Orlando: carcere, insisterò anche nell’ultimo Consiglio dei ministri Il Dubbio, 12 maggio 2018 Il ministro: “governo dica sì alla riforma prima di lasciare”. “Mi sono battuto negli ultimi due Consigli dei ministri per l’approvazione definitiva della riforma dell’ordinamento penitenziario, lo farò anche in occasione dell’ultimo Consiglio perché sono convinto che non soltanto è importante in sé, ma è importante come messaggio politico per la fase nuova che si apre”. Lo ha scritto ieri in un post su Facebook il ministro della Giustizia Andrea Orlando, il quale ricorda che si tratta di “una legge approvata dal Parlamento: il suo esame parlamentare è durato due anni, i decreti delegati sono stati ampiamente discussi dalle Camere, con dei rilievi che sono stati accolti”. Con il saluto che ha rivolto ieri al personale dei ministero, il guardasigilli ha ricordato che la “cifra” in questi anni è stata quella di “cercare di mantenere le garanzie costituzionali: non abbiamo usato il diritto penale come un simbolo, cosa che forse sarebbe stato più remunerativo dal punto di vista elettorale”. Secondo Orlando, “dire oggi che si deve rispettare la dignità della persona, anche quando questa è privata della libertà, non corrisponde al senso comune più ampio della società e non corrisponde assolutamente all’esito elettorale. Ma siccome corrisponde a un obiettivo di civiltà e a un’indicazione costituzionale che prescinde sia dall’esito elettorale che dal contingente senso comune, credo - ha concluso - che questa eredità la dobbiamo rivendicare e anche affermarla con gesti di carattere simbolico e, naturalmente, politico”. Tutti in libertà con la riforma delle carceri? Falso di Greta Ardito, Lorenzo Borga e Tommaso Portaluri lavoce.info, 12 maggio 2018 Il fact-checking de lavoce.info passa al setaccio le dichiarazioni di politici, imprenditori e sindacalisti per stabilire, con numeri e fatti, se hanno detto il vero o il falso. Questa volta tocca alle affermazioni di Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia, sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. La riforma vista da Fedriga - Massimiliano Fedriga, neoeletto presidente del Friuli Venezia Giulia, negli studi di Matrix su Canale 5 ha dichiarato, a proposito della recente riforma dell’ordinamento penitenziario: “Parlavo prima degli svuota-carceri. Il Pd ha votato, a Camere sciolte in Commissione giustizia, il sesto svuota-carceri, lasciando libere tutte le persone condannate fino a 4 anni per qualsiasi reato e facendole accedere alle misure alternative”. Si tratta di un ritornello della campagna elettorale dell’esponente della Lega, che ha messo la sicurezza tra i temi centrali, al punto che questa stessa affermazione è stata ripetuta, con alcune variazioni, in altre occasioni (su La7, sia a Otto e mezzo sia a Omnibus). Ma è davvero come dice Fedriga? Tutti i tipi di reati? Nel marzo di quest’anno, in attesa della prima riunione delle Camere, il Consiglio dei ministri ha approvato, dopo il primo parere delle commissioni giustizia di Camera e Senato, lo schema di decreto sulla riforma dell’ordinamento penitenziario. L’obiettivo dichiarato del decreto - che è attualmente in attesa del secondo parere parlamentare, dunque non ancora varato definitivamente - è ridurre il tasso di recidiva, che sarebbe molto più alto per chi ha scontato la pena in carcere che per coloro che hanno beneficiato di misure alternative (anche se gli unici dati, spesso citati, sono solo del 1998 e non sappiamo quanto siano affidabili). Finalità concorrente e sicuramente urgente è anche la riduzione della popolazione carceraria italiana, che vive in condizioni di sovraffollamento. Secondo il ministero della Giustizia, il tasso di affollamento tocca oggi il 115 per cento (58.285 carcerati per una capienza di 50.619), migliorato rispetto al 2010 quando raggiunse il 151 per cento. L’ordinamento penitenziario fissa i limiti di pena massima (anche residua) per l’accesso alle misure alternative. Misure diverse prevedono limiti diversi, che variano dai due anni per la detenzione domiciliare (salvi alcuni casi particolari), ai quattro per il cosiddetto affidamento allargato. Come spiega il dossier della Camera sullo schema di decreto legislativo, il provvedimento per la detenzione domiciliare eleva a quattro anni il limite di pena inflitta (o anche residua) entro il quale il condannato può beneficiarne. Più nello specifico, rientrano nelle misure alternative l’accesso all’affidamento in prova, ai domiciliari o alla semilibertà. Una concessione che tuttavia non è automatica, come sembra suggerire la dichiarazione di Fedriga, ma che necessariamente richiede la decisione favorevole della magistratura, a cui spetta il compito di valutare la personalità dei detenuti caso per caso. Oltretutto, la novità non riguarda tutti i tipi di reati: ai condannati per associazione mafiosa, terrorismo, riduzione in schiavitù, tratta di persone, prostituzione minorile, violenza sessuale di gruppo (oltre a una serie di altri delitti commessi per via associativa) resta preclusa la possibilità di uscire dal carcere prima della fine della pena, a meno che non collaborino con la giustizia. Anche su questo Fedriga sbaglia. L’armonizzazione della normativa - In che modo la riforma Orlando modificherebbe la normativa attuale? Lo schema di decreto legislativo interviene su almeno due profili: porta a quattro anni il limite per la sospensione dell’ordine di esecuzione delle pene detentive (in precedenza a tre); ed estende il limite di quattro anni anche alla detenzione domiciliare. Già il decreto legge del 2013 n. 146 prevedeva infatti la possibilità di concedere al condannato il cosiddetto affidamento allargato per pene non superiori ai quattro anni. In breve, la riforma modificherebbe, da un lato, le “procedure” di accesso alle misure alternative e, dall’altro, “le modalità e i presupposti”. A ben vedere, si tratta però di interventi che non rivoluzionano la normativa attuale, ma attuano una armonizzazione del sistema sanando due profonde contraddizioni prodotte dalla legge del 2013. La prima incongruenza deriva dal mancato allineamento tra il limite per ottenere la sospensione dell’esecuzione e il limite per avere accesso alle misure alternative, ragione per cui i condannati a pene tra i tre e i quattro anni potrebbero accedere all’affidamento in prova solo dopo aver fatto ingresso in carcere. Si tratta di un paradosso talmente grave che ancor prima del legislatore è intervenuta la Corte costituzionale, dichiarando incostituzionale la norma che stabiliva il limite di tre anni (e non di quattro) per la sospensione dell’ordine di carcerazione. L’altra contraddizione, causata dalla mancata uniformazione dei limiti per avere accesso alle diverse misure alternative, si traduce nel paradosso per cui è possibile per i condannati a pene tra i tre e i quattro anni accedere alla misura alternativa meno afflittiva (l’affidamento), ma non a quella più gravosa della detenzione domiciliare (applicabile oggi solo fino ai due anni). Lo schema di decreto legislativo non crea dunque alcun effetto di “fuga” dal carcere - come invece alcuni giornali hanno riportato. Si limita a estendere il limite di quattro anni di pena alla detenzione domiciliare, razionalizzando la disciplina di accesso alle misure alternative. Il verdetto - Il neo governatore del Friuli Venezia Giulia, pur riportando un’informazione corretta (l’estensione del limite a quattro anni, qualora la riforma venisse varata dal Governo), suggerisce un’applicazione errata della riforma dell’ordinamento penitenziario - non tutti i reati sono infatti toccati dal decreto - e non tiene conto che il limite di quattro anni era già stato previsto, per l’affidamento in prova, fin dal 2013. Inoltre lo schema di decreto riordina una normativa su cui è intervenuta di recente la Corte costituzionale, sanando alcune contraddizioni generate dal legislatore. La dichiarazione di Fedriga non può dunque che essere falsa. “È falso che le pene alternative diminuiscano i casi di recidiva” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 12 maggio 2018 Riforma penitenziaria. Un ricercatore smonta la tesi del governo: “Non provato che chi sta in cella torni a commettere reati più spesso”. Le pene alternative riducono la recidiva. Cioè chi sconta la sua pena fuori dal carcere poi delinque meno di chi resta chiuso in cella. Questo è l’assunto su cui poggia la riforma penitenziaria in corso d’approvazione, ripetuto a gran voce dai suoi sostenitori, che richiamano le ricerche e i dati forniti dalla amministrazione penitenziaria. Chi accede alle misure alternative, dicono i dati, incorre nella recidiva solo nel 30 per cento dei casi, mentre chi sconta l’intera pena in carcere è recidivo al 70 per cento: è un argomento convincente per aprire il più possibile le celle. “Peccato che non sia vero”, dice Roberto Russo, ricercatore e docente di Diritto, che si è preso la briga di andare a controllare. “Si continua a ripetere che il soggetto ammesso alle misure alternative compia altri reati tre volte meno di un soggetto che non ha potuto accedere a questi benefici, ma mi sono chiesto: qual è la statistica da cui lo si deduce? L’ho cercata: non c’è”. Russo ha trovato lo studio a cui i sostenitori della riforma fanno riferimento: si intitola “Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva”, è stato scritto da Fabrizio Leonardi e pubblicato nel 2007 sulla rivista Rassegna penitenziaria e criminologica. “Molti lo citano, ma pochi l’hanno letto”, sorride Russo. “Prende in esame un certo numero di detenuti (8.817 per la precisione) ammessi al beneficio dell’affidamento in prova e che abbiano finito di scontare la loro pena nel 1998. Poi conta quanti di questi, al settembre 2005, ci siano “ricascati”, cioè siano stati nuovamente condannati in via definitiva. Sono solo 1.677, quindi il 19 per cento”. Addirittura molto meno del 30 per cento. Tutto bene, quindi? “No, perché sono stati contati non quanti hanno commesso reati, ma quanti sono stati condannati in via definitiva entro il 2005”. Ossia: sono stati conteggiati soltanto quelli che, usciti dal carcere nel 1998, hanno commesso un nuovo reato, sono stati individuati (“cosa non scontata considerando l’alta percentuale dei crimini impuniti”), e infine processati in primo grado, in appello ed eventualmente anche in Cassazione, con sentenza definitiva emessa entro il settembre 2005. “Capite bene che è un miracolo che siano più di mille, visto quanto durano i processi”. Da questa statistica restano fuori, spiega Russo, “tutti quelli che hanno compiuto reati ma non sono stati presi. E tutti quelli che, benché individuati, nel settembre 2005 erano sotto processo ma non avevano ancora avuto una sentenza definitiva”. Russo osserva poi che “uno studio serio che abbia l’obiettivo di misurare davvero il tasso di recidiva deve profilare anche un “gruppo di controllo”: cioè bisognava esaminare tutti i soggetti che hanno avuto il fine pena nel 1998, dividerli in due categorie (quelli che hanno avuto accesso alla misura alternativa e quelli che non l’hanno avuta) e vedere se tra i due insiemi, a settembre 2005, vi fosse un significativo scostamento circa l’incidenza della recidiva. Solo allora si sarebbe potuto trarre delle conclusioni”. Russo aggiunge un altro elemento, citando lo stesso autore dello studio del 2007, che avvertiva: “È bene ricordare che le persone ammesse alle misure alternative sono selezionate con un’attenzione all’affidabilità, una sorta di scrematura che abbassa, almeno in teoria, la possibilità che le stesse persone commettano nuovi reati”. La “scrematura” è già fatta scegliendo le persone che non dovrebbero tornare a delinquere. “Un esempio paradossale aiuta a comprendere”, continua Russo: “Volendo dimostrare il beneficio di un prodotto dimagrante, lo vado a testare non sulla generalità della popolazione, ma su persone scelte perché fanno sport e poi vado a misurare l’efficacia del prodotto un anno dopo che hanno smesso di farlo, scoprendo che solo il 19 per cento è in sovrappeso, mentre nel resto della popolazione è in sovrappeso il 70 per cento. Insomma: mi pare che le mie osservazioni dimostrino al di là di ogni ragionevole dubbio che non vi è alcuna possibilità di fondare scelte di politica criminale su uno studio che aveva tutt’altre finalità e che quindi non ha alcuna colpa circa l’utilizzo che