se poi queste persone sono immigrate o, peggio, immigrate e “clandestine”, allora il livello di degrado urbano che rappresenterebbero e contro cui si stanno adottando provvedimenti sempre più disumani e solo repressivi, si alza notevolmente. Lo stesso utilizzo della parola accattonaggio al posto di elemosina o questua ha il suo peso nel nascondere quella che è ormai a tutti gli effetti una guerra dichiarata alla solidarietà spontanea non istituzionalizzata, non di sistema. Il tutto è accompagnato dalla retorica della lotta al racket dell’accattonaggio, che evidentemente prevede, per chi vi si appella, che a pagare siano le vittime del racket, non i loro sfruttatori. La proposta di delibera è stata, di fatto, costruita inseguendo gli umori predominanti, adeguatamente orientati dalla propaganda antidegrado dominante ormai da mesi. Non si fa riferimento a dati, a studi del fenomeno in città (studi che non esistono allo stato attuale) o a rapporti delle forze dell’ordine. E quando si oltrepassa quel confine che separa l’umanità dalla disumanità, si perde anche la capacità di comprendere la gravità del negare il diritto sacrosanto che ogni persona ha di chiedere aiuto se si trova in condizioni di bisogno. Si perde il buon senso fino al punto di non rendersi conto dell’assurdità di far pagare una sanzione amministrativa a chi chiede l’elemosina. Si perde la capacità di guardare lontano, non cogliendo la ricaduta negativa che ha sulla percezione della gente il porre l’etichetta di persona che compie un illecito, tant’è che si prevedono divieto e sanzione, a chi semplicemente chiede l’elemosina. Etichettare come persona che compie un illecito chi mendica favorisce infatti la diffusione dell’idea che la povertà sia reato da punire con sanzioni e divieti e, nella percezione comune, le persone povere diventano soggetti fastidiosi, molesti, non idonei alla rappresentazione di città cartolina che le recenti normative nazionali e locali sostengono. Chiediamo al sindaco Alessandro Andreatta, alla giunta, ai consiglieri e alle consigliere del comune di Trento di fermarsi, di non proseguire nella modifica del regolamento di polizia municipale, che già prevede peraltro alcune zone dove è applicato il divieto di questua. Chiediamo a chi ha potere decisionale di non farlo sulla pelle di persone di cui si ignora la storia che le conduce a elemosinare, sapendo che sicuramente tra loro c’è anche chi fa della questua un mestiere, chi è vittima del racket. Ma non è con politiche securitarie e repressive, che colpiscono le vittime, che si risolvono problemi sociali spesso da noi causati attraverso scelte politiche populiste e neoliberiste. La lotta alla povertà richiede coraggio, anche il coraggio di rendersi impopolari. Per la lotta ai poveri è sufficiente un po’ di vigliaccheria e quella, chi più chi meno, l’abbiamo tutte e tutti al bisogno. Abbiate quindi il coraggio di restare umani in una fase storico politica in cui, ci rendiamo conto, è molto difficile farlo. Fermatevi! Sottoscrivono: Antonia Romano, consigliera comunale di Trento, Erri De Luca, scrittore, Moni Ovadia, attore, Lvio Pepino, magistrato, Riccardo Petrella, economista politico, Barbara Spinelli, parlamentare europea, Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano, Giuseppe De Marzo, responsabile politiche sociali di Libera, Daniela Padoan, scrittrice gruppo GUE/NGL, Guido Viale, presidente Osservatorio Solidarietà, Giuliana Beltrame, sociologa, Valentina Benvenuti, Marianna Cassetti, architetta, Antenne Migranti, Collettivo Mamadou di Bolzano, Associazione Per un’Europa dei Popoli di Castrovillari, Centro sociale Bruno di Trento, Trama di terre di Imola, Ex Opg occupato Je so pazzo di Napoli, Rete di solidarietà popolare di Napoli, Associazione Nazione Rom, Associazione Arco Bene Comune, Rete delle città in Comune Manconi: “Rom e Sinti odiati perché non si conosce la storia” di Simona Musco Il Dubbio, 15 maggio 2018 Due giorni per