Riforma penitenziaria, i penalisti lanciano un ultimo appello a Mattarella di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 maggio 2018 “La normativa avrebbe il pregio di risollevare gli istituti di pena italiani da quella gravissima situazione di sostanziale illegalità che viene quotidianamente denunciata”. Proprio nel giorno in cui la procura di Roma chiude l’inchiesta sul suicidio di un giovane detenuto con problemi psichici ipotizzando per dieci persone il reato di omicidio colposo, e a Napoli molti ex detenuti manifestano all’apertura del processo a carico di 12 agenti penitenziari accusati di violenze nella cosiddetta “Cella zero”, l’Unione delle Camere penali italiane lancia un ultimo accorato appello, rivolto questa volta direttamente al presidente Mattarella, per salvare in extremis la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dal ministro Orlando che attende solo l’ultimo atto del governo. Valerio Guerrieri aveva 22 anni ed era affetto da patologie psichiche quando si è suicidato nel carcere romano di Regina Coeli, il 24 febbraio 2017. Arrestato nel settembre 2016 in flagranza di reato per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato, il 14 febbraio dell’anno scorso il giovane viene condannato a sei mesi di reclusione ma da scontare in una Rems (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituito gli Opg) perché il perito del tribunale aveva riscontrato “un rischio suicidario non basso, quindi non trascurabile” che andava “soppesato dal punto di vista trattamentale”. E invece Guerrieri dieci giorni dopo si è impiccato nella sua cella. Ieri, dopo un anno di indagini, il pm Attilio Pisani ha chiesto il rinvio a giudizio per otto agenti penitenziari e due medici del carcere ipotizzando il reato di omicidio colposo. Archiviato invece un esposto presentato dalla mamma di Guerrieri che contestava l’illegittimità della detenzione. Un fatto, questo, che ha sorpreso il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasia che ricorda come “il ragazzo sia stato trattenuto in carcere per più di dieci giorni senza un titolo legittimo di detenzione”. “Perché - chiede ora Anastasia - quando è venuta meno la custodia cautelare per cui era entrato a Regina Coeli, non è stato liberato? E perché tanti altri come lui, persone con problemi di salute mentale, ma né condannati né sottoposti a custodia cautelare, continuano a essere trattenuti in carcere senza un titolo legittimo di detenzione?”. A Napoli invece si è aperto ieri, con un sit in di protesta di ex detenuti, il processo a carico di 12 agenti penitenziari accusati di presunte violenze commesse nella cosiddetta “Cella zero” di Poggioreale, ossia una cella spoglia di qualsiasi arredamento ma soprattutto senza area di videosorveglianza. I manifestanti, alcuni dei quali denunciano di aver subito le medesime violenze dei sei detenuti dalla cui testimonianza è stata avviata l’inchiesta, si sono detti preoccupati “perché questo processo iniziato oggi già puzza di prescrizione”. I reati contestati, infatti - lesioni, maltrattamento, e in due casi sequestro di persona - risalgono al periodo compreso fra la fine del 2012 e i primi mesi del 2014. Una cronaca, quella di ieri, particolarmente emblematica in un frangente nel quale sembra ormai impossibile trasformare in legge il primo decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario (quello sulle misure alternative) che attende solo l’approvazione definitiva da parte del governo. L’esecutivo infatti, come ha spiegato al manifesto l’ex presidente della Consulta, Flick, non ha più l’obbligo di attendere un passaggio alle commissioni parlamentari. E così ancora ieri l’Ucpi ha fatto appello al presidente Mattarella affinché indichi al “governo ancora in carica la strada per la definitiva approvazione e promulgazione della legge”. Una “riforma