Responsabilità: a ciascuno la sua Il Mattino di Padova, 14 maggio 2018 Venerdì 11 maggio, come ogni anno, Ristretti Orizzonti, in collaborazione con il personale della Casa di Reclusione di Padova, ha organizzato una Giornata di studi che ha portato in carcere diverse centinaia di persone, arrivate da ogni parte d’Italia. Quest’anno abbiamo deciso di proporre una riflessione su un tema che sta molto a cuore a chi si occupa di reinserimento e di rieducazione delle persone detenute, ovvero la responsabilità. La responsabilità delle persone detenute, quando fanno i conti con il loro passato e mettono a disposizione degli studenti il racconto onesto dei loro errori; la responsabilità delle Istituzioni che devono rispondere davanti alla società del mandato che la Costituzione affida loro, ovvero la rieducazione delle persone condannate. Sono intervenuti vari rappresentanti dell’Amministrazione Penitenziaria, che hanno espresso punti di vista anche molto diversi tra loro; hanno parlato giornalisti, esperti, ma anche persone detenute, i loro familiari e persone che hanno subito reati molto gravi. Tra loro, Lucia di Mauro Montanino, che ha incontrato l’assassino di suo marito e ha iniziato uno straordinario percorso di riconciliazione fino ad “adottarne” la famiglia. Vi raccontiamo la giornata di venerdì attraverso gli interventi di Tommaso, entrato in carcere 26 anni fa e detenuto nella sezione di Alta Sicurezza e di Maria, madre di Guido, detenuto ora ad Oristano, dopo un periodo a Padova. Sono le loro esperienze dirette che possono far capire il ruolo determinante che hanno le Istituzioni quando decidono di prendersi la responsabilità dei percorsi di cambiamento delle persone detenute: Tommaso, “cattivo per sempre” e quindi escluso da molte attività del carcere, viene sperimentalmente ammesso a partecipare ad un progetto di incontro con gli studenti, e inizia a mettere in crisi le sue convinzioni e il suo modello di vita; Maria, che solo l’anno scorso ci raccontava con gratitudine di un carcere “umano”, come definisce quello di Padova, dove suo figlio Guido aveva potuto iniziare un percorso di vera crescita, oggi ci racconta con disperazione gli effetti disastrosi che su quel percorso ha avuto il trasferimento di Guido in un carcere che la responsabilità della rieducazione non se lo assume. Abbiamo vissuto con una benda sugli occhi per non vedere il male Incontro due giorni a settimana gli studenti e gli racconto come dei ragazzini sono finiti sulla strada del non ritorno, e come una certa subcultura abbia condizionato e dominato la nostra vita fino a portarci alla distruzione. Alla fine gli racconto come sono riuscito a liberarmi da quei modelli, quanto è stato faticoso e chi mi ha aiutato, perché era impossibile che io mi liberassi da solo. Quella subcultura è come una benda spessa che si mette sugli occhi di una persona che ha le mani legate dietro la schiena, non riuscirà mai a togliersela da solo. Fino a quando sono stato in istituti dove la mia detenzione era unicamente di contenimento, quel modo di pensare non solo non mi abbandonava, ma si faceva più radicale e resistente. Ci vuole qualcuno che ti prenda per mano e ti porti sulla giusta strada fino ad aiutarti a toglierti quella benda che hai sugli occhi. Se io ci sto riuscendo è grazie ad un percorso di reinserimento come il progetto di confronto tra le scuole e il carcere, al confronto che ho avuto nella redazione con tutte le persone della società civile e delle istituzioni. Il mio percorso dà ragione a quelle persone che mi hanno autorizzato a partecipare a questo progetto. Lasciarci isolati non risolve il problema, anzi lo raddoppia. Spesso gli studenti mi fanno la domanda: cosa si potrebbe fare per eliminare quella subcultura da quel territorio da cui vieni, la Calabria? Portare mia figlia Francesca ai nostri convegni e chiederle di intervenire, rafforza la mia scelta di allontanarmi dal mondo criminale, ma lei per fortuna, quella benda sugli occhi non l’ha mai avuta. A questo convegno dovrebbero esserci i tanti ragazzi che non vivono, ma sopravvivano in quel territorio del Sud del nostro Paese, per ascoltare le nostre storie, il triste epilogo di scelte così profondamente sbagliate. Partecipare a iniziative come questa forse gli salverebbe la vita invece di condannarli a rimanere cattivi per sempre. Sono quei ragazzi a rischio che si devono prendere per mano, perché vedere e sentire persone che sono in carcere da 25, 30 anni e che raccontano come hanno rovinato le vite degli altri e la propria, gli sarà più efficace di qualsiasi altro consiglio. Tommaso Romeo Buongiorno a tutti, in questi giorni ho scritto i miei pensieri perché quando sono qui a parlare con voi l’emozione è sempre forte e spero di non dimenticare quello che ho da dirvi. Più o meno un anno fa si era tenuta un altro convegno, al quale ho potuto partecipare e raccontare l’esperienza di mio figlio, spostato per anni da un carcere all’altro in condizioni disumane. La sofferenza di mio figlio era chiara, gliela si leggeva negli occhi, ma soprattutto in quegli occhi si leggeva la mancanza di speranza.  Tutto questo fino al giorno in cui è arrivato a Padova, perché è questo quello che il carcere di Padova fa: toglie l’etichetta “detenuto” e restituisce la dignità all’uomo. Ho potuto assistere così alla rinascita di mio figlio come uomo.  Ha lavorato, ed anche il lavoro, come sappiamo dona dignità all’uomo. Soprattutto quando quest’uomo si trova in un carcere e grava sulla famiglia. Dopo anni ha potuto per la prima volta riabbracciare sua figlia fuori dalle mura di un carcere, ed in lui si è riaccesa la speranza.  Un anno fa ero qui a parlare con voi, ed ero felice perché ero abbracciata a mio figlio, oggi mi trovo qui da sola, senza il suo sostegno: ad una settimana da un permesso che sarebbe durato qualche giorno mio figlio è stato trasferito di nuovo in un carcere di massima sicurezza, in isolamento, e nelle condizioni disumane che già conosciamo.  Il mio cuore oggi è triste, perché da mamma posso sentire tutto il dolore di mio figlio che si amplifica in me, ma la tristezza più grande è quella che provo in qualità di essere umano e che è dettata dall’empatia: io credo che un detenuto si arrenda in un certo senso alla sua pena, ma ci sono momenti in cui, come è successo a mio figlio qui a Padova, c’è una luce che si riaccende, e l’uomo viene fuori ricostruendo la sua umanità. Vi chiedo qui un momento di empatia, immaginate che vi sia restituita una dignità in cui voi non speravate, di cui non conoscevate l’esistenza, e immaginate che questa dignità vi sia portata via di colpo per un errore nel vostro status. Che senso ha il modo in cui veniamo classificati di fronte al rischio di togliere umanità e dignità? Come dicevo prima, Padova toglie l’etichetta “detenuto” e fa venire fuori l’essere umano, ma in che misura è accettabile che possa esistere anche un momento in cui l’essere umano viene messo in secondo piano restituendogli un’etichetta?  Molti passi sono stati fatti, molti sono ancora da fare. Oggi parliamo di responsabilità, ed io credo che noi tutti dovremmo assumerci la responsabilità di tendere una mano laddove scorgiamo un’umanità e una dignità che sono nascoste e che hanno il diritto, ed il dovere, di venire fuori e di restarci. Maria di Fusco, madre di una persona detenuta In Italia 58 mila detenuti. Palma: la situazione non è né infernale né paradisiaca Ansa, 14 maggio 2018 “La popolazione detenuta in Italia è di 58mila persone, quindi il rapporto è di 0,95 ogni mille abitanti”. Lo ha detto Mauro Palma, Garante nazionale delle persone detenute, in occasione del convegno, promosso a Napoli, da Magistratura indipendente. “Mi trovo sempre di fronte a due racconti simmetrici - ha affermato - da un lato dichiarazioni che c’è una situazione infernale delle carceri, dall’altro comunicati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che descrivono un singolo progetto o iniziativa parlandone come un paradiso”. “Ma mi trovo a dover dire che la situazione non è né l’una né l’altra - ha sottolineato - È una situazione problematica, molto nelle grandi città, perché le statistiche non rendono conto di come avvenga la distribuzione concreta delle persone”. Cos’, per esempio, “la Sardegna non è sovraffollata come accade per le strutture a Napoli”. “Però non è tanto il problema dei numeri della detenzione perché più o meno abbiamo un tasso di detenzione assolutamente equiparabili a quelli degli altri Paesi dell’Europa occidentale - ha evidenziato. È, piuttosto, la composizione che abbiamo all’interno: troppe persone che devono scontare pene limitatissime nel tempo, quindi molto brevi, che potrebbero, in maniera più positiva, avere misure alternative, troppe preclusioni che non consentono di dare una beneficio a una persona fin dalla sua uscita e che non permettono così di conoscere qual è il suo percorso”. “Quindi più che concentrarsi sui numeri - ha concluso - occorre concentrarsi su quale è l’asse della detenzione e a chi deve essere riservata la pena più dura che la privazione della libertà”. Il Garante nazionale all’Università di Mosca al convegno sul sistema di detenzione Roma - 10 maggio 2018 - Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, ha tenuto, su invito del Consiglio d’Europa, una relazione a Mosca sulle correzioni apportate recentemente al sistema penitenziario italiano per affrontare il tema del sovraffollamento carcerario. L’analogia tra la sentenza “pilota” nei confronti dell’Italia nel 2013 e quelle nei confronti della Russia per la situazione di sovraffollamento è stata uno dei punti centrali delle riflessioni nelle giornate di discussione. L’occasione è stata lo svolgimento del seminario “Implementation of international and constitutional guarantees of human rights in Russian law and law-enforcement” presso l’Università Mgimo. Il Presidente Palma, nel suo intervento dal titolo “Focus on Italy: From Repetitive Violations to Final Resolution”, si è soffermato sulle iniziative prese dall’Italia negli ultimi anni per ottemperare agli obblighi derivanti dalla sentenza Torreggiani, con la quale nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per trattamenti inumani e degradanti nei confronti delle persone detenute in situazione di grave affollamento. In particolare, il Garante nazionale ha sottolineato