Le pene alternative aumentano la sicurezza di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 maggio 2018 Le ricerche documentano che la recidiva diminuisce quando parte delle condanne viene espiata in misure che avviino i detenuti allo studio e al lavoro. Caspita che segugi, in tema di giustizia proprio non gliela si fa a 5Stelle e leghisti. I quali - divisi magari su altri temi di governo, ma accomunati dallo spacciare “più carcere” per “più sicurezza”, e dunque dal volere l’affossamento del decreto legislativo sulle misure alternative al carcere contrabbandate come “svuota-carceri” e millantate come “salva-ladri” - ieri trovano apparente man forte non più in quei magistrati (sparuti ma “mediatici”) che hanno già consumato la propria credibilità in altrettanto infondati allarmi sui “favori ai mafiosi”, ma nell’asserito inganno statistico disvelato dalla prima pagina del Fatto Quotidiano. Che inneggia alla “scoperta” di un “ricercatore e docente di Diritto” (maiuscola evidentemente più autorevole del taciuto curriculum online evocante la collaborazione a un e-campus in una università telematica), in quanto “smonta la tesi del governo” e rivela che “è falso che le pene alternative diminuiscano i casi di recidiva”, e cioè riducano il numero degli ex detenuti che riprendono a delinquere. Come se fosse chissà quale segreto di Fatima sinora occultato dalla congiura dei buonisti d’accatto, ecco che la fonte dei contestati dati viene astutamente scovata nella ricerca (pubblicata da Fabrizio Leonardi nel 2007) “Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva”, di cui asseritamente “si scopre” lo strabismo statistico di aver considerato solo le successive sentenze definitive e sottostimato la minore caratura delinquenziale dei detenuti in misura alternativa, un pò come - si ironizza - se si fosse tastato un prodotto dietetico a distanza di poco tempo e solo sui magri sportivi confrontati con gli obesi sedentari. “Molti lo citano, ma pochi l’hanno letto”, ammicca la rivelazione. Che tale può però apparire soltanto a chi - oltre a ignorare totalmente 10 anni di confronti sul tema e sulle ben note premesse statistiche della ricerca del 2007 da parte di una legione di ex presidenti della Corte Costituzionale, autentici docenti di diritto penale nelle più prestigiose università, commissioni Csm, magistrati Anm, avvocati Ucpi o direttori delle carceri - mostra invece di non aver evidentemente mai letto neppure i risultati di tre anni di studio 2012-2014 degli economisti Giovanni Mastrobuoni (Università di Essex) e Daniele Terlizzese (dirigente di Banca d’Italia e direttore dell’Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanza), con la banca-dati del ministero della Giustizia e la collaborazione della giornalista del Sole24Ore Donatella Stasio. Questo studio ha documentato come, a parità di pena complessiva da scontare e di una serie di parametri di omogeneizzazione, la recidiva diminuisse di 9 punti percentuali per ogni anno di prigione passato nel penitenziario di Bollate, battistrada nelle attività di studio-lavoro-formazione che preludono all’ammissione dei detenuti a espiare parte delle loro condanne in misure alternative al carcere. Di più: essendo non demagoghi da slogan elettorali ma studiosi, gli stessi economisti si erano già chiesti se magari la riduzione della recidiva potesse dipendere appunto dal tipo di selezione di detenuti in entrata a Bollate, più motivati e dunque predisposti al successo dell’espiazione di parte della pena fuori dal carcere laddove (come precondizione) un carcere stile Bollate abbia intanto attuato il dettato costituzionale della rieducazione. E perciò avevano ripetuto lo studio su un sottogruppo dei detenuti di Bollate, gli “sfollati”, cioè quei detenuti che vi venivano trasferiti casualmente solo perché capitava che altre carceri sovraffollate dovessero essere alleggerite: con il risultato che l’effetto migliorativo era ancora maggiore, nel senso che, per ogni anno in più di pena scontato in un carcere come Bollate, la recidiva appariva ridursi di 14 punti percentuali. Al netto del derby statistico sulla quantità di riduzione di recidiva, il punto é la dimostrazione scientifica (fintamente ignorata perché indigeribile per gli impresari politici della paura) del nesso: la sicurezza per i cittadini, cioè la loro aspettativa di non essere vittime di reati nuovamente commessi da ex detenuti, é più assicurata se i condannati scontano la loro pena non tutta e soltanto chiusi in cella a far niente, ma parzialmente anche in misure alternative al carcere che li avviino allo studio o lavoro. Proprio il contrario, insomma, dei paventati “svuota-carceri” o “salva-ladri”. Visite coniugali in carcere: il diritto del detenuto all’affettività di Valeria Citraro (Avvocato) deiurecriminalibus.altervista.org, 13 maggio 2018 Le restrizioni dovute all’ingresso in carcere del detenuto non si arrestano alla primaria privazione della libertà, ma va oltre, comportando la sospensione dei rapporti umani e delle relazioni personali, familiari ed intimo-affettive. All’interno del carcere, salvo rare eccezioni e qualche “bacio rubato” durante i colloqui, la sfera affettiva e sessuale del detenuto è del tutto negata. La disciplina dettata dagli artt. 18 o.p. e 37 reg. es. in ordine allo svolgimento dei colloqui visivi in carcere, dispone infatti che essi avvengano sotto il costante controllo visivo del personale di custodia ed in appositi locali o aree all’aperto (sempre facenti parte della struttura penitenziaria, ovviamente). In tale disciplina non troverebbe, pertanto, tutela il diritto all’affettività e all’intimità del detenuto con il proprio partner; diritto che parrebbe anch’esso essere meritevole di tutela e che può certamente inglobarsi nel principio personalistico (art. 2 Cost.) oltre che nel diritto al mantenimento dei rapporti affettivi e familiari in carcere (artt. 29, 30 e 31 Cost.) e nel principio della finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3 Cost.). Interrompere il flusso dei rapporti umani ad un singolo individuo significa separarlo dalla sua stessa storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo hanno generato, nutrito e sostenuto. Il carcere demolisce, anno dopo anno, quella che si potrebbe definire l’identità sociale del detenuto. Tutti sono concordi nel riconoscere che l’attività sessuale nell’uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto, in ogni caso, dei traumi sia fisici che psichici. È comprovato che molti individui, che prima dell’incarcerazione avevano sempre avuto ed espresso un comportamento eterosessuale, a causa della promiscuità della vita carceraria, del turpiloquio e delle oscenità di cui diventano spettatori, subiscono un vero e proprio processo di depersonalizzazione ed uno parallelo di adattamento all’ambiente, contraddistinto dal codice della subcultura carceraria (regole non scritte, vigenti tra i detenuti). La maggior parte dei detenuti raccontano come il desiderio sessuale nei primi mesi in carcere sia del tutto assente. Poi avviene il risveglio. Si inizia a praticare l’autoerotismo, che presto finisce per non appagare più a sufficienza; si è così portati inesorabilmente a desiderare il rapporto omosessuale che può divenire talora anche mezzo di sfruttamento e merce di scambio. Questa depersonalizzazione ha, per molti detenuti, effetti dirompenti: non si riconoscono più nei propri comportamenti, tendono a dissociarsi, con evidenti ricadute psico-fisiche e la nascita, spesso, di psicopatie. A livello sovranazionale, l’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo sancisce il “diritto di stabilire relazioni diverse con altre persone, comprese le relazioni sessuali” e che “il comportamento sessuale è considerato un aspetto intimo della vita privata”. All’articolo 12 viene, poi, anche sancito il diritto di creare una famiglia. Su questo sfondo normativo, il Consiglio dei Ministri europeo ha raccomandato agli Stati membri di permettere ai detenuti di incontrare il/la proprio/a partner senza sorveglianza visiva durante la visita. (Raccomandazione R(98)7, regola n. 68). Parimenti, anche l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha raccomandato di mettere a disposizione dei detenuti dei luoghi per coltivare i propri affetti (Raccomandazione 1340(1997) relativa agli effetti della detenzione sui piani familiari e sociali). Ben 31 Stati su 47 componenti del Consiglio d’Europa, prevedono nel proprio ordinamento interno, attraverso svariate procedure, la possibilità per il detenuto di accedere a visite affettive con il proprio partner. Ricordiamo, tra gli altri, Russia, Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia, ed Austria. In Germania e Svezia, addirittura, negli istituti penitenziari sono stati edificati dei miniappartamenti dove il detenuto è autorizzato a vivere per alcuni giorni con la famiglia. Anche fuori dall’Europa accade similmente. In Canada le visite coniugali avvengono dal 1980 in apposite roulotte esterne al carcere. In America, fin dagli anni ‘90, in un campo di lavoro nel Mississippi ogni domenica i prigionieri hanno la possibilità di ricevere in visita una “professionista del sesso”. Le visite intime sono ammesse anche in India, Israele e Messico; e l’elenco potrebbe continuare. Attualmente, il sistema utilizzato nel nostro ordinamento, per consentire al detenuto di mantenere relazioni anche intime con il proprio partner, è quello dei permessi premio, che gli permettono di trascorre un breve periodo in famiglia (max 15 giorni per ciascuna autorizzazione e max 45 giorni l’anno, e cioè 3 permessi premio). È noto, però, che il beneficio viene concesso dal Magistrato di sorveglianza non a tutti i detenuti, ma solo ai condannati che hanno tenuto regolare condotta e non risultano socialmente pericolosi. In Italia, c’è stata la proposta di legge 653/86 (poi abrogata), che ha considerato l’idea di introdurre delle apposite celle per l’amore, in modo che il detenuto potesse mantenere un legame di coppia preesistente. Inutile dire come l’argomento abbia suscitato così tante perplessità, da essere presto stato messo da parte. Successivamente il Magistrato di Sorveglianza di Firenze, su ricorso di un detenuto, sollevava eccezione di costituzionalità dell’art. 18 o.p., nella parte in cui prevede il controllo a vista e non auditivo del colloquio, perché ciò impedisce di avere rapporti intimi, anche sessuali, con il coniuge o convivente, in violazione degli artt. 2, 3, 27, 29 e 32 Cost., nonché a varie fonti sovranazionali. Il controllo visivo violerebbe, in buona sostanza, la dignità umana del detenuto, non permetterebbe il pieno sviluppo della sua personalità, andando ad incidere negativamente sulla rieducazione e sulla salute, soprattutto poiché, di fatto, impedirebbe i rapporti affettivi, compresi quelli sessuali, così raffigurandosi alla stregua di un trattamento contrario al senso di umanità. La Corte Costituzionale (sent. n. 301/2012), pur nel ritenere inammissibile la questione di legittimità costituzionale, dopo aver sottolineato come di per sé l’eliminazione del controllo visivo non basterebbe a realizzare l’obiettivo perseguito, perché per le visite occorrerà predisporre una disciplina che stabilisca termini, modalità, destinatari, numero, durata, misure organizzative, ha poi