ricordare il loro sterminio. Hanno sfidato i carnefici nazisti, lottando contro una sentenza di morte già scritta. Ma nessuno, 74 anni dopo, ricorda la ribellione del 15 e 16 maggio 1944 di Rom e Sinti nello Zigeunerlager di Auschwitz né la loro persecuzione, dimenticata perfino durante il processo di Norimberga, quando venne negata la costituzione di parte civile dei superstiti di etnia nomade. Proprio per commemorare quella ribellione, l’Unar, Unione nazionale anti-discriminazioni razziali, ha organizzato una due giorni per ricordare e approfondire il tema delle deportazione e l’internamento dei Rom e Sinti, con il coinvolgimento dei membri della Piattaforma nazionale Rom, Sinti e caminanti (Rsc). “Lo scopo - spiega al Dubbio Luigi Manconi, presidente dell’Unar - è quello di ricordare che nei campi di concentramento nazisti furono trucidati centinaia di migliaia di Rom e Sinti, rinchiusi anche nei campi di detenzione italiani. Un fatto della storia europea e italiana che è stato completamente rimosso”. Una pagina di storia caduta nell’oblio, contribuendo a mantenere vivo il pregiudizio nei confronti della popolazione nomade. La rimozione è durata fino al 1994, quando lo Us Holocaust Memorial Museum di Washington ha riconosciuto per la prima volta il “Porrajmos”, la grande devastazione, termine usato per descrivere la persecuzione subita dalle minoranze nomadi. Ma come si spiega tale rimozione? “È come se tutte le stragi, quasi fatalmente, finissero col concentrarsi sul nucleo essenziale della persecuzione - sottolinea Manconi. Così, giustamente, viene ricordato l’eccidio di sei milioni di ebrei. Ma nei campi nazisti furono uccisi anche decine di migliaia di persone con disabilità, comunisti, socialisti, massoni, omosessuali, testimoni di Geova e tanti altri, tra cui, appunto, anche Rom e Sinti. È quasi il meccanismo stesso della memoria che rischia di farsi selettiva, tanto più quando le vittime appartengono ad una popolazione che ha subito un processo di ostracismo durato secoli e secoli, che ancora non è finito. Io ritengo che la rimozione - aggiunge - contribuisca oggi a questa opera di stigmatizzazione di Rom e Sinti: non riconoscere loro questo passato atroce nella più grande tragedia del 900 aiuta ad escluderli, cancellandone più agevolmente il ruolo di vittime della macchina delle stragi del nazismo e della tirannia genocida”. La manifestazione ha dunque il compito di completare la memoria, troncando quel processo di rimozione decennale e raccontando la storia nella sua cruda e atroce interezza. “Sono molto contento che la manifestazione abbia il patrocinio dell’Unione delle comunità ebraiche italiane - conclude Manconi - e durante l’evento verrà letto il messaggio della loro presidente. Si tratta della prima manifestazione pubblica in Italia”. La resistenza di Rom e Sinti durò un giorno e una notte, nel tentativo di impedire un rastrellamento che puntava all’uccisione di tutti i nomadi rinchiusi in quel lager, circa 4mila persone. Ma gli aguzzini nazisti, quella notte, furono costretti alla ritirata da un folto gruppo di persone, che armate di bastoni e pietre uccisero 11 Ss e ne ferirono molti altri. Ma la vendetta nazista si consumò tre mesi dopo quella notte: il 2 agosto 1944, pochi mesi prima della chiusura del campo di concentramento, vennero uccise 2897 persone. Il convegno si aprirà oggi alle 14.00 nella Sala monumentale della Presidenza del Consiglio dei ministri. Oltre al direttore dell’Unar Manconi, interverranno, tra gli altri, Ascanio Celestini, attore, regista e drammaturgo, che per l’occasione reciterà un monologo, e Luca Bravi, docente dell’Università di Firenze, storico del Porrajmos, che relazionerà sullo sterminio di Rom e Sinti. Domani, invece, è prevista la visita ad Agnone, in provincia di Isernia. Un percorso della memoria che partirà alle 9 dalla stazione ferroviaria dismessa per arrivare fino all’ex Convento di San Bernardino, luogo di internamento di Rom e Sinti durante la seconda guerra mondiale. Per l’occasione si terrà una cerimonia commemorativa alla presenza del sindaco Lorenzo Marcovecchio, per passare poi ad un momento di confronto con le autorità locali e gli studenti assieme al dirigente scolastico Tonina Camperchioli. Israele. 