ne viene fatto”. Ora la riforma penitenziaria, già approvata dal governo Gentiloni il 16 marzo, dovrà essere esaminata in Parlamento: non certo a breve, nelle “commissioni speciali” già nate alla Camera e al Senato, ma nella commissione Giustizia che nascerà dopo la formazione di un governo. Sarà un calvario: favorevoli Pd e Forza Italia, contrari però sia il M5s sia la Lega, che anzi la definisce “riforma svuota-carceri” o addirittura “salva-ladri”. “Il Garante regionale non può incontrare il boss al 41bis” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 maggio 2018 Per il Tribunale di Sorveglianza di Roma, a differenza di Perugia “non è affidabile”. Il Garante regionale dei detenuti non può parlare in maniera riservata con il 41bis perché “la natura della funzione di per sé non dice nulla del suo spessore e del suo grado di effettiva indipendenza ed affidabilità”. Questa è in sintesi la motivazione per la quale il tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato la richiesta presentata dai legali del boss palermitano Salvino Madonia, che sconta al 41bis una serie di condanne all’ergastolo, di incontrare in un colloquio riservato il Garante regionale per i detenuti del Lazio e dell’Umbria Stefano Anastasìa. La decisione va in senso opposto a quella del tribunale di sorveglianza di Perugia, che aveva consentito al Garante regionale di effettuare un colloquio riservato con un detenuto al carcere duro di Terni: parliamo dell’ordinanza del 27 giugno 2017 del magistrato Fabio Gianfilippi che ha consentito il colloquio riservato, motivando, tra le altre cose, che basta solamente il controllo visivo e non uditivo, perché è indispensabile la piena libertà di espressione per il detenuto e che deve essere posto in una condizione di completa tranquillità che soltanto l’assoluta riservatezza del colloquio può garantire. A questa ordinanza fecero ricorso sia il Dap che il Pm di Perugia. In questo caso, però, il tribunale di sorveglianza di Perugia ha rigettato il reclamo e ha dato ragione al magistrato Gianfilippo. Il garante, sia locale che regionale, è una figura istituzionale prevista dal nostro ordinamento che lo equipara al pari di altre autorità istituzionali. Ricordiamo che l’articolo 35 dell’ordinamento penitenziario recita: “I detenuti e gli internati possono rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa: al garante nazionale e ai garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti”. La busta chiusa è, appunto, riservatezza. Eppure la polemica si era focalizza sull’ipotesi che un garante possa fare da tramite con le organizzazioni mafiose. Polemica che ha trovato concretezza nella sentenza di mercoledì scorso del tribunale di sorveglianza di Roma. “A differenza di quanto accade per il Garante nazionale - scrive il tribunale nel rigettare l’autorizzazione - non esiste una legislazione statale che individui le minime caratteristiche e principi fondamentali in ordine alla nomina dei garanti territoriali e ne disegni, sia pure in termini essenziali, lo status. Allo stato attuale della normativa qualsiasi Comune - quando non addirittura qualsiasi Municipio - può istituire un Garante per i detenuti e nominarne del tutto discrezionalmente il titolare, aprendogli l’accesso alle prerogative disegnate nell’ordinamento penitenziario, senza che necessariamente questo offra di per sé alcuna garanzia di autorevolezza concreta, di affidabilità e di indipendenza”. Secondo i magistrati “non v’è dubbio che la funzione svolta dal Garante per i detenuti sia molto importante, terza ed istituzionale, ma la natura della funzione di per sé non dice nulla del suo spessore e del suo grado di effettiva indipendenza ed affidabili- tà: sono le modalità di scelta e le guarentigie in concreto assegnate a determinare il grado di affidabilità, professionalità ed indipendenza di un organo. E su questo il legislatore statale non ha dettato alcuna indicazione, neppure minima. L’esperienza concreta e giudiziaria ci ha insegnato che la geografia delle infiltrazioni di mafia, camorra e ‘ndrangheta nel territorio nazionale e nelle amministrazioni locali - concludono - è oramai del tutto cambiata e soprattutto in continua evoluzione, così che la concreta distribuzione sul territorio nazionale della popolazione detenuta al regime del carcere duro non può essere l’architrave della tenuta del ragionamento che ridimensiona i rischi di contatti non sufficientemente affidabili e verificati”. In sostanza, prevale la cultura del sospetto. Quella che si cercò di imporre anche ai legali dei detenuti al 41bis, poi respinta dalla Consulta. “È ora di depenalizzare”. Toghe di Mi contro Davigo di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 maggio 2018 Dal convegno di Magistratura Indipendente lo stop alla linea di Piercamillo. A differenza di altri gruppi associativi, connotati da un approccio ideologico alla giurisdizione, ha incentrato il dibattito al proprio interno puntando molto sulle riforme e sulla migliore organizzazione degli uffici. Per raggiungere lo scopo, la corrente ritiene sia stata fondamentale - ma forse lo sarà ancora di più in questo momento delicato una interlocuzione positiva con la politica. Una interpretazione diversa, dunque, del ruolo del magistrato, senza conflittualità preconcette. I lavori del convegno sono stati introdotti ieri pomeriggio dalla presidente di Mi Giovanna Napoletano. “C’è una domanda di giustizia eccessiva - ha dichiarato - a fronte delle risorse attualmente disponibili: è necessario pensare a come poter garantire una risposta adeguata, fatta di sentenze di qualità ed in tempi accettabili. Le risorse vanno ottimizzate ed in tal senso è importante il ruolo dei capi degli uffici, nello sforzo di far funzionare al meglio il sistema”, ha poi aggiunto. E ha sottolineato come sia “non più rinviabile una seria depenalizzazione”. Dello stesso avviso, sul punto, il segretario generale del gruppo, Antonello Racanelli, secondo cui bisogna uscire dalla logica che vede nel carcere l’unica soluzione ai problemi che affliggono il Paese. Fra i diversi argomenti affrontati, meritevole di attenzione è stata sicuramente la tavola rotonda incentrata sul rapporto fra giustizia ed economia. Un uso “disinvolto” di certe norme, si pensi ad esempio alle misure di prevenzione, ha conseguenze irreparabili per molte imprese, è sta l’analisi condivisa dagli esponenti della corrente moderata. Il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, intervenuto in apertura dei lavori, ha sottolineato come interi settori della pubblica amministrazione “siano oggi paralizzati. Le recenti riforme legislative, oltre ad inasprire le pene, hanno ottenuto il risultato di terrorizzare i dirigenti pubblici”, è stata la sua riflessione. “Il caso della legge Severino è emblematico: per paura di conseguenze penali si evita ormai di firmare qualsiasi atto. Una condanna, anche in primo grado per abuso d’ufficio”, ha ricordato De Luca, “comporta infatti a carico del dirigente la sospensione dalle funzioni, con risvolti facilmente immaginabili sotto il profilo economico e professionale”. Nodo a cui si aggiungono “i tempi eccessivamente lunghi prima di poter giungere ad una pronuncia definitiva”. Eppure queste norme, secondo il decalogo per il futuro governo pubblicato ieri sul Fatto da Marco Travaglio, non sarebbero ancora sufficienti e andrebbero inasprite, introducendo anche l’interruzione della prescrizione con il rinvio a giudizio. A fargli eco, nella richiesta di pene più alte, anche Piercamillo Davigo in una intervista, sempre ieri, su Repubblica. “Il livello di fiducia della giustizia da parte del cittadino si misura quando costui vi entra in contatto”, ha aggiunto Racanelli, evidenziando come sia fondamentale procedere dunque ad investimenti per mettere il sistema giudiziario in condizioni di dare risposte efficienti e competitive. Non è mancato un accenno alla recente riforma della magistratura onoraria, ritenuta insoddisfacente. Il convegno ha quindi offerto l’occasione per presentare, come già accennato, i prossimi candidati di Mi a Palazzo dei Marescialli: Antonio Lepre, pm a Paola, per i requirenti; Paolo Criscuoli, Paola Maria Braggion e Corrado Cartoni, rispettivamente giudici a Palermo, Milano e Roma, per i giudicanti; Loredana Micciché, consigliere in Cassazione, sfiderà Davigo per il posto di legittimità. Ospite d’onore, il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Mammone. Fra i presenti, naturalmente, Cosimo Ferri, sottosegretario uscente alla Giustizia e storico leader di Mi. Stretta sull’acquisto delle armi: obbligatoria la tracciabilità e il divieto di camuffarle di Alessandra Ziniti La Repubblica, 12 maggio 2018 Il Consiglio dei ministri vara una stretta sulle armi approvando un decreto che prevede un sistema di tracciabilità ma anche il divieto di “armi camuffate” e l’obbligo di attestare di aver avvisato i familiari della presenza di un’arma in casa. Ridotta da sei a cinque anni la durata delle licenze di tiro a volo e di caccia e introdotto l’obbligo di una certificazione medica ogni cinque anni. Sono le principali novità del decreto legge approvato questa mattina dal Consiglio dei ministri su proposta del premier Paolo Gentiloni e del ministro dell’Interno Marco Minniti in attuazione della legge di delegazione europea 2016-2017. Un sistema informatico di tracciabilità delle armi e delle munizioni consentirà, attraverso l’istituzione di una piattaforma informatica, lo scambio di informazioni tra i Paesi membri. Previste forme di controllo e di monitoraggio più stringenti dei titoli di acquisizione e detenzione delle armi, armonizzata la durata delle autorizzazioni in materia di armi e rimodulata le categorie delle armi da fuoco, modificando i criteri di acquisizione e detenzione delle stesse. Il decreto introduce la nozione di “arma camuffata”, cioè qualunque arma fabbricata o trasformata in modo da assumere le caratteristiche esteriori di un altro oggetto, chiarendo che tali strumenti sono assolutamente vietati. Inoltre, attraverso una revisione delle norme in vigore, rende effettivo l’obbligo, per chi richieda il nulla osta all’acquisto di armi o ne abbia a qualunque titolo la disponibilità, di produrre, all’atto del ritiro del documento, un’autocertificazione con la quale si attesti di aver avvisato i familiari conviventi maggiorenni, compreso il convivente more uxorio, dell’avvenuto rilascio dei documenti necessari per l’acquisizione della disponibilità dell’arma. La parrocchia, i fedeli, il territorio e la mafia di Cosimo Scordato* La Repubblica, 12 maggio 2018 L’impegno cristiano deve lavorare ad una doppia concentricità. Da una parte, l’essere-nel-mondo va vissuto in un dialogo sereno con tutte le istanze della contemporaneità (emergenze culturali, problemi epocali) nella consapevolezza di essere con-cittadini con tutti gli altri uomini, corresponsabili del presente e del futuro. Dall’altra parte, l’essere-nel-mondo deve tradursi nel qui-ed-ora delle situazioni concrete. Accanto ad una sensibilità cosmica, planetaria, inter-religiosa e inter-culturale è altrettanto urgente assumere il legame con il proprio territorio, frammento della storia e della geografia umana. I problemi più generali dell’umanità competono alla Chiesa tout court e papa Francesco ne è diventato sempre più autorevole interlocutore nello scenario internazionale; ma, per i problemi locali il Concilio Vaticano II ha rilanciato la chiesa locale/particolare; l’essere in un determinato luogo è essenziale per la realizzazione della ecclesialità; detto semplicemente, o una chiesa si realizza in quel luogo e in quel tempo (cultura, tradizione, problemi, bisogni…) del suo esser-ci comunitario; oppure essa viene compromessa nella sua ecclesialità: il riferimento al territorio è la possibilità che l’ecclesialità di ogni Chiesa avvenga e si compia autenticamente. In questo rinnovato orizzonte ecclesiologico, la mafia è diventata un problema ecclesiale; essa, infatti, si è sviluppata in terra cristiana, in mezzo ad una societas cristiana; i mafiosi hanno cercato la loro legittimazione facendosi anche pubblici difensori della religione. La Chiesa è chiamata a interrogarsi non solo sul senso della sua missione storica nel passato, focalizzando le condizioni che hanno reso possibile la sua convivenza col fenomeno mafioso; ma, a partire dalla scomunica ufficiale comminata dal papa alla mafia, ancora