i significativi passi avanti compiuti dall’Italia grazie al piano d’azione elaborato a sei mesi dalla condanna e poi implementato. Tale piano ha incluso misure legislative improntate a ridurre i flussi in entrata in carcere e a incentivare l’adozione di misure alternative al carcere; azioni amministrative basate sulla promozione di un sistema detentivo più aperto; lo sviluppo di iniziative di controllo, quali ad esempio la predisposizione di un’applicazione software capace di fornire in tempo reale un quadro della situazione in ogni carcere; ristrutturazioni di carceri esistenti o ricostruzioni di parti di essi piuttosto che di carceri nuovi, e infine l’adozione di misure di prevenzione e di risarcimento. Cos’è rimasto della legge Basaglia 40 anni dopo: tra rischio carcere e liste d’attesa di Silvia Bia Il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2018 Sono gli anni delle grandi lotte operaie e studentesche, dell’avvio della cultura libertaria del ‘68, delle grandi riforme sociali che si chiudono proprio con la legge 180, che anticipa di pochi giorni quella sull’aborto e viene approvata quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Oggi gli Ospedali psichiatrici, grazie all’intervento “dell’intellettuale, riformatore e politico”, non esistono più. A loro posto le Rems, un sistema che tra falle e difficoltà cerca di portare avanti l’eredità di quella che a suo modo fu una rivoluzione. Nel 1968 nel documentario Rai “I giardini di Abele” il giornalista Sergio Zavoli chiede a Franco Basaglia: “È interessato più al malato o alla malattia?”, e lo psichiatra risponde: “Decisamente al malato”. È in questa ormai famosa affermazione che sono racchiusi il pensiero e l’opera di Franco Basaglia, l’uomo che rivoluzionò la realtà dei manicomi fino ad avviarli alla dismissione e alla chiusura sancita dalla legge 180 del 13 maggio 1978, che da lui prende il nome. “A suo tempo è stata una rivoluzione avvenuta in un contesto di grande dinamismo politico e culturale che comincia negli anni Sessanta e si conclude poco prima della morte del professore, nel 1980” racconta a ilfattoquotidiano.it Oreste Pivetta, giornalista e autore del libro Franco Basaglia, il dottore dei matti (Baldini & Castoldi), che comincia proprio con la citazione di quella nota intervista con Zavoli. Come si ricorda nel volume, che ripercorre la vita dello psichiatra veneziano, sono gli anni delle grandi lotte operaie e studentesche, dell’avvio della cultura libertaria del ‘68, delle grandi riforme sociali che si chiudono proprio con la legge 180, che anticipa di pochi giorni quella sull’aborto e viene approvata proprio quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Un ventennio di vivacità culturale in cui Franco Basaglia, “intellettuale, ma anche grande riformatore e politico”, continua Pivetta, riuscì a costruire quella che Norberto Bobbio definì “l’unica vera riforma mai realizzata in Italia”. Negli anni Settanta gli istituti psichiatrici in tutto lo Stivale erano un centinaio, diverse migliaia gli internati, relegati in strutture simili a carceri in cui vigevano i metodi di contenimento come le camicie di forza e le gabbie. Dentro, secondo la normativa manicomiale del 1904, non finivano solo i malati psichici, ma anche persone che per varie ragioni venivano etichettate come “matti” e considerate pericolose per sé e per gli altri. “Il manicomio prevedeva la cura e custodia del malato, era una specie di carcere senza fine pena in cui si perdeva ogni diritto” spiega Pivetta. Basaglia comincia il suo lavoro proprio dalle condizioni delle strutture. Cresciuto a Venezia in una famiglia benestante, a contatto con persone di cultura, durante gli studi in medicina a Padova diventa antifascista e per la sua opera di propaganda contro il regime finisce in carcere dalla fine del ‘44 fino alla Liberazione. Un’esperienza che gli torna alla mente quando, nel 1961, entra come direttore nell’ospedale psichiatrico di Gorizia. “Qui Basaglia sperimenta l’uguaglianza tra due istituzioni totali, il carcere e il manicomio - racconta il giornalista - e da qui comincia a smantellare la struttura in cui opera”. Un passo alla volta, si va nella direzione di ridare agli internati i propri diritti: vengono cancellate le misure di contenimento, per i degenti arrivano gli specchi e i comodini per conservare gli effetti personali e farli riappropriare della propria identità di persone. L’esperienza di Basaglia continua nell’ospedale psichiatrico di Colorno, nel parmense, dove incontra Mario Tommasini, un altro innovatore del sociale con cui collaborerà a lungo, fino allo smantellamento del San Giovanni di Trieste con l’episodio simbolo del corteo guidato dal cavallo azzurro di cartapesta Marco Cavallo, dove gli internati e gli operatori sfilarono per le strade insieme ai cittadini. È il 1973, il lavoro di Basaglia continua a Roma e all’estero, e cinque anni dopo viene approvata la legge Basaglia, che impone la chiusura dei manicomi e regolamenta il trattamento sanitario obbligatorio istituendo i servizi di igiene mentale. L’eredità della legge - Quarant’anni dopo l’approvazione della legge 180, gli ospedali psichiatrici sono stati sostituiti da centri di salute mentale, strutture residenziali psichiatriche, residenze per le misure di sicurezza (Rems) o progetti di sostegno alla persona e assistenza domiciliare. Anche se la differenza, nell’efficienza o meno dei servizi per i malati psichici, l’hanno fatta i governi delle regioni. “Non è vero, come molti dicono, che la legge non ha funzionato - commenta Pivetta - Dove c’è stata una volontà politica di chi governava, la legge ha operato in modo positivo”. Casi virtuosi sono quelli del Friuli Venezia Giulia, tra Gorizia e Trieste, dove sono rimaste più vive le tracce del lavoro di Basaglia, ma anche dell’Emilia Romagna, con realtà come quelle sperimentate grazie all’impegno di Tommasini, e della Lombardia, con progetti che coinvolgono associazioni e famiglie dei malati. “La cosa più importante è che prima di Basaglia i malati venivano segregati in luoghi nascosti, ma anche emarginati culturalmente perché il matto era qualcosa da nascondere e occultare - continua Pivetta - Basaglia ha ridato ai malati il diritto di essere persone all’interno della società”. Opg e Rems, problema ancora aperto - Un altro grande traguardo nella cura del disagio mentale è stato raggiunto, pochi anni fa, con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, strutture in cui soggetti affetti da disturbi mentali con alle spalle reati penali, erano sottoposti a una misura di sicurezza. Il cambiamento, sancito dalla legge 81 del 2014, attuata nel 2015, ha portato alla dismissione delle strutture. Al loro posto sono state costituite le Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza gestite dalla sanità territoriale in collaborazione con il ministero di Giustizia, che oggi ospitano circa 600 pazienti con misure provvisorie e definitive. Il problema però è che il sistema presenta ancora delle falle. Secondo il quattordicesimo rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione di marzo 2018, a preoccupare sono il numero di pazienti in misura di sicurezza provvisoria e le “liste d’attesa” di quanti dovrebbero entrare nelle Rems. Nelle 30 strutture italiane sono ricoverate 599 persone, di cui 54 donne (il 9 per cento, quasi il doppio delle donne detenute in carcere), numeri che corrispondono ai posti disponibili. “Eppure - si legge nel rapporto - le liste di attesa esistono e sono piuttosto affollate”, e l’attesa solitamente trascorre in carcere. Nel 2017 a livello nazionale i detenuti in “coda” erano 289, oggi in Lombardia c’è una lista di attesa di 8 persone, in Piemonte di 13 (di cui 4 “attendono” in carcere) e in Campania di 44 (di cui 18 in carcere). “C’è la tendenza a utilizzare le Rems come ‘discarica socialè - spiega a ilfattoquotidiano.it Vincenzo Scalia di Antigone - In più molti operatori giudiziari agiscono come se esistessero ancora gli ospedali giudiziari, come se le Rems fossero dei sostituti, quando invece non dovrebbe essere così”. Altro aspetto critico è che rispetto all’anno precedente, i pazienti delle Rems con una misura di sicurezza provvisoria e in attesa di sentenza definitiva, che dovrebbero rappresentare un’eccezione, sono aumentati del 22 per cento, per un totale di 274, ovvero quasi la metà del totale degli ospiti delle strutture. Dall’altra parte invece i prosciolti per vizio totale di mente ma socialmente pericolosi, sono solo 215, pari al 37 per cento del totale. Il problema è dovuto alla lentezza della macchina giudiziaria e anche all’ambiguità di certe situazioni. “Nelle Rems finiscono anche persone con problemi di tossicodipendenza o di salute - continua Scalia. Per questo sarebbe necessario rimarcare i confini tra disagio psichico e situazione penitenziaria”. Infine, sbilanciato secondo Antigone è anche il saldo tra ingressi e dimissioni. Nel 2017 sono entrate nel circuito Rems 46 persone in più di quelle che sono uscite. Tra gli ingressi, il 26 per cento delle persone provenivano dal carcere, a conferma, scrive Antigone, di una connessione tra la questione penitenziaria e la questione Rems. Sul fronte delle dimissioni invece, più della metà dei casi, ovvero 180, sono state in realtà trasformazioni da misura di sicurezza detentiva a misura di sicurezza non detentiva, nelle forme della libertà vigilata. “Questo significa - conclude il rapporto - che buona parte di chi esce dalla Rems continua ad essere sottoposto a un controllo istituzionale”. Altro problema è che mancano le risorse a livello territoriale per la gestione: “Il sistema delle Rems funziona ed è un passo positivo - conclude Scalia - ma bisognerebbe investire sui servizi del territorio per superare il limbo tra carcere e ospedalizzazione”. Clochard assistiti in aula. Quasi mille gli avvocati di strada in azione di Francesco Barresi Italia Oggi, 14 maggio 2018 I numeri 2017 della Onlus nata per offrire tutela giuridica ai poveri. Più di 3.500 clochard assistiti nelle aule di tribunale. Con il suo team di 982 volontari Avvocati di Strada, la Onlus nata per offrire tutela giuridica ai poveri delle strade, registra un autentico boom di incarichi seguiti nel 2017. Una task force di avvocati professionisti, legali domiciliatari, studenti di giurisprudenza, pensionati e