richiamato l’attenzione del legislatore sul problema dell’affettività in carcere anche per le indicazioni provenienti dal paragone con tanti Stati nel mondo che riconoscono al detenuto una vita affettiva e sessuale intramuraria, e dagli artt. 8 e 12 della Cedu, riconoscendo come si tratti di un’esigenza fortemente avvertita sul “pianeta carcere” che il legislatore non può esimersi dall’affrontare. E così la proposta di introdurre delle “stanze dell’affettività” o “love rooms” è tornata di recente all’attenzione, soprattutto grazie agli Stati Generali sull’Esecuzione Penale, una commissione di esperti del mondo del carcere voluta dal Ministro Orlando, che ha terminato i lavori nel 2016. Per l’affettività in carcere, la commissione ha proposto l’istituto della “visita”, diversa dal “colloquio”, da svolgersi senza il controllo visivo e/o auditivo del personale di sorveglianza in “unità abitative” collocate all’interno dell’istituto, separate dalla zona detentiva, con pulizia affidata ai detenuti, e da svolgersi in un “opportuno lasso temporale”. In via sperimentale, nel carcere di Milano Opera, sono state recentemente edificate le “stanze dell’affettività”, formate da una cucina, un frigorifero, un tavolo con le sedie e da un divano con un televisore. Per un giorno intero i detenuti ammessi potranno parlare, prendere un caffè, giocare, abbracciarsi e baciarsi come una famiglia normale dimenticando di essere dentro un carcere. Al beneficio sarebbero ammesse 16 famiglie, selezionati appositamente dagli educatori, ogni anno, perché considerati i nuclei familiari più sofferenti. Accordo sulla sicurezza M5S-Lega: più celle, meno migranti di Matteo Pandini Libero, 13 maggio 2018 Chiusa l’intesa su una decina di punti: non ci sarà la patrimoniale, distanze su infrastrutture e temi etici. Oggi vertice decisivo al Pirellone. Accordo chiuso su una decina di punti: questa mattina Movimento 5 Stelle e Lega scolpiranno il resto del “contratto di governo” con l’idea di arrivare a una ventina di obiettivi condivisi. Il via libera di massima è arrivato su ambiente, agricoltura, fisco, giustizia, esteri, difesa, sicurezza, autonomia delle Regioni e immigrazione. Si registrano distanze significative su politiche per la famiglia, temi etici, rapporti con l’islam e infrastrutture (i grillini frenano su nuove autostrade e grandi opere come Tav o Tap). Sul futuro dell’Ilva di Taranto non è emersa una posizione chiara, nonostante una discussione di circa 40minuti. Questa mattina, alle 10,30, riprenderanno i negoziati. Sempre al Pirellone. Ancora negli uffici del consigliere regionale 5 Stelle Dario Violi. In tutto, sono presenti una ventina di esperti equamente divisi tra Lega e grillini. Le parti hanno concordato che non ci sarà alcuna patrimoniale mentre il reddito di cittadinanza è stato spiegato in due pagine fitte che i leghisti hanno condiviso, pur inserendo alcuni paletti. Tra la ciccia, in ordine sparso, c’è la modifica della legge sulla legittima difesa, in modo da garantire maggiormente chi viene aggredito. E ancora. Aumenteranno i fondi per il respingimento degli immigrati, con contemporanea sforbiciata per i progetti di accoglienza. Le parti sono distanti a proposito di stretta su imam e nuove moschee, ma il tavolo non fallirà per questo. Via libera alla costruzione di carceri e all’incremento degli organici delle forze dell’ordine. Sul fronte giustizia, si pensa alla cancellazione degli sconti di pena per la corruzione nella pubblica amministrazione (bandiera della campagna elettorale grillina). Le delegazioni hanno sudato soprattutto sui dossier economici. Semaforo verde per la Flat tax: si parla di due aliquote con deduzione fissa. La riforma varrà sia per le imprese che per le famiglie. E poi. Cancellazione degli studi di settore e dello spesometro. Verrà anche abolita l’inversione dell’onere della prova, quella norma che mette il contribuente in una posizione di debolezza rispetto allo Stato nei casi di contenzioso col fisco. Legge Fornero: si lavora al superamento, magari inserendo il cosiddetto principio “del 100”, intendendo la somma dell’età della pensione e degli anni di contributi. Nelle intenzioni, il risultato dovrebbe addolcire i limiti previsti dal governo Monti. Rassicurazioni a proposito di politica estera. Lega e Movimento 5 Stelle hanno messo nero su bianco la conferma dell’alleanza Atlantica, aggiungendo la netta contrarietà alle sanzioni contro la Russia di Putin. Nella testa dei contraenti, questi obiettivi dovrebbero tranquillizzare le diplomazie internazionali e soprattutto il Quirinale. Altro terreno comune, il federalismo: le richieste autonomiste di Lombardia e Veneto verranno accontentate. E si punterà molto sulle energie rinnovabili e meno inquinanti. Di Maio ha parlato di “giornata produttiva”, Salvini ha confermato che “stiamo lavorando”. L’idea è chiudere la partita entro stasera, con una telefonata al Quirinale che dovrà confermare l’intesa sul programma e quindi sul futuro governo. Al massimo, in caso di emergenza, la chiamata potrebbe slittare a domani. Sul tavolo resta il nodo della premiership: il tema è stato discusso solo da Di Maio e Salvini, che hanno abbandonato la stanza delle trattative per parlarne riservatamente. Avanza l’ipotesi di un presidente del Consiglio terzo, così da non scontentare nessuno. Si sta lavorando a una rosa di nomi, entro pochi giorni verrà presa una decisione. Mattarella attende. Matteo allarga le braccia: “Ce la stiamo mettendo tutta, se non ce la faremo ci abbiamo provato”. Ma nessuno, nonostante le divisioni, crede nel fallimento. D’altronde le frizioni sono normali, conferma il capo politico dei 5 Stelle con un messaggio sul web, perché “siamo due forze politiche diverse”. L’eventuale esecutivo Luigi- Matteo ha già un nome: governo del cambiamento. Beppe Grillo gongola: il mio Luigi, dice, “è in gamba”. Oggi si ricomincia. Vertice confermato al Pirellone, nonostante i consiglieri regionali di Fi dicano che “è inopportuno”. Sul populismo penale di Nicola Galati fondazionehume.it, 13 maggio 2018 Vi è un tema che ha perso la centralità degli anni scorsi nel dibattitto pubblico, tanto da non essere strumentalizzato nella recente campagna elettorale: la riforma della giustizia. La scorsa legislatura si è conclusa con un bilancio negativo in materia: poche riforme, non certo ispirate da principi garantisti e liberali. L’eccezione sembra essere la riforma dell’ordinamento penitenziario che, dopo un lungo e travagliato iter, rischia di non entrare in vigore. La prima tappa dell’iter della riforma è stata l’istituzione, da parte del Ministro della Giustizia Orlando, degli Stati generali dell’esecuzione penale (D.M. 8 maggio 2015). I lavori degli Stati generali sono stati, in parte, alla base dell’approvazione della legge delega al Governo (legge n. 103 del 23 giugno 2017) per riformare l’ordinamento penitenziario secondo alcuni criteri direttivi. Il Ministro (D.M. 19 luglio 2017) ha poi istituito tre commissioni per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo della riforma: una competente circa le modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza e di assistenza sanitaria; un’altra per la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile; la terza per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso. Precedenza è stata accordata allo schema di decreto legislativo riguardante la riforma dell’ordinamento penitenziario, privato però delle parti riguardanti l’affettività ed il lavoro (quest’ultima per mancanza di copertura finanziaria), approvato da parte del Consiglio dei ministri e trasmesso per il parere alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato in febbraio. Le Commissioni, pur approvando il decreto, hanno inviato dei pareri critici su alcuni punti della riforma, in particolare la Commissione del Senato ha sollevato dei dubbi circa un punto fondamentale della riforma (il superamento degli automatismi che impediscono l’individualizzazione del trattamento penitenziario). Questo passaggio ha fortemente rallentato, e forse compromesso, l’iter approvativo della riforma. Il Governo, infatti, non potendo recepire le indicazioni provenienti dalla Commissione Giustizia del Senato, che avrebbero snaturato la riforma, ha approvato il decreto di riforma discostandosi da esse ma per questo motivo ha dovuto trasmetterlo alle Commissioni per un nuovo parere. La grave colpa del Governo è stata quella di aver temporeggiato eccessivamente, approvando il decreto di riforma soltanto il 16 marzo, dopo le elezioni politiche, per paura che un’approvazione in piena campagna elettorale fosse strumentalizzata dalle forze politiche ostili alla riforma. Ciò nonostante le forti sollecitazioni ad accelerare i tempi ricevute da parte dell’Avvocatura, della Magistratura, della Dottrina, degli operatori del pianeta carcere e nonostante il Satyagraha indetto da Rita Bernardini del Partito Radicale e da oltre dieci mila detenuti. Il risultato paradossale è stato che proprio quelle forze politiche (Lega e Movimento 5 stelle) hanno vinto le elezioni con conseguenze prevedibili sul futuro della riforma. Il decreto di riforma, infatti, è stato trasmesso al nuovo Parlamento ma non è stato inserito nell’ordine del giorno della Commissione speciale, per decisione di centrodestra e Movimento 5 Stelle, in quanto ritenuta materia non urgente. Atteggiamento ostruzionistico che rischia di vedere sospesa la riforma fintanto che non si formeranno le Commissioni Giustizia di Camera e Senato. Per scongiurare questa impasse sono due le strade percorribili: o la Commissione speciale esprime un parere sulla riforma o il Governo procede ugualmente all’approvazione della stessa. La prima via è stata sollecitata dal Presidente della Camera Roberto Fico, che ha chiesto ai gruppi parlamentari una “riflessione” circa il parere della Commissione speciale di Montecitorio sul decreto di riforma, senza finora ottenere alcun risultato. In quest’ottica si inserisce anche l’iniziativa dell’Unione delle Camere Penali Italiane che, per i giorni 2 e 3 maggio, ha indetto l’astensione dalle udienze ed una manifestazione nazionale, proprio per sollecitare l’inserimento dei Decreti Legislativi approvati dal Consiglio dei Ministri nell’ordine del giorno delle Commissioni speciali. La seconda ipotesi è stata caldeggiata dal Guardasigilli Orlando, secondo il quale il Governo, in caso di prolungato ostruzionismo del Parlamento, sarebbe legittimato ad approvare definitivamente il decreto. Ciò in forza dell’art. 1, comma 83, della legge 103 secondo cui “i pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia (…) sono espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione” e “decorso tale termine, i decreti possono essere comunque emanati”. Poiché il decreto è stato trasmesso lo scorso 20 marzo e sono trascorsi anche i dieci giorni dall’insediamento delle Commissioni speciali, il Governo può procedere all’approvazione definitiva del decreto. Al momento la situazione resta però sospesa, bloccata da polemiche politiche. La riforma è fortemente contestata da Lega e Movimento 5 Stelle che la definiscono “svuota-carceri” e “salva ladri”. Ma è davvero tale? No, basta esaminarne il contenuto. La finalità della riforma è quella di dare compiuta attuazione all’art. 27 della Costituzione, in