più deve comprendere il suo compito verso il presente ed il futuro, ricercando quelle condizioni che trasformino il suo essere-qui, in questo tempo e luogo precisi, come autentico antidoto alla mafia e alternativa ad essa ed eliminando precomprensioni, atteggiamenti mentali che, in maniera esplicita o implicita, possano offrire il fianco ad ambigue analogie e quindi a supporti ideali alla “onorata società” (A. Cavadi). Nel rapporto con lo stato e con la società, la Chiesa da un lato, deve riconoscere il valore dell’istituzione nella sua laicità; dall’altro lato, deve verificare se un certo atteggiamento di estraneità non possa costituire terreno fertile per una sua sottovalutazione, prestando il fianco alla mafia, che tenta di sostituirsi ad essa, favorendo indirettamente l’idea di “uno stato nello stato”. Inoltre, è proprio di una comunità concreta fare appello il Vangelo per sperimentare dentro i fatti e le cose di ogni giorno l’annunzio salvifico del Cristo crocifisso e risorto. Il legame col territorio è espresso dal termine parrocchia (paroichìa), nella sua etimologia di ‘casa accanto a casà; il senso va in direzione del farsi prossimo cercando e incontrando gli altri laddove essi vivono i loro problemi per superarli. Concretamente, un analfabeta non potrà leggere il Vangelo; un disoccupato con problemi di sopravvivenza, intento a sbarcare il lunario, difficilmente si aprirà ad un momento di riflessione religiosa; non sarà facile parlare di paternità, e di paternità divina, ad un ragazzino che non ha conosciuto il padre ucciso dalla mafia; in una società inquinata dal malcostume e dalla illegalità si correrà sempre più il rischio di essere relegati come idealisti o persone che non conoscono la vita... Si suole dire che la mafia e la parrocchia occupano il territorio; ebbene, senza volere enfatizzare questa constatazione, è vero che la parrocchia deve disporsi ad accettare il determinante ruolo storico di vivere nella dimensione territoriale i segni della sua credibilità; non si tratta di sfidare la mafia, né di ostentare sicurezza e coraggio; più modestamente, si tratta di cominciare a far gustare la bellezza dei luoghi attraverso gesti ed iniziative che li trasformino, a poco a poco, in spazi di socializzazione, di appropriazione comunitaria, di incontro, di giuoco, di festa. Anche la riscoperta delle feste locali potrebbe muoversi in direzione di un uso del territorio non occasionale ed estrinseco, ma partecipato e coinvolgente. In questo senso, la parrocchia, sapendo contemperare momenti di denunzia coraggiosa e chiara con momenti propositivi ed evolutivi rispetto alle situazioni iniziali, imparerà a servirsi del territorio come risorsa sociale e pastorale; le diverse attività con bambini e bambine, con gli adulti e gli anziani, possono essere ripensate, oltre che all’interno dei “locali parrocchiali” anche al di fuori di essi, avendo cura di intervenire, con discrezione, soprattutto in quei luoghi che sono compromessi dal loro anonimato; abbellire piazze e vicoli, trasformare strade e cortili in luoghi di incontro e di attraversamenti comunitari è un compito che la parrocchia, con le scuole e le altre istituzioni operanti nel territorio, possono cominciare ad assumere. A fronte di un deteriorarsi della vita socio-politica, la comunità cristiana, nel rispetto di tutte le altre presenze religiose, deve affiancare la vita dell’uomo, senza presunzioni o sicurezze, povera e disarmata col vangelo nel cuore, compiendo gesti di accoglienza nei confronti di tutti. Sullo sfondo è di grande incoraggiamento la testimonianza luminosa di padre Pino Puglisi, il parroco che nel quartiere difficile di Brancaccio ha saputo interpretare il suo ministero di parroco coniugando annunzio della Parola e testimonianza di vita, impegno evangelico e gesti di autentica risurrezione nei confronti di situazioni radicalmente deprivate. Sulla stessa linea anche la nostra esperienza di due centri sociali territoriali (S. Francesco Saverio, S. Giovanni Decollato) sta cercando - giorno dopo giorno - di promuovere nel territorio gesti di speranza nell’ambito della dispersione scolastica, della disoccupazione, della ricerca della casa… e della riaggregazione del tessuto sociale. *Rettore della chiesa San Francesco Saverio all’Albergheria di Palermo Berlusconi riabilitato: potrà di nuovo correre alle elezioni di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 12 maggio 2018 Cancellati gli effetti della legge Severino per il leader di Forza Italia. Il provvedimento è già esecutivo. Silvio Berlusconi può di nuovo candidarsi alle elezioni. Se in questo momento si dovesse andare alle urne, il Cavaliere avrebbe il diritto di presentarsi alla Camera dei deputati o al Senato della Repubblica e tornare così a tutto tondo in campo politico perché ha ottenuto dal Tribunale di sorveglianza di Milano la “riabilitazione”, quella che cancella tutti gli effetti della condanna che aveva subito nel processo sui diritti tv Mediaset e l’incandidabilità imposta dalla legge Severino. L’istanza - La decisione di concedere la riabilitazione all’ex presidente del Consiglio, che inizialmente era stata prevista da qualcuno per il prossimo mese, è stata invece presa nel tardo pomeriggio di ieri dal Tribunale di Sorveglianza in camera di consiglio, cioè senza la presenza della difesa e del rappresentante della Procura Generale, dopo che il 12 marzo i legali di Berlusconi, gli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini, avevano depositato nella cancelleria al settimo piano del palazzo di giustizia l’istanza con la richiesta firmata dal loro assistito. Erano già passati quattro giorni (ma di mezzo c’era un fine settimana) dalla scadenza dei tre anni che la legge prevede che debbano trascorrere dalla espiazione completa della pena prima che si possa presentare la domanda, termine appunto che cadeva l’ 8 marzo scorso. La sentenza - Berlusconi è stato condannato definitivamente per frode fiscale il primo agosto 2013 dalla Corte di cassazione che ha confermato la sentenza emessa dalla Corte d’appello di Milano nel processo relativo ai diritti tv Mediaset e con essa i quattro anni di reclusione, tre dei quali erano stati però cancellati dal condono. Il resto della pena il Cavaliere l’ha espiata in affidamento in prova ai servizi sociali recandosi per quattro ore, un giorno alla settimana, nell’istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone, hinterland milanese, dove ha svolto fino all’ 8 marzo del 2015 “attività di volontariato” a favore degli anziani ricoverati. Fine incandidabilità - L’ex premier raggiunge così un obiettivo fondamentale che potrà giocarsi in caso di ritorno alle urne perché la riabilitazione cancella gli effetti negativi della legge Severino che stabilisce che un condannato nelle condizioni in cui lui si trovava non è candidabile per i sei anni successivi a una sentenza di condanna superiore ai due anni passata in giudicato. Contro questa norma i legali di Berlusconi hanno anche fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo sostenendo che la legge Severino ha avuto sulla sua posizione giuridica un effetto retroattivo. L’udienza di fronte ai giudici di Strasburgo si è svolta il 27 novembre dell’anno scorso alla presenza di oltre 500 persone accreditate tra le quali una cinquantina di giornalisti. La decisione è prevista per il prossimo autunno, quando però il Cavaliere potrebbe anche non avere più interesse a conoscere il verdetto visto che ha incassato l’ordinanza favorevole del Tribunale di sorveglianza. Riabilitazione - Il codice penale dice che per ottenere la riabilitazione, che “estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna”, bisogna avere “adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato”, ad esempio aver risarcito il danno, come è avvenuto. Ma c’è un altro punto che il codice fissa: dopo l’espiazione, il condannato deve aver dato “prove effettive e costanti di buona condotta” e di essersi reinserito nella comunità rispettandone, nei limiti del possibile, le regole, ha detto la Cassazione. Sotto processo - La questione è delicata perché Silvio Berlusconi è attualmente coinvolto in vari procedimenti penali, tutti legati all’unico caso Ruby, in cui è accusato di corruzione in atti giudiziari perché, secondo l’accusa, avrebbe pagato un ventina di testimoni affinché dicessero il falso nei processi sulla vicenda della marocchina Karima El Mahroug ospite nel 2010 nelle cene e nei dopo cena di Arcore in cui è stato assolto definitivamente dall’accusa di prostituzione minorile e concussione. Alcune delle imputazioni, come quelle ipotizzate a Milano, si riferiscono a pagamenti di fine 2016, quindi durante i fatidici tre anni di “buona condotta” previsti per ottenere la riabilitazione. “Nessun ostacolo” - La Cassazione, però, ha anche stabilito che la pendenza di procedimenti penali “non può essere ostacolo alla concessione della riabilitazione”. Il Tribunale di sorveglianza milanese deve aver seguito questa impostazione aggiunta la considerazione che si tratta di più procedimenti su un unico fatto al vaglio dei giudici di merito. Verrebbero anche riportate esempi di decisioni precedenti in cui lo stesso Tribunale ha concesso la riabilitazione anche in presenza di procedimenti penali pendenti. Sulla decisione la Procura generale di Milano ha la possibilità di ricorrere in Cassazione. Subito esecutiva - L’ordinanza è immediatamente esecutiva, il che vuol dire che già da ieri Berlusconi è formalmente riabilitato a tutti gli effetti. Chi gli è stato vicino ha sempre detto che l’ex presidente del Consiglio attendeva questo esito non solo per recuperare la sua agibilità politica, ma anche per una questione di orgoglio personale. E la notizia che gli è arrivata ieri non può che avergli fatto piacere. Quell’uomo in cella da un anno non è “il generale”, lo conferma anche il Dna di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 maggio 2018 Il giovane eritreo è processato a Palermo perché ritenuto essere Medhanie Yehdego Mered. Ennesima prova che potrebbe scagionare Medhanie Tesfamariam Berhe, un giovane eritreo che è in carcere da più di un anno con l’accusa da parte della Procura di Palermo di essere “il generale” eritreo Medhanie Yehdego Mered, il pericoloso trafficante che sulla pelle dei migranti ha guadagnato una fortuna. I legali del giovane eritreo hanno ritrovato, in Svezia, il figlio del vero Mered e risulta che il suo Dna non è compatibile con lui. Parliamo di un eclatante caso giudiziario seguito passo passo da Radio Radicale, in particolar modo dal conduttore radiofonico Sergio Scandura. Il procedimento contro il 29enne eritreo si sta svolgendo davanti la Corte d’Assise di Palermo presieduta dal giudice Alfredo Montalto, la stessa Corte che recentemente ha condannato al processo di primo grado gli ex vertici dei Ros e l’ex senatore Marcello Dell’Utri per la presunta trattativa Stato- mafia. Diverse sono le prove che dimostrano un clamoroso scambio di persona. Diverse testate, soprattutto internazionali, si sono occupati della vicenda per dimostrare la sua innocenza. In particolare, tre giornalisti americani del Wall Street Journal, grazie a una loro inchiesta, erano riusciti a contattare il vero boss delle tratte che vive in libertà in Uganda. Il Wall Street Journal non indica la data del contatto l’africano ma scrive che “ha contattato l’uomo tramite messaggi in chat facendo riferimento ai documenti che attestano per il tribunale quella che sarebbe la reale pagina di Facebook di Mered Medhanie Yedhego”. Così si chiama il boss detto anche “Il Generale” che organizza tratte lungo la direttrice che collega il Corno d’Africa alla Libia e da lì in Italia. Lui ai giornalisti americani sostiene: “Ero convinto che l’avrebbero rilasciato in poco tempo. Loro sanno che non si tratta del vero Medhanie”. I giornalisti del Wall Street Journal scrivono che ci sono dozzine di testimoni che sostengono che “l’uomo dalla faccia di bambino non è il contrabbandiere”. Il Mered contattato spiega: “Ero negli affari tra il 2013 e il 2015”. E continua: “Non ho una residenza fissa, mi muovo da un Paese all’altro”. Secondo Facebook si troverebbe adesso in Uganda. Insomma, grazie anche a questa inchiesta, i dubbi sull’operazione coordinata dalla Procura di Palermo con il supporto della National Crime Agency inglese che portò all’arresto dell’eritreo, si addensano