liberi cittadini impegnati ogni giorno nella difesa legale (e gratuita) degli ultimi. Da Ancona a Cerignola, da Cosenza a Monza, da Palermo fino a Trieste, questo esercito del diritto ha assistito e intercettato più di 1000 clochard, raggiungendo 23.137 nuovi associati. Dati alla mano, Avvocati di Strada ha svolto 3.769 pratiche di cui 1403 di diritto civile, 1089 di amministrativo, 915 sui diritti dei migranti e 362 di penale. Le persone difese risultano 2.224 extracomunitari (59%), con 1.055 italiani (28%) e 490 cittadini comunitari (13%). In particolare le persone tutelate risultano per larga parte uomini (72%), prevalentemente di origine extracomunitaria, a cui fa pendant il restante 28% di donne assistite. “Diritto alla residenza, diritto di famiglia, fogli di via, tutela di persone vittime di violenze e aggressioni, diritto dell’immigrazione. Anche quest’anno”, spiega Antonio Mumolo, presidente degli Avvocati di Strada, “le nostre attività hanno riguardato a 360 gradi pratiche di tutte le aree giuridiche. Rispetto all’anno precedente le pratiche di diritto civile sono passate da 1.377 a 1.403. Le pratiche di diritto amministrativo sono passate da 1.052 a 1.089”, continua il presidente Mumolo, “e le pratiche di diritto dei migranti sono leggermente diminuite, passando da 906 a 915. Le pratiche di diritto penale sono invece leggermente diminuite, passando da 368 a 362”. Le cause di diritto civile rappresentano il cuore delle pratiche totali, mentre la questione più affrontata rimane quella della residenza anagrafica: dal 2016 al 2017 infatti si registrano 345 pratiche aperte. Un vero boom per cause sul diritto della casa (+100%) raddoppiate rispetto al 2016, con il nocciolo duro dei 918 dibattimenti sulla mancanza di titoli di viaggio. “È molto probabile che una persona costretta a vivere in strada abbia perso fiducia nella giustizia”, evidenziano gli Avvocati di strada, “e per questo dimentichi di poter rivendicare diritti che le spettano in relazione a rapporti di credito o debito. Nel 2017 abbiamo seguito 52 pratiche su debiti gravanti sui nostri assistiti nei confronti di privati e 19 riguardanti, al contrario, crediti di privati. Ci siamo inoltre occupati di 41 pratiche di procedure esecutive per mancato pagamento di imposte e tasse, e di 30 pratiche di sinistri stradali”. L’associazione di volontariato però non risparmia attacchi contro gli aumenti del foglio di via, una misura considerata “inutilmente punitiva, perché spesso ci capita di rilevare che i fogli di via”, spiega l’Associazione, “sono notificati alle persone senza dimora per il solo fatto di occupare lo spazio pubblico dormendo sotto i portici, o sostando sulle panchine per lunghe ore. Si tratta del tipico esempio di condotta di chi dichiara guerra ai poveri, anziché alla povertà”. Anche i casi più delicati rientrano nel novero delle attività del 2017, con un aumento rilevante (da 49 a 80) di curatele di 80 casi di vittime di violenze e aggressioni, con un raddoppio delle vittime della tratta e dello sfruttamento sessuale. Tutte seguite, difese e protette da Avvocati di Strada, perché “in strada c’era fame di diritti”, chiosa il presidente Mumolo, “e quella fame si poteva combattere con un’arma incruenta ma potentissima: un codice”. Come salvare i ragazzi delle paranze di Marco Rossi-Doria La Repubblica, 14 maggio 2018 Ogni storia di vita è a sé stante. Troppe volte si dipinge l’esistenza dei ragazzini che vivono nei luoghi dove pesa la criminalità come un destino inevitabile: sei nato lì, andrà così. Ma le semplificazioni e gli stereotipi offuscano quella fondamentale competenza pubblica che è il saper distinguere e costruire rimedi. No, il destino non è scritto. Chi lavora nelle aree dell’esclusione sociale sa che tante vite di ragazzini che sembrano soffocate dal destino trovano la via del riscatto ed è impegnato perché le storie di riparazione non vengano smentite. Emanuele Sibillo, il capo paranza ucciso a soli 19 anni di cui Repubblica ha raccontato la storia, si è trovato davanti a un bivio. Ed è una delle vicende che ogni volta ci interrogano. Poteva andare in altro modo? Ma dove ci troviamo? Siamo immersi in territori - non solo del Sud - che, per chi ci cresce, hanno più livelli di condizionamento. Siamo nel vasto e complesso paesaggio italiano dell’esclusione sociale. Il primo livello di rischio riguarda il nascere nella povertà e in quartieri dove da decenni mancano il lavoro e la crescita civile che lo renda base del patto sociale, come da Costituzione. Sono terre fuori dalla promessa costituzionale. Oggi coinvolgono 1.300.000 bambini e ragazzi in povertà assoluta e altri 2.300.000 in povertà relativa. È la più grande questione politica d’Italia, che non trova il giusto posto nell’agenda politica stessa né in quella dei media. Ma attenzione: le centinaia di migliaia di ragazzini poveri non sono affatto candidati a diventare tanti Emanuele. Sono ogni giorno in battaglia - con un esercito civile di docenti, genitori, educatori, preti, allenatori - per uscire fuori dalla povertà; e per far valere la loro grande dote, che è la resilienza, la capacità di farcela nonostante assenza di protezioni e scarsità di opportunità, se solo vengono sostenuti da una comunità educante solida e da un vero sviluppo locale. Ma può esservi un secondo livello di rischio che riguarda la presenza nel quartiere della criminalità organizzata. Se sei un ragazzino nato lì, pesa molto la logica della minaccia, della regolazione violenta e della sudditanza e sei in prossimità di relazioni, parole, gesti che connotano le mafie. I luoghi salvi tuttavia ci sono: stazione di polizia, scuola, centro sociale, parrocchia, palestra. Le vie del riscatto passano attraverso le reti tra questi presìdi civili. Ma se l’alleanza positiva di un quartiere non viene sostenuta dallo Stato, il crimine si fa più forte e pervasivo, conduce la partita economica e attacca ogni relazione. Allora per i ragazzi crescono le probabilità che il malaffare rappresenti un orizzonte d’attesa e che si faccia strada l’idea di un riscatto attraverso il protagonismo criminale. Perché sono diventate troppo deboli le altre prospettive: lavoro, commercio e credito legali, divertimento sano, opportunità di protagonismo civile. Vi è, poi, un terzo livello, quello decisivo. Vivi in una famiglia problematica, ai margini dei margini del quartiere, hai come modello persone adulte fragili, spesso supine o silenti di fronte al malaffare, altre volte già dentro quella cerchia e comunque nell’impossibilità di guidarti, indicarti una via di uscita, tenerti dalla parte giusta. I tre livelli di rischio messi insieme sono un fardello pesante per un ragazzino. Si accumulano precoci sconfitte e frustrazioni; viene attaccata la “capacità umana di aspirare a…” Poi viene avanti l’occasione inopportuna. Si annusano modelli di vita che promettono potenza e appartenenza. E si vivono le catene di lutti nella cerchia vicina. Cresce la probabilità di un “punto di non ritorno”. Abbiamo quartieri d’Italia in preda al rischio multistrato. Ma ne abbiamo molti, in aree anche difficili, dove agisce una comunità dedita a scuola accogliente e rigorosa, a formazione professionale seria, a progetti di sviluppo locale che producono lavoro, impresa, cooperazione. Il compito della Repubblica non è solo quello di riprendere il monopolio della forza in territori dominati dal crimine, ma anche di sostenere davvero queste promesse comunitarie. Stalking se alcuni episodi sono anteriori alla norma ma collegati ad altri successivi di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2018 Cassazione, sezione V penale, sentenza 1 dicembre 2017 n. 54308. Si configura il reato di atti persecutori, in relazione al quale la deposizione della persona offesa potrà essere legittimamente posta da sola a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato - ferma l’aderenza al principio indicato dalle Sezioni Unite n. 41461 del 24 ottobre 2012 e, dunque, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità oggettiva del dichiarante nonché dell’attendibilità intrinseca del racconto - anche nell’ipotesi di condotta iniziata prima dell’entrata in vigore della norma incriminatrice, purché si accerti la commissione reiterata, per il periodo successivo, di atti idonei a creare nella vittima un costante stato di ansia e di paura. Lo puntualizza la quinta sezione penale della Corte di cassazione, con la sentenza n. 54308 resa il 25 settembre 2017 e depositata il successivo primo dicembre. La pronuncia, in sostanza, interviene a marcare come per l’applicabilità della nuova norma non sia “sufficiente che sia stato compiuto l’ultimo atto dopo la sua entrata in vigore” occorrendo che “tale atto sia preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice”. Il fatto - Protagonista, un uomo accusato di aver perpetrato, nei confronti dell’ex convivente, reiterate condotte di minaccia e molestia, tali da cagionarle un perdurante e grave stato di ansia e paura ed un fondato timore per l’incolumità propria e della prole comune. Egli, da quanto emerso, era solito effettuare chiamate notturne al telefono di casa della donna, sostare a lungo nei pressi della sua abitazione lasciando l’autoradio acceso a tutto volume, rivolgerle pesanti offese all’onore e al decoro, minacciarla, anche di morte, seguirla e fingere di tamponarla col proprio veicolo. Comportamenti, quelli descritti, evidentemente riconducibili nell’alveo del delitto di stalking di cui all’articolo 612 bis del codice penale, a norma del quale veniva condannato dal Tribunale, con sentenza confermata in appello, alla pena di nove mesi di reclusione e al risarcimento in favore della vittima di cinque mila euro per il danno morale arrecato. Il ricorso dell’imputato - Prevedibile, il ricorso dell’imputato: la decisione impugnata, rileva, non era supportata da congrua motivazione in punto di testimonianza della persona offesa, erroneamente intesa come prova dei fatti, risultando carenti, a suo parere, i riscontri oggettivi richiesti dalla difesa. La deposizione della signora, in altre parole, era stata ritenuta attendibile sulla base di una motivazione solo apparente. Non solo. I giudici, precisa, non avevano neanche spiegato le ragioni per le quali era stato ritenuto superfluo l’esame dei tabulati telefonici e l’audizione dei vicini di casa. Elementi