base al quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per questo si incentivano le misure alternative alla detenzione, superando alcuni automatismi e presunzioni che limitano l’accesso ad esse. Ad esempio, la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale viene estesa a coloro che devono scontare fino a quattro anni di pena, rispetto ai tre previsti precedentemente (misura già anticipata da una decisione della Corte Costituzionale). Inoltre, viene modificato l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario (che esclude dalla possibilità di accesso ai benefici di legge alcune categorie di detenuti individuate sulla base del reato commesso), superando gli automatismi esclusivi previsti per alcuni reati (con esclusione dei reati di mafia e terrorismo ed altri gravi reati associativi). Non vi sarà, quindi, alcuna estensione automatica dei benefici bensì sarà la magistratura a valutare, caso per caso, la meritevolezza della concessione del beneficio. Gli allarmi lanciati dai critici della riforma sono, pertanto, infondati ed immotivati, rispondenti a scarsa conoscenza del testo o a finalità politiche propagandistiche. Nonostante il numero di reati sia in costante calo, infatti, molti politici e media fomentano un presunto allarme sociale, un’insicurezza diffusa, così da indurre una richiesta di misure securitarie e carcero-centriche. L’effetto di questo populismo penale, branca del populismo politico, che strumentalizza le paure legittime dei cittadini ed il dolore delle vittime dei reati, è la diffusione di istanze giustizialiste e forcaiole per cui il carcere è l’unico rimedio. Pertanto risultano mal digesti provvedimenti atti ad incentivare le misure alternative al carcere, in quanto considerate un vulnus al principio della certezza della pena. In realtà, quello della certezza della pena è principio strumentalizzato: secondo la nostra Costituzione la pena deve tendere al reinserimento sociale del detenuto e per far ciò deve essere individualizzata. A meno che per pena certa si intenda soltanto quella scontata in carcere. Proprio questo sembra essere il sentimento comune diffuso in larga parte dell’opinione pubblica, motivo per cui il Governo ha temporeggiato e tergiversato nell’approvazione della riforma e per cui la discussione sulla riforma è stata quasi assente dal dibattito pubblico. La riforma, inoltre, è nata come risposta al più vasto problema della condizione delle carceri. Il nostro sistema penitenziario continua ad essere afflitto dal sovraffollamento e da condizioni detentive che minano la dignità dei detenuti. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani) per i trattamenti inumani e degradanti subiti dai detenuti. Il fallimento della riforma non farà che acuire tali problematiche. Ma di questa riforma bisogna apprezzare soprattutto il metodo che si spera sia seguito in futuro. La stesura del testo ha visto il coinvolgimento di personalità dalla indiscussa competenza in materia, provenienti dall’Accademia, dall’Avvocatura e dalla Magistratura, tanto da essere sostenuta da Csm, Anm, Ucpi, Cnf, Magistratura di Sorveglianza. Un rimprovero da muovere è quello di non aver osato di più, procedendo ad una riforma organica ed incisiva dell’ordinamento penitenziario, sempre più urgente e necessaria, nonostante le urla dei forcaioli di turno. Il giustizialismo mediatico va fermato di Samuele Ciambriello* linkabile.it, 13 maggio 2018 Troppi processi paralleli su giornali e tv che incidono sulla dignità della persona. Troppi persuasori occulti. Il tema del rapporto fra giustizia e mezzi di informazione è complesso e comprende almeno due profili principali: quello dell’informazione sulla giustizia, specialmente sulla giustizia penale, e quello del rapporto fra i magistrati e l’informazione. Il nuovo Parlamento come si muoverà su questi temi? Nel “contratto” tra Di Maio e Salvini il tema della giustizia, del Garantismo, del giusto processo, delle carceri, dell’eccessivo uso della carcerazione preventiva è presente? Cosa pensano, i futuri leader, dell’informazione distorta, dei “processi paralleli” sui giornali e tv che spesso diventano dei veri e propri set di fiction? Purtroppo, accade sempre più spesso che l’inchiesta giornalistica su fatti di cronaca, considerati degni di interesse per l’opinione pubblica, si tramuti in un “processo mediatico”, parole che esprimono i guasti che un’eccessiva attenzione, se non una vera e propria pressione esercitata dai mezzi di comunicazione, possono provocare al sereno sviluppo delle indagini e al corretto svolgimento dei meccanismi processuali. Le preoccupazioni sollevate da Vance Packard agli inizi degli anni cinquanta con il suo celeberrimo testo “I Persuasori occulti” rimangono, ancor oggi, un argomento che non smette di affascinare. Egli denunciò come la triplice alleanza tra nuovi mass-media, scienziati e pubblicitari, avrebbe creato una “fabbrica del consenso” capace di togliere all’Occidente una discreta fetta del suo libero arbitrio. Ma oggi, per alcuni da Mani Pulite in poi, c’è un’alleanza ancora più insidiosa, quella tra mass-media e magistrati. Una volta il cuore del processo era il dibattimento pubblico, lì si concentravano giornali e tv, anche per suscitare una giusta indignazione, denunciare un diffuso malcostume. Oggi tutto accade prima e l’attenzione dei media è totalmente concentrata sulla fase delle indagini. e quando si arriva al processo, se ci si arriva, spesso le luci dell’informazione sono già spente. Mi limito a ricordare che il punto nodale del nuovo processo è senza dubbio l’aver riservato al dibattimento il momento esclusivo, con poche tassative e non rilevanti eccezioni. La notizia non parla, insinua. Il giornalista non racconta la verità, spettegola. Non elogia, adula. Non desidera, brama. Non chiede, esige. Non sorride, mostra i denti. Il giornalista è alleato con magistrati, impiegati, avvocati. mette in campo, spesso, la mela avvelenata dallo scoop. Il problema è evitare le fughe di notizie, la pubblicazione di fatti privati, conversazioni non rilevanti ai fini giudiziari. Si pubblica di tutto e di più per dare valutazioni morali o fare analisi socio-culturali. le intercettazioni servono per fare i processi, i processi per accertare i fatti. E non è vero che il politico risponde agli elettori e il giornalista ai lettori. E vogliamo ricordare i trentamila che hanno ricevuto dallo Stato un risarcimento per ingiusta detenzione? I mass-media come hanno trattato poi le loro storie di assoluzione? Adesso, con ritardo, con molto ritardo e doppiezza farisaica, perdendo anche un può di memoria, tutti ad invocare leggi, provvedimenti, censure, ispezioni. Non è che il divieto di un fenomeno di per sè lo elimini, però il giustizialismo giornalistico va fermato, è un potere molto grande e pericoloso che incide sulla sfera delle persone e che è più forte della stessa politica. Paolo Borgna su Avvenire denuncia: “Ascoltare il tam tam dei media accompagnare e a volte anticipare i propri atti istruttori può diventare per il pubblico ministero una piccola droga che lo spinge a diffondere notizie, a fissare l’agenda delle proprie indagini tendendo l’orecchio alle reazioni dei media e seguendo sentieri tracciati da altri. Gli fa perdere la traccia della sua unica funzione: accertare responsabilità individuali per fatti specifici”. Ma anche stampa e tv possono essere nemiche insidiose della giustizia quando gonfiano un caso, a volte lo creano, premono sui magistrati, chiedono risultati immediati, risposte nette e clamorose. Ci vogliono subito norme anti-abusi, più stringenti di una circolare. Ci vuole coraggio costituzionale. *Garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania Berlusconi riabilitato. La buona condotta prevale sulle pendenze di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2018 Se di giustizia a orologeria si può parlare (per contestarla, generalmente), questa volta i tempi con i quali il tribunale di sorveglianza di Milano ha deciso la riabilitazione dell’ex Cavaliere sono quanto mai significativi. Nel pieno della discussione per la formazione del Governo, con nuove elezioni comunque sempre all’orizzonte. Il Procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, in vista di un possibile ricorso da presentare comunque entro 15 giorni, ha preso tempo sottolineando di non avere ancora letto il provvedimento che dovrebbe arrivare solo domani nella cancelleria della Procura generale. In ogni caso, l’eventuale impugnazione non avrebbe effetto sospensivo: la riabilitazione quindi è da subito esecutiva. Con la riabilitazione decadono gli effetti della legge Severino, che all’articolo 15 prevede l’incandidabilità al Parlamento per i 6 anni successivi ad una condanna definitiva. Contro questo divieto Berlusconi ha fatto anche ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo, dove la sentenza è attesa non prima del prossimo autunno. Il 12 marzo i legali dell’ex Cavaliere, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, avevano depositato la richiesta di riabilitazione, passati 3 anni (come prevede la legge) dall’ultimo giorno, l’8 marzo del 2015, in cui finì di scontare la pena - affidato ai servizi sociali e con attività compiute alla Fondazione Istituto Sacra famiglia di Cesano Boscone - di 1 anno (gli altri 3 erano stati coperti da indulto) per la condanna definitiva dell’agosto 2013 per frode fiscale per il caso dei diritti tv Mediaset. Il leader di Forza Italia aveva già provveduto a risarcire l’Agenzia delle Entrate del danno subito, unica condizione per la presentazione dell’istanza, ma cruciale nelle determinazione del tribunale di sorveglianza è stata, come prevede il Codice penale all’articolo 179 del Codice penale, la valutazione delle “prove effettive e costanti di buona condotta”. Una valutazione sulla quale potevano pesare i carichi pendenti a carico: 5 solo per il caso Ruby ter (2 a Milano che verranno riuniti, e gli altri a Roma Torino e Siena) 1 per la vicenda escort Tarantini. Nell’ambito di uno dei procedimenti milanesi, sono emersi versamenti che, per l’accusa, farebbero parte di un disegno corruttivo, a favore di alcune ragazze fino a novembre 2016, dopo che l’espiazione della pena. Dall’autunno scorso Berlusconi è poi iscritto nel registro degli indagati a Firenze per le stragi di mafia del 1993. Elementi che potevano essere valorizzati e considerati d’impedimento alla concessione della riabilitazione, ma che i giudici della sorveglianza, aderendo all’orientamento della Cassazione ma anche dello stesso tribunale milanese, hanno scelto di non considerare determinanti. I giudizi in corso non sono stati cioè considerati indici di una condotta “non buona”, alla luce anche dell’( ovvia) presunzione di innocenza fino a condanna definitiva. Va detto però che, a chiudere il cerchio, lo stesso Codice penale stabilisce che la riabilitazione, da subito esecutiva, può essere revocata quando la persona interessata torna a commettere nei 7 anni successivi un nuovo reato non colposo per il quale è prevista la pena della detenzione per non meno di 2 anni. Santità e Legalità “in nome di Dio” di Salvatore Falzone La Repubblica, 13 maggio 2018 Di Chiesa e mafia si è riparlato mentre qualcosa di poco simile a un’anima abbandonava il corpo del capo dei capi per presentarsi al