sempre di più e si rafforza sempre di più l’idea che potrebbe esserci stato effettivamente uno scambio di persona. Qualche mese fa anche i giornalisti del quotidiano inglese The Guardian hanno messo in luce l’altra verità che i magistrati inquirenti non vorrebbero vedere: hanno pubblicato un estratto da una chat del profilo Facebook di Mered in cui il trafficante stesso afferma che gli investigatori “hanno fatto un errore con il suo no- me. Tutti sanno che non è un trafficante e spero che venga rilasciato”. Sempre The Guardian ha contattato e intervistato Lie Tesfu, indicata dalle carte della procura come la moglie del “Generale”, che senza esitazioni ha affermato che l’uomo sotto processo a Palermo non è suo marito. Anche dalle udienze in tribunale erano emersi altri elementi a favore dell’imputato. Come la sua carta di identità validata dalle autorità eritree, la ricostruzione dei suoi movimenti tra Eritrea e Sudan grazie ai collegamenti al suo profilo Facebook. E soprattutto la testimonianza di Seifu Haile, un eritreo detenuto a Roma e condannato per traffico di esseri umani: per mesi Haile ha lavorato in Libia a fianco del vero Mered e nemmeno lui ha riconosciuto il giovane detenuto a Palermo. Ma niente da fare, nonostante tutte le prove, comprese l’ultima relativa al Dna, il processo continua e l’imputato continua a considerarsi un semplice rifugiato che era in attesa di lasciare il Sudan - dov’è stato arrestato dagli agenti inglesi e italiani - per approdare in Libia e da lì salire a bordo di un barcone alla volta dell’Europa. Alla fine il sogno di approdare in Europa si è realizzato, ma mai si sarebbe aspettato di essere accompagnato qui per finire in un penitenziario con l’accusa di essere uno spietato criminale. Diritto di difesa del detenuto e illegittimità della sanzione disciplinare irrogata di Veronica Manca giurisprudenzapenale.com, 12 maggio 2018 Cassazione Penale, Sez. I, 16 aprile (ud. 21 dicembre 2017) 2018, n. 16914. Con la pronuncia n. 16914 del 2018, la Prima Sezione della Suprema Corte ha affrontato il delicato, quanto poco battuto, tema del procedimento disciplinare, previsto ai sensi del combinato disposto dell’art. 39 e ss. O.P. e dell’art. 81 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230. In particolar modo, la Cassazione ha esaminato il ricorso proposto da un detenuto, il quale era stato sottoposto alla sanzione disciplinare dell’esclusione dalle attività in comune, per la durata di 12 giorni, a causa del suo comportamento, dato che gli veniva contestato di essersi “rifiutato di accogliere, nella sua camera di detenzione, un altro detenuto, portatore di patologia psichiatrica, costringendo la direzione dell’istituto ad allocarlo in altra stanza detentiva e, quindi, il successivo 9, allorché si era, invece, rifiutato di ritornare nella “sezione precauzionale”, ove si era liberato un posto per lui”. Il detenuto, vedendosi respingere il reclamo dapprima dal Magistrato di Sorveglianza di Frosinone e poi dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, tramite ricorso ex art. 35-bis O.P., ha sottoposto alla Suprema Corte plurime questioni inerenti alla violazione dei suoi diritti di difesa, lamentandosi, nello specifico di a) non aver ricevuto la contestazione formale dell’illecito nei 10 giorni stabiliti dall’art. 81, co. 2 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 decorrenti dal rapporto disciplinare da parte della direzione dell’istituto e alla presenza del comandante di reparto; b) di non aver potuto partecipare ad alcuna attività istruttoria, considerato, peraltro, il tempo intercorso tra il momento in cui era stato redatto il rapporto disciplinare e quello in cui si era tenuta l’udienza disciplinare - il pomeriggio dello stesso giorno; c) di essere comparso all’udienza disciplinare senza che gli fosse stata notificata la data della relativa udienza; d) di aver partecipato ad un’udienza che si sarebbe svolta nell’ufficio del comandante di reparto e alla sua presenza; e) di aver subìto l’applicazione della sanzione per un periodo di 50 giorni, oltre il limite legale di 15 giorni, dato che quest’ultima è stata irrogata a partire dalla data del rapporto disciplinare; f) di non essere stato visitato dal sanitario del carcere, prima dell’applicazione della sanzione disciplinare. Da ultimo, il detenuto ha contestato l’ordinanza impugnata in relazione alla carenza motivazionale, non avendo il Tribunale di Sorveglianza fornito una puntuale risposta delle questioni dedotte in sede di reclamo. Secondo la Corte di Cassazione, la violazione delle modalità procedurali di cui all’art. 81 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 dà luogo ad una grave lesione dei diritti di difesa dell’accusato e, quindi, comporta l’illegittimità del provvedimento punitivo. La disposizione citata individua, infatti, alcuni “obbligatori adempimenti da parte dell’Amministrazione penitenziaria, la cui inosservanza, incidendo sui diritti di difesa del detenuto, ridonda in termini di illegittimità della sanzione disciplinare eventualmente irrogata. Ciò vale, innanzitutto, per il caso in cui il Direttore, dopo avere ricevuto il rapporto disciplinare, abbia omesso di contestare l’addebito all’incolpato, violando gli artt. 38, co. 2, O.P. e 81 co. 2 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230. Costituisce affermazione di principio di diritto, condivisa da questo Collegio, quella secondo la quale l’inosservanza della regola procedurale secondo cui l’applicazione di una sanzione disciplinare deve essere preceduta dalla contestazione della violazione, sicché la relativa omissione determina, traducendosi nella lesione di principi fondamentali di garanzia, l’illegittimità della decisione adottata” (cfr. Cass. pen., Sez. I, n. 42420 del 16 settembre 2013, Barretta, Rv. 256981; Cass. pen., Sez. I, n. 48828 del 12 novembre 2009, Mele, Rv. 245904); “decisione la quale a sua volta deve intervenire, a pena di illegittimità, nel termine perentorio di dieci giorni decorrente dalla stessa contestazione” (cfr. Cass. pen., Sez. I, n. 24180 del 19 maggio 2010, Maltese, Rv. 247987; Cass. pen., Sez. I, n. 44654 del 15 ottobre 2009, Caracciolo, Rv. 245674). A parere della Prima Sezione, deve inoltre ritenersi illegittimo il provvedimento disciplinare, nella misura in cui, tra il momento della contestazione e quello dell’udienza disciplinare, non intercorra un ragionevole lasso di tempo, in modo da consentire all’incolpato di predisporre un’adeguata difesa, a sua volta funzionale a consentirgli, secondo la previsione dell’art. 38, co. 2 O.P., di esercitare il proprio diritto di esporre le proprie discolpe, in linea, peraltro, con l’art. 59 delle Regole penitenziarie europee, secondo cui secondo cui i detenuti accusati di una infrazione disciplinare devono avere tempo e mezzi adeguati alla preparazione della loro difesa. In termini più generali, la Cassazione ha rilevato che, con l’ordinanza impugnata, il Tribunale di Sorveglianza di Roma, non ha saputo fornire una compiuta risposta in relazione alle questioni relative alla mancata contestazione formale degli addebiti da parte del Direttore di istituto, nonché con riguardo al mancato rispetto del diritto di difesa in relazione alla omessa notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, né alla mancanza di un adeguato iato temporale tra il momento del rapporto disciplinare e quello della udienza disciplinare, tenutasi nella stessa giornata del primo. Santa Maria Capua Vetere (Ce): paralitico morto in cella, verità dall’autopsia di Biagio Salvati Il Mattino, 12 maggio 2018 Aveva chiesto una misura meno afflittiva, l’ok è arrivato troppo tardi. Sarà l’autopsia - la cui relazione sarà depositata tra due mesi - a stabilire le cause del decesso di un detenuto avvenuto lo scorso 19 aprile nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. L’uomo, Giuseppe Albiano, 59 anni, originario di Vitulazio, paraplegico, peraltro con un passato nelle corse auto come pilota non professionista in circuiti di rally, era accusato di aver partecipato a due rapine guidando un’auto con i comandi a mano. Albiano era entrato in carcere lo scorso ottobre per una pena definitiva, dopo quattro anni trascorsi ai domiciliari e il suo legale, avvocato Alfredo Sorbo, aveva presentato un’istanza al Magistrato di Sorveglianza per chiedere la misura meno afflittiva dei domiciliari per motivi di salute. Ironia della sorte, la decisione con un “non luogo a provvedere” è arrivata qualche giorno dopo il suo decesso. Il 19 aprile, giorno della sua morte, peraltro, gli aveva fatto visita la moglie che ha appreso la notizia dopo il ritorno dai colloqui in carcere. Albiano era stato trasportato all’ospedale della città del foro per accertamenti e, una volta tornato in carcere, è morto. Sulla vicenda, però, vuole vederci chiaro la moglie che - indipendentemente dal fascicolo già aperto dalla Procura che ha disposto l’autopsia (eseguita qualche giorno fa) - ha presentato un esposto contro ignoti alle forze dell’ordine. Albiano si trovava sulla sedia a rotelle a seguito di un attentato subìto in occasione di un regolamento di conti tra pregiudicati, allorquando in compagnia di un secondo uomo venne colpito da numerosi proiettili che determinarono la morte dell’amico e la sua gambizzazione. Napoli: due detenuti domiciliari si impiccano di Luciana Esposito ilgolfo24.it, 12 maggio 2018 Antonio Di Luccio si è tolto la vita: era ai domiciliari. È Antonio Di Luccio, 41 anni, domiciliato a Forio ma originario di Afragola, l’uomo che si è tolto la vita ieri sera in via T. Cigliano impiccandosi. Il Di Luccio si trovava presso un’abitazione dove era detenuto agli arresti domiciliari per il reato di maltrattamenti in famiglia. Diverse le persone e i curiosi che si sono recati sul luogo della tragedia, dove sono accorsi carabinieri e polizia. 24enne agli arresti domiciliari si toglie la vita nella notte - L’ennesimo suicidio si è consumato nella notte a Ponticelli, quartiere della periferia orientale di Napoli. A decidere di compiere l’estremo gesto, intorno alle 2, è stato un giovane di 24 anni, Dino, detenuto agli arresti domiciliari. Il giovane si è tolto la vita impiccandosi sotto casa. Inutile il tempestivo soccorso dei parenti che, immediatamente giunti sul luogo dell’accaduto, hanno tentato di rianimarlo in attesa dell’arrivo del personale del 118 che non ha potuto fare altro che constatare il decesso. Una morte, quella di Dino, che ha suscitato non poco sconcerto e che ha notevolmente scosso e sconvolto soprattutto i giovani del quartiere, amici e non del 24enne che cercano di trovare un senso a quel gesto così disperato ed estremo. Ancora ignote le ragioni che hanno indotto al suicidio il giovane che aggiunge il suo nome ad un elenco in perenne aggiornamento tra le mura della periferia orientale. Monza: firma del primo protocollo nazionale per dare un lavoro a detenuti ed ex ilcittadinomb.it, 12 maggio 2018 È il primo progetto nazionale. Lunedì a Monza viene firmato in carcere il protocollo d’intesa sulla promozione del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, adulti e minorenni, e degli ex detenuti. Protagonisti Assolombarda, tribunale, casa circondariale, enti, associazioni e istituzioni del territorio. È il primo progetto nazionale. Lunedì a Monza viene firmato il protocollo d’intesa sulla promozione del reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, adulti e minorenni, degli ex detenuti e delle persone in esecuzione penale esterna. Il protocollo verrà firmato nella casa circondariale di via Sanquirico da Assolombarda, dal tribunale di Monza, dal carcere di Monza e dagli enti, associazioni e istituzioni del territorio (Afol e ordini professionali). È il primo protocollo territoriale con lo scopo di sviluppare progetti e azioni rivolte alle persone adulte e minori detenute, supportando il reinserimento sociale e lavorativo con programmi di formazione e percorsi di risocializzazione. “Si tratta di un progetto innovativo mai avviato in altri istituti in Italia - aveva spiegato la direttrice della casa circondariale, Maria Pitaniello, alla presentazione di un anno fa - è stata un’evoluzione del percorso avviato con la magistratura e gli avvocati, e penso che il territorio risponderà positivamente ai nostri inviti alla collaborazione. Il mio è un appello alla sensibilità e al buon senso, e sono certa che qualcosa