che, invece, avrebbero potuto smontare il narrato dell’offesa. Difetto di motivazione ravvisabile, prosegue il legale dell’uomo, anche in punto di collocazione temporale degli episodi riferiti dai testimoni, invero riferibili a periodi diversi da quello indicato in imputazione. Ma il vizio motivazionale, prosegue, avrebbe investito anche la qualificazione giuridica dei fatti contestati, da inquadrarsi - dovendosi escludere l’abitualità delle persecuzioni, consistenti, al massimo, in uno o due eventi - nell’ambito dei meno gravi reati di cui agli articoli 660, 594 e612 del codice penale(molestia, ingiuria e minaccia). Ricorso inammissibile per i giudici di Piazza Cavour - Nel sancirlo, la Corte si sofferma in maniera certosina sull’analisi delle doglianze difensive, prima fra tutte, quella inerente la mancanza della motivazione in relazione alla ritenuta sufficienza della sola testimonianza della persona offesa quale prova del fatto, ritenuta attendibile, assenti riscontri oggettivi che la confortassero, sulla base di una motivazione, in realtà, meramente apparente. Intanto, annota la Cassazione, la censura mossa è inammissibile, risolvendosi, a ben vedere, nella mera recriminazione di un’erronea ricostruzione della vicenda e, di conseguo, in una rivalutazione dei fatti non consentita in sede di legittimità. È palese, infatti, come una tale operazione - lungi dal potersi equiparare a una verifica della correttezza del percorso decisionale sfociato nella pronuncia impugnata - si tradurrebbe in un controllo sulla valutazione della prova, in un ulteriore vaglio delle acquisizioni probatorie, in una nuova ed alternativa analisi delle risultanze processuali “che ineluttabilmente sconfinerebbe in un eccentrico terzo grado di giudizio”. Ma, ed è insegnamento costante, la Cassazione non può “ingerirsi nella valutazione del fatto che ha spinto i giudici del merito a ritenere del tutto coerente e attendibile quanto riferito dalla parte civile” (Cassazione penale, sezione VI, 29 marzo 2006 n. 10951). Tanto premesso, il Collegio coglie l’occasione per ribadire come - se con riferimento alla valutazione della deposizione della persona offesa, non si applicano le disposizioni di cui al comma terzo dell’articolo 192 del codice di procedura penale - esse potranno “essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato”. È ormai consolidato, difatti, il principio per il quale il narrato della vittima, seppur da valutare con la dovuta cautela, sia soggetto “al solo limite ordinario dell’attendibilità, senza necessità di riscontri esterni” (Corte di Appello di Napoli, sezione VI, 7 luglio 2015 n. 2702), potendo, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, costituire la deposizione della persona offesa, di per sé sola, prova piena dell’accaduto. Ciò, sia inteso, previa verifica, corredata da motivazione idonea nonché più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi altro testimone, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto. Indispensabile, inoltre, prestare la dovuta cautela per escludere l’eventuale innesto di situazioni concrete che possano far dubitare dell’attendibilità della vittima (Corte di Appello di Trento, 9 gennaio 2015, n. 381). Non solo. Ove l’offeso si sia costituito parte civile, sarà opportuno procedere anche al riscontro delle sue dichiarazioni con ulteriori elementi (Cassazione penale, sezioni Unite, 24 ottobre 2012 n. 41461). Nella vicenda, però, si afferma nella pronuncia in analisi, non v’erano motivi per ritenere errata la logica seguita dalla Corte d’Appello nell’esprimere “piena sintonia con l’approfondita valutazione operata dal Giudice di primo grado” in ordine all’intrinseca credibilità della donna, apparsa serena e non influenzata dal rancore e al contempo coerente e specifica. È per tale ragione, si sottolinea, che non si erano resi necessari i riscontri esterni proposti dal legale del reo, il quale, peraltro, non aveva né indicato se dette prove fossero state tempestivamente proposte né argomentato sulla sussistenza dei presupposti per riaprire l’istruttoria in sede di gravame. Tanto chiarito, la Cassazione, quanto all’addotta immotivata riferibilità degli episodi narrati dai testi a periodi diversi da quello contestato, annota che, per la verità, la decisione impugnata menziona tutta una serie di comportamenti persecutori posti in essere dal ricorrente a danno dell’ex convivente, dopo il marzo del 2009 e protrattisi almeno fino all’ottobre 2010 e, perciò, proseguiti successivamente all’introduzione del delitto di atti persecutori (operata dall’articolo 7 del decreto legge n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 23 aprile 2009). Quando scatta il reato, la giurisprudenza - Ed è la stessa giurisprudenza ad aver elaborato la tesi per cui possa dirsi configurabile il reato di cui all’articolo 612 bis del codice penale, anche nell’evenienza di condotta persecutoria iniziata antecedentemente all’entrata in vigore della norma incriminatrice, purché si accerti, per il periodo successivo, la commissione reiterata di atti aggressivi e molesti idonei a creare nella vittima “lo status di persona lesa nella propria libertà morale, in quanto condizionata da costante stato di ansia e di paura” (Cassazione penale, sezione V, 16 novembre 2016 n. 48268). Lo stalking, d’altronde, si caratterizza per l’abitualità della condotta - nel senso di reiterazione di minacce o di molestie, ravvisabile anche in soli due atti (Tribunale di Nocera Inferiore, 27 settembre 2016 n. 1941) - e per il verificarsi di uno degli eventi alternativi (Cassazione pen., Sez. V, 30 agosto 2016 n. 35778) indicati nella norma: il perdurante e grave stato di ansia o di paura, da intendersi come apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico dell’offeso (Tribunale di Firenze, 25 ottobre 2016 n. 6166; Tribunale di Bari 22 luglio 2016 n. 3669) e il fondato timore per l’incolumità e l’alterazione delle abitudini di vita di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (Cassazione penale, sezione V, 23 maggio 2016 n. 21407). Criterio, elaborato in conformità con quello per cui la prova del crimine andrà ancorata a elementi sintomatici del turbamento psicologico, ricavabili sia dal narrato della vittima che dai comportamenti conseguenti alla condotta del reo, alla luce dell’astratta idoneità a causare l’evento e delle “effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata” (Cassazione penale, sezione V, 28 giugno 2016 n. 26878. Da ultimo: Tribunale Ivrea, 3 novembre 2017 n. 891). A rilevare, allora, sarà sia la minaccia palese che quella implicita o subdola, se idonea a incutere timore, considerate le circostanze del caso, la personalità del reo, le condizioni della parte offesa e quelle ambientali. Ciò, a prescindere dal concreto verificarsi dello stato di intimidazione, reputandosi sufficiente, a far scattare la condanna per atti persecutori, l’attitudine a intimorire (Tribunale di Campobasso, 20 novembre 2017 n. 508) mediante qualsiasi seccante intrusione nell’altrui sfera individuale, incluse le telefonate reiterate (Tribunale di Campobasso, 23 gennaio 2017 n. 8), il massiccio invio di sms (Tribunale di Bari, 3 ottobre 2017 n. 2800), gli atteggiamenti predatori (Tribunale di Genova, 20 ottobre 2016 n. 5425) o gli appostamenti sui mezzi usati dalla vittima per recarsi al lavoro, associati ad avvicinamenti, sguardi insistenti e pedinamenti idonei a procurarle ansia e indurla a mutare abitudini di vita (Tribunale di Genova, 24 gennaio 2017 n. 37). Tuttavia - trattandosi di reato a eventi alternativi, “la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo” (Cassazione penale, sezione V, 30 agosto 2016 n. 35778; Tribunale di Campobasso, 18 luglio 2016 n. 574) - non si esigerà, perché lo si configuri, né l’effettivo mutamento delle consuetudini della parte offesa, né che lo stato di ansia e timore sofferto si sia tradotto in patologia, essendo sufficiente che le persecuzioni abbiano avuto effetti destabilizzanti della sua serenità e del suo equilibrio psicologico (Cassazione penale, sezione V, 30 ottobre 2017 n. 49681; Tribunale di Firenze, 19 agosto 2016 n. 3976). Effetti che, sia inteso, potranno desumersi anche dalle dichiarazioni rese dalla vittima a riscontro delle modalità degli episodi riferiti (Corte di Appello di Roma, 30 settembre 2016 n. 6501). Quanto, poi, alla realizzazione di una condotta frazionata in una pluralità di azioni tipiche, omogenee o eterogenee, susseguitesi nel tempo mediante la reiterazione dei singoli episodi, sarà legittima una contestazione che, come nella fattispecie, vada al di là delle tradizionali incriminazioni previste da singole norme e finisca per versarsi in un contesto diverso, quale il delitto di stalking, per la cui configurabilità - annota la Corte in lettura - non è “sufficiente che sia stato compiuto l’ultimo atto dopo la sua entrata in vigore, ma occorre che tale atto sia preceduto da altri comportamenti tipici ugualmente compiuti sotto la vigenza della nuova norma incriminatrice”. Affermazione adesiva alla tesi, ormai solida, per cui il crimine di atti persecutori è rinvenibile laddove, pur essendo la condotta iniziata anteriormente all’intervento del 2009, si accerti la commissione reiterata, anche dopo la sua entrata in vigore, di atti aggressivi e molesti idonei a creare nella vittima lo status di persona lesa nella propria libertà morale, condizionata da un costante stato di ansia e paura (Cassazione penale, sezione V, 16 novembre 2016 n. 48268). In sintesi, annotarono i giudici, l’analisi sulla condotta delittuosa esigerà uno sguardo sulla sua “articolazione complessiva, sicché comportamenti che in sé potrebbero non essere punibili si presentano, comunque, rilevanti al fine di integrare il reato di atti persecutori”. Sarà ininfluente, pertanto, in una tale ottica, la proposizione o meno - per atti integranti condotte tipizzate - di apposita querela, dovendosi prendere a riferimento, per il computo del termine semestrale, il comportamento complessivamente persecutorio dell’imputato. E il carattere del reato, abituale a reiterazione necessaria delle condotte, rileverà altresì ai fini della procedibilità, tanto che, ove il presupposto della reiterazione venga integrato da azioni poste in essere oltre i sei mesi previsti dalla norma rispetto alla prima o alle precedenti