55 palestinesi uccisi e 2.400 feriti in scontri per ambasciata Usa a Gerusalemme Il Messaggero, 15 maggio 2018 Inferno a Gaza, l’ira dei palestinesi per l’ambasciata Usa a Gerusalemme Inferno Gaza, la protesta dei palestinesi: oltre 50 uccisi dall’esercito israeliano L’esercito israeliano ha ucciso oggi 55 palestinesi nel giorno in cui a Gerusalemme è stata aperta l’ambasciata americana, trasferita da Tel Aviv, e lo stato ebraico ha festeggiato i suoi 70 anni. Violentissimi scontri hanno infiammato il confine tra Gaza e Israele, con un bilancio di morti e feriti che continua drammaticamente a crescere ora dopo ora. I feriti sono oltre 2.400 (per lo più intossicati da gas lacrimogeni), di cui 27 versano in condizioni gravi. Quello di oggi è lo scontro più sanguinoso tra Hamas e Israele dalla guerra del 2014. Un conflitto generato dall’intenzione di Hamas di oltrepassare il confine dello Stato ebraico e dalla risposta durissima di Israele, determinato a impedirlo ad ogni costo. Due fatti che hanno calamitato l’attenzione mondiale, a partire dal gruppo terroristico al-Qaeda, che ha chiamato i musulmani al Jihad contro l’America di Trump e Israele. Mentre il presidente palestinese ha denunciato che gli Usa a Gerusalemme non hanno aperto un’ambasciata “ma un avamposto”, alludendo ai coloni israeliani, e annunciando per domani lo sciopero generale dei Territori in protesta per gli uccisi a Gaza. L’intero mondo arabo d’altra parte si è schierato contro la mossa americana, condannando i fatti di Gaza. Ma anche l’Ue, la Russia e l’Onu hanno preso le distanze dalla cerimonia di Gerusalemme. “Il regime israeliano - ha tuonato il ministro degli esteri di Teheran Mohammad Javad Zarif - massacra innumerevoli palestinesi a sangue freddo durante una protesta nella più grande prigione a cielo aperto”. Il premier Benyamin Netanyahu ha ribattuto che Israele “continuerà ad agire fermamente per proteggere la sua sovranità e i suoi cittadini”. “Hamas - ha insistito - sostiene che intende distruggere Israele e invia migliaia di persone a violare la barriera difensiva per realizzare questo obiettivo”. Con lui si è schierata in serata la Casa Bianca, attribuendo ad Hamas tutta la responsabilità dei morti. Negli stessi momenti in cui veniva aperta l’ambasciata al confine con Gaza lo scontro era al culmine, e anche in Cisgiordania si sono verificati incidenti. Fin dalla mattina i primi manifestanti palestinesi si sono avvicinati ai reticolati con l’intenzione di tagliare il filo spinato per andare oltre la frontiera. Aerei israeliani hanno lanciato volantini in arabo nel tentativo di dissuadere i dimostranti: “Non lasciate che Hamas vi usi cinicamente come suoi pupazzi”. Sul campo la situazione è via via peggiorata con il passare delle ore. Oltre 40mila manifestanti per l’esercito, circa 100mila per Hamas, si sono scontrati con i soldati in 13 punti di attrito lungo tutta la Striscia: sassi, molotov, ordigni esplosivi contro lacrimogeni e tiratori scelti israeliani. L’esercito dello Stato ebraico ha fatto sapere di aver colpito con un raid aereo “cinque obiettivi terroristici di Hamas” a Jabaliya, nel nord della Striscia, e di aver sventato un attentato presso Rafah, nel sud, uccidendo tre palestinesi. Finita la cerimonia a Gerusalemme, lo scontro è terminato: i dimostranti palestinesi hanno cominciato ad abbandonare il confine rientrando nella città di Gaza con autobus messi a loro disposizione da Hamas. Ma domani, come annunciato dalla stessa Hamas, è possibile che le proteste si ripetano in occasione della ricorrenza della “Nakba”, la “Catastrofe” con cui i palestinesi ricordano la nascita dello stato di Israele. Lo stesso