si muoverà”. Monza e la Brianza scommettono sull’articolo 27 della Costituzione di Donatella Stasio questionegiustizia.it, 12 maggio 2018 Contro la demagogia che ha portato alla paralisi della riforma penitenziaria, il 14 maggio, nel Tribunale di Monza, verrà firmato un Protocollo d’intenti tra giudici, pm, carcere, imprese, avvocati, commercialisti, Comune, Provincia, Prefettura, ufficio dei minorenni, per la creazione di una Rete che favorisca, attraverso formazione, lavoro, cultura, il reinserimento sociale di detenuti ed ex detenuti, anche minorenni. Questa è la storia di una comunità territoriale, la provincia di Monza e della Brianza, che ha scommesso sull’articolo 27 della Costituzione anche per migliorare la sicurezza collettiva e perciò ha deciso di investire nel reinserimento sociale dei detenuti - adulti e minorenni, degli ex detenuti e di chi sconta la pena all’esterno del carcere. A dispetto di una politica miope, prigioniera di pregiudizi e luoghi comuni, che rincorre consensi cavalcando e amplificando le paure collettive; e di una parte della magistratura incline ad assecondare quelle paure, deresponsabilizzando la funzione giurisdizionale, il 14 maggio, al Tribunale di Monza, verrà firmato un Protocollo d’intesa tra avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, associazioni di imprese, Comune, Provincia, Prefettura, Garante dei detenuti, Carcere e Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia, Ufficio esecuzione penale esterna, Centro per la giustizia minorile della Lombardia, nonché Procura della Repubblica, Procura presso il Tribunale dei minori, Tribunale e Tribunale di sorveglianza. L’obiettivo è creare una Rete reale di soggetti impegnati a formare e ad avviare al lavoro detenuti in funzione del loro reinserimento sociale. Sul presupposto che investire nella risocializzazione di queste persone abbia un ritorno in termini di sicurezza collettiva, come peraltro dimostrano ormai numerosi studi scientifici. Promotori di questa “scommessa” sono stati, in particolare, il Tribunale e la Procura, la Direzione del carcere e gli avvocati del Foro di Monza. Il progetto riguarda un territorio che conta un milione e 200mila abitanti (tale è il bacino di utenza del Tribunale di Monza) e certamente è tra i più ricettivi della Penisola. Tanto che alcuni progetti sono già in fase di realizzazione, anche grazie all’impegno di imprese e banche. È interessante, in questo particolare passaggio storico-politico, leggere la motivazione che ha portato ad aggregare, contro ogni facile demagogia, professionalità e sensibilità diverse su un terreno tradizionalmente impopolare e poco frequentato qual è il carcere e la “rieducazione” dei detenuti. Nella premessa del “Protocollo d’intesa” si legge, anzitutto, che “formazione e lavoro rappresentano alcuni degli strumenti principali per favorire il processo di inclusione sociale e l’adozione di modelli di vita che facilitano il reinserimento sociale”, ritenuto “di primaria importanza per la riduzione dei tassi di recidiva”. Inoltre, favorire le iniziative dirette alla formazione dei detenuti e alla creazione di opportunità lavorative “permette di dare concreta attuazione ai principi contenuti nell’articolo 27 della Costituzione”. L’esigenza di sicurezza, insomma, si salda con la condivisione dei valori costituzionali. Il che conferma - se ce ne fosse bisogno - il carattere (e il contenuto) “politico” dei precetti costituzionali. Non solo. Emerge anche, da parte dei promotori, la consapevolezza e la condivisione di quei precetti nonché di quelli normativi che ne derivano. Per esempio, che il processo minorile punta a salvaguardare la crescita del minore “evitandogli, per quanto possibile, lo sradicamento dalle relazioni affettive primarie e dal contesto naturale di socializzazione, salvaguardandone le esigenze educative e di sviluppo”. In questo contesto, viene riconosciuto “l’interesse” degli Enti e dei soggetti del territorio di Monza e della Brianza a realizzare una collaborazione istituzionale sinergica con il mondo delle imprese e delle Cooperative nonché con gli Ordini professionali, “al fine di sviluppare progetti e azioni rivolti alle persone adulte e ai minori” detenuti. I promotori sintetizzano efficacemente l’obiettivo “politico” con due parole: “riconoscimento sociale”. Dal riconoscimento sociale devono infatti passare i percorsi di risocializzazione, da quelli avviati durante la detenzione fino a quelli attivati attraverso misure penali non detentive e verso soluzioni che consentano di “tagliare i ponti” con il proprio passato mediante il reinserimento in un contesto sociale diverso da quello precedente. Perché tutto ciò sia effettivo ed efficace, è necessario un “riconoscimento sociale”, appunto, declinato anzitutto con la nascita di una Rete che renda strutturale sia l’interlocuzione istituzionale per elaborare e sperimentare progetti sia soluzioni operative e culturali su temi “di assoluta rilevanza sociale, quali sicurezza e reinserimento di soggetti autori di reati”. Parliamo di progetti di riabilitazione che, in qualche caso, sono già stati sperimentati in altre realtà territoriali. Per esempio, con la multinazionale Cisco Networking Academy, che propone corsi di informatica di diverso tipo, creando così occasioni di crescita personale e opportunità di lavoro. Il carcere di Milano Bollate è stato il primo a livello mondiale ad ospitare la Cisco, i cui corsi sono stati frequentati da centinaia di detenuti, molti dei quali, al termine, hanno conseguito la Cisco Certified Network Associate. L’80% ha poi trovato un impiego dentro o fuori il carcere. Da Bollate, il progetto Cisco si è esteso, approdando a Castrovillari, Cagliari, Procida, La Spezia, Secondigliano, e al carcere di Opera, sempre a Milano. Ora ci prova anche Monza: il progetto è della durata di due anni, 1+1, e costa 12mila euro per il primo anno ma la Rete ha già avuto la disponibilità a finanziarlo da parte della Fondazione comunità Monza e Brianza. Ma anche altri progetti sono già “in cottura”, con banche e imprese. Per esempio, è in fase di studio la creazione di un forno nel carcere di Monza da parte di una società di Pesaro per la produzione di prodotti alimentari da vendere in tutta la Lombardia. Questi ed altri progetti verranno presentati alla firma del Protocollo. Che impegna tutte le parti ad attivarsi su vari fronti: informazione, comunicazione, formazione, assunzioni al lavoro, finanziamenti, creazione di cooperative, supporto ai progetti di rieducazione e ai programmi di recupero sociale, apertura alle misure alternative al processo e alla detenzione, diffusione della cultura dei valori costituzionali in tema di recupero sociale dei detenuti, promozione di iniziative culturali per aumentare la consapevolezza dei cittadini che “più carcere non vuol dire maggiore sicurezza” se manca un percorso di reinserimento sociale. Assolombarda, ad esempio, diffonderà tra i suoi iscritti informazioni soprattutto sui vantaggi contributivi e fiscali per le imprese che assumono detenuti, ex detenuti e persone in esecuzione penale esterna. Così come i dottori commercialisti hanno inviato un vademecum ad iscritti e clienti sempre per informarli dei vantaggi derivanti dall’assunzione di queste persone. In generale, la Rete tenterà di sviluppare progetti finanziabili con i fondi sociali europei. Ovviamente, il Protocollo è aperto all’adesione di nuovi partner, anche solo per finanziare specifici progetti in carcere. Una storia importante, dunque, anche per il suo significato “politico”, poiché smonta una serie di luoghi comuni, a cominciare da quello per cui le misure alternative alla detenzione avrebbero soltanto una funzione “svuota-carceri”, non garantirebbero la certezza della pena e metterebbero a rischio la sicurezza collettiva. Il progetto dimostra invece il contrario, e cioè che una comunità territoriale e istituzionale informata ha tutto l’interesse ad un’esecuzione penale operosa e “aperta” all’esterno, oltre che, ovviamente, rispettosa della dignità delle persone e dei loro diritti fondamentali. E tanto dovrebbe bastare a recuperare la riforma del carcere, rimasta invece impantanata nella palude del più becero populismo politico. Sondrio: interventi di pubblica utilità, un patto tra Comune e carcere di Susanna Zambon Il Giorno, 12 maggio 2018 Ha come obiettivo la promozione dell’occupazione lavorativa durante l’espiazione della pena o della misura di sicurezza, anche al fine di garantire ai soggetti ristretti l’acquisizione di competenze professionali utilmente spendibili nella fase post-detentiva, la convenzione siglata nei giorni scorsi dal Comune di Sondrio e dalla Casa circondariale. L’accordo consentirà ad alcuni detenuti di lasciare per qualche ora il carcere ed essere coinvolti in vari lavori di pubblica utilità insieme ai dipendenti dell’ufficio tecnico. Sarà l’amministrazione penitenziaria a individuare i detenuti, preferibilmente residenti in provincia di Sondrio, per i quali ci siano le condizioni di ammissione al lavoro esterno e alla semilibertà, mentre l’amministrazione comunale si occuperà di fornire le attrezzature per l’esecuzione delle attività: il lavoro dei detenuti sarà di tipo volontario. Dopo che saranno individuati i detenuti, sarà il Comune, comunque in accordo con la direzione della casa circondariale guidata da Stefania Mussio, a stilare il programma delle attività, indicando orari, luoghi di svolgimento e modalità di conservazione degli strumenti di lavoro. Sempre l’amministrazione comunale verserà all’Inail i contributi necessari per assicurare i detenuti. Verranno individuati alcuni referenti che, mensilmente, dovranno rendicontare sul buon andamento del progetto. La convenzione, della durata di un anno, è stata stipulata anche in base a esperienze passate molto simili: già l’anno scorso era stata disposta una convenzione (scadrà il 26 giugno) grazie alla quale sono stati impiegati mediamente per cinque giorni alla settimana due detenuti in attività di manutenzione del verde e l’iniziativa ha avuto esiti positivi sia dal punto di vista dell’inserimento dei detenuti, sia sotto il profilo del contributo prestato alla cura della città. Anche la nuova convenzione, tra l’altro, ha individuato proprio nella cura del verde e nella pulizia delle aree pubbliche le aree di maggiore interesse. Oltre le sbarre. Detenuti all’opera in città (La Provincia di Sondrio) Sottoscritta la convenzione tra Casa circondariale e amministrazione comunale per lavori volontari Prosegue la collaborazione tra l’amministrazione comunale e la Casa circondariale di Sondrio: è stata infatti sottoscritta una convenzione che consentirà ad alcuni detenuti di lasciare per alcune ore il carcere ed essere coinvolti in vari lavori ed interventi di pubblica utilità insieme ai dipendenti dell’ufficio tecnico. Spetta alla struttura della direttrice Stefania Mussio individuare i detenuti, preferibilmente residenti in provincia di Sondrio, per i quali ci siano le condizioni di ammissione al lavoro esterno e alla semilibertà, mentre l’amministrazione comunale si occuperà di fornire le attrezzature per l’esecuzione delle attività: l’utilizzo dei beni pubblici per l’esecuzione degli interventi sarà consentito senza oneri e il lavoro dei detenuti sarà di tipo volontario, quindi non è previsto alcun compenso. Dopo che saranno individuati i detenuti, sarà il Comune di Sondrio, comunque in accordo con la direzione della casa circondariale, a stilare il programma delle attività, indicando orari, luoghi di svolgimento e modalità di conservazione degli strumenti di lavoro. Sempre l’amministrazione comunale verserà all’Inail i contributi necessari per assicurare i detenuti coinvolti nel progetto. Verranno, inoltre, individuati alcuni referenti che, mensilmente, dovranno vigilare e rendicontare sul buon andamento del progetto. La convenzione, della durata di un anno, è stata stipulata dai due enti anche in base a esperienze passate molto simili: già l’anno scorso, infatti, era stata disposta una convenzione (scadrà il 26 giugno) grazie alla quale sono stati impiegati mediamente per cinque giorni alla settimana due detenuti in attività di manutenzione del verde e l’iniziativa ha avuto esiti positivi sia dal punto di vista del suo valore sociale per l’inserimento dei detenuti, sia sotto il profilo del contributo prestato alla cura della città. Anche la nuova