Creatore. L’argomento non passa di moda, appassiona giornalisti, lettori, opinionisti, magistrati, preti, mangiapreti. Il fiato corto della cronaca ravviva la discussione, ma solo per qualche istante. Poi di nuovo cenere, fino alla prossima vampata. Ma una voce merita di essere riascoltata: quella di Cataldo Naro, arcivescovo di Monreale scomparso improvvisamente nel 2006 a 55 anni. Intellettuale di vaglia e uomo di Dio (attributi non scontati per un vescovo), citava spesso il titolo di una raccolta di lettere e poesie del pastore protestante Bonhoeffer, impiccato in un campo di concentramento nazista: “Resistenza e resa”. Da Bonhoeffer volava dritto a Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio che sapeva di andare incontro alla morte ma non si rassegnava alla vittoria del male. Del resto lui stesso, Cataldo Naro, ha vissuto tra resistenza e resa il paradosso della logica cristiana. Al male ha resistito fino all’ultimo, per quel che ha potuto, nelle stanze dell’episcopio normanno di fianco alla basilica cattedrale coi suoi mosaici mozzafiato, nelle strade e nelle parrocchie di una diocesi che conta tra i suoi paesi Corleone, San Giuseppe Jato, Partinico, Cinisi e Terrasini. Il male era la rassegnazione che gli lievitava attorno, il no al rinnovamento, la rinuncia alla speranza, le minacce. Il male era il prete che un giorno gli disse: “Finché la barca va, lasciala andare”. Era la rampa di scale che lo separava dagli appartamenti del predecessore Salvatore Cassisa, che dal piano di sopra continuava a manovrare i suoi burattini. Ed erano i beghini inferociti di Cinisi che lo aggredirono all’uscita della messa strappandogli la croce dal petto. Il male era tutto ciò che era contrario al Vangelo. Mafia compresa. Fu così che l’arcivescovo di Monreale s’inventò un progetto, “Santità e legalità”, un capolavoro di pastorale ecclesiale fondato sulla convinzione di fondo che la criminalità organizzata non si vince con la semplice repressione e che la Chiesa deve fare la sua parte. Come? Rendendo i fedeli consapevoli di ciò che sono: battezzati, dunque testimoni del Vangelo. Il Vangelo, il male, la mafia. Secondo Naro i “nostri eroi non sono i capicosca della mafia o i pericolosi capibanda di fuorilegge che tanta sofferenza e tanto odio hanno seminato in questa terra. I nostri eroi sono le figure eminenti di un cristianesimo semplice e robusto, fedele e coraggioso, cioè i santi e le sante che lo Spirito Santo ha continuato a suscitare nella Chiesa monrealese lungo i secoli, ma con una sorta di accelerazione ed anche di infoltimento proprio nel Novecento”. Così Corleone non era solo la patria di Riina e Provenzano, ma del frate spadaccino, Bernardo, eroe di carità e fede. E Partinico? Il paese di Pina Suriano, dolcissima ragazza che aveva fatto dell’amore il distintivo della sua breve esistenza. “Abitando in un territorio come questo - scriveva l’arcivescovo - il cristiano non può non vivere con l’intento di essere santo, santo ogni giorno. E questo vale per tutti: per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per la guardia municipale”. In più occasioni Cataldo Naro ribadì che “la Chiesa deve intervenire su questi argomenti non ripetendo semplicemente e solamente le parole della società civile. Deve fare anche questo, certamente, per mostrarsi consapevolmente e convintamente partecipe di una sensibilità civile che è finalmente condivisa nella società oggi. Ma se vuole veramente essere efficace e lasciare il segno, non può non fare ricorso al suo patrimonio più peculiare: il Vangelo, secondo la tradizione cristiana”. Prima di portare le insegne episcopali, quando ancora insegnava storia della Chiesa nella Facoltà teologica di Sicilia a Palermo, scrisse un saggio intitolato “Il silenzio della Chiesa sul fenomeno mafioso”. Distinse innanzitutto una lunga fase di silenzio spiegabile con una “estraneità che la Chiesa sentiva ai problemi dello Stato, un’estraneità polemica nata col risorgimento italiano”. Poi evidenziò “una fase di parola che stranamente si apre con Ruffini. È lui a rompere il silenzio” annotava. Nel senso che fu lui, il cardinale mantovano, a usare esplicitamente per primo la parola “mafia” per dire che essa è un fenomeno come tanti altri, pericoloso come la delinquenza che si trova a Milano o in Inghilterra… Questo “periodo della parola”, osservava ancora Naro, arriva fino a tutto il magistero di Pappalardo. Un periodo in cui la Chiesa parla lo stesso linguaggio delle istituzioni statali. “Le parole di Ruffini non erano diverse da quelle utilizzate dal presidente della regione di allora o dal procuratore della repubblica di quel tempo, i quali ancora, a quell’epoca, sottovalutavano di fatto il fenomeno, o lo interpretavano come un comune fenomeno malavitoso, senza il riconoscimento delle sue specifiche caratteristiche, che avrebbe potuto far avviare una più efficace opera di contrasto contro la mafia stessa”. E le parole di Pappalardo? Anche le sue, più tardi, “erano identiche a quelle del sindaco di Palermo e a quelle dei magistrati del suo tempo: c’era ormai, allora, maggiore consapevolezza riguardo al fenomeno mafioso e una maggiore capacità di reazione civile”. Assumere i linguaggi tipici delle altre istituzioni impegnate sul fronte antimafia fu negativo? No, secondo Naro. Anzi. “Ci fu una graduale assunzione di responsabilità da parte della Chiesa, che così si accompagnava alla società tutta quanta e alle altre istituzioni nel loro comune cammino di responsabilizzazione. Insomma, la Chiesa in quei decenni adoperava le parole della società, che sono poi le parole di politici, funzionari, di giudici, di poliziotti che spesso provenivano dalle stesse file del cattolicesimo italiano e che si erano formati anche nell’Azione Cattolica o negli oratori parrocchiali”. D’un tratto, poi, un grido aprì la terza fase: quello del papa polacco, risuonato nella Valle dei Templi ad Agrigento nel 1993, un anno dopo le stragi di Falcone e Borsellino. “Quel discorso”, continuava Naro, “non fu importante tanto per l’invettiva in sé, quanto per l’aver usato per la prima volta - e questa è una lezione che la Chiesa siciliana sta assorbendo lentamente - parole e categorie cristiane: pentimento, conversione, giudizio di Dio, martirio… quest’ultima parola confermata in modo impressionante dalla successiva morte violenta di don Pino Puglisi a Brancaccio”. Fu così, insomma, che la Chiesa cominciò a parlare di mafia utilizzando la propria lingua: “aggiungendo finalmente l’apporto peculiare ricavato dalla sua tradizione evangelica”… Non è quello che ha fatto anche lui, Naro? Dalla Sicilia, con la pazienza dei contadini dell’entroterra, aveva tracciato una nuova via per il cattolicesimo italiano. E si apprestava a batterla in prima fila, se il tempo della resa non fosse già arrivato. Come per Bonhoeffer, come per Puglisi. Taranto: la denuncia del Cosp “l’8 maggio morto un detenuto, nelle carceri è il caos” corriereditaranto.it, 13 maggio 2018 “Il sistema carcerario rischia il tracollo e l’avvicinarsi della stagione estiva crea enormi criticità nei penitenziari che non possono essere tenute sotto controllo a causa della mancanza di personale”. È quanto affermato il segretario nazionale del Coordinamento sindacale penitenziario Domenico Mastrulli il quale in una nota indirizzata al Movimento 5 Stelle e alla Lega, ha segnalato “il continuo susseguirsi di eventi critici nelle carceri pugliesi nel giro di pochissimi giorni”. “Episodi che - afferma - hanno coinvolto quattro detenuti. Uno degli ultimi casi risale all’8 maggio scorso in seguito al decesso di un detenuto avvenuto nella casa circondariale di Taranto. L’uomo sarebbe morto per cause naturali, dopo aver accusato un malore mentre si trovava all’interno della propria camera di detenzione. A nulla è servito l’intervento del medico di guardia e degli operatori del 118 che ne hanno constatato la morte”. Per il Cosp, “la situazione di allarme non risparmia gli altri penitenziari pugliesi soprattutto in relazione ai numerosi tentativi di autolesionismo, difficilmente controllabili con le forze a disposizione. Nel carcere di Lecce il 9 maggio scorso un detenuto di 46 anni ha tentato il suicidio utilizzando un laccio rudimentale legato alle sbarre della finestra della propria cella. A Bari due reclusi, originari di Canosa e di Barletta, hanno tentato il suicidio attraverso l’uso di un lenzuolo e di un indumento”. “Il susseguirsi di eventi di questa natura, sventati grazie al tempestivo intervento dei poliziotti penitenziari - spiega Mastrulli - non può che destare preoccupazione per l’imminente stagione estiva. Un periodo durante il quale, a causa delle enormi criticità presenti nelle strutture penitenziarie, si registra un aumento del fenomeno suicidario”. “Nelle prigioni italiane - aggiunge - il sovraffollamento rappresenta una delle maggiori cause. I reclusi sono 58.500 a fronte di una capienza tollerabile di 53mila posti letto. In Puglia i detenuti sono circa 3.400 a fronte di una capacità di 2.400 posti letto. A questo segue la mancanza di personale. I vuoti d’organico nella polizia penitenziaria, tra Puglia e Basilicata è di oltre mille unità mentre a livello nazionale sono 15mila gli agenti che andrebbero arruolati. I tagli e le manovre finanziarie, a partire dal 2001 hanno ridotto drasticamente gli organici”. Secondo il Cosp “proseguire sulla strada della vigilanza dinamica con le celle aperte associati agli ulteriori benefici concessi ai reclusi è un sistema che mal si concilia in una situazione organizzativa drammatica. Si aggiunga a tutto questo l’aumento mensile di 50 euro netti in busta paga grazie al rinnovo contrattuale”. Verona: tre anni dalla chiusura degli Opg, “solo il 5% torna a commettere reati” di Davide Orsato Corriere di Verona, 13 maggio 2018 Il punto sui nuovi servizi psichiatrici, tra successi e difficoltà di sempre. Quarant’anni da quando uno psichiatra veneziano, con la legge che porta il suo nome, chiuse i manicomi. Poco più di tre da quando la stessa sorte toccò anche agli Opg, gli ospedali psichiatrici giudiziari, completando così l’opera. Nell’anniversario della legge Basaglia, la sezione di Psichiatria dell’Università di Verona, tira le somme di un altro provvedimento: quello che nel marzo 2015 istituì le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (ce n’è una per Regione: quella del Veneto si trova a Nogara), ponendo fine agli storici “carceri per i matti”. Lo ha fatto contando i propri assistiti a livello territoriale provenienti dagli Opg (26), assieme a quelli di altri servizi psichiatrici che hanno aderito alla ricerca, una decina in tutta Italia da Como a Matera passando per Siena. Il campione, in totale, supera le trecento unità. Il bilancio? È positivo. Il dato più rassicurante: solo il 4,9% delle persone rimesse in libertà (non tutte) hanno commesso un reato. Resta, però, la “pericolosità sociale” delle persone coinvolte, riscontrata in otto casi su dieci, sull’82% del campione, per la precisione. “La ricerca che abbiamo portato avanti - spiega Mirella Ruggeri, direttrice della sezione di Psichiatria - ci ha consentito anche di svolgere un identikit di queste persone: sono per la stragrande maggioranza maschi, per il 91%. L’età media è di 44 anni. Hanno tutti un basso livello di scolarizzazione: una buona fetta ha solo