condotte, la querela estenderà la sua efficacia anche a tali pregresse condotte, indipendentemente dal decorso del termine predetto (Cassazione penale, sezione V, 14 maggio 2015 n. 20065). Del resto, proseguono i giudici, lo stato di alterazione e turbamento psicologico e comportamentale della vittima, seppur non penalmente rilevante in via autonoma, con la Riforma del 2009 ha acquistato “una propria valenza offensiva, in virtù del suo perpetuarsi e radicarsi nella psiche, nei comportamenti quotidiani, nella libertà di autodeterminarsi nella scelta dei luoghi, dei comportanti, delle frequentazioni”. Il reato, quindi, non si perfezionerà con l’instaurarsi della condotta persecutoria, bensì al realizzarsi - con l’innesto della nuova fattispecie - della rilevanza giuridica “nell’esistenza psicologica e nella vita di relazione, del grave stato di ansia e di paura”. È il substrato del delitto, fondamentalmente, a consentire di configurare il crimine anche in caso di comportamento invasivo frazionato, a patto che la reiterazione di atti aggressivi e molesti sia idonea (alla luce del pregresso affievolimento delle capacità di resistenza e autodifesa della vittima) a creare nel soggetto leso nella propria libertà morale, l’evento di danno previsto e punito dalla norma. E nella vicenda, erano stati appurati almeno due episodi di molestie successivi all’introduzione della nuova disciplina. Si palesano, così, le motivazioni per le quali la Cassazione, riscontrati gli elementi integrativi del delitto contestato, inclusa l’abitualità della condotta tenuta dal reo successivamente all’entrata in vigore della Novella ma legata a doppio filo a episodi precedentemente commessi, ha confermato, cristallizzandola, la condanna per atti persecutori inferta al ricorrente. Il giudizio di revisione e il concetto di inconciliabilità tra sentenze irrevocabili Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2018 Processo penale - Impugnazioni - Revisione - Casi di revisione - Art. 630, c. 1, lett. a) c.p.p. -Inconciliabilità - Nozione - Riferimento ai fatti - Valutazione dei fatti - Esclusione. In tema di revisione della sentenza penale di condanna, con riguardo alla specifica ipotesi della inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, il concetto di inconciliabilità si fonda su una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici sui quali si fondano le diverse sentenze, tra la realtà fattuale come accertata nelle diverse sedi processuali, dando rilievo all’errore di fatto e non alla contraddittorietà logica tra le diverse valutazioni effettuate nelle distinte sentenze. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 aprile 2018 n. 18086. Impugnazioni - Sentenze irrevocabili - Revisione - Concetto di inconciliabilità - Definizione. In tema di revisione, il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all’articolo 630 c.p.p., comma 1, lettera a), non deve essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni, ma con riferimento a una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui si fondano le diverse sentenze. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 aprile 2018 n. 18086. Impugnazioni - Revisione - Casi - Contrasto di giudicati - Distinzione tra fatti e valutazioni. In tema di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, fondamentale è la distinzione tra fatti e giudizi o valutazioni poiché, mentre la differenza di valutazioni è connaturata all’attività giurisdizionale che trova il suo momento conclusivo in un apprezzamento - logicamente motivato ma discrezionale - sul materiale probatorio acquisito al processo, l’ordinamento non può invece consentire che i fatti, il cui accertamento costituisce la premessa del giudizio, siano ritenuti esistenti da un giudice e inesistenti da un altro giudice. Insomma la realtà fattuale posta a fondamento delle decisioni giudiziarie deve essere incontrovertibile; la valutazione di questa realtà può invece essere diversa. È quindi inevitabile che, fermi restando i fatti accertati nei diversi processi, giudici diversi possano apprezzarli diversamente. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 9 febbraio 2017 n. 6289. Impugnazioni - Revisione - Casi - Contraddittorietà di giudicati - Configurabilità - Limiti - Fattispecie. In tema di revisione, il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all’art. 630, comma primo, lett. a), c.p.p., non deve essere inteso in termini di mero contrasto di principio tra due sentenze, bensì con riferimento a una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui queste ultime si fondano. (In applicazione del principio, la Corte ha escluso la sussistenza dei presupposti per la revisione di condanna pronunciata in ordine al reato di partecipazione a associazione di tipo mafioso per aver contribuito ad assicurare a un gruppo criminale i proventi di attività estorsive in danno di discoteche, realizzati mediante l’imposizione di servizi di vigilanza erogati da una società costituita dall’istante, in relazione a richiesta fondata sulla successiva assoluzione del medesimo soggetto dall’addebito di concorso esterno nel delitto di cui all’art. 416 bis c.p., con riferimento allo svolgimento di analoga attività a vantaggio di altra fazione del sodalizio, eseguita mediante l’utilizzo di diversa struttura operativa). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 14 maggio 2014 n. 20029. Impugnazioni - Revisione - Casi - Associazione per delinquere - Condanna di alcuni imputati - Successiva assoluzione di altri per lo stesso reato per insussistenza del fatto - Inconciliabilità dei giudicati - Configurabilità - Fattispecie. In tema di revisione, ricorre l’ipotesi di cui alla lett. a) dell’art. 630 cod. proc. pen. quando a una sentenza irrevocabile di condanna per il reato di associazione per delinquere (nella specie, finalizzata allo spaccio di stupefacenti) sia seguita altra sentenza irrevocabile che assolva ulteriori imputati dall’identica imputazione per insussistenza del fatto, dovendosi riconoscere un’effettiva incompatibilità fra i fatti stabiliti a fondamento delle due decisioni. (Fattispecie in cui a una sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato e confermata nei successivi gradi di giudizio era seguita una sentenza di assoluzione, pure emessa in sede di giudizio abbreviato condizionato non accolta dal Gup e celebrato dinanzi il tribunale, non impugnata). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 10 gennaio 2014 n. 695. Avellino: chiusura del corso di formazione in imprenditoria digitale per i detenuti nanotv.it, 14 maggio 2018 Lunedi 14 maggio 2018 alle ore 11.00, presso la Casa circondariale “Antimo Graziano” - Avellino Bellizzi, ci sarà la consegna dell’attestato di qualifica Regionale per i detenuti del cc di Bellizzi Irpino, nell’ambito progetto Garanzia Giovani nel corso di formazione di 200 h “Key competence mix” promosso dall’ente di formazione AdIM S.r.l. Il corso regionale di 200 h è iniziato il 14 marzo e si è concluso il 7 maggio con l’esame finale. Al corso hanno aderito i giovani ristretti dai 18 ai 29 anni che hanno avuto la possibilità di acquisire sia competenze aziendali partendo dai concetti chiavi legati all’organizzazione d’impresa fino alla costruzione di un business plan, sia con l’acquisizione della conoscenza sui digitali. Un corso questo dedicato ai giovani neet, che ha dato la possibilità a 10 detenuti di acquisire nuove conoscenze e partecipare attivamente alle attività del trattamento rieducativo, proposto dalla direzione e dagli educatori del carcere. Lunedi alla consegna della qualifica del corso” Key Competence mix” parteciperanno: Chiara Marciani, Assessore alla Formazione e alle Pari Opportunità della Regione Campania, Samuele Ciambriello Garante dei detenuti Regione Campania, Carlo Mele, garante dei detenuti provinciale e Luciano Mattina, direttore dell’ ente di formazione AdIM S.r.l. Un momento questo significativo per i giovani ristretti Neet, che ha dato loro la possibilità di confrontarsi su temi legati allo sviluppo imprenditoriale e digitale. Gorgona (Li): Paolo Brosio e Carlo Conti presentano il progetto “Mattone del cuore” livornopress.it, 14 maggio 2018 Il ringraziamento a molti imprenditori livornesi per il contributo economico, tra i quali anche Maria Gloria Giani. L’evento si terrà nel weekend del 25 maggio. Le Olimpiadi del Cuore con il Progetto Mattone del Cuore - Squadra del Cuore Livorno Montenero Isola della Gorgona hanno realizzato un format ideato insieme alla Diocesi di Livorno con il Vescovo Simone Giusti ed in stretta collaborazione con il Ministero della Giustizia, e di tutte le altre istituzioni locali e nazionali. L’iniziativa porterà per la prima volta - dopo secoli di storia sull’Isola della Gorgona isola penitenziaria per scontare il fine pena in regime di semilibertà con opportunità lavorative di reinserimento sociale - più di duecento invitati sull’Isola per una preghiera di dialogo interreligioso per favorire la pace nel mondo insieme ai detenuti, di diverse etnie e religioni, ed alla Polizia Penitenziaria. Si svolgerà anche una partita di calcio, Torneo Coppa della Pace, a sei squadre con calciatori, ex calciatori, allenatori di calcio, amici dello sport, dello spettacolo, della televisione e del mondo della musica, cultura, arte. Il giorno seguente, la domenica 27, si trasferiranno a Montenero per pregare e riunirsi in una grande cena conviviale denominata “Galà del Cuore” per raccogliere fondi per: -i progetti della Caritas di Livorno a favore delle famiglie povere, degli emarginati; -i familiari dei detenuti poveri e la ristrutturazione e recinzione del campo di calcio detenuti della Gorgona; -i parenti degli alluvionati di Livorno 9-10 settembre 2017; -i famigliari degli operai morti nella tragedia dello scorso 28 marzo 2018 per lo scoppio di una cisterna nel Porto di Livorno; -il Progetto Mattone del Cuore Primo Ospedale di Pronto Soccorso a Medjugorje, (un obiettivo prestigioso che Brosio ha avuto la possibilità di presentare in udienza privata su chiamata diretta del Santo Padre a Palazzo Apostolico il giorno 9 aprile 2015). Al termine della cena, con gli chef stellati provenienti da varie città italiane e i migliori ristoranti e pasticcerie di Livorno, ci sarà il grande spettacolo “Notte del Cuore” con musica e i grandi