convenzione, tra l’altro, ha individuato proprio nella cura del verde e nella pulizia delle aree pubbliche le aree di maggiore interesse. Intanto, nell’attesa che l’accordo tra Comune e casa circondariale inizi a dare concretamente i suoi frutti, sarà il carcere di Sondrio ad aprire le sue porte per far entrare i cittadini e ospitarli in occasione di una serata dedicata alla musica e alla convivialità. L’appuntamento è fissato per il 9 maggio alle 19,30 quando proprio all’interno della casa circondariale si esibiranno i “Quasi per caso”, gruppo di musicisti e artisti valtellinesi formato da Renzo Frate, Martino Angeloni, Danilo Lazzeri, Mirco Marieni, Giorgia Stanese e Gabriele Rosina. Dopo l’esibizione la serata proseguirà con la cena durante la quale verrà servita la pasta senza glutine prodotta all’interno del carcere. Aversa (Ce): lavori di pubblica utilità, accordo tra Comune e Casa di reclusione casertanews.it, 12 maggio 2018 “Una grande opportunità, una speranza che torna a riaccendersi per alcuni dei reclusi della casa di reclusione Filippo Saporito di Aversa. Questo l’obiettivo del redigendo protocollo di intesa tra il Comune di Aversa e la casa di reclusione. Nella giornata di ieri il sindaco Enrico de Cristofaro con l’assessore all’ambiente Marica de Angelis hanno incontrato la dirigenza della struttura con la direttrice Carlotta Giaquinto per discutere del protocollo attraverso il quale sarà data l’opportunità di uscire fuori, seppur solo per qualche ora, e lavorare ad alcuni reclusi della struttura aversana. “Vogliamo dare la possibilità ad alcuni di poter svolgere una piccola attività lavorativa di pubblica utilità a favore della collettività come strumento rieducativo - ha spiegato il sindaco di Aversa, Enrico de Cristofaro - il territorio in questo modo può diventare un elemento vitale e di impatto diretto sulla crescita e cambiamento del percorso di inclusione sociale, in termini di emancipazione e di responsabilizzazione della persona di stato di detenzione”. “Abbiamo individuato - ha detto l’assessore all’ambiente Marica de Angelis - l’area del Parco Pozzi e di altri spazi verdi pubblici da mantenere secondo criteri di ordinaria manutenzione”. E concludendo: “Per noi questo progetto ha una grande valenza: diamo una mano nel reinserimento a chi è recluso nel ‘Filippo Saporito’ che si occuperà della cura del nostro verde pubblico”. Lanciano (Ch): “Biblioteche fuori le mura”, da detenuti a catalogatori doc di Martina Luciani zonalocale.it, 12 maggio 2018 La nuova vita biblioteca della Casa Circondariale grazie al lavoro dei detenuti. Dopo più di due anni di lavoro, sono circa 2mila, sui 3mila in dotazione, i libri catalogati, etichettati e messi in ordine nella biblioteca della Casa Circondariale di Lanciano, grazie al progetto “Biblioteche fuori le mura” che ha visto coinvolti i detenuti grazie ad una convenzione tra direzione del carcere stesso ed il Comune di Lanciano. “All’inizio del nostro lavoro, ci siamo trovati di fronte 1800 libri (oggi sono 3mila grazie a donazioni di enti e privati, ndr) sistemati male ed in modo arrangiato, - afferma la responsabile del progetto, nonché responsabile della catalogazione del patrimonio librario della biblioteca comunale Liberatore, Gianvincenza Di Donato - e da lì, insieme ai nostri detenuti, ci siamo rimboccati le maniche ed abbiamo iniziato a lavorare sul serio, senza sconti, per rendere quel luogo una vera biblioteca”. E allora si è partiti dal ritinteggiare le pareti e poi con l’acquisto di timbri, etichette, scaffali, un vero registro ed un software professionale che aiutasse nella catalogazione dei volumi. “I detenuti si sono mostrati da subito interessati ed appassionati, ognuno nel proprio ruolo, - prosegue la Di Donato - hanno lavorato con precisione, acquisendo padronanza e facendo sì che la biblioteca cambiasse volto”. Se fino a due anni fa, su circa 200 detenuti presenti nella carcere di Villa Stanazzo, solo in 10 prendevano libri dalla biblioteca, oggi il numero di lettori è salito a più di 150. La narrativa italiana e straniera la fa da padrona, ma sono molto apprezzati anche i libri d’arte e sulla religione. “Organizziamo anche numerosi corsi sulla catalogazione dei volumi e due detenuti - spiega ancora Gianvincenza Di Donato - oggi lavorano nelle biblioteche di Mozzagrogna e di Lanciano, dimostrando di aver fatto propri i nostri insegnamenti e di aver ripagato la nostra fiducia”. Tutti i detenuti corsisti hanno dimostrato grande entusiasmo ed interesse alle attività, partecipando in modo proficuo a tutte le fasi del progetto, in un clima di gioiosa e costruttiva operatività. “Tutti sostengono che la nostra è una realtà d’eccellenza, - conclude la direttrice del carcere, Lucia Avantaggiato - ma noi siamo solo una comunità di guerrieri che lotta per attuare i principi della Costituzione e cercare di fare in ogni modo l’integrazione tra carcere e territorio e qui a Lanciano, fortunatamente, questa rete funziona benissimo”. Ferrara: l’orto dei detenuti aperto per Interno Verde ferraraitalia.it, 12 maggio 2018 “Poter trascorrere qualche ora all’aria aperta, apprezzare col passare delle stagioni il frutto del proprio lavoro, vedere nascere e crescere una pianta che poi si ritroverà in tavola: coltivare l’orto per chi è detenuto è una straordinaria opportunità di crescita”. Così Loredana Onofri - responsabile del settore educativo della casa circondariale di Ferrara - ha presentato venerdì mattina l’eccezionale apertura al pubblico del GaleOrto. L’evento ha inaugurato la terza edizione di Interno Verde, il festival dedicato ai giardini segreti del capoluogo estense, organizzato dall’associazione Ilturco nelle giornate di sabato 12 e domenica 13 maggio: per la prima volta un gruppo di cittadini ha potuto visitare le coltivazioni nascoste tra le alte mura di cinta che circondano la struttura di via Arginone e assaggiare in prima persona la bontà delle fragole che crescono protette tra le torrette di guardia e il filo spinato. Il gruppo - composto non solo da ferraresi ma anche da persone provenienti da altre province, arrivate a Ferrara apposta per partecipare a questo insolito tour - è stato accolto dal direttore Paolo Malato e accompagnato attraverso le varie aree verdi dal comandante capo della polizia penitenziaria, Annalisa Gadaleta, che ha sottolineato l’importanza di iniziative come questa: “è un’occasione formativa per tutti, sia per i detenuti che giustamente sono orgogliosi di poter far vedere quanto si stanno impegnando, sia per la società civile che ha l’opportunità di conoscere più da vicino questa realtà tanto particolare, che spesso si tende a dimenticare”. Don Domenico Bedin - presidente dell’associazione Viale K, che coordina la gestione del GaleOrto - ha illustrato la genesi del progetto e lanciato alcune proposte per il futuro: “in prospettiva sarebbe bello attrezzare un laboratorio per la trasformazione degli alimenti, quindi utilizzare per esempio le zucche violine per produrre dei cappellacci, fare in modo che questa esperienza diventi un vero e proprio lavoro”. Licia Vignotto, coordinatrice di Interno Verde, ha spiegato come è nata l’idea di chiedere alla casa circondariale di partecipare al festival: “quando si pensa agli orti segreti di Ferrara il pensiero corre immediatamente ai conventi e ai monasteri di clausura, a una tradizione antichissima di silenzio e contemplazione mistica. In realtà l’orto più inaccessibile della città è decisamente più giovane e rumoroso, è coltivato da uomini italiani e stranieri che tra una vanga e un filare di pomodori cercano la socialità e la manualità schietta a cui forse non sono più abituati, in una parola la normalità. L’obiettivo di Interno Verde è favorire, attraverso la meraviglia suscitata dal giardino, una socialità spontanea e vicina, un’atmosfera inclusiva, di scambio e condivisione. In quest’ottica l’apertura del GaleOrto ci è sembrato potesse rappresentare un segnale importante per la comunità”. Quando si pensa agli orti segreti di Ferrara il pensiero corre immediatamente ai conventi e ai monasteri di clausura, a una tradizione antichissima di silenzio e contemplazione mistica. In realtà l’orto più inaccessibile della città è decisamente più giovane e rumoroso, si trova in via Arginone e dal settembre 2016 è coltivato da uomini italiani e stranieri che tra una vanga e un filare di pomodori cercano la socialità e la manualità schietta a cui forse non sono più abituati. In una parola la normalità, all’interno della Casa Circondariale, un microcosmo popolato attualmente da circa 350 detenuti. “La funzione dell’orto è alimentare ma l’intenzione principale è favorire lo scambio, la relazione e la condivisione dell’esperienza”, racconta Davide, tutor dell’associazione Viale K, che coordina in collaborazione con l’associazione Laudato SIil progetto intitolato ironicamente GaleOrto. “Tra i detenuti ce ne sono diversi che nel loro percorso di vita hanno avuto modo di lavorare in campagna, oppure di curare il giardino di famiglia, e che se ne intendono. Alcuni hanno bisogno di essere alfabetizzati, perché non si sono mai occupati di terra e sementi, altri invece insegnano anche a me. Il loro impegno è gratuito e volontario”. Come sottolineano i responsabili dell’Ufficio Educativo della Casa Circondariale, gli obiettivi di questa attività sono diversi: favorire l’apprendimento delle tecniche di coltivazione, attivare un processo di riequilibrio e responsabilizzazione individuale, fornire strumenti di riabilitazione e reinserimento nel mondo lavorativo. “Oltre alla promozione della salubrità del cibo e dell’incontro tra culture, è importante per i detenuti recuperare il valore del tempo speso utilmente”. Attualmente gli orti coltivati sono tre: c’è quello dei detenuti comuni che coinvolge circa una ventina di persone; in un’area isolata c’è quello dei collaboratori di giustizia, dove ci lavorano in una decina; infine c’è il grande campo di zucche violine che si può vedere anche dalla strada, essendo situato in quella che viene definita l’intercinta, ovvero la fascia esterna al muro perimetrale del carcere vero e proprio, ma interna alla recinzione del complesso. Questo terreno - distribuito a ferro di cavallo su una superficie totale di quasi tre ettari - è il più difficile da coltivare ma il più interessante in prospettiva, perché essendo una monocultura i suoi raccolti hanno già cominciato ad essere venduti a chi ne ha fatto richiesta. “Giuridicamente questo spazio viene considerato esterno al carcere, per questo possono accedervi solo i detenuti che beneficiano dell’articolo 21, ovvero quelli che hanno il permesso di lavorare all’esterno. Individuare queste persone non è semplicissimo, e magari quando tutte le procedure sono sistemate capita che arrivi la scarcerazione, e la procedura ricomincia da capo. Le zucche però non aspettano i tempi dei magistrati di sorveglianza, per questo il campo è il più difficile, ma la buona volontà da parte di tutti c’è”. Gli orti interni sono dedicati all’autoconsumo: vi crescono pomodori, zucchine, peperoni, melanzane, aglio, patate, fave, piselli, angurie e fragole. “Molti detenuti vengono dal Sud Italia, per questo ci hanno tenuto molto a piantare anche le cime di rapa, ne vanno matti. L’anno scorso avevamo anche organizzato la struttura per una serra, abbastanza grande, di 40 metri per 10, ma tempo fa un vento particolarmente forte ha divelto il telo”. Non ci sono dei responsabili per i singoli orti, tutti fanno tutto, “anche se talvolta capita che le verdure più vicine alla pompa dell’acqua finiscano allagate, e quelle più lontane restano secche”. Le semenze e i prodotti utilizzati vengono acquistati solo in minima parte, il resto è donato dall’azienda Boarini di Quartesana, oppure da Confagricoltura. L’idea di incentivare la vendita delle zucche - magari con una bancarella da allestire in via Arginone - serve alla sostenibilità economica del progetto. Aversa (Ce): al parco Pozzi i detenuti-giardinieri, il sapore della libertà con il lavoro Il Mattino, 12 maggio 2018 L’accordo patto fra l’assessore de Angelis e la direttrice Giaquinto: “È un’opportunità per la città”. Un carcere al servizio della città. Una grande opportunità, una speranza che torna a riaccendersi per alcuni dei reclusi della casa di reclusione “Filippo Saporito” di Aversa. Questo, infatti, l’obiettivo del redigendo protocollo di intesa