la licenza elementare, nel 73% dei casi si sono fermati alle scuole medie. Nella maggioranza dei casi, per il 56% soffrono di disturbi psicotici, nel 28% di disturbi della personalità”. Per molti di loro, il 94%, dopo la dimissione dall’Opg, è continuata la cura farmacologica, che viene seguita su base volontaria dal 72%. Il 68% è impegnato in percorsi riabilitativi, il 34% è in psicoterapia. “Molti di loro, nei colloqui - prosegue Ruggeri - esprimono la necessità di riallacciare relazioni con la propria famiglia e di avviare relazione affettive. Parliamo di persone che in molti casi sono single “.Il rientro in casa, però, è difficile. Finora è avvenuto solo 12% dei casi. Il 34% si trova in strutture residenziali, per un altro 45% sono state trovate altre soluzioni, ma le strutture idonee sono state di difficile reperibilità. “I primi dati dello studio, che abbiamo chiamato “Persone, Percorsi nei servizi degli autori di reato: analisi dei bisogni ed esiti” - conclude Ruggeri - sono confortanti anche se emergono delle criticità. Oltre alla difficoltà nel trovare una giusta sistemazione occorre fare i conti con le alte rette che influiscono sul budget dei dipartimenti di salute mentale. Ma non c’è dubbio che si tratta di un passo che andava fatto, e alla cui base c’è una precisa scelta etica”. Trento: carcere di Spini, dedichiamo il parco a Marco Pannella di Marika Giovannini Corriere del Trentino, 13 maggio 2018 Dedicare il giardino vicino alla direzione del carcere di Trento al leader radicale Marco Pannella. La proposta è stata lanciata da Lucia Coppola (Verdi), in una mozione presentata a Palazzo Thun e sottoscritta anche dal Pd-Psi, dal Movimento 5 Stelle e dall’Altra Trento a sinistra. L’ipotesi verrà discussa in consiglio nelle prossime settimane. La proposta, probabilmente, in Aula farà discutere. Come, del resto, la maggior parte delle questioni legate alla toponomastica. Ma, almeno sulla carta, ha già messo d’accordo quattro forze politiche: Verdi, Partito democratico, Movimento 5 Stelle e Altra Trento a sinistra. La richiesta, lanciata in una mozione depositata in questi giorni a Palazzo Thun dalla presidente del consiglio comunale (ed esponente verde) Lucia Coppola, è precisa: intitolare i giardini collocati vicino alla direzione della casa circondariale di Trento al leader radicale Marco Pannella, scomparso a maggio del 2016 a 86 anni. “Attraverso l’adesione al Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi - scrive Coppola nella mozione indirizzata al sindaco Alessandro Andreatta e all’assessore alla cultura Andrea Robol - Marco Pannella si è fatto erede anche dell’idea di Europa federale che anche nella nostra città Alcide Degasperi iniziò a maturare”. Non solo: “Il leader radicale si è speso per la difesa dei diritti dei detenuti, per il miglioramento delle loro condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari come punto di partenza per l’affermazione dello Stato di diritto, di una pena giusta che concorra a riabilitare i detenuti favorendo il loro reinserimento nella società civile e di una giustizia giusta per tutti”. Di qui la proposta di legare il suo nome all’area verde di Spini vicino alla casa circondariale. Ma i motivi per ricordare Pannella a Trento, secondo Coppola, sono anche altri. “In tanti anni - prosegue la presidente del consiglio comunale - le sole armi di Pannella sono state quelle della non violenza, richiamata da Papa Francesco nel suo messaggio per la cinquantesima giornata mondiale della pace e per la quale fu elogiato da Lanza del Vasto, filosofo e scrittore cristiano, oltre che allievo italiano del Mahatma Gandhi”. E ancora: “Il valore della sua figura politica e umana è riconosciuto a livello internazionale. E di livello internazionale sono state le sue lotte politiche e sociali contro le sterminio per fame (per la quale collaborò con Flaminio Piccoli) e per la moratoria della pena di morte”. Per intitolare i giardini del carcere a Pannella, però, è necessaria una deroga: dalla morte del leader radicale, infatti, non sono trascorsi i dieci anni previsti dalla legge per poter dedicare una via, una piazza o un luogo pubblico a un personaggio. Per questo, Coppola nella mozione chiede al sindaco e alla giunta “di attivarsi per ottenere la deroga da parte del ministero dell’interno”. Il documento, ora, dovrà passare al vaglio del consiglio comunale. Oltre a Coppola, sono nove i membri dell’Aula che sicuramente daranno parere favorevole, avendo sottoscritto la mozione: per il Pd-Psi le firme sono quelle di Paolo Serra, Emanuele Lombardo, Elisabetta Bozzarelli, Roberta Zalla, Michele Brugnara e Stefano Bosetti. Andrea Maschio e Marco Santini hanno invece condiviso il testo per il Movimento 5 Stelle, mentre per L’Altra Trento a sinistra c’è la firma di Antonia Romano. Si tratterà di capire, a questo punto, come si pronunceranno non solo i partiti di centrodestra (Lega, Civica Trentina e Forza Italia), ma anche le forze di centrosinistra autonomista che non figurano tra i firmatari del documento. Gli occhi, dunque, sono puntati sul Patt, ma anche sul Cantiere civico democratico, sul gruppo Insieme e sui due membri del Gruppo Misto Panetta e Castelli., oltre che su Progetto Trentino. Larino (Cb): “Salvati da dentro”, detenuti apprendono tecniche di primo soccorso primonumero.it, 13 maggio 2018 I detenuti del carcere di Larino protagonisti di un percorso di formazione sulle tecniche di primo soccorso. È stato possibile grazie al progetto “Salvati da dentro”, l’iniziativa, giunta alla terza edizione, promossa dalla sezione di Guardialfiera della Società nazionale di Salvamento, cui hanno preso parte trenta detenuti e che si è conclusa lo scorso 10 maggio con la consegna degli attestati ai corsisti. Alla cerimonia finale sono intervenuti la dottoressa Rosa La Ginestra, direttore della casa circondariale di Larino, partner del progetto, il commendatore del Sacro Militare Ordine del Costantiniano e presidente provinciale di Campobasso dell’Unci (Unione nazionale Cavalieri d’Italia), Giuseppe D’Amico, e Nicola Fratangelo, direttore della sezione di Guardialfiera della Società nazionale di Salvamento. “Il progetto, rivolto anche agli agenti, ha un carattere sperimentale sia nei contenuti che nella tipologia di intervento. Non si tratta di una semplice attività formativa in carcere, ma di un’azione di cambiamento del senso di convivenza”, come spiegano gli organizzatori. Il percorso ha dato la possibilità di acquisire numerose competenze legate alla gestione delle emergenze, in cui la tempestività di intervento risulta determinante, focalizzando l’attenzione su come si riconoscono i sintomi di un arresto cardiorespiratorio, lo stato di incoscienza, fratture, gravità e tipologia di ferite, l’assistenza a una persona ferita, oppure priva di respiro o battito cardiaco, in attesa dell’arrivo del servizio medico di emergenza. Nel corso delle lezioni i detenuti hanno appreso le pratiche connesse con il Blsd, il supporto di base per le funzioni vitali con defibrillatore. L’iniziativa, unica nel suo genere e innovativa all’interno di un istituto penitenziario, ha inteso “favorire la propensione all’attenzione verso gli altri detenuti, la coesione e il senso di responsabilità reciproca, l’aumento di autostima e lo sviluppo di considerazione di sé come soggetti capaci di altruismo estremo, nonché l’aumento delle potenzialità occupazionali in seguito al periodo di detenzione”. Palermo: la pulizia del fiume Oreto? Se ne occuperanno i detenuti palermotoday.it, 13 maggio 2018 Lo prevede un’intesa siglata dal Comune con il Dap, il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Saranno coinvolti i carcerati del Pagliarelli e dell’Ucciardone, ma anche chi sta scontando condanne alternative. I detenuti si occuperanno sia della raccolta dei rifiuti nelle case circondariali sia di lavori di pubblica utilità, come la pulizia della vallata del fiume Oreto. È quanto stabilisce l’intesa siglata stamani dal Comune con il Dap, il dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. A siglare l’accordo sono stati il sindaco Leoluca Orlando, e il capo del Dap Santi Consolo, alla presenza dell’assessore alla Cittadinanza solidale, Giuseppe Mattina. In particolare i due progetti sono rivolti a detenuti del carcere Pagliarelli, dell’Ucciardone e a soggetti in esecuzione penale esterna (cioè non detenuti ndr). In particolare, saranno coinvolti in “un progetto sperimentale di raccolta e gestione dei rifiuti delle diverse case circondariali, con particolare riferimento all’attuazione di un sistema di raccolta e riciclo della frazione umida per l’avvio al compostaggio”. Il secondo progetto li vedrà “supportare i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria e di pulizia del fiume Oreto”. “Queste attività - spiega Orlando - sono inserite in un percorso di riparazione sociale a favore della collettività, allo stesso tempo offrendo sostegno al recupero sociale di soggetti condannati e agevolando l’apprendimento di materie e tecniche utili all’inserimento nel mondo del lavoro”. Per l’assessore Mattina si tratta di “unire alla giusta esecuzione della pena, un percorso di reale accompagnamento e recupero, che allo stesso tempo ricostruisce il rapporto con la comunità e rende coloro che sono stati condannati consapevoli della possibilità di avere un ruolo attivo e positivo nella società”. “Siamo consapevoli del dovere di offrire opportunità di lavoro alle persone in esecuzione penale. Nel 2015 e nel 2016 abbiamo registrato un incremento di lavoro per questi soggetti di ben mille unità l’anno. Nell’ultimo anno 2.153 persone in più lavorano nelle nostre strutture, l’obiettivo è un coinvolgimento ulteriore”, ha detto Consolo, per il quale: “Dare prospettive di lavoro a queste persone significa porre una speranza di vita onesta che crea maggiore sicurezza per l’intera collettività e non fa ricadere in recidive”. Lanciano (Ch): detenuti bibliotecari con il progetto di riordino dei libri di Daria De Laurentiis Il Centro, 13 maggio 2018 Accordo tra Casa circondariale di Villa Stanazzo e Comune La direttrice dell’istituto: lavoro encomiabile, esempio in Italia. È una realtà di eccellenza la Casa circondariale di Lanciano. Un luogo dove l’isolamento, la colpa, il crimine e la solitudine vengono soppiantati da una corposa serie di attività di rieducazione, integrazione, accrescimento culturale e sociale. E non solo per i detenuti, ma per tutti quelli che, semplici volontari, guardie, dirigenti penitenziari e amministratori, decidono di mettersi in gioco in quello scambio di emozioni e di umanità tra il “dentro” e il “fuori” che è tra le esperienze più potenti che si possano provare. E a regalare libertà, coraggio, voglia di riscatto e di svegliarsi con un obiettivo sempre nuovo al mattino, nel carcere di massima sicurezza di Lanciano da qualche anno è arrivata la lettura. Si chiama “Biblioteche fuori le mura” la convenzione con l’amministrazione comunale di Lanciano per la riorganizzazione e catalogazione del patrimonio librario della biblioteca penitenziaria. All’inizio del lavoro, avviato circa tre anni, fa c’erano 1.800 libri organizzati alla bell’e meglio tra polvere e disordine e solo 10 persone su 212 che utilizzavano la biblioteca. Oggi, grazie all’impegno dell’amministrazione penitenziaria, dei