giorno in cui Trump ha voluto inaugurare la sua ambasciata a Gerusalemme. Riunione Lega araba Il segretario generale aggiunto della Lega araba con delega per la questione palestinese e i territori occupati, Said Abou Ali, “ha fatto appello a un intervento internazionale urgente per fermare l’orribile massacro perpetrato dalle forze di occupazione israeliane contro i palestinesi, in particolare nella Striscia di Gaza”. Lo ha riferito una nota diffusa al Cairo. È stata convocata intanto per mercoledì prossimo al Cairo una riunione straordinaria della Lega Araba per discutere del trasferimento dell’ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme. La riunione, ha precisato la fonte, sarà a livello di rappresentanti permanenti dei paesi membri della Lega Araba e avrà l’obiettivo di “contrastare la decisione illegale degli Stati Uniti di trasferire la loro ambasciata a Gerusalemme”. No dell’Anp “La dichiarazione relativa a Gerusalemme del presidente degli Stati Uniti e la sua decisione di trasferirvi la ambasciata Usa il 14 maggio sono una flagrante violazione del diritto internazionale ed un gesto irrispettoso verso i valori centrali di giustizia e di moralità”: lo ha detto il premier dell’Anp Rami Hamdallah rilevando che proprio domani i palestinesi ricorderanno solennemente la ricorrenza della Nakba. L’appello della Francia - La Francia “lancia un nuovo appello alle autorità israeliane a dar prova di discernimento e moderazione nell’uso della forza, che deve essere strettamente proporzionato”. In una dichiarazione, il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, chiede a “tutti i protagonisti di dar prova di responsabilità per prevenire una nuova fiammata” di violenze. Ad Israele, Parigi “ricorda il dovere di protezione dei civili, in particolare dei minori, e il diritto dei palestinesi di manifestare pacificamente”. La Francia ribadisce la sua “disapprovazione” al trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e chiede a Israele di dare prova di “moderazione” dopo i violenti scontri di oggi al confine con la Striscia di Gaza, costati finora la vita a oltre 40 palestinesi. La decisione di trasferire l’ambasciata, ha dichiarato in una nota il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, “viola il diritto internazionale, in particolare le risoluzioni del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea generale dell’Onu”. La condanna della Turchia “Questo è un crimine contro l’umanità” di cui “gli Usa sono corresponsabili” con Israele. Lo ha detto il premier turco, Binali Yildirim, sui morti a Gaza. “È una carneficina, la condanniamo con forza - ha aggiunto il capo del governo di Ankara - È inaccettabile che gli Stati Uniti, che dicono di proteggere la pace nel mondo ed essere dei mediatori, siano parte di questo massacro”. La Turchia ha richiamato per consultazioni i suoi ambasciatori in Usa e Israele. Lo ha annunciato il portavoce del governo di Ankara, che ha inoltre decretato 3 giorni di lutto nazionale. Israele. “E noi viviamo su un baratro, sganciati dalla realtà” di Davide Frattini Corriere della Sera, 15 maggio 2018 Lo scrittore israeliano Keret: surreale la cerimonia a Gerusalemme, con l’ambasciatore che dal palco dichiara “questo è il vero inizio del processo di pace”, mentre a Gaza 52 palestinesi vengono ammazzati. A Gerusalemme è stato pochi giorni fa per presentare il nuovo libro appena pubblicato in Israele. “Alla fermata dei taxi - racconta Etgar Keret - ho ascoltato i commenti di due autisti. Uno diceva all’altro: nello scenario peggiore l’inaugurazione dell’ambasciata americana crea casino per un paio di settimane, in quello migliore scoppia la guerra e migliaia di giornalisti stranieri arrivano qui, così abbiamo tanto da lavorare”. Sembra una scena da quel “guasto sul baratro della galassia”, come più o meno recita in ebraico il titolo della nuova raccolta di racconti. Una delle storie surreali immagina un futuro in cui Donald Trump è