tra il Comune di Aversa e la casa di reclusione. Nella giornata di ieri il sindaco Enrico de Cristofaro con l’assessore all’ambiente Marica de Angelis hanno incontrato la dirigenza della struttura con la direttrice Carlona Giaquinto per discutere del protocollo attraverso il quale sarà data l’opportunità ad alcuni reclusi di uscire, seppur per qualche ora al giorno, e lavorare per la manutenzione del verde pubblico. “Vogliamo dare la possibilità ad alcuni detenuti di poter svolgere una piccola attività lavorativa di pubblica utilità a favore della collettività come strumento rieducativo - ha spiegato il sindaco di Aversa, Enrico de Cristofaro - il territorio m questo modo può diventare un elemento vitale e di impatto diretto sulla crescita e cambiamento del percorso di inclusione sociale, in termini di emancipazione e di responsabilizzazione della persona di stato di detenzione”. “Abbiamo individuato - gli ha fatto eco l’assessore all’ambiente Marica de Angelis - l’area del Parco Pozzi e di altri spazi verdi pubblici da mantenere secondo criteri di ordinaria manutenzione”. “Per noi questo progetto ha una grande valenza: diamo una mano nel reinserimento - ha concluso l’esponente dell’esecutivo aversano - a chi è recluso nel Filippo Saporito che si occuperà della cura del nostro verde pubblico”. E allo studio anche la possibilità di individuare per i detenuti un ruolo nell’ambito dei servizi cittadini di raccolta differenziata. “L’iniziativa - ha dichiarato la direttrice del carcere aversano Carlona Giaquinto curatrice del progetto con il comandante di reparto Antonio Villano è di grande pregio, perché consente ai ristretti di sentirsi parte integrante del tessuto cittadino, contribuendo ai servizi a favore della collettività. Obiettivo questo che consente loro di riappropriarsi del loro status di cittadino e di sperimentare misure di graduale reintegro, prima ancora di acquistare la libertà. La casa di reclusione di Aversa ospita detenuti già condannati ed appartenenti ad un circuito di bassa pericolosità sociale, per cui è dovere delle Istituzioni esperire ogni utile tentativo volto al loro recupero socio-lavorativo”. Trani (Bat): “Mad(r)e in carcere”, per la festa della mamma realizzata 30mila presine traniviva.it, 12 maggio 2018 Un progetto di responsabilità sociale sostenuto dal Gruppo Megamark con un contributo di oltre 30mila euro. È stata presentata ieri, nel carcere femminile di Trani in piazza Plebiscito, ‘Mad(r)e in carcerè, l’iniziativa promossa da “Made in Carcere” per celebrare la “Festa della mamma”. Per l’occasione sono state realizzate 30.000 presine con un nuovo modello di “presa” più comodo e pratico. Guidato dalla filosofia della seconda chance, il progetto si propone di dare una seconda vita a tessuti riciclati e un’altra possibilità alle donne detenute che nel carcere imparano un mestiere. “Da circa 10 anni lavoriamo nelle carceri per creare un modello di impresa sociale - ha detto Luciana Delle Donne fondatrice di Made in Carcere - cercando di coniugare le esigenze della sicurezza di un istituto penitenziario con la risocializzazione dei detenuti. Giorni fa - ha continuato Luciana Delle Donne - Santi Consolo, Direttore Generale del DAP ha dichiarato: “Vogliamo un carcere aperto e utile, dove il lavoro sia l’arma di riscatto” ed è proprio questo lo spirito delle nostre iniziative, creare competenze per poter offrire una nuova vita alle persone in stato di detenzione e prepararle all’uscita da questo specifico periodo”. Il progetto ha coinvolto circa 20 detenute del carcere di Lecce e di Trani; l’obiettivo era dare loro un’opportunità per ricostruire la propria identità ed essere pronte a tornare alla vita fuori dopo un breve periodo di detenzione. A queste donne è stato insegnato un mestiere per non reiterare la pena, per potersi reimpiegare una volta fuori dal carcere e trasformarsi da costo per la collettività a risorsa produttiva. Fondamentale il ruolo del Gruppo Megamark che ha sostenuto il progetto con un contributo di oltre 30.000 euro; dall’ 11 al 20 maggio sarà possibile acquistare le presine per la festa della mamma in tutti i supermercati Dok. Ma il sostegno del Gruppo non si ferma alla festa della mamma; nei prossimi giorni, infatti, saranno in vendita nei Famila e gli Iperfamila altri manufatti griffati “made in carcere”. “È sempre un piacere collaborare con Made in Carcere - ha detto Francesco Pomarico, Direttore Operativo del Gruppo Megamark; nel 2010 abbiamo inaugurato il laboratorio sartoriale del carcere femminile di Trani e oggi siamo orgogliosi di sostenere i progetti che qui vengono realizzati. Le presine sono un ottimo spunto per ricordare a tutte le mamme che questo semplice prodotto è stato realizzato da altre mamme che in un momento particolare della loro vita, hanno perso la strada. Tutti i nostri clienti potranno contribuire a questa buona causa e il regalo avrà un doppio valore: uno sicuramente di cuore e l’altro utile”. Le presine Multitasca sono state realizzate utilizzando tessuti riciclati tra cui tovaglie e tovaglioli in un noto ristorante di Milano il “Pont de Ferr”. Maida Mercuri, titolare dell’attività milanese, ha definito il progetto una corretta iniziativa di recupero fatta da donne per le donne, dove il buon senso prevale e l’attenzione all’ambiente e al sociale convivono in un mondo che spesso rema controcorrente. Anche Santo Versace, Presidente del marchio “Gianni Versace” e fondatore di “Alta Gamma” ha deciso di sostenere Made in Carcere “io e mia moglie - ha dichiarato Versace in un video - ci siamo innamorati del progetto e daremo una mano anche noi a questa squadra di donne che si impegnano per un futuro migliore”. Al temine della presentazione, ricca di emozioni e sorprese, sono stati offerti i biscotti “Scappatelle” un altro progetto della Onlus Made in Carcere supportato anche dal Gruppo Megamark, attraverso la donazione di un forno e altre attrezzature utili per la realizzazione del laboratorio artigianale di pasticceria nel carcere minorile di Bari, dove questi biscotti vengono prodotti. Licia Granello, inviata speciale del quotidiano La Repubblica presente alla conferenza, ha esaltato il sapore di questi biscotti definendo le “Scappatelle” il biscotto simbolo della cultura alimentare contemporanea: buono, sano e etico. L’incontro è stato moderato dalla giornalista del TGNorba Daniela Mazzacane e ha visto la partecipazione del nuovo Direttore del carcere Giuseppe Altomare, del sindaco di Trani dott. Amedeo Bottaro e del Direttore Generale Prap Provveditore regione Puglia e Basilicata, dott. Carmelo Cantone che ha concluso l’incontro. In conclusione, Luciana Delle Donne ha letto le parole di una ex detenuta da poco uscita dal carcere “Girarsi e far finta di non vedere è semplice, tendere la mano a chi vuole uscire dal buio della propria vita è difficile, ma riempie l’anima”. Voghera (Pv): i dolci fatti in carcere in vendita alla Sensia per sostenere Adolescere vogheranews.it, 12 maggio 2018 Crostate. Torte alla crema e alla panna farcite con fragole o canditi. Torte al cioccolato. Biscotti secchi. Pasticcini. E arancini siciliani. Sono i dolci e i “salati” in vendita in questi giorni su un banchetto della fiera dell’Ascensione. Il banchetto è quello allestito all’interno dell’ex Caserma, dal Carcere e curato dalla Polizia Penitenziaria. Torte, biscotti, pasticcini e arancini, sono stati preparati da 4 detenuti della Casa Circondariale di via Prati Nuovi in occasione della 636° Sensia e sono messi in vendita a scopo benefico: il ricavato sarà devoluto alla Donazione Adolescere. Al banchetto, presidiato dalla polizia penitenziaria e da un detenuto con permesso di uscire, questa mattina è stato visitato dall’Amministrazione comunale e da una delegazione di politici. Presenti, oltre al sindaco Carlo Barbieri e il presidente del consiglio Nicola Affronti, l’onorevole Elena Lucchini della Lega, il collega di Forza Italia Alessandro Cattaneo, e il consigliere regionale Ruggero Invernizzi. A fare gli onori di casa la direttrice del carcere. “A nome di tutti ringrazio il Comune per avere dato al nostro Istituto e ai detenuti l’opportunità di partecipare alla Fiera dell’Ascensione con questo banchetto di dolci: uno stimolo per tutti per sentirsi integrati nella città”, ha detto Mariantonietta Tucci. “La vicinanza del nostro Comune alla realtà del Carcere è nota - ha dichiarato il sindaco. Encomiabile è la Casa circondariale che svolge questo tipo di attività sociali.” Lucchini e Invernizzi hanno invece dato la loro disponibilità a prendere in considerazione le istanze e le richieste provenienti dal carcere. Affronti ha espresso soddisfazione per una tale presenza alla Fiera che testimonia la vicinanza della Istituzioni al mondo del carcere. Il banchetto della casa circondariale si trova subito a sinistra entrando nell’ex Caserma, non lontano dal Museo di Sscienze, struttura che da sempre svolge attività rieducative con i detenuti. Premio Goliarda Sapienza: vince “Sette Pazzi” di Eugenio Deidda vaticannews.va, 12 maggio 2018 Assegnato ieri al Salone del Libro di Torino il prestigioso premio letterario dedicato ai racconti dei detenuti. Vince la settima edizione “Sette pazzi” di Eugenio Deidda; premio dei lettori di Vatican News a “Cose che capitano a Palermo” di Salvatore Torre. “Sono due i momenti in cui non si vive in carcere, pur stando dentro: quando si dorme e quando si legge. Per questo bisogna far entrare in carcere sempre più libri”. Così Erri De Luca ieri al Salone del Libro di Torino, illustre cornice in cui è stato assegnato il Premio Goliarda Sapienza, ormai giunto alla settima edizione, condotta dalla curatrice e ideatrice del concorso, Antonella Bolelli Ferrera, e dall’attore Andrea Sartoretti - storico interprete della serie tv “Romanzo criminale” - che ha letto alcuni brani. Al concorso, l’unico in Italia riservato ai detenuti, promosso dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Inverso Onlus e Siae, hanno partecipato quest’anno ospiti di quattro carceri italiane. Il vincitore: parte del premio in beneficenza. A spuntarla, tra i 15 finalisti, è stato Eugenio Deidda, detenuto di Rebibbia, con il racconto “Sette pazzi”. A lui sono andati i 2500 euro del premio: “1500 li devolverò a una palestra del quartiere di Roma Quarticciolo - ha dichiarato ricevendo il riconoscimento - gli altri mille me li tengo perché so’ povero”. Il premio degli utenti della giuria popolare che hanno votato attraverso il portale Vatican News, invece, è andato a Salvatore Torre per il racconto “Cose che capitano a Palermo”, vicenda di un amore malato che non riesce a trionfare sulle tragiche regole degli uomini di mafia. Nel corso della cerimonia di premiazione, cui hanno partecipato anche la madrina del concorso Dacia Maraini, il presidente della giuria degli esperti Elio Pecora, e lo scrittore Erri De Luca, uno dei tutor del corso di e-writing che per la prima volta quest’anno ha preceduto il concorso, è stata presentata anche l’antologia “Avrei voluto un’altra vita - racconti dal carcere”, edito da Giulio Perrone editore. Programma Rai sui serial killer. “No a Carlotto” di Marco Bonet Corriere del Veneto, 12 maggio 2018 Diventa un caso la conduzione di “Real criminal minds”, affidata dalla Rai allo scrittore padovano Massimo Carlotto. Si indigna il presidente del consiglio regionale Ciambetti: “Uno sfregio”. “Sono indignato, si tratta di una scelta agghiacciante, uno sfregio alla memoria di Margherita Magello, ammazzata a 24 anni”. Diventa un caso la conduzione di “Real Criminal Minds”, la serie affidata dalla Rai al noto scrittore di noir e hard boiled padovano Massimo Carlotto. A sollevarlo, il presidente del consiglio regionale Roberto Ciambetti che chiede ai vertici della tivù pubblica di tornare immediatamente sui loro passi. La trasmissione, prodotta dagli Abc Studios in 24 episodi e in onda su Rai4 dal 18 maggio, è dedicata ai crimini di alcuni serial killer e alle indagini condotte dall’Fbi per catturarli; e Carlotto, sul finire degli anni Settanta, fu condannato a 18 anni di reclusione dalla Corte d’Assise d’appello di Venezia per l’omicidio di Magello, trovata morta a Padova il 20 gennaio 1976 dopo essere stata colpita con 59 coltellate. Una vicenda giudiziaria lunga e travagliata quella che vide protagonista Carlotto, all’epoca dei fatti diciannovenne militante di Lotta Continua. Lui, che si è