artisti Carlo Conti, Leonardo Pieraccioni e Giorgio Panariello. Alla conferenza stampa di ieri, tenutasi ieri alla presenza di Carlo Conti, Giulia Quintavalle e Andrea Morini, sia l’assessore allo Sport (vedi video) che Paolo Brosio hanno voluto ringraziare Maria Gloria Giani Pollastrini per il supporto prestato come presidentessa del Propeller Club Port of Leghorn. Verona: i poliziotti si candidano nei paesini, il carcere si svuota di agenti di Alessandra Vaccari L’Arena, 14 maggio 2018 Passione per la pubblica amministrazione, per la politica o voglia di staccare dal lavoro quotidiano per un periodo peraltro retribuito? O è solo una coincidenza quella che vede una quarantina di poliziotti della Penitenziaria in servizio a Montorio candidati alle elezioni comunali del prossimo 10 giugno? Tutti in Comuni piccoli, quelli per cui non è necessario raccogliere firme per presentare una lista. Nel nostro caso stiamo parlando di San Mauro di Saline e Borgofranco su Po, in provincia di Mantova. Ha suscitato curiosità nel Mantovano una lista, su tre, in cui compaiono molti candidati residenti a Vago di Lavagno, Zevio, San Martino Buon Albergo, Verona (e tre residenti a Bologna). Inoltre i candidati di questa lista (“Passi nel futuro”) sono nati in provincia di Potenza, di Foggia, Bari, Agrigento, Lecce e persino a Stoccolma. Su dieci candidati (11 con il sindaco), sette lavorano come poliziotti della Penitenziaria nella casa circondariale di Montorio. Una candidata è la moglie di un poliziotto, anche lei poliziotta. A presentare la lista un altro poliziotto di Montorio. Lo stesso vale per la lista “Alba chiara” a San Mauro di Saline. Quello delle aspettative elettorali è un fenomeno nato in sordina una decina di anni fa ma che è andato via via crescendo fino ad assumere proporzioni considerevoli. Così come avvenne negli anni per i consiglieri dei consorzi A.S.I. (nomina politica) che venivano distaccati per tutta la durata del proprio mandato ma ai quali, proprio a causa della crescita esponenziale di tali “consiglieri” poliziotti penitenziari, fu posto un freno stabilendo che la sola nomina in un consorzio, dove l’attività del consigliere si riduce a una o due riunioni l’anno, non dava alcun diritto al distacco né al trasferimento. È l’articolo 81 della legge 121 del 1981 che permette ai poliziotti di candidarsi. Recita al capitolo VII: “Gli appartenenti alle forze di polizia candidati ad elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento della accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale e possono svolgere attività politica e di propaganda, al di fuori dell’ambito dei rispettivi uffici e in abito civile. Essi comunque non possono prestare servizio nell’ambito della circoscrizione nella quale si sono presentati come candidati alle elezioni, per un periodo di tre anni dalla data delle elezioni stesse”. Nella lista di San Mauro di Saline, “Alba chiara”, tutti i candidati sono poliziotti della Penitenziaria di Montorio. È la legge che dà questa opportunità, va ribadito, tutto lecito. Ma come sostengono da più parti all’interno del carcere, sono una quarantina quelli che si sono messi in lista in giro per l’Italia, su un organico di 300 agenti: significa che chi resta si deve sobbarcare orari di otto ore per turno anziché sei, deve saltare il riposo o rientrare dalle ferie per lavorare al posto di chi è in campagna elettorale tra Marche, Abruzzo, Veneto e Lombardia. Alba (Cn): una mattinata alla scoperta della Casa circondariale “Giuseppe Montalto” ilcorriere.net, 14 maggio 2018 Con la riapertura, seppure parziale, della casa circondariale “Giuseppe Montalto” di Alba è ripreso a pieno regime il progetto “Valelapena”, che coinvolge un gruppo di detenuti che frequentano un corso di operatore agricolo e gli studenti della Scuola Enologica di Alba. L’obiettivo è quello di coltivare i vigneti impiantati lungo le mura di cinta del carcere e, una volta giunte a maturazione le uve, vinificare il prodotto nella cantina sperimentale dell’istituto superiore albese. Il prodotto finale (“Valelapena”, per l’appunto) viene commercializzato per finanziare le attività rieducative del carcere. Giovedì scorso la classe 5ª A dei futuri enotecnici ha trascorso una mattinata di “reclusione”. I ragazzi, accolti da Giuseppina Piscioneri (direttrice della casa di reclusione), dagli ispettori Vincenzo Mariuccia e Mauro D’Agostini e da alcuni agenti di polizia penitenziaria, hanno guidato i detenuti in alcune operazioni in vigna (spollonatura e legatura). La vegetazione, già molto sviluppata, ha manifestato alcuni attacchi di patogeni (sigarai e erinosi), ma nel complesso appare molto rigogliosa. Il lavoro è proceduto spedito per un paio d’ore. Al termine i reclusi sono ritornati nelle proprie celle, mentre gli studenti hanno partecipato a un piccolo tour guidato alla scoperta della triste realtà carceraria. La visita li ha portati all’interno dell’ala chiusa da qualche anno a causa di un’infezione da legionella. La struttura, per la quale è stato redatto un progetto di recupero da oltre 4 milioni di euro, versa in uno stato di degrado e abbandono totale. Immediatamente i ragazzi (e anche i docenti accompagnatori) hanno chiesto agli ispettori il motivo di questo abbandono e del mancato inizio dei lavori di recupero. Inequivocabile la risposta dei responsabili: “Al momento non ci sono fondi disponibili”. La mattinata, decisamente istruttiva e toccante, si è chiusa con una breve visita nel museo della casa di reclusione, in cui sono esposti alcuni reperti storici provenienti dal vecchio carcere di San Giuseppe, situato in via Vernazza ad Alba. Sassari: presentazione progetto “Liberi Dentro” della My Life Design Foundation vivisassari.it, 14 maggio 2018 Mercoledì prossimo la serata di presentazione delle iniziative della My Life Design Foundation, che svolge azioni di promozione, di ricerca scientifica e di sviluppo innovativo della cooperazione e della cultura che origina dalla consapevolezza individuale e dalla pace. I principali ambiti di intervento riguardano la salute fisica, psicologica e sociale. I progetti sociali si sviluppano principalmente a favore di quelle categorie fortemente emarginate, bisognose di cure, o delicate. Le attività sociali e quelle formative che si sviluppano in ambito imprenditoriale, medico e dell’istruzione hanno il comune intento di educare alla felicità. In particolare presenteremo il progetto “Liberi Dentro”, che interessa da vicino anche la Sardegna, essendo coinvolto anche il carcere di Nuoro. Si tratta di un’iniziativa che nasce come risposta all’annoso problema della reiterazione dei reati che in Italia arriva al 67%. Quasi 7 detenuti su 10, nonostante l’esperienza di detenzione, una volta fuori dal carcere, commettono nuovamente gli stessi reati o reati simili. Il Progetto si prefigge di essere uno strumento utile alla riduzione della recidiva in ambito carcerario. Come? Nel perseguire il suo intento, “Liberi Dentro” si avvale del Metodo My Life Design, già applicato con successo in altri ambiti della società (medico, aziendale, formativo). Il Metodo fonda le sue basi sul Perdono e su strumenti di meditazione. Il perdono viene considerato come un processo capace di riequilibrare al contempo i due aspetti principali dell’individuo: i processi interni, o aspetti intrapsichici, legati alla personalità (ristrutturare la realtà, l’immagine di sé, ridefinire se stessi, liberarsi dalla sofferenza, etc.) e i processi esterni, interpersonali, situazionali, sociali, culturali, esistenziali (ridefinire l’altro e le relazioni, cercare una riconciliazione con l’offensore, cercare la relazione con se stessi). Si è scelto di indirizzare il progetto a tre categorie specifiche di detenuti: sex offenders, detenuti in regime di alta sicurezza, donne detenute in condizione di genitorialità intra o extra murale delle case di reclusione di Bollate, Nuoro e Rebibbia. Più di 200 detenuti avranno la possibilità di esplorare intimamente sé stessi, individuando le ragioni che li hanno spinti a commettere dei reati, permettendo loro di superare i conflitti interiori, di trasformare rabbia, rancore, odio, frustrazione e facendo maturare un’intelligenza emotiva che li renderà liberi, liberi di scegliere consapevolmente le loro azioni. La validazione. In partnership con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il progetto prevede la validazione del Metodo “My Life Design” in ambito carcerario. La validazione se positiva permetterà di estenderne l’applicazione a tutti i carceri che ne faranno richiesta (nazionali ed internazionali) aumentando così esponenzialmente i fruitori. Foggia: “Colpevoli” incontra studenti e ospiti della struttura residenziale “Il Sorriso” immediato.net, 14 maggio 2018 Annalisa Graziano presenterà il volume sul carcere nella struttura foggiana. “I partecipanti sono interessati a sapere se l’autrice si sia mai sentita in imbarazzo, in difficoltà o se abbia mai avuto paura a entrare in carcere e a restare da sola con i detenuti”. Leggere fa crescere e il “Maggio dei libri”, domani mattina, apre le porte de “Il Sorriso” a “Colpevoli. Vita dietro (e oltre) le sbarre” di Annalisa Graziano. Gli ospiti adulti della struttura residenziale incontreranno la giornalista foggiana, insieme con alcuni studenti dell’Istituto “Einaudi” di Foggia”, per parlare di carcere, riabilitazione e futuro oltre le sbarre. Nelle scorse settimane, infatti, le operatrici della RSSA hanno letto agli ospiti le storie di Donato, Sergio e degli altri “Colpevoli”, mentre gli studenti di Via Napoli affrontavano le stesse tematiche con i propri docenti in aula. “Sono molto incuriositi dal libro e desiderano porgere molte domande all’autrice - fanno sapere da “Il Sorriso”. Da come si svolgono le prime giornate dei detenuti, dopo l’arresto a come vengono organizzati gli incontri con i familiari. In particolare, sono molto interessati a sapere se si sia mai sentita in imbarazzo, in difficoltà o se abbia mai avuto paura a entrare in carcere e a restare da sola con i detenuti”. “Colpevoli - spiega Annalisa Graziano - nasce da una lunga chiacchierata con il direttore della Casa Circondariale di Foggia, Mariella Affatato. Dopo l’esperienza della mostra e del volume fotografico “L’altra possibilità. Reportage dal mondo penitenziario”, realizzati a quattro mani con Giovanni