responsabili della sicurezza e dell’area trattamentale e dei referenti del progetto, Gianvincenza Di Donato e Pierluigi Silvi, la biblioteca del carcere è perfettamente organizzata come una biblioteca di comunità. Organizzazione, modi e tempi di prelievo dei volumi in prestito, etichette, software di catalogazione secondo standard nazionali, ricordano in tutto e per tutto le biblioteche cittadine. E i detenuti che ogni volta si sono cimentati nel mestiere di bibliotecario sono diventati talmente esperti che due di loro lavorano effettivamente nelle strutture di Lanciano e Mozzagrogna. Ad oggi su 232 detenuti ben 158 vanno abitualmente a prendere un libro in prestito. “Mi piace definirci una comunità di lottatori”, spiega la direttrice del carcere, Lucia Avvantaggiato, “e grazie all’amministrazione di Lanciano che svolge con noi un lavoro encomiabile che porto a esempio in tutti gli istituti d’Italia, riusciamo a fare tanto. A cosa serve fermarci solo al crimine commesso? Se ci si fossilizza sulla colpa e sulla condanna la società non evolve”. E assieme ai tanti progetti promossi nella Casa circondariale, da sei anni è un fiore all’occhiello il concorso nazionale “Lettere dal carcere”, portato avanti da Tonino Di Toro. “Anche detenuti che sono in carcere per i crimini più efferati”, spiega Di Toro, “hanno emozioni e amore da tirare fuori. È la loro parte migliore” Pistoia: detenuti in prova al lavoro gratis negli uffici della Sds di Giuseppe Boi Il Tirreno, 13 maggio 2018 La Società della Salute firma la convenzione col tribunale per un progetto dedicato a chi ha condanne di lieve entità. Detenuti al lavoro negli uffici amministrativi della Società della Salute di Pistoia. Lavori di segreteria, di manutenzione e di supporto ai disabili da effettuare senza alcune retribuzione durante l’espiazione della propria pena. Un’opportunità di reinserimento e riabilitazione per sta scontando una pena, un’occasione per aumentare l’inclusione sociale per le fasce più deboli e le persone disagiate. Un progetto destinato a persone con condanne penali di lieve entità che è possibile da ieri grazie alla convenzione firmata dal presidente del tribunale di Pistoia, Fabrizio Amato, e dalla presidente della SdS Pistoiese, Anna Maria Celesti. La convenzione per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità che avrà la durata di cinque anni, riguarda persone destinatarie di una condanna del tribunale il cui capo di imputazione sia inferiore ai 4 anni. Questi detenuti possono chiedere la così detta “messe alla prova” e in questo modo rientrare nella convenzione. Ma non solo: possono accedere al progetto anche i cittadini che hanno violato il codice della strada e al posto di una breve carcerazione possono chiedere l’ammissione al “lavoro di pubblica utilità”. A promuovere la richiesta che ha portato alla stipula della convenzione con la Sds è stato l’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Pistoia, per iniziativa del suo direttore, Laura Caglieri. Le attività si svolgeranno negli uffici della SdS Pistoiese per lavori di segreteria e di piccola manutenzione e di supporto nei Centri diurni per disabili. Al progetto potranno partecipare due persone che non potranno però ricevere alcun tipo di retribuzione. Al termine dell’esecuzione della pena i coordinatori del progetto della SdS predisporranno una relazione all’organo di controllo per la successiva informativa al giudice o al Pubblico Ministero. “Come Società della Salute abbiamo accolto positivamente la richiesta pervenutaci dall’Uepe di mettere alla prova persone che hanno condanne penali di lieve entità con lavori socialmente utili - è stato il commento di Anna Maria Celesti. Questa convenzione interviene in un ambito complicato e complesso e si inserisce in un percorso di riabilitazione e inclusione sociale che si dimostra tale nei fatti. Rappresenta inoltre un segnale positivo perché le istituzioni pistoiesi si aprono al sociale e all’associazionismo locale”. “È sempre una grande soddisfazione la firma di convenzioni e protocolli del Tribunale con gli Enti territoriali e le associazioni che perseguono la solidarietà attraverso programmi di volontariato e di lavori di pubblica utilità - ha sottolineato il presidente Fabrizio Amato -. Con la firma odierna (ieri, ndr) anche la Società della Salute Pistoiese è diventata parte di un sistema virtuoso mediante il quale tante persone riescono ad evitare il carcere per piccoli reati e svolgere attività di volontariato, in molti casi determinanti per la loro crescita umana. Lo strumento della messa in prova è un’intelligente intuizione del legislatore che sta dando frutti importanti: per un buon 90% dei detenuti che vi accedono, rappresenta il primo passo di reinserimento nella società”. Parma: telecamere Rai nel carcere di Via Burla per le iniziative degli avventisti parmaquotidiano.info, 13 maggio 2018 Le telecamere di Protestantesimo, rubrica in onda la domenica notte su Rai 2, sono entrate in alcuni luoghi di detenzione per documentare il lavoro delle chiese evangeliche a favore dei detenuti. A Parma, la chiesa cristiana avventista del settimo giorno e il pastore Daniele La Mantia portano avanti un progetto di rieducazione dei detenuti. Patrizia Evola, della comunità avventista parmense, racconta la giornata di riprese televisive e le sensazioni provate nel vivere, da donna libera, una giornata in prigione. “Lo scorso 26 aprile, ho accompagnato il past. Daniele La Mantia in visita negli istituti penitenziari di Parma, in occasione delle riprese per la trasmissione “Protestantesimo”. Dopo alcuni precedenti incontri organizzativi, abbiamo vissuto una lunga giornata di lavoro per realizzare il servizio che poi durerà pochi minuti”. “Sono ritornata nella sala informatica donata al carcere dall’8xmille destinato alla chiesa avventista. Il pastore ha dialogato con gli allievi per sapere come andava il secondo anno di lezioni. Ho avuto l’occasione di visitare alcuni laboratori delle attività dei detenuti come. ad esempio, il corso di panificazione dove i residenti, anche grazie ad Adra Italia, preparano prodotti da forno per gli indigenti della città che si recano alla “Mensa di padre Lino”, una istituzione caritatevole di Parma”. “L’esperienza più toccante è stata soprattutto assistere ad alcuni dei colloqui che il pastore intrattiene con i reclusi che hanno iniziato un percorso di lettura e studio della Bibbia. In questa occasione è stato affrontato il delicato tema del perdono”. “Ho provato forti emozioni nel toccare con mano la privazione della libertà. Cancelli e grate che si chiudono dietro di te a ogni passaggio provocano un forte disagio e ci si rende conto del reale valore della libertà. Certo, coloro che sono reclusi stanno pagando il loro debito con la giustizia, ma è davvero dura. Il loro bisogno di dialogo e di tenersi impegnati è molto forte e c’è davvero tanto lavoro da fare se si vuole realizzare l’articolo 27 della nostra Costituzione”. “La giornata è poi continuata con riprese in città e l’intervista al past. La Mantia, o reverendo come lo chiamano agenti e detenuti. Penso che la chiesa e i ministri di culto possano dare un importante contributo per adempiere le parole di Gesù: ero in prigione e veniste a trovarmi (Mt 25:36)”. Roma: al carcere di Rebibbia il premio “Sulle ali della libertà” casilinanews.it, 13 maggio 2018 Lorenzin e Fedeli consegneranno il premio. Martedì prossimo, 15 maggio 2018, alle ore 12, presso la sede di rappresentanza del Banco BPM, Piazza del Gesù, 49 a Roma, si terrà la I edizione del premio nazionale “Sulle ali della libertà” che ha come obiettivo quello di promuovere la cultura negli istituti di pena. Quest’anno il premio verrà assegnato ad un detenuto della Casa circondariale di Rebibbia che ha conseguito in carcere la laurea in Antropologia Culturale e il dottorato in Teoria e ricerca sociale. L’evento è promosso e ideato dall’Associazione Isola Solidale, che a Roma da oltre 50 anni accoglie i detenuti (grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000) che hanno commesso reati per i quali sono state condannate, che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. L’iniziativa - che ha ottenuto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la Medaglia di rappresentanza, riconoscimento che viene attribuita a iniziative ritenute di particolare interesse culturale, scientifico, artistico, sportivo o sociale - è patrocinato dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, Ministero di Grazia e Giustizia, Ministero della Salute, dalla Regione Lazio, dalla Comunità ebraica di Roma, da Roma Capitale, dalle Acli di Roma, dal Coordinamento nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane (Co.N.O.S.C.I.), dalla Fondazione Ozanam, dall’associazione Antigone e da Fidu (Federazione Italiana Diritti Umani). Intervengono, tra gli altri: Valeria Fedeli, Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Beatrice Lorenzin, Ministro della Salute, Alessandro Pinna, presidente dell’associazione Isola Solidale, Riccardo Vita Turrini, direttore generale della formazione del Ministero di Grazia e Giustizia, Fabio Perugia, portavoce italiano del congresso ebraico mondiale, mons. Paolo Cesar Barajas, Dicastero Vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Paolo Ciani, consigliere regionale del Lazio delegato dal presidente della Regione. Coordina Enrico Selleri, conduttore di TV2000. Napoli: Luca Pugliese colora l’ora d’aria dei detenuti Famiglia Cristiana, 13 maggio 2018 Concerto del cantautore nell’ambito di una serie di appuntamenti in vari istituti penitenziari italiani nel segno della solidarietà e della speranza. Appuntamento lunedì nel carcere napoletano di Poggioreale. L’appuntamento è lunedì 14 maggio a Poggioreale. Un altro concerto tra le mura delle carceri. È il novembre 2013 quando le note del cantautore campano Luca Pugliese risuonano per la prima volta tra le mura di un carcere. Siamo nella casa circondariale di Secondigliano, uno degli istituti penitenziari più grandi d’Italia. La risposta del pubblico è di gran lunga superiore alle attese. Di lì a poco, sull’onda di questa esibizione, un inatteso messaggio di solidarietà e speranza, nasce il tour “Un’ora d’aria colorata”, iniziativa solidale che punta il dito sullo stato delle nostre carceri e chiama in gioco il ruolo sociale dell’arte e dell’essere artisti. Sono finora quindici i concerti che Luca Pugliese ha tenuto, tutti a proprie a proprie spese, dal Sud al Nord, in nove istituti penitenziari italiani: Secondigliano, Rebibbia, Regina Coeli, Opera, San Vittore, Poggioreale, Sant’Angelo dei Lombardi, Benevento, Ariano Irpino. Lunedì dunque la sedicesima tappa, che lo vedrà esibirsi per la terza volta, in forza delle standing ovation delle precedenti esibizioni, nella casa circondariale di Poggioreale, il carcere napoletano. L’evento, che si terrà alle ore 14.00, è realizzato in collaborazione con l’assessorato alla cultura del Comune di Napoli. Talento onnivoro e raffinato, Luca Pugliese si esibirà, come ormai di consueto proprio a partire dalla tournée carceraria, in veste one man band (chitarra, voce e percussioni a pedale), con un repertorio all’insegna della contaminazione: la contaminazione tra sonorità e ritmi occidentali, mediterranei e latini del suo ultimo album, Déjà vu (composto perlopiù di brani già pubblicati, tra cui Giallo e La zattera di Ulisse, rivisitati in chiave world),oltre a brani tradizionali del Sudamerica, musiche popolari del Sud Italia e classici della canzone napoletana e del repertorio cantautorale italiano. “ES17. Dio non manderà nessuno a salvarci”, il film-inchiesta sui baby boss La Stampa, 13 maggio 2018 Nome di battaglia “ES17”. E. S. come Emanuele Sibillo, un ragazzo che, ancora minorenne, inizia la scalata nel mondo della camorra, fino a divenire il giovanissimo boss di un clan che cerca di imporsi nel centro storico di Napoli. 