sempre dichiarato innocente, fuggì in Francia prima della condanna definitiva (arrivata in Cassazione nel 1982), poi in Spagna e infine in Messico, per rientrare in Italia e consegnarsi alle autorità dopo tre anni di latitanza. L’8 aprile 1993 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro gli concesse la grazia, con la netta opposizione della famiglia Magello (avrebbe dovuto scontare ancora 10 anni di carcere), quindi il 29 gennaio 2004 il Tribunale di Cagliari ha sancito con sentenza la sua riabilitazione. Per Ciambetti, però, la decisione della Rai di arruolare lo scrittore per una trasmissione che ruota attorno a degli omicidi è gravemente inopportuna: “Mi sembra una scelta improvvida, ingiusta e per molti aspetti insultante assegnare un ruolo televisivo pagato con fondi pubblici ad un uomo nella cui casa fu trovata una ragazza assassinata con 59 coltellate, condannato a 18 anni di galera per l’aberrante omicidio, latitante all’estero e graziato. Siamo alla follia. La grazia - prosegue il presidente del consiglio regionale - cancella la pena ma non fa chiarezza su quanto accadde nel 1976 a Padova. L’ex militante di Lotta Continua non seppe dare una spiegazione convincente per quanto era accaduto e i dubbi su quella vicenda non furono mai diradati. Rimase, di certo, la vita spezzata di una ragazza di 24 anni assassinata in modo barbaro: davanti alla memoria di Margherita Magello, la scelta della Rai è agghiacciante e credo che il responsabile di questa scelta debba assumersi le sue responsabilità per quello che è molto più di un errore”. Carlotto, raggiunto al Salone del Libro di Torino, non vorrebbe commentare e si limita a poche parole: “Non capisco il ragionamento di Ciambetti, io sarei un serial killer? Ho ottenuto la riabilitazione e con essa tutti i miei diritti civili, sono un cittadino italiano come chiunque altro. Potrei diventare Presidente della Repubblica, figuriamoci condurre una trasmissione Rai. Ma lasciamo stare”. L’importanza di informare con rispetto di Papa Francesco La Stampa, 12 maggio 2018 In un tempo in cui tutti parlano e I intervengono, ma non tutti sono disposti ad ascoltare e a riflettere, il ruolo dell’informazione professionale è quanto mai necessario. I social media sono oggi strumenti universalmente diffusi e rappresentano una grande opportunità a disposizione delle persone. Ma proprio questo moltiplicarsi delle offerte informative e degli spazi della rete web rende ancora più importante il ruolo dei giornalisti professionisti e del giornalismo di qualità. Un giornalismo che non soltanto rispetti le norme della deontologia professionale cercando di offrire una buona informazione, ma che sappia anche proporre, nel difficile contesto in cui viviamo, un’informazione buona: fatta di approfondimenti e di confronto, sempre rispettosa della dignità delle persone. Un’informazione che non cada nelle contrapposizioni sterili, nella superficialità, nel chiacchiericcio. Un’informazione che non si accontenti di descrivere solo ciò che è già sotto i riflettori, che non dimentichi le situazioni drammatiche delle quali nessuno parla, e che non si stanchi di raccontare con delicatezza e umanità le storie delle persone, con particolare attenzione agli indifesi, agli ultimi, agli scartati, a quelli che non hanno potere. Un’informazione in grado di raccontare la complessità della realtà nella quale viviamo, senza cedere ai facili schematismi e alla propaganda. Auguro al quotidiano La Stampa, che si rinnova nella sua veste esteriore, e a Vatican Insider, il sito web della Stampa dedicato all’informazione religiosa, di offrire sempre ai suoi lettori buona informazione e informazione buona. La politica di Trump e le facili verità sull’Iran di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 12 maggio 2018 La decisione Usa di uscire dall’accordo va esaminata con freddezza senza dare per scontato che sia sbagliata: sul Medio Oriente nessuno ha certezze. Quanto più complicate sono le situazioni tanto più diventa difficile stabilire quale decisione sia giusta e quale sbagliata. Nell’area più instabile del pianeta, il Medio Oriente, scelte che al momento sembrano buone possono rivelarsi catastrofiche nel medio termine, e scelte apparentemente pessime possono dare luogo, più tardi, a effetti benefici. Tolti i suoi elettori, nonché i “sovranisti” europei, non c’è forse un solo occidentale che si rallegri per il fatto che alla Casa Bianca sieda Donald Trump. Date le propensioni nazionaliste (America First), anziché internazionaliste, del Presidente, è possibile che il mondo finisca davvero nel tritacarne delle guerre protezioniste. Ma ciò non significa che qualunque cosa faccia Trump sia sbagliata. Adesso che, sotto la sua pressione, i cinesi sono stati costretti a mettere in riga il proprio cliente, Kim Jong-un, nessuno, fra coloro che tempo fa accusavano Trump di drammatizzare troppo la questione coreana, ha più il coraggio di fiatare. Comunque la faccenda vada a finire, quella scelta di Trump si è rivelata saggia. Prima di impegnarsi in esecrazioni anti- Trump per la decisione di abbandonare l’accordo nucleare con l’Iran voluto a suo tempo da Obama, bisognerebbe esaminare con freddezza la situazione. Certamente, le imprese europee che hanno visto riaprirsi, a seguito di quell’accordo, le porte del mercato iraniano, sono comprensibilmente preoccupate. Però, va anche detto che il business è una cosa importantissima ma che le questioni della guerra e della pace, della vita e della morte, lo sono di più. È di questo che qui si tratta. Ci sono due aspetti da considerare. Il primo riguarda gli scopi dell’accordo nucleare. Gli scopi originari (per gli occidentali) erano due: in primo luogo, ritardare il più possibile, allontanare nel tempo, meglio se di qualche decennio, il momento in cui l’Iran diventerà una potenza nucleare e in cui, per conseguenza, si nuclearizzerà l’intero Medio Oriente (a quel punto, anche l’Arabia Saudita e altri si procureranno la bomba). La denuncia dell’accordo da parte di Trump potrebbe compromettere il raggiungimento del suddetto obiettivo. C’era però anche un secondo scopo: spingere l’Iran a “normalizzare” le proprie relazioni internazionali, ad abbandonare la politica estera aggressiva che ha sempre caratterizzato il suo regime. Questo secondo obiettivo è stato mancato, l’accordo, sotto questo profilo, è risultato un fallimento. L’Iran ha continuato ad essere un destabilizzatore del Medio Oriente come in passato. Anzi, di più (Siria, Iraq, Yemen, Libano, Gaza), dal momento che l’accordo sul nucleare gli garantisce un afflusso di risorse fresche convertibili in influenza politica, armi convenzionali, eccetera. Lungi dal normalizzare le proprie relazioni internazionali, l’Iran, forte anche della sua alleanza con la Russia, è diventato sempre più aggressivo e minaccioso nei confronti di Israele (che ora può colpire - e ha appena colpito - anche dalla Siria) e dei sauditi. Ma oltre a una valutazione dell’accordo sul nucleare in rapporto alle attese che aveva suscitato, c’è anche un secondo aspetto da considerare. Riguarda il modo in cui l’America ha scelto di schierarsi rispetto alla grande divisione del mondo islamico (e, in questo caso, mediorientale) fra sunniti e sciiti. L’11 Settembre del 2001 mostrò agli americani che quelle potenze sunnite (Arabia Saudita in testa) che erano sempre state loro alleate, avevano contemporaneamente “allevato” un mostro: Al Qaida (così come, in seguito, lo Stato Islamico) non era altro che una filiazione dell’ideologia islamica saudita. Da qui una scelta che in modi diversi (non si sa quanto consapevolmente) caratterizzò le politiche sia di Bush Jr. che di Obama. Due presidenti diversissimi ma accomunati dalla volontà di allentare il legame con i sauditi (sunniti) e aprire un canale con l’Iran, ossia con lo Stato-guida del mondo islamico sciita, nemico mortale dei primi. Con mezzi opposti (militari nel primo caso, diplomatici nel secondo) Bush e Obama segnalarono che una svolta era in atto - proprio a causa dell’11 Settembre - nella politica americana. Un effetto collaterale della guerra in Iraq del 2003 e dell’abbattimento del regime di Saddam Hussein da parte di Bush fu di spostare l’asse del potere in Iraq dalla minoranza sunnita (in precedenza dominante) alla maggioranza sciita. Ciò favorì proprio l’Iran, ne aumentò potenza e ruolo spostando l’Iraq nella sua area di influenza. E indebolì per conseguenza il peso delle potenze sunnite, sauditi in testa. Con mezzi diversi (anzi, opposti) Obama non si è discostato da quell’orientamento di fondo. L’accordo sul nucleare con Teheran aveva diversi scopi ma confermava anche che l’America non era più disposta a mantenere il tradizionale legame privilegiato con l’Arabia Saudita. L’idea, in sé, non sembrava cattiva ma, come sempre nelle situazioni complicate, le scelte effettuate dalle due Amministrazioni generarono contraccolpi, scatenarono la reazione dei sunniti. La nascita dello Stato Islamico a cavallo fra Siria e Iraq è stata solo la più spettacolare manifestazione del contrattacco sunnita di fronte a decisioni americane che, di fatto, favorivano l’Iran sciita. Dal momento che il Medio Oriente non si è affatto stabilizzato e anzi è oggi ancor più caotico e pericoloso di prima, la scelta di Trump - in controtendenza rispetto a Bush e a Obama - di tornare all’antico, alla tradizionale alleanza privilegiata con i sauditi (e quindi con il mondo sunnita) contro gli iraniani, comunque la si giudichi, ha una sua logica, un suo senso. Ha ragione? Ha torto? Non lo sappiamo. Una sola cosa sappiamo con certezza: nessuno qui ha la verità in tasca. Quando si tratta di Medio Oriente, i giudizi perentori sono sbagliati. Per definizione. Sudan. Pena di morte per Noura, la sposa bambina ribelle di Raffaella Scuderi La Repubblica, 12 maggio 2018 Noura Hussein vive in Sudan a Khartoum. Vuole fare l’insegnante. Ma al compimento dei 13 anni il padre la obbliga a sposarsi con suo cugino, uno sconosciuto. Lei non ci sta. Fugge dalla zia a Sennar, a 250 chilometri dalla capitale, dove termina gli studi. Passano tre anni. La famiglia le fa sapere che il matrimonio è stata cancellato e che lei è la benvenuta a casa. Bugia. Appena torna a Khartoum, a 19 anni, il padre la costringe a sposarsi. Noura non molla. Decide di non concedersi al marito. Inferocito, lui chiede aiuto a fratelli e cugini. La stupra mentre loro la tengono ferma. Il giorno dopo ci riprova. Noura prende un coltello dalla cucina e lo uccide. I genitori la consegnano alla polizia: “È la nostra vergogna”. Il 29 aprile 2018 viene incarcerata per omicidio. Il 10 maggio la sentenza: condannata a morte. Le opzioni offerte dalla corte alla famiglia della vittima sono due: una multa salata o la condanna. I genitori scelgono la seconda: la morte della ragazza. Il 25 maggio si deciderà in appello. Una storia drammatica come molte altre, soprattutto in certi luoghi del pianeta, ma quella di Noura sta prendendo una piega diversa. Donne, sudanesi, musulmane, supportate da attiviste in Europa, Australia e Stati Uniti, hanno dato il via a una campagna virale di sensibilizzazione con lo hashtag #JusticeforNoura, accompagnato dal disegno di un volto di donna con indosso lo hijab e il volto privo di fisionomia, a voler significare l’annullamento dell’identità. “È entrata in tribunale. A testa alta, con un incedere lento e fermo. È un’eroina, una sopravvissuta. Una voce coraggiosa che rifiuta l’oppressione in una società creata per opprimere”, racconta una donna sudanese presente al processo. “L’Aula è piena. La gente si è riunita per sostenerla. Grazie all’Afrika Youth Movement per gli aggiornamenti”, scrive su Twitter Sofda Daaji. L’Afrika youth movement, il Movimento dei giovani africani, ha scritto una lettera all’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Zeid Ràad Al Hussein, condannando il caso di Noura e definendolo: “Un atto di atrocità commesso dallo Stato del Sudan contro un individuo indifeso, prima violata come una bambina, poi condannata da donna adulta per un abuso che ha subito”. Amnesty International si è unita al coro dell’indignazione: “È un intollerabile atto di crudeltà”. E anche la Farnesina ha fatto sapere attraverso l’ambasciata d’Italia a Khartoum, che segue “costantemente e con grande attenzione la vicenda di Noura Hussein. La pena capitale non trova giustificazione in nessuna circostanza”.