al suo terzo mandato - quindi sta trasformando la presidenza in dittatura - e si ritrova a corto di giovani da mandare nelle guerre che gli Stati Uniti combattono in tutto il pianeta: tenta di arruolarli tra i giocatori di Pokémon Go, promettendo loro che in prima linea possono conquistare i personaggi più preziosi. “Tutto il libro è pervaso dalla mia convinzione che il mondo abbia perso il centro, che la gente vada in giro con un’ideologia o una fede religiosa incontestabile dagli altri e per quella sia pronta a calpestare chiunque”, spiega lo scrittore israeliano. Durante i quasi sessanta giorni di guerra tra Israele e Hamas nell’estate del 2014 ha ricevuto assieme alla famiglia minacce di morte da estremisti della destra israeliana dopo che la moglie Shira, sceneggiatrice e regista, aveva letto a una premiazione i nomi dei palestinesi uccisi nel conflitto. “La cerimonia a Gerusalemme, con l’ambasciatore che dal palco dichiara “questo è il vero inizio del processo di pace”, mentre a Gaza cinquantadue palestinesi vengono ammazzati negli scontri dimostra quanto in questo Paese stiamo vivendo distaccati dalla realtà”. È preoccupato che la decisione di Trump abbia privato “gli Stati Uniti del ruolo di superpotenza almeno in teoria al di sopra delle parti. Come puoi essere l’arbitro imparziale, se dichiari in pubblico di aver scelto con chi stare. Ai palestinesi dici “di quel che volete non ci importa”. Così quegli israeliani che non cercano una soluzione possono esultare”. Riconosce che se “perfino lui dovesse portare la pace nel mondo non potrei che essere felice, ma dubito che bullizzare e minacciare funzioni. Se dico a mio figlio “finisci i compiti o ti meno”, riesco forse a ottenere che li faccia quel giorno. Non credo però che lo renderà un essere umano migliore nel lungo periodo”. Da figlio di sopravvissuti all’Olocausto - il padre è rimasto nascosto in una fossa per quasi due anni, la madre è scampata al ghetto di Varsavia - trova inaccettabili le parole di Abu Mazen che in un discorso ha proclamato “l’ostilità contro gli ebrei non nasceva dall’appartenenza religiosa ma dai mestieri che esercitavano, l’usura e maneggiare il denaro attraverso le banche”: “È un antisemita. Resto però preoccupato dalle alternative al presidente palestinese. Potremmo ritrovarci con Hamas al potere, forze fondamentaliste che credono solo nel terrorismo e nella guerra”. Riesce a trovare un aspetto positivo nello spostamento dell’ambasciata: “Noi abitanti di Tel Aviv saremo costretti a salire più spesso a Gerusalemme dove richiedere i visti d’ingresso per gli Stati Uniti. Da laici bilanceremo la presenza sempre più numerosa degli ultraortodossi. E questo incontro potrebbe anche aiutare la convivenza, il conoscersi e riconoscersi, tra due delle tante tribù di Israele”. Egitto. Prigionieri a vita, così al-Sisi fa sparire oppositori e attivisti di Pino Dragoni Il Manifesto, 15 maggio 2018 La custodia cautelare a tempo indeterminato è ormai la norma, una forma di tortura denunciata dalle associazioni locali. Dal 2013 oltre 10.400 i detenuti per proteste: venerdì 22 arrestati, manifestavano per il rincaro del 350% del costo della metro. Per i lavoratori un quarto del salario. Sono almeno 22 le persone fermate dalla polizia nella giornata di venerdì al Cairo per le proteste contro l’aumento improvviso del costo dei biglietti della metropolitana. Alcuni disordini sono scoppiati spontaneamente in diverse stazioni metro della capitale egiziana in seguito all’annuncio di un incremento del 350% del prezzo dei biglietti. Molti pendolari hanno iniziato a scavalcare i tornelli e a urlare slogan contro i rincari, in alcuni casi bloccando i binari e scatenando la reazione della polizia. Il regime, recitando il solito copione, accusa i Fratelli Musulmani di aver istigato le proteste, in realtà segnale di un diffuso malessere sociale. Il governo dichiara che gli aumenti serviranno a migliorare il servizio e compensare le