Rinaldi, ho pensato di raccontare la vita e le vite dentro. “Colpevoli” è un viaggio nelle sezioni dell’Istituto Penitenziario foggiano, tra le celle, le aule scolastiche, i passeggi, nella cucina e in tutti i luoghi accessibili. È, soprattutto, la rivelazione delle storie che ci sono dietro i nomi e le foto segnaletiche cui ci hanno abituati la cronaca nera e giudiziaria”. La prefazione di “Colpevoli”, realizzato con il sostegno della Fondazione dei Monti Uniti di Foggia e in collaborazione con il Csv Foggia, porta la firma di don Luigi Ciotti. “Queste pagine - scrive il presidente di Libera - ci aiutano a ricordare che il carcere non è una terra marginale o un mondo a parte, ma un’eventualità nella storia delle persone. Scaturita certo da scelte sbagliate, di cui è giusto rendere conto, ma anche da opportunità negate, dall’assenza di alternative”. La postfazione è stata affidata a Daniela Marcone, vicepresidente di Libera e figlia di Francesco Marcone, vittima innocente di mafia. L’autrice, che da diversi anni è anche assistente volontario della Casa Circondariale di Foggia, ha rinunciato ai diritti d’autore: saranno investiti per realizzare attività di volontariato all’interno del Carcere. Denuclearizzazione sì, ma per tutti di Jeffrey Sachs Il Sole 24 Ore, 14 maggio 2018 Esistono due tipi di politica estera: una basata sul principio della “legge del più forte” e una basata sullo stato di diritto internazionale. Gli Stati Uniti vogliono seguire entrambi i criteri: ritenere gli altri Paesi responsabili di fronte al diritto internazionale, e allo stesso tempo non tenerne conto. E per nessun altra questione questo è così vero come per quella delle armi nucleari. L’approccio americano è destinato a fallire. Come proclamò Gesù, “chi di spada ferisce, di spada perisce”. Piuttosto che morire, è tempo di considerare che tutti i Paesi, compresi gli Stati Uniti e le altre potenze nucleari, devono rispettare le norme internazionali circa la non proliferazione. Gli Stati Uniti chiedono alla Corea del Nord di aderire alle disposizioni del Trattato di non proliferazione nucleare (Npt), e su questa base hanno incoraggiato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a imporre sanzioni alla Corea del Nord per indurla a perseguire la denuclearizzazione. Allo stesso modo, Israele richiede sanzioni e persino la guerra contro l’Iran per impedire al Paese di sviluppare armi nucleari in violazione del Tnp. Eppure gli Stati Uniti violano sfacciatamente il Tnp, e Israele fa peggio: si è rifiutato di firmare il trattato e ha rivendicato il diritto a un enorme arsenale nucleare, acquisito mediante sotterfugi, che fino a oggi rifiuta di riconoscere. Il Trattato di non proliferazione nucleare è stato firmato nel 1968, con l’adesione dei firmatari a tre princìpi chiave. In primo luogo, gli stati dotati di armi nucleari si impegnano a non trasferire armi nucleari o a non fornire assistenza alla loro fabbricazione o acquisizione da parte di stati non nucleari, e gli stati non nucleari si impegnano a non ricevere o sviluppare armi nucleari. Secondo, tutti i Paesi hanno il diritto all’uso pacifico dell’energia nucleare. Terzo, e fondamentale, tutte le parti del trattato, comprese le potenze nucleari, accettano di negoziare il disarmo nucleare - nonché generale. Secondo quanto recita l’articolo VI del Tnp: “Ciascuna parte del Trattato si impegna a perseguire in buona fede trattative su misure efficaci per una prossima cessazione della corsa agli armamenti nucleari e per il disarmo nucleare, come pure per un trattato sul disarmo generale e completo sotto stretto ed efficace controllo internazionale”. Lo scopo principale del Tnp è di invertire la corsa agli armamenti nucleari, non di perpetuare il monopolio nucleare di alcuni Paesi. Ancora meno di perpetuare il monopolio regionale dei Paesi che non hanno firmato il trattato, come Israele, che ora sembra credere di potersi sottrarre ai negoziati con i palestinesi grazie alla sua schiacciante potenza militare. È la tipica arroganza autodistruttiva provocata dalle armi nucleari. La maggior parte della comunità internazionale - con la rilevante eccezione delle attuali potenze nucleari e dei loro alleati militari - ha ribadito la richiesta di disarmo nucleare adottando nel 2017 il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. Il trattato chiede a ciascuno stato dotato di armi nucleari di cooperare “al fine di verificare l’eliminazione irreversibile del suo programma sulle armi nucleari”. A fronte di 122 Paesi che hanno votato a favore, uno ha votato contro, uno si è astenuto e 69, comprese le potenze nucleari e i membri della Nato, non hanno votato. A partire dalla scorsa settimana, 58 Paesi hanno firmato il trattato e otto lo hanno ratificato. Gli Stati Uniti chiedono che la Corea del Nord rispetti gli obblighi del Tnp e si denuclearizzi, e il Consiglio di sicurezza è d’accordo. Eppure la sfacciataggine con cui gli Stati Uniti chiedono non una reale denuclearizzazione, ma piuttosto il proprio predominio nucleare, è stupefacente. La Nuclear posture review dell’Amministrazione Trump, pubblicato a febbraio, richiede una massiccia modernizzazione dell’arsenale nucleare statunitense, limitandosi a mere dichiarazioni di intenti circa i propri obblighi nei confronti del trattato Npt. “Il nostro impegno per gli obiettivi del Trattato sulla non proliferazione delle armi nucleari (Npt) rimane forte. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che nel breve periodo l’attuale contesto rende estremamente difficile ulteriori progressi verso la riduzione delle armi nucleari... Questo rapporto si fonda su una verità fondamentale: le armi nucleari hanno e continueranno a svolgere un ruolo fondamentale nel dissuadere attacchi nucleari, e nel prevenire guerre convenzionali a grande scala tra stati dotati di armi nucleari per il prossimo futuro”. In breve, gli Stati Uniti chiedono che solo gli altri Paesi si denuclearizzino. La propria denuclearizzazione sarebbe “difficile” e violerebbe la “verità fondamentale” che le armi nucleari servono ai bisogni militari degli Stati Uniti. A parte il mancato rispetto da parte dell’America dei suoi obblighi di Npt, un altro enorme problema è che i bisogni militari statunitensi non riguardano realmente la deterrenza. Gli Stati Uniti sono di gran lunga la principale entità bellica al mondo, che combatte “guerre per scelta” in Medio Oriente, in Africa e altrove. Le sue forze armate si sono ripetutamente impegnate in tentativi di sostituzioni di regimi nel corso degli ultimi cinquant’anni, totalmente in violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, comprese le due recenti operazioni per rovesciare leader (Saddam Hussein in Iraq e Muammar Gheddafi in Libia) che pure avevano aderito alle richieste statunitensi di porre fine ai loro programmi nucleari. Possiamo dire così: il potere corrompe, e il nucleare crea l’illusione di onnipotenza. Le potenze nucleari si comportano in modo arrogante e dispotico, invece di negoziare. Alcune rovesciano i governi di altri Paesi a loro piacimento, o almeno mirano a farlo. Gli Stati Uniti e gli alleati nucleari hanno ripetutamente arrogato a se stessi il diritto di ignorare il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e lo stato di diritto internazionale, come dimostrano gli attacchi Nato illegali contro il regime di Gheddafi in Libia e le incursioni militari illegali da parte di Stati Uniti, Israele, Regno Unito e Francia in Siria nel tentativo di indebolire o rovesciare Bashar al-Assad. Spingiamo quindi, certamente, per una denuclearizzazione rapida e di successo della Corea del Nord; ma cerchiamo anche, con uguale urgenza, di affrontare l’arsenale nucleare degli Stati Uniti e di altri Paesi. Il mondo non vive sotto una Pax Americana. Sta vivendo nel terrore, con milioni di persone spinte nel vortice di guerre dalla sfrenata e folle macchina militare americana, e con miliardi che vivono all’ombra dell’annientamento nucleare. Terrorismo. La malattia profonda del “gesto isolato” di Massimo Nava Corriere della Sera, 14 maggio 2018 È evidente la dimensione culturale e sociale del problema dell’islamismo radicale, il fiume in cui i pesci più pericolosi possono nuotare, un fiume carsico che scorre nelle periferie, nelle carceri, ormai persino nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Sono 618 mila, 38 mila e 248 mila i followers su Facebook di tre predicatori islamici di orientamento salafista fra i più noti in Francia. A queste cifre occorre aggiungere milioni di visioni su YouTube. Non c’è un collegamento diretto fra terrorismo e islamismo radicale. Anzi, proprio questi predicatori hanno in più occasioni condannato la violenza. Né il numero di followers indica un seguito diretto, valutato fra i 15 e i 20 mila fedeli frequentatori di circa 200 moschee. Ma è evidente la dimensione culturale e sociale del problema, il fiume in cui i pesci più pericolosi possono nuotare, un fiume carsico che scorre nelle periferie, nelle carceri, ormai persino nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Il giovane terrorista di origine cecena che ha colpito l’altra sera a Parigi era noto ai servizi di sicurezza, era stato addirittura recentemente controllato per presunti legami con foreign fighters in Siria, ma non é stato fermato in tempo. Una falla nel sistema? Una conferma della debolezza dello Stato? Domande automatiche che alimentano la polemica politica. Ma le risposte stanno invece in altre cifre emblematiche: fra i 12 e 15 mila individui schedati nell’ormai famoso casellario S, cui andrebbero aggiunti amici, parenti, compagni di studio o di lavoro, l’acqua appunto in cui possono nascondersi; l’acqua in cui tornano a nuotare giovani terroristi andati a combattere nel Daesh. Spesso si parla di gesto isolato che aumenta il senso di impotenza e smarrimento, nonostante le eccezionali contromisure che negli ultimi anni hanno permesso di sventare decine di attentati. Ma il cosiddetto “gesto isolato” non viene da un altro pianeta, é connesso direttamente o indirettamente alla dimensione sociale della paura con cui la Francia si confronta quotidianamente. È questa dimensione che il presidente Macron si é impegnato ad affrontare. La malattia é profonda, le ricette non si trovano nei commissariati. Quando la libertà viene cancellata