fondamentale”, ricordano i penalisti, che ha anche “il compito di dare attuazione ai principi costituzionali dell’articolo 27 ed a quanto richiestoci dall’Europa”. Riforma del sistema penitenziario, Pd se ci sei batti un colpo di Valter Vecellio Il Dubbio, 11 maggio 2018 Ha assolutamente ragione Emanuele Macaluso: il tema giustizia, “centrale per qualificare un regime democratico in questi due mesi di dibattiti, confronti e scontri, non è stato nemmeno sfiorato. Un fatto che non è senza significati politici”. Se è così (e così è) occorre ricavarne un succo. Il blocco che mette insieme Salvini e Di Maio è, marcatamente, giustizialista. Al Partito Democratico è invece questo che si chiede e domanda: cosa ha da dire, da proporre, da indicare sul tema giustizia? Perché non si impegna per varare i provvedimenti di attuazione della riforma carceraria? Come spesso capita è un “compagno” carico di esperienza, ricco di storia e storie, giovanissimo per quel che riguarda riflessi culturali ed intellettuali come Emanuele Macaluso, a mettere il dito nella piaga, e segnalare la “nudità” di un sovrano tronfio, vacuo, inconsistente. Lo ha fatto qualche giorno fa nel suo blog con una nota meritoriamente ripresa dal Dubbio: “E nessuno che si occupi di giustizia”. Proprio nessuno no; la sintesi del titolo ha le sue esigenze, ma nel testo si ha ben cura di specificare che almeno un’organizzazione politica, il Partito Radicale, incessante ha cura, letterale, di ricordare come le questioni relative alla giustizia sono la madre di tutti i problemi di questo sempre più ansimante e piagato paese. Ha assolutamente ragione, Macaluso: il tema giustizia, “centrale per qualificare un regime demo- cratico in questi due mesi di dibattiti, confronti e scontri, non è stato nemmeno sfiorato. Un fatto che non è senza significati politici”. Se è così (e così è) occorre ricavarne un succo. Il blocco che possiamo riassumere con il nome Salvi-Maio è marcatamente, dichiaratamente, pervicacemente giustizialista. Di quel giustizialismo miope e stolto che tanti guasti ha prodotto e produce e tantissimi altri ne produrrà. Una linea che vede tutti insieme appassionatamente schierati personaggi eterogenei come Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo o Nicola Gratteri. Magistrati di cui non oso neppure formulare non dico un giudizio: un pensiero. E questo mio non “osare” va preso in letterale significato: non oso, ne ho timore. Ma il problema non sono loro o altri stimabilissime “toghe”. In occasione del quarantennale, si è molto parlato, scritto e pubblicato di Moro e della sua vicenda. Fresco di stampa u libro di Raffaele Marino, Aldo Moro è vivo (Ponte Sisto). Si rievoca, tra l’altro, il famoso discorso, nei primi giorni del marzo 1977, in pieno scandalo Lockheed: quello dove Moro, davanti a un Parlamento in seduta comune, pronuncia la frase che tutti ricordiamo: “Non ci faremo processare nelle piazze”. Ebbene, Marino propone la lettura integrale del discorso, e ne suggerisce una diversa lettura dalla “solita”. Perché Moro poi aggiunge: “C’è il rischio di involuzione verso una giustizia politica”. Ecco che quel dichiararsi indisponibili al processo nella “piazza” acquista un diverso - e più attuale significato. E non aver colto a tempo debito i sintomi di quel che lievitava ha poi prodotto quei guasti, quei tumori con cui oggi facciamo i conti. È desolante che siano solo i radicali (come partito) o coscienze limpide come i Macaluso o gli Aldo Masullo, giornali come Il Dubbio o Il Mattino, una esigua pattuglia di magistrati (più spesso ex magistrati) a farsene carico e pre/ occuparsene. Al Partito Democratico, così spasmodicamente impegnato in discussioni e baruffe su un niente fatto di nulla, è questo che si chiede e domanda: cosa ha da dire, da proporre, da indicare sul tema giustizia? In che cosa consiste il suo