perdite della società dei trasporti. Ma è evidente il nesso tra questa decisione e le misure di austerità che dal 2016 il regime sta portando avanti per poter accedere ai prestiti del Fondo Monetario Internazionale, che hanno già causato un’inflazione oltre il 30% e una gravissima perdita di potere d’acquisto per classi lavoratrici e il ceto medio. Gli aumenti arrivano proprio a pochi giorni dall’inizio del mese di Ramadan, un periodo dell’anno in cui le famiglie hanno più spese da sostenere. Secondo un’attivista locale, che ha commentato la notizia sul suo profilo Facebook, il regime ha già in programma altri tagli sostanziosi ai sussidi sui carburanti, che entreranno in vigore subito dopo la fine del mese sacro per i musulmani. Il movimento dei Socialisti Rivoluzionari denuncia che con le nuove tariffe il costo mensile per i pendolari sarà l’equivalente di un quarto del salario minimo, un’assurdità per un paese in cui il 30% della popolazione vive ormai al di sotto della soglia di povertà. Intanto, secondo l’Egyptian Center for Economic and Social Rights, attualmente 10 persone (sette uomini e tre donne) sarebbero ancora detenute per le proteste di venerdì. Rischiano condanne fino ai 5 anni con le accuse di assembramento, manifestazione e interruzione di pubblico servizio. La legge che proibisce le proteste, emanata nel novembre 2013, in tre anni ha portato in carcere circa 10.400 persone. Lo rivela una dettagliatissima inchiesta pubblicata in questi giorni sul portale indipendente Mada Masr, “Prigionieri per sempre”, che si concentra sull’uso della custodia cautelare come misura punitiva per gli oppositori politici. La detenzione preventiva per gli imputati in attesa di processo è infatti diventata negli ultimi anni una prassi consolidata, che colpisce soprattutto gli islamisti, ma anche attivisti laici e di sinistra, giornalisti e ricercatori. In mancanza di dati ufficiali, l’inchiesta getta luce su un fenomeno che solo recentemente ha iniziato ad emergere nella sua ampiezza. Da misura preventiva la custodia cautelare è diventata un modo per prolungare a oltranza la detenzione dei prigionieri politici, senza alcuna possibilità di appello contro i continui rinnovi del provvedimento. Il caso tristemente più noto è quello di Shawkan, il giovane fotoreporter in carcere da cinque anni la cui udienza è stata rimandata più di 60 volte. In migliaia di casi nel periodo monitorato la detenzione supera gli stessi limiti stabiliti per legge. Più il processo è politico, più le decisioni finiscono per essere arbitrarie e a discrezione del giudice, è il commento degli autori. E dietro le sbarre la vita per i prigionieri politici è un inferno. È di una settimana fa la denuncia del centro Nadeem per le vittime di tortura per le condizioni del leader islamista moderato Abdel Moneim Aboul Futuh. Arrestato a febbraio durante la campagna per le presidenziali, il 67enne a capo del partito Egitto Forte, detenuto nel famigerato carcere di Tora, ha avuto quattro attacchi cardiaci in meno di tre mesi. Nonostante le gravi condizioni di salute, i giudici rifiutano il trasferimento in ospedale e l’anziano oppositore continua a essere mantenuto in isolamento in “condizioni disumane”. La negligenza medica intenzionale “equivale ad una lenta condanna a morte”, una “tortura indiretta” secondo Nadeem, che ha censito 59 casi simili nei primi tre mesi del 2018. Egitto. Ballerini, avvocata dei Regeni: dal Cairo attacco a noi difensori di Errico Novi Il Dubbio, 15 maggio 2018 Arrivano oggi, le autorità giudiziarie italiane. Arrivano al Cairo, per una “visita” programmata da più di una settimana, da quando cioè il procuratore generale egiziano Nabeel Sadek ha assicurato al capo dei pm di Roma Giuseppe Pignatone che avrebbe messo a disposizione le riprese effettuate dalle telecamere a circuito chiuso nella Capitale egiziana in cui compare Giulio Regeni, le ultime immagini del ricercatore italiano trovato torturato e ucciso