di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 14 maggio 2018 Può nascere qualche riflessione quando apprendiamo che il regista russo Kirill Serebrennikov non può andare a Cannes perché è perseguitato nel suo Paese autoritario. I grandi eventi mondiali dello spettacolo, del cinema, della musica danno informazioni sui regimi sparsi nel pianeta più delle cronache quotidiane dei media, che sono molto meno seguite. Perciò può nascere finalmente qualche pensiero quando apprendiamo che il regista russo Kirill Serebrennikov non può andare a Cannes perché è perseguitato nel suo Paese autoritario. O perché, sempre a Cannes, non si può recare il regista Jafar Panahi, tenuto in ostaggio dal regime oscurantista degli ayatollah. O perché la regista del Kenya Wanuri Kahyu ha qualche difficoltà nel suo Paese a causa di un film che affronta temi che sono ancora tabù. Ma noi non ci pensiamo mai. Non capiamo che le nostre democrazie, ancorché fragili, svuotate, scolorite, mal funzionanti, sono pur sempre una piccola isola nel mare di regimi dispotici da cui è circondata. Ci balocchiamo con l’idea di una scorciatoia autoritaria per superare le difficoltà e le contraddizioni delle democrazie liberali, ma non ci rendiamo conto che il prezzo da pagare è, come ben sanno i registi sopra citati, il bavaglio, la cancellazione delle libere opinioni, la stretta repressiva, le galere con annesse le stanze della tortura, la subordinazione delle donne, l’asfissia per ogni forma di espressione artistica, la mortificazione del talento creativo. La gran parte di noi considera questa condizione di relativa libertà, ma incommensurabilmente più ricca delle tirannie che ci stanno intorno, come un bene che non richiede cura, manutenzione, rispetto. Facciamo finta di non vedere la brutalità massima con cui la Russia di Putin maltratta ogni forma di opposizione: volete mettere con l’importanza di buoni rapporti commerciali con Mosca o con Pechino, che in quanto violazione dei diritti fondamentali non è secondo a nessuno? Non vogliamo sapere che ne è degli iraniani e delle iraniane arrestati durante le manifestazioni di protesta a Teheran e che ora sono inghiottiti dalla macchina del terrore del fanatismo islamista. Ora un regista russo trattenuto a Mosca e un regista iraniano soffocato a Teheran non possono andare a Cannes. Ma quanti russi e iraniani non possono andare da nessuna parte, non possono leggere pensieri liberi, guardare film liberi, ascoltare musiche libere, indossare abiti liberi, come le donne iraniane imprigionate nei loro chador? Non ce lo domandiamo più, ormai. Immigrazione. La trincea italiana è al tavolo Ue di Nicola Latorre Il Messaggero, 14 maggio 2018 “Il tema dell’immigrazione, della sicurezza e degli sbarchi sarà parte fondante del programma del Governo”. Queste sono le parole pronunciate venerdì scorso da Matteo Salvini, alle quali si sono poi aggiunte quelle di Di Maio fiducioso per i risultati già raggiunti su alcuni punti quale quello dell’immigrazione. Ci sono molte buone ragioni per prestare grande attenzione a questo capitolo del contratto di programma. La gestione del fenomeno migratorio è stata in questi anni e continuerà a essere per un periodo non breve una delle grandi sfide con cui il nostro Paese, e non solo esso, dovrà misurarsi. Oltretutto l’immigrazione ha condizionato e continuerà a condizionare non poco gli orientamenti delle nostre opinioni pubbliche. Le coincidenze temporali vogliono che il nuovo Governo, se nascerà, inizierà il suo lavoro con l’arrivo dell’estate. Periodo nel quale le più favorevoli condizioni climatiche e del mare incoraggiano un maggiore flusso migratorio. Tra l’altro l’area del Mediterraneo continua ad essere segnata da conflitti ancora irrisolti e da situazioni di instabilità politica in alcuni Paesi che non aiutano certamente una gestione del fenomeno. Vedremo gli sviluppi della situazione in Libia e come potranno proseguire le nostre relazioni con i diversi protagonisti della vita pubblica di quel Paese. Così come non sappiamo quali saranno gli esiti della crisi tra Iran e Israele o di quella siriana. Le conseguenze di queste crisi incidono infatti anche nell’area che comprende i Paesi di provenienza e transito dei migranti. Finora l’Italia, con la strategia messa in campo dal Governo soprattutto in questo ultimo periodo, anche con un contributo delle opposizioni, ha retto alla sfida. I dati confermano che il numero dei migranti sbarcati nel nostro Paese dal primo gennaio 2018 a venerdì scorso sono stati 9.948 rispetto ai 45.112 sbarcati nello stesso periodo del 2017, con una riduzione del 77,95%. E, particolare non irrilevante, quelli provenienti dalla Libia sono 6.843 contro i 43.488 nello stesso periodo dello scorso anno, pari a una riduzione dell’84,26%. Vale allora la pena chiedere con quale strategia si intende ora continuare visto che nelle dichiarazioni fin qui ascoltate questo non è chiaro. Si continuerà nella strada intrapresa o si cambierà indirizzo? E se quest’ultima è l’intenzione in quale direzione si intende andare? Sarebbe il caso di renderlo chiaro anche per favorire un comune impegno delle forze politiche, indipendentemente dalla collocazione parlamentare, che su questo tema è nell’interesse del Paese. Le prime indiscrezioni a proposito di immigrazione parlano della volontà di “contrastare il business dell’accoglienza”. Certo, le vicende scandalose che hanno riguardato alcuni centri di accoglienza richiedono un intervento rigoroso di moralizzazione ma questo obiettivo rappresenta una parte e certamente non la più significativa di una strategia sull’immigrazione. Si parla inoltre della necessità di modificare tutti i trattati europei e nella fattispecie quello di Dublino. In realtà sarebbe il caso di insistere per una totale cancellazione di quell’accordo per scriverne uno completamente nuovo, adeguato ai tempi e alle dimensioni che oggi ha assunto il fenomeno. E qui torna centrale il tema del rapporto con l’Europa. Infatti di cambiare l’accordo di Dublino si sta già discutendo tra i governi europei e sono i Paesi guidati da governi “sovranisti”, ostili a una politica europeista come il gruppo di Visegrad, a sostenere una linea che renderebbe il trattato ancora più penalizzante per i Paesi di primo approdo, come l’Italia e la Grecia offrendo in cambio un aumento dei fondi destinati all’immigrazione. Ne deriva dunque la necessità di chiarire con quale posizione e soprattutto con quali alleanze il nuovo Governo intende affrontare questa discussione già dal prossimo Consiglio Europeo di giugno. Si sta con quei governi, come quello ungherese, che sostengono posizioni anti-italiane e per i quali autorevoli esponenti della possibile nuova maggioranza hanno espresso grandi apprezzamenti? O si lavora alla costruzione di una alleanza con Francia e Germania su una linea europeista e in grado anche sull’immigrazione di contrastare i “sovranisti”? Rispondere a questi quesiti aiuterà a comprendere quanto oggi gli interessi nazionali su un tema cruciale come quello dell’immigrazione, ma non solo su esso. Egitto. Caso Regeni, le carte su Giulio sequestrate. La madre in sciopero della fame di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 14 maggio 2018 Il regime di Sisi ha nelle mani documenti, commenti, strategie difensive della famiglia di Giulio Regeni. Li hanno perché hanno sequestrato telefoni e computer dei loro consulenti legali. E arrestato la moglie di uno degli attivisti, Amal Fathy. “Da oggi cominciamo lo sciopero della fame” spiega, turbata, Paola Regeni. “Termineremo quando la libereranno”. Il blitz è avvenuto nella notte tra giovedì e venerdì, a casa di Mohammed Lotfy, uno dei dirigenti della Ecrf (Egyptian commission for rights and freedoms), l’organizzazione a cui si sono appoggiati i Regeni subito dopo l’assassinio di Giulio. “Ci stavamo scrivendo quando improvvisamente sono entrati in casa sua e hanno sequestrato tutto” ha raccontato l’avvocata Alessandra Ballerini, difensore della famiglia. L’accusa per Amal è pesantissima: terrorismo. Rischia la pena di morte (ieri la sua detenzione è stata prorogata di altri quindici giorni). “Da donne - hanno detto ieri Paola Regeni e l’avvocata Ballerini - siamo particolarmente turbate ed inquiete. Per questo inizieremo un digiuno a staffetta chiedendo la sua liberazione immediata. Nessuno deve più pagare per la nostra legittima richiesta di verità sulla scomparsa, le torture e l’uccisione di Giulio. Vi chiediamo di digiunare con noi, fino a quando Amal non sarà finalmente libera. Noi siamo la loro speranza”. I Regeni non hanno alcun dubbio che l’arresto sia da collegare con il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio. Non è un caso che ad arrestare Amal sia stata la National Security, il servizio segreto civile, per il quale lavorano otto dei novi sospettati del sequestro Regeni e dei successivi depistaggi. Si tratta dei nomi di funzionari che la procura di Roma ha inviato alla procura generale del Cairo perché facesse ulteriori accertamenti. Le stesse persone di cui domani dovrà discutere il sostituto procuratore Sergio Colaiocco con i suoi colleghi egiziani nell’incontro fissato al Cairo che avrà, evidentemente, tutt’altro sapore rispetto alle attese. I Regeni avevano appena ricevuto le traduzioni del fascicolo che era stato loro messo a disposizione dalla procura generale egiziana. E in queste ore, con la collaborazione proprio dei loro consulenti, stavano individuando incongruenze e bugie nei racconti dei poliziotti della National security. Gli stessi che ora hanno quelle conversazioni riservate. Gli stessi che hanno arrestato Amal. Egitto. Avvocato morto in carcere, agenti di polizia assolti Ansa, 14 maggio 2018 In prima istanza erano stati condannati a 5 anni di reclusione. Un tribunale egiziano ha assolto due agenti di polizia che erano stati precedentemente condannati a cinque anni di detenzione per l’uccisione di un detenuto, un avvocato. Il verdetto emesso dal Tribunale penale del Cairo rovescia dunque una sentenza pronunciata contro i due poliziotti, che erano stati accusati di aver picchiato a morte l’avvocato Karim Hamdi, nel febbraio 2015. Hamdi era stato arrestato con l’accusa di appartenere alla Fratellanza Musulmana, che ha vinto una serie di consultazioni elettorali, fino a quando non è stata posta fuorilegge come gruppo terrorista.