17 come la malasorte che vuole esorcizzare, in un gesto scaramantico che comunque non lo salverà dal morire non ancora ventenne. La sua storia è al centro di ES17 - Dio non manderà nessuno a salvarci, il film-inchiesta in onda domenica 13 maggio alle 23 su Sky Atlantic HD e su Sky TG24 HD e disponibile su Sky On Demand. Da un’idea di Roberto Saviano, prodotto dalla Divisione Digitale del Gruppo Gedi, in collaborazione con 42° Parallelo e Sky, e scritto da Diana Ligorio e Conchita Sannino, il film ripercorre la storia del capo della paranza dei bambini di Napoli, Emanuele Sibillo. Chi è E.S.17? Come si trasforma da adolescente come tanti in un capoclan assassinato a soli 19 anni? Chi sono i giovani ragazzi del suo clan che, non ancora maggiorenni, scelgono di percorrere la via della malavita e della violenza? L’omicidio del baby boss, avvenuto per mano di un clan rivale, da fatto di cronaca diviene narrazione, in un racconto originale, non-fiction, che approfondisce la storia del giovane criminale portando alla luce - pur senza indulgenze - gli aspetti più intimi della vita di Sibillo, attraverso video e foto esclusivi realizzati dallo stesso Emanuele e da Mariarka, sua compagna di vita e mamma dei suoi figli. Un percorso che scorre parallelo a quello di Roberto Saviano che per primo, con i suoi due ultimi libri, “La paranza dei bambini” e “Bacio feroce”, ha scoperto la sua storia. Accordo sul nucleare con l’Iran. Mogherini: “se salta il patto conseguenze disastrose” La Stampa, 13 maggio 2018 L’Alto rappresentante per la politica estera Ue invita il ministro degli Esteri di Teheran a Bruxelles: “Gli europei manterranno gli impegni presi”. “Se domattina l’accordo non ci fosse più ci sarebbero conseguenze disastrose. Dobbiamo fare tutto quello che possiamo per mantenerlo”. L’Alto Rappresentante per la politica estera Ue Federica Mogherini prende posizione sulla volontà degli Stati Uniti di stracciare l’accordo sul nucleare con l’Iran. Lo fa a “The State of the Union” a Firenze e convoca per martedì a Bruxelles un incontro con i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna, a cui seguirà un secondo incontro del gruppo col capo della diplomazia iraniana Mohammad Javad Zarif. “Come europei siamo determinati a mantenere tutti gli impegni presi - continua Mogherini - e a fare in modo che tutte le parti coinvolte lo facciano”. “Nessun Paese da solo - ha concluso - può disfare l’accordo o distruggerlo”. Zarif sarà a Bruxelles, per incontrare le controparti di Germania, Francia e Gran Bretagna, i Paesi europei che hanno sottoscritto l’accordo del 2015 da cui gli Stati Uniti hanno deciso di uscire (lunedì Zarif sarà a Mosca per un incontro con Sergei Lavrov e prima ancora, nel fine settimana, sarà in Cina). La convocazione della doppia riunione arriva a distanza di qualche giorno dalla decisione del presidente Usa Donald Trump di voler uscire dall’accordo. L’Ue ha più volte ribadito che l’intesa funziona, ed il proprio impegno a preservarla. Un annuncio che ha creato un terremoto a catena in tutto il mondo, e che potrebbe riscrivere gli equilibri delle alleanze. Il mondo vive una fase di grande incertezza ma proprio da questa incertezza gli europei devono trarre la forza di una maggiore integrazione, a cominciare dalla difesa unica, obiettivo che potrebbe essere raggiunto. È questa la posizione di Mogherini. E rilancia le basi dell’Unione dei 27: “Proprio le tensioni di questi giorni ci ricordano che, oggi, l’Unione europea è più indispensabile che mai. Più di quanto a volte noi stessi pensiamo. Siamo il partner indispensabile per tutti coloro che credono nel multilateralismo, e in un sistema internazionale più cooperativo e meno conflittuale. Siamo il partner indispensabile per chi vuole un commercio allo stesso tempo libero e giusto. Per chi vuole investire in uno sviluppo veramente sostenibile, e nella lotta al cambiamento climatico”, ha detto Mogherini. “Ma la nostra Unione è indispensabile anche e soprattutto per tutti noi, cittadini europei, perché in un mondo di potenze grandi come continenti, l’Europa unita è l’unica risposta efficace per i bisogni degli europei. Se parliamo di posti di lavoro, di commercio internazionale, di sviluppo economico, di sicurezza, di gestione dei flussi migratori, di diritti e opportunità - l’unico livello di governo adeguato a dare risposte reali è l’Unione europea”, ha proseguito Mogherini. Gran Bretagna. Il database “Gangs Matrix” della polizia di Londra è discriminatorio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 maggio 2018 Si chiama “Gangs Matrix”. È il database con cui dal 2012 la polizia di Londra mappa la criminalità giovanile inserendo nominativi e associandoli a un colore che indica il livello di violenza. Alla fine del 2017, il “Gangs Matrix” elencava 3806 nominativi. Nel 78 per cento dei casi si tratta di ragazzi neri. E poiché secondo le statistiche ufficiali, solo il 27 per cento dei casi gravi di violenza è attribuito a persone di colore, c’è qualcosa che non va. A denunciare questo aspetto poco conosciuto è un rapporto di Amnesty International, che punta il dito sulla stigmatizzazione dei giovani londinesi neri, a volte semplicemente per come vestono o per la musica che ascoltano o scaricano dalla Rete. I criteri per determinare l’inserimento di un nominativo nel “Gangs Matrix” sono poco chiari e oggettivi e vengono spesso lasciati alla discrezionalità della polizia e delle cosiddette “agenzie partner” (centri per l’impiego, associazioni di inquilini, sportelli di aiuto ai giovani, scuole). Soprattutto, il “Gangs Matrix” è pieno di persone che non sono state mai coinvolte in atti di violenza (la spiegazione è che prima o poi li commetteranno ed è bene averli già registrati) e persino di persone che sono state vittime di crimini che la polizia ritiene collegati alla criminalità organizzata. Nella capitale del Regno Unito si registra un preoccupante aumento dei casi di violenza, soprattutto di accoltellamenti e si è creata la psicosi delle “gang”. Tuttavia, dall’ufficio del sindaco Sadiq Khan, si fa sapere che oltre l’80 per cento degli accoltellamenti in cui sono state ferite persone al di sotto dei 25 anni non ha a che fare con gruppi del crimine organizzato. Il rapporto di Amnesty International attribuisce alla polizia londinese persino la creazione di falsi account per controllare le attività di persone sospettate di far parte delle bande criminali, in violazione dell’Atto sui poteri d’indagine. La richiesta al sindaco Khan è semplice: o si allinea il “Gangs Matrix” agli standard internazionali, ponendo fine all’evidente impianto discriminatorio che lo caratterizza, oppure si chiude. I Regeni denunciano: “arrestata una delle attiviste che ci aiutano in Egitto” di Paolo Griseri La Repubblica, 13 maggio 2018 La donna è la moglie del presidente della ong egiziana Ecrf cui appartengono i consulenti della famiglia del ricercatore friulano ritrovato morto al Cairo il 3 febbraio del 2016. Sarebbe stata denunciata anche per due video sulla sua pagina Facebook contenenti aspri insulti contro “tutte le istituzioni dello Stato”. “La moglie del presidente Mohamed Lotfy, responsabile delle associazioni che seguono le indagini su Giulio, è stata arrestata questa notte con l’accusa di terrorismo subito dopo una telefonata con Alessandra Ballerini, legale della nostra famiglia”. È una denuncia e un appello accorato quella che i coniugi Regeni fanno nell’incontro al Salone del Libro di Torino. L’ong egiziana cui appartengono i consulenti della famiglia Regeni (la Ecrf) ha denunciato su Facebook l’accaduto. Nel post non si precisano le accuse ma un media governativo, Al Ahram, mette il fermo in relazione a un video visibile su Youtube in cui la donna, Amal Fathy, inveisce pesantemente contro lo Stato per un caso di tempi lunghi nell’accesso a un conto corrente dopo la perdita di un bancomat. La vicenda non sembra quindi direttamente legata a quella del ricercatore friulano ucciso. I Regeni denunciano: “Arrestata una delle attiviste che ci aiutano in Egitto” La Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf) nel post precisa comunque che alle 2.30 della scorsa notte la “sicurezza egiziana ha fatto irruzione” nell’abitazione di Lotfy “e ha fermato lui con la moglie” e il “figlio di tre anni”. Dal testo si desume che ad essere rimasta in carcere è però solo la donna: “Ecrf condanna fortemente la detenzione della moglie del proprio direttore esecutivo e ne chiede l’immediato rilascio”, è scritto nel testo. I coniugi “sono stati messi sotto grande pressione, la casa perquisita, i telefoni cellulari sequestrati ed è stato negato loro il diritto di comunicare con un avvocato”, sostiene l’ong aggiungendo che è “la settima volta” che la Ecrf “patisce intimidazioni e persecuzioni” da parte della Sicurezza. Nel confermare che “la moglie del direttore resta in custodia” cautelare, il post sottolinea che Ecrf “lavora per documentare casi” di “torture in prigione, sparizioni forzate” e “il direttore del board è consulente legale della famiglia Regeni”. L’ong definisce “vergognoso” che questo trattamento sia stato riservato al proprio dirigente “una settimana prima della visita tecnica italiana in Egitto che punta ad analizzare il contenuto delle videocamere di stazioni della metro” del Cairo. Il riferimento è alla delegazione italiana, guidata dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco che, come annunciato lunedì scorso, sarà al Cairo martedì 15 maggio nell’ambito delle indagini sul ricercatore friulano trovato morto il 3 febbraio del 2016 nella capitale egiziana. Il sito di Al Ahram riferisce che la donna, componente del “Movimento del 6 aprile” e dell’Ecrf, ha pubblicato un video sulla propria pagina Facebook in cui “ha insultato tutto ciò che porta il nome dell’Egitto”: c’è “un’insolenza e una sordidezza punite dalla legge e fa allusioni e affermazioni che rappresentano un oltraggio all’Egitto e alle sue istituzioni”, spiega il giornale. Il sito Youm 7 citando proprie “fonti” sostiene che la donna è stata fermata “sulla base di una denuncia presentata dai responsabili di Bank Misr” (la “Banca d’Egitto”). I dirigenti del noto istituto di credito la “accusano di ingiuria e diffamazione dei dipendenti della banca e di diffusione di due video sul proprio account personale Facebook contenente aspri insulti” contro “tutte le istituzioni dello Stato”, riferisce ancora nel pomeriggio il sito dell’omonimo quotidiano precisando che la consorte di Mohamed Lotfy “viene presentata alla Procura generale”. Il “6 aprile”, nato come movimento opposizione anti-Mubarak, come noto è entrato poi in rotta di collisione anche con il presidente Abdel Fattah Al Sisi. Al Ahram sostiene che il movimento, con la diffusione di video come questo, “cerca di provocare l’opinione pubblica e istigarla ancora una volta con lo Stato” seguendo “piani che mirano a provocare il caos”. Niger. I sudanesi prima accolti, poi ricacciati e abbandonati nel deserto di Giacomo Zandonini La Repubblica, 13 maggio 2018 La deportazione di 132 persone lasciati al confine con la Libia fa temere per la loro sorte, ospitato in parte da Unhcr con l’Ong italiana Coopi. Testimonianze: “Siamo tutti in fuga da anni, abbiamo cercato lavoro in Libia per mantenere le famiglie, finché ci hanno detto che in Niger c’era sicurezza”. I sospetti che fra loro ci siano jihadisti. In fuga da decenni, oltre 1700 sudanesi sono arrivati a Agadez, in Niger, negli ultimi mesi. La deportazione di 132 fra loro, lasciati nel deserto al confine con la Libia, fa però temere per la sorte del gruppo, ospitato in parte da Unhcr con l’italiana Coopi. I primi, racconta Bader, sono arrivati a ottobre 2017. “Siamo tutti in fuga da anni, abbiamo cercato lavoro in Libia per mantenere le famiglie, finché ci hanno detto che in Niger c’era sicurezza”, spiega l’uomo, che preferisce rimanere anonimo. Attorno, sulle stuoie di paglia di un cortile inondato dal sole, alla periferia di Agadez, una piccola folla mormora “mass media, mass media”. Sarebbero i discorsi sugli “hotspot nel Sahel”, del presidente francese Macron, rimbalzati sui media internazionali la scorsa estate, ad averli portati qui. I primi arrivi. “Sono arrivati in piccoli gruppi, e all’inizio li abbiamo ospitati nel nostro centro”, spiega Lincoln Gangair, responsabile del centro di transito ad Agadez dell’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Da gennaio però, Unhcr - l’Alto Commissariato per i Rifugiati - apre per la prima volta dei centri d’accoglienza nella città nel cuore del Niger, alle porte del Sahara. Le due agenzie ONU devono offrire delle soluzioni per chi approda a Agadez: una protezione per i rifugiati, il rimpatrio volontario per chi è considerato migrante economico. Centri per rifugiati ad Agadez. Per i sudanesi, rientrare nel paese d’origine non è un opzione. “Siamo scappati al genocidio, ai crimini del presidente Al-Bashir, alle violenze sessuali, ai bombardamenti”, racconta un uomo, “tornare sarebbe la morte”. Così appena inaugurati, i centri aperti da Unhcr con l’italiana Coopi si riempiono subito. Esauriti i 500 posti disponibili, altri sudanesi dormono per strada, finché il governo individua alcuni lotti, alla periferia di Agadez. Centinaia di persone vengono alloggiate in cortili in terra battuta, attrezzati con tettoie di lamiera e toilette rudimentali. Il maxi raid. È in questo contesto che, nei primi giorni di maggio, le forze di sicurezza di Agadez entrano nel quartiere. Alcune famiglie sudanesi hanno tirato delle tende all’esterno dei cortili, per avere più spazio per cucinare e dormire. Incomprensioni e piccoli litigi alimentano la tensione fra abitanti del posto e rifugiati. Cento quarantacinque persone vengono arrestate, in una maxi-operazione; 10 di loro, fra cui alcune donne, sono rilasciate poco dopo. Degli altri non si sa più nulla. Fino a quando un uomo torna con una ferita, dicendo di essere scappato insieme ad altri due, mentre venivano caricati su un camion. La deportazione. “Non sapevamo dove fossero”, dice Bader per telefono, preoccupato per la presenza continua della polizia, “che ci obbliga a restare all’interno dei cortili”. La notizia della deportazione arriva pochi giorni dopo. A confermarla, lo stesso ministero degli interni del Niger, per cui “si trattava di cercatori d’oro e banditi, protagonisti di attacchi a mano armata e traffici di droga, nulla a che fare con dei rifugiati”. La priorità, spiega la fonte del ministero, è “la sicurezza, e su questo non transigiamo”. Lasciati nel deserto. Sempre secondo il ministero, condotto con mano decisa da Mohamed Bazoum, segretario del partito al potere, “in gran parte erano combattenti agguerriti al soldo di Haftar nel sud libico, che hanno contribuito a destabilizzare”. In 132, caricati su camion, sarebbero stati condotti alla frontiera con la Libia, spiegano dalla capitale Niamey. Diverse fonti parlano di Madama, avamposto militare nigerino e francese, 100 chilometri a sud del confine con la Libia, lungo la pista principale che attraversa il Sahara centrale. Rischi di tortura e violenze. “Deportare queste persone verso la Libia”, dice Gaëtan Mootoo di Amnesty International, “significa violare il diritto d´asilo, esponendole al rischio di torture e abusi”. Per questo motivo Amnesty chiede che “il governo riammetta queste persone in Niger e lavori con Unhcr per garantirgli protezione”. Raggiunta per telefono, la responsabile per il Niger dell´agenzia Onu, l´italiana Alessandra Morelli, parla della necessità di “tutelare i rifugiati senza lasciare da solo il paese”. Il Niger, spiega, “va aiutato a gestire questi rifugiati, con investimenti per lo sviluppo locale”. Dopo la deportazione, UNHCR ha avviato un dialogo fra autorità locali e un comitato dei sudanesi, per ridurre le tensioni. Le reazioni locali. Per Rhissa Feltou, sindaco di Agadez, la presenza dei rifugiati sarebbe però legata proprio alle organizzazioni internazionali. “Non c’erano rifugiati qui”, dice dalla sua scrivania, sormontata dalla croce di Agadez, gioiello-simbolo della città. “Sono i campi profughi aperti dalle stesse agenzie umanitarie che hanno attratto i sudanesi, che mai hanno usato questo percorso”. Ibrahim Manzo Diallo, giornalista di Aïr Info e storica voce della comunità agadeziana, spiega che “la gente qui è arrabbiata: fanno fatica a sopravvivere e non capiscono cosa vogliano queste persone”. I rifugiati hanno paura. Fra i rifugiati intanto, l’insicurezza cresce. Alcuni sono arrivati qui dopo mesi di detenzione e dopo aver tentato la traversata del Mediterraneo, altri hanno alle spalle 15 anni da sfollati interni nel Darfur o da rifugiati nel vicino Ciad. Un uomo racconta di aver vissuto in Giordania, prima di essere deportato verso il Sudan, per poi scappare di nuovo. Un piccolo gruppo di sud sudanesi di etnia dinka parla a fatica delle torture subite in Libia. Uno di loro non riesce più a piegare le braccia, dopo essere rimasto legato per giorni in un centro di detenzione. Il mare chiuso. Aicha Ali, una ventenne nominata rappresentante delle donne sudanesi, racconta come quattro delle compagne di viaggio abbiano perso le tracce dei mariti, detenuti o scomparsi in Libia da mesi. E nessuno sa esattamente dove siano i 132 uomini deportati. “Saranno tornati nelle loro basi nel sud libico”, spiegano dal ministero dell´interno, alludendo alle milizie del Darfur a cui - secondo lo stesso ministero - apparterrebbero le persone deportate. “Siamo scesi fino a qui perché il mare è chiuso”, dice la donna abbracciando l´ultimo dei tre figli, nato in Libia. “Se non troveremo un aiuto, dove farò crescere i miei bambini?”, si chiede. Sudan. Condannata a morte la sposa-bambina per aver ucciso il marito di Michele Farina Corriere della Sera, 13 maggio 2018 Una campagna mondiale per salvarla. Noura oggi ha 19 anni e giovedì scorso un tribunale di Omdurman, città gemella della capitale Khartoum sull’altra sponda del Nilo, l’ha condannata a morte per aver ucciso il suo stupratore. Lanciata una campagna (fuori e dentro il Sudan) per salvarla. Non è sola, Noura Hussein, quando il giudice legge la sentenza. È vero che non c’è nessuno dei suoi familiari, gli stessi che l’hanno consegnata alla polizia. È vero che i parenti del defunto marito violentatore celebrano tra gli applausi la prossima impiccagione di una diciannovenne rea di essere sfuggita al destino di tante spose bambine. Ma a sostenerla in aula ci sono ragazze e donne, anche loro sudanesi. Attiviste come Amira Osman, che a Radio Dabanga denuncia “la violazione del Diritto”. Su Internet prende nuova forza la campagna #JusticeForNoura, animata anche da donne musulmane. Mentre la giornalista Yousra Elbagir, che vive nella capitale Khartoum, replica via Twitter a quanti usano la legge islamica come sbrigativo passe-partout: “Nell’Islam il matrimonio forzato è illegittimo”. Articolo 91 - In Sudan è l’aberrante articolo 91 dell’aberrante Legge sulla famiglia a prescrivere che “la moglie non può rifiutarsi di avere rapporti sessuali se il marito ha pagato la giusta dote”. Un sistema che sfrutta la carta religiosa per tenere soggiogate le donne. Nel caso di Noura, il marito le viene imposto con la forza a 16 anni, nella persona di un secondo cugino benestante. Lei che vuole studiare e diventare insegnante scappa prima che la cerimonia sia completata. Si rifugia da una zia nella regione di Sennar. Nel 2017 il padre le manda a dire che può tornare a casa, che il matrimonio è cosa morta. Noura l’ha raccontata al processo, dove più volte è stata colta da malore, la trappola che l’aspettava. A casa - Arrivando a casa, scopre che il giorno del suo ritorno è il giorno delle nozze. La portano in un appartamento per la luna di miele. Lei ancora si oppone. Per quattro lunghi giorni. Il quinto, la famiglia passa all’azione: quattro uomini tra cui un fratello, un vicino, un cugino del marito, immobilizzano la giovane nella stanza da letto, dove lui finalmente può violentarla. Il giorno dopo ci riprova di nuovo, senza l’aiuto del gruppo, credendo che lei abbia capito la lezione. Questa volta Noura ha le mani libere. Sotto choc per la violenza subita, reagisce al nuovo tentativo. E accoltella il marito. “Un omicidio brutale - ha detto il pubblico ministero Ali Hasan Abdulrahman ai media locali -. Lei ha persino impedito alla vittima di chiamare aiuto”. I soldi - Magari l’aiuto del fratello, del vicino, la stessa compagnia del giorno prima? In giudizio, i familiari del marito avrebbero potuto accettare la “deya”, la compensazione economica possibile in questi casi. Ma hanno rifiutato l’offerta, che sarebbe stata a carico delle ong per i diritti umani (la famiglia di Noura ha fatto perdere le sue tracce, trasferendosi altrove per timore di rappresaglie). Quelli non volevano i soldi ma la condanna a morte, l’impiccagione della moglie ribelle e sanguinaria. E l’hanno ottenuta. “Justice for Noura”. Al contrario. La diplomazia e l’Italia - Questa mattina, gli avvocati di Noura Hussein depositano il ricorso, l’ultimo appello contro la sentenza. Si mobilitano le associazioni per i diritti umani, fuori e dentro il Sudan. Si mobilita dietro le quinte la diplomazia. Anche quella italiana, che quattro anni fa giocò un ruolo importante nella liberazione di Meriam Yehya Ibrahim Ishag, la donna condannata a morte per apostasia e adulterio. La giornalista Antonella Napoli, presidente di “Italians for Darfur” e autrice di Il mio nome è Meriam, dice che la storia di Noura è la conferma di quanto resti critica la situazione dei diritti umani (e in particolare delle donne) in un Paese che l’America per altro ha “premiato” di recente, abolendo le sanzioni economiche contro il regime genocida di Omar al-Bashir. “Siamo in contatto con gli avvocati di Noura. Lei è devastata. Loro non si aspettavano la condanna a morte”. Noura non è sola. Neanche in patria. Come ha scritto sul Guardian l’attivista sudanese Yassmin Abdel-Magied: “Una teenager ha ucciso il suo violentatore, e le donne musulmane lottano per la sua vita”.