il 3 febbraio 2016. Una svolta alle indagini, le sole da cui la famiglia di Giulio possa aspettarsi la verità, ossia quelle condotte dalla Procura della Capitale italiana. Ebbene, poche ore prima che il sostituto di Pignatone Sergio Colaiocco si imbarcasse per il Paese nordafricano, si è messo in moto quello che con amaro sarcasmo potremmo definire il protocollo di benvenuto: nella notte tra giovedì e venerdì è stato arrestato uno dei consulenti legali egiziani dei familiari di Giulio, Mohamned Lofty. Hanno liberato lui ma trattenuto sua moglie, finita in isolamento. Un atto a cui hanno risposto Paola Regeni, la madre di Giulio, e Alessandra Bal- lerini, avvocata della famiglia del ricercatore e a sua volta protagonista dell’ostinata ricerca della verità messa in atto in questi due anni: “Abbiamo appena iniziato un digiuno a staffetta per chiedere l’immediata liberazione di Amal Fathy, moglie del nostro consulente legale al Cairo Mohamed Lofty”, spiega Ballerini. “Mohamed è il direttore della Commissione per la libertà e i diritti umani attiva presso la capitale egiziana. Come donne, siamo particolarmente turbate e inquiete per il protrarsi della detenzione di Amal. Nessuno deve più pagare per la nostra legittima richiesta di verità. E per questo chiediamo di digiunare con noi finché Amal non tornerà libera”. A raccogliere per prima l’appello è stata la senatrice del Pd Monica Cirinnà: “Aderisco con indignata passione”, ha detto. Alcuni giorni fa il ministro degli Esteri italiano tuttora in carica, Angelino Alfano, aveva salutato con entusiasmo la disponibilità del procuratore egiziano a far acquisire le immagini di Giulio. Quarantott’ore dopo è arrivato l’arresto di Fathy e della sua famiglia. “Nella notte tra giovedì e venerdì scorsi le forze di sicurezza della National security hanno fatto irruzione in casa di Mohamed”, racconta ancora l’avvocato Ballerini, “hanno prelevato lui, Amal e il loro bimbo di tre anni. Mohamed collabora con noi dal 2016, è grazie alla sua associazione se a dicembre siamo riusciti a ottenere copia del fascicolo aperto dalla magistratura egiziana. Ebbene”, spiega Ballerini, “giovedì pomeriggio io e Mohamed avevamo avuto una lunga conferenza telefonica per aggiornarci sugli ultimi sviluppi, poi fino a tarda sera ci siamo scambiati in chat informazioni riservate. Poche ore dopo, gli agenti hanno fatto irruzione a casa Lofty. Hanno perquisito tutto, sequestrato il telefono in cui sono conservate tutte le conservazioni intercorse con me, hanno impedito a Mohamed di effettuare altre chiamate e lo hanno arrestato con moglie e figlioletto”. Lofty è stato rilasciato poche ore dopo insieme con il piccolo, in virtù della doppia cittadinanza svizzera- egiziana, e della mobilitazione immediata dell’ambasciata svizzera al Cairo. Un tempismo a cui sarebbe doveroso corrispondesse la mobilitazione delle più alte rappresentanze istituzionali italiane, presidenza della Repubblica compresa. Ballerini intanto è in ansia, insieme con Paola Regeni, perché appunto la moglie di Lofty, Amal, è tuttora in arresto. “L’hanno tenuta in isolamento, con l’accusa di aver diffuso notizie false sui social e aver attentato alla sicurezza dello Stato, reato che in Egitto è punito con l’ergastolo o la pena di morte. L’arresto”, nota l’avvocata della famiglia Regeni, “fa seguito a una campagna mediatica diffamatoria messa in atto dai media governativi contro Amal, suo marito Mohamed e la loro Commissione per i diritti umani, accusata di essere un’organizzazione che attenterebbe, appunto, alla sicurezza del Paese. Si tratta di un gravissimo ed evidente attacco a tutti noi difensori della famiglia Regeni, portato proprio all’indomani della consegna della traduzione del fascicolo da parte della Procura” e, come ricordato, “a poche ore dal viaggio al Cairo del procuratore Colaiocco. Ecco perché”, ripete Ballerini, “abbiamo iniziato il digiuno, che non interromperemo finché Amal non sarà liberata”.