essere “diverso” dal SalviMaio? Cito letteralmente Macaluso: “Tra le riforme, segnalo quella del sistema penitenziario che è stata continuamente al centro di forti richiami delle autorità giudiziarie europee. Il governo Gentiloni ha la delega per l’attuazione dei decreti che rendono operante la legge e aveva avuto anche i pareri delle commissioni parlamentari prima dello scioglimento, tranne uno e che dovrebbe essere concesso dalle commissioni speciali di Camera e Senato per esaminare gli atti del governo degli “affari correnti”. Il presidente della commissione senatoriale, il grillino Crimi, non ha voluto porre il tema all’ordine del giorno ma la legge dice anche che i pareri non sono vincolanti per l’attuazione dei decreti delegati. Quindi, il governo Gentiloni avrebbe potuto già varare i provvedimenti di attuazione, già prima delle elezioni. Non lo ha fatto per timore di subire attacchi dei grillini e della destra che, falsamente, affermano che, in seguito ad essi, sarebbero stati scarcerati molti mafiosi. Una notizia del tutto smentita dai magistrati. Ancora in questi giorni non solo i radicali, i quali sul tema hanno condotto una campagna meritoria, ma i magistrati, con la loro associazione, il vicepresidente del Csm, molti giuristi hanno chiesto l’emissione dei decreti attuativi della legge. Ne parlo non solo perché le carceri italiane sono una vergogna nazionale ma anche perché questa vicenda è un segno grave del ruolo assegnato alla giustizia dalla destra, dai grillini e dalle distrazioni di una parte consistente del Pd. Ripeto: la giustizia qualifica la qualità della democrazia”. Segretario reggente Maurizio Martina, presidente Matteo Orfini, capigruppo di Senato e Camera Andrea Marcucci e Graziano Delrio, candidati palesi o che si paleseranno per la segreteria effettiva, urge chiara e netta una risposta. Se ci siete, battetelo, finalmente, un colpo. 41bis, dopo 26 anni è una misura da revocare? di Valentina Stella Il Dubbio, 11 maggio 2018 Parlare di carcere è impopolare, figuriamoci di 41bis, il regime speciale di detenzione concepito come strumento emergenziale in esito alle note stragi del 1992 per impedire ai boss di veicolare ai sodali in libertà i loro ordini criminali. Sono trascorsi ormai 26 anni da quella emergenza ma il 41bis continua ad esistere, pur avendo perso la sua originaria essenza giustificatrice e trasformatosi in un particolare tipo di tortura, usata per placare le ansie di sicurezza dei cittadini e per costringere i reclusi a collaborare con la giustizia. Tutto questo all’interno di una indifferenza politica e mediatica. A fronte di ciò avvocati e magistrati hanno deciso invece di discuterne e di chiederne un affievolimento se non l’eliminazione tout court in nome della Costituzione e del rispetto della dignità umana: è il quadro emerso ieri durante il convegno dal titolo “Art. 41bis ordinamento penitenziario, insicurezza sociale e immanente stato di emergenza”, organizzato presso la Corte d’Appello Penale della capitale dalla Camera Penale di Roma e della propria Commissione Carcere. Presenti nell’uditorio molti studenti di diritto, futuri uomini e donne di legge e questo fan ben sperare per l’avvenire. A fare gli onori di casa l’avvocato Cesare Placanica, presidente della Camera Penale di Roma: “Si tratta di una delle nostra battaglie storiche contro un articolo che rappresenta una lesione assoluta dei diritti primari, che travalica i limiti dell’umanità della pena detentiva”. “Nel 2016 - ha ricordato l’avvocata Maria Brucale, responsabile della commissione carcere - il ministro Orlando aveva promesso una circolare atta ad eliminare le vessazioni inutili del duro regime detentivo. Ma non è mai arrivata. Solo nell’ottobre scorso una Circolare del capo del Dap, Santi Consolo, ha elencato capillarmente le regole della speciale carcerazione attraverso una griglia meticolosa di ciò che è consentito e di ciò che non lo è, senza dischiudere spiragli né fare concessioni. Si tratta purtroppo di un tema difficile da affrontare, soprattutto quando vengono veicolate false convinzioni come l’inserimento del 41bis nella riforma dell’ordinamento penitenziario”. È intervenuto poi il magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi, componente della Commissione ministeriale di riforma dell’ordinamento penitenziario: “Come magistrati di sorveglianza siamo chiamati a bilanciare la protezione dei diritti dei reclusi e l’esigenza di sicurezza, partendo dal presupposto che anche al carcere duro la finalità costituzionale della pena non può venire meno”. Non poteva mancare tra i relatori Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito Radicale per la quale “lo Stato, attraverso il 41bis, si mette al livello dei peggiori criminali che vuole combattere, non affrontando il fenomeno dal punto di vista scientifico ma addirittura con la superstizione”, ricordando in che modo tanti si siano opposti al differimento della pena per Riina per assicurargli una morte dignitosa, adducendo come il pm Gratteri la motivazione per cui “un boss come lui comanda anche solo con gli occhi”. Il dottor Roberto Pennisi, consigliere della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, noto per il record assoluto di oltre 80 condanne definitive all’ergastolo segnato dal processo “Tirreno”, e tra i pochi a chiedere talvolta la revoca del 41bis, ha sostenuto a gran voce che “non accetta che esso venga utilizzato come strumento di pressione. In tal senso il 41bis rappresenta la più plateale negazione dello Stato di Diritto”. Replica l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carceri dell’Ucpi: “Sono stanco di sentire dire queste cose dai magistrati ai convegni. Perché il dottor Pennisi all’interno della magistratura non si fa portavoce del suo pensiero? E perché l’Associazione Nazionale Magistrati rimane in silenzio dinanzi le criticità del 41bis?”. Sono intervenuti anche Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica, Laura Longo, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di l’Aquila, e l’avvocato Caterina Calia. Rimandiamo al sito di Radio Radicale per riascoltare l’interessante convegno nella sua interezza, in nome del Diritto alla Conoscenza, una delle ultime intuizioni di Marco Pannella. Nel patto di governo anche legittima difesa e rimpatri di Annalisa Cuzzocrea La Repubblica, 11 maggio 2018 Rimpatrio di tutti i migranti irregolari: la Lega lo vorrebbe forzato, i 5 stelle hanno proposto la stipula di patti con i Paesi d’origine, ma insomma - fanno notare entrambi - l’intento è lo stesso; mantenimento del reato di immigrazione clandestina; estensione della legittima difesa (l’idea di Matteo Salvini, cui i grillini stanno aprendo, è che se un ladro entra in casa gli si può sparare anche uccidendolo); no alla riforma delle carceri; blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio; assunzione di 10mila persone nei corpi di polizia. Sono solo alcuni degli elementi che gli sherpa del Movimento e del Carroccio hanno messo sul tavolo di un accordo che intendono chiudere nella prossima riunione, domani alle 15. E che vede profilarsi un governo giallo-verde modello “legge e ordine”, con un’impronta fortemente di destra. Ci sono le due misure bandiera: il reddito di cittadinanza per il Movimento e la flat tax per il Carroccio. Nel primo caso, Alfonso Bonafede, Vincenzo Spadafora e Laura Castelli (i 5 stelle cui è stata affidata la trattativa) hanno chiarito che non si tratta di una misura di stampo assistenziale, ma che è accompagnata dalla ricerca di un lavoro. Si possono rifiutare tre proposte di impiego, poi viene tolto. La richiesta dei leghisti, accolta, è stata che venga inserito un tempo massimo. Un limite che dovrebbe essere di due anni. Sulla flat tax si comincerà probabilmente per gradi, ma - raccontano fiduciosi dal Movimento - Giancarlo Giorgetti e Claudio Borghi hanno spiegato che sotto una certa soglia i redditi bassi saranno tutelati. E che i più ricchi non saranno comunque troppo avvantaggiati attraverso meccanismi che garantirebbero una certa progressività. “Ci ho messo 4 giorni ad armonizzare il programma con quello di Forza Italia - dice uscendo Borghi, senatore e responsabile economico della Lega - posso fare anche questo”. Quanto al conflitto di interessi, che i 5 stelle hanno dovuto far rientrare nell’intesa dopo averlo fatto sparire dai discorsi pubblici di Di Maio, pena la sollevazione della base e di parte degli eletti, Borghi spiega: “C’è qualcosa nel pacchetto giustizia, ma non mi pare di aver visto nessun intento punitivo. Non c’è l’intenzione di perseguitare una persona che sappiamo tutti bene chi è...”. Mentre un altro leghista taglia corto: “Non è un argomento”. Di certo, non si è entrati nel dettaglio. E non è stato ripetuto quello che il leader M5S aveva detto nei giorni della trattativa con il Pd. “Chi possiede reti televisive non può fare politica”, aveva dichiarato Di Maio nel mezzo delle consultazioni in cui aveva chiuso a ogni possibilità di accordo con il Carroccio. L’idea ora è di riprendere il tema in una formulazione più soft. Che è quel che accadrà per gran parte dei temi su cui Lega e 5 stelle sono distanti. Ma ce ne sono alcuni che li accomunavano già in partenza. Come il superamento della riforma Fornero sulle pensioni, sulla quale però è difficile intervenire cancellandola, perché c’è un problema enorme di coperture. Altro tema comune, di cui però ieri non si è parlato, è quello dei vaccini: M5S e Carroccio sono contro l’obbligo introdotto dal decreto Lorenzin, favorevoli invece al principio di raccomandazione. Di Europa e Nato, temi sui quali Di Maio si è allontanato nel tempo dal fronte populista, non si è parlato. Ma a Porta a Porta ieri Spadafora rassicurava: “I parametri di Maastricht non sono in discussione”. Davigo: “lotta ai corrotti, dieci tipi di reato frenano i processi, ne basta uno solo” di Liana Milella La Repubblica, 11 maggio 2018 Se gli si chiede se è un magistrato “grillino” sbuffa e risponde: “Mi pare di aver dato sufficienti prove di indipendenza da chiunque durante la mia vita professionale”. Rifiuta commenti sui colleghi, qualsiasi accusa gli facciano. Alla domanda su cosa sarebbe il “populismo giudiziario” risponde: “Io non lo so... provi a chiederlo a chi ne parla”. Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, nel 2015 fondatore della corrente della magistratura Autonomia e indipendenza, candidato alle elezioni per i togati del Csm dell’8 e 9 luglio, ha un’ossessione, suggerire riforme sulla giustizia per farla funzionare. Come quella di ridurre “a uno solo i reati di corruzione invece della decina oggi esistente”. Ma se gli chiedessero di fare il Guardasigilli, a chiunque direbbe “no”. Citando “Prendi i soldi e scappa” di Woody Allen, lei sostiene che “alla lunga il delitto rende bene... è un buon lavoro”. Davvero gli italiani sono così? Non è una generalizzazione? “Non penso affatto che tutti gli italiani vivano così. C’è un dato inoppugnabile, il nostro sistema penale è inefficace. Da lontano fa paura, ma svolge solo la funzione dello spaventapasseri, in realtà è innocuo. Con una pena fino a 4 anni non si va in galera. E per essere puniti fino a 4 anni già si deve commettere un reato di una certa gravità. Allora tanto vale dire che la repressione penale non serve. Chiudiamo i tribunali. Ma dobbiamo chiederci perché negli altri Paesi le stesse regole funzionano. Non mi pare di esporre tesi forcaiole, ma solo di fare affermazioni di buon senso”. Nel suo ultimo libro - “In Italia violare la legge conviene. Vero!”, Laterza - c’è un’altra affermazione forte, “in Italia a rispettare le leggi sono i fessi, a violarla i furbi”. Non teme l’accusa di qualunquismo? “Ho scritto che in Italia esiste una subcultura diffusa secondo cui a violare le leggi sono i furbi e a rispettarle i fessi. Ma stiamo ai fatti. Il condono del 2009 grida vendetta, la dichiarazione integrativa si fa sulla base di ciò che hai dichiarato, più hai evaso meno paghi, un’assurdità. Per chi vuole violare la legge ci sono mille occasioni per farla franca, per chi la rispetta un sacco di guai. Esempi? Guardi il codice degli appalti, non fa né caldo né freddo a chi fa le turbative d’asta, ma crea un sacco di problemi alle persone oneste”. Il presidente dell’Anac Cantone non la pesa così. “E allora perché lo hanno rivisto?”. Lei scrive che gli italiani non pagano né tasse, né debiti, lo fanno solo dipendenti e pensionati. Quindi, pagando anche per quelli che evadono, pagano tantissimo. Carcere contro gli evasori come in Usa? “Il carcere funziona solo se gli evasori sono pochi, ma se sono 12 milioni come da noi è impossibile. Servono altri sistemi meno penetranti sulla libertà personale. Come investigare il rapporto tra i beni disponibili e il reddito dichiarato. Anziché perdere tempo a controllare gli scontrini. Hai una villa al mare e una montagna e un reddito da pezzente? Com’è possibile? Allora ti controllo”. Corruzione. Da anni è un leit motiv legislativo. Vedi leggi Severino e Orlando. La destra è contro gli aumenti di pena. M5S li chiede. Ma in carcere per corruzione ci stanno quattro gatti. E quindi? “Aumentare le pene massime è fumo negli occhi perché i giudici si attengono ai minimi. Se vuoi fare davvero paura devi aumentare i minimi. Io cambierei tutte le fattispecie dei reati di corruzione riconducendola a unità. Ormai i processi si fanno per capire in quale casella inserire il comportamento tra i dieci reati possibili. E si perde un sacco di tempo. Invece esiste un reato militare, solo per la Gdf, che punisce il finanziere che collude con i privati in danno della finanza. Funzionerebbe benissimo per la pubblica amministrazione: se colludi con un privato sei punito. La Consulta ha già detto che questo reato è legittimo. E poi dicono che non sono garantista”. Beh, da sinistra i suoi colleghi la accusano di volere tutti i galera. “So che lo dicono, però vedo che sono applauditi dal Foglio. Come mai? Si facciano delle domande. Non voglio tutti in galera, ma un sistema serio, mentre oggi non lo è. Facciamo l’esempio della truffa? Negli Usa Madoff fa una catena di Sant’Antonio e viene condannato a 155 anni che sta scontando. In Italia sarebbe finito in prescrizione. Se la differenza è niente e 155 anni, i truffatori dove devono andare a fare le truffe?”. I suoi detrattori dicono che l’idea degli agenti provocatori non è garantista. “Sono stufo. Lo ripeto una volta per tutte. La Convenzione di Merida impone le operazioni sotto copertura, l’Italia l’ha firmata ma è inadempiente. Chi mi accusa non sa di che parla. Dovrebbero chiedersi perché la firma manca. Parlano di agenti provocatori anziché di operazioni sotto copertura. Nelle turbative d’asta perché non si può mandare in sede di gara un poliziotto che si finge imprenditore e di fronte al reato arresta il colpevole?”. Le accuse al Csm, mafioso addirittura, non sono qualunquiste? “Alt... io non ho mai usato quest’espressione, lo hanno fatto altri. Ho solo detto che i criteri seguiti nelle nomine non sono più comprensibili. Voglio solo regole più chiare, fatte rispettare e soprattutto trasparenti”. Tipo i curricula pubblici? Il 50% dei suoi colleghi chiede la privacy. “I cittadini hanno diritto di conoscere la carriera di chi vuole andare a dirigere un ufficio. Almeno nella rete Intranet, consultabile solo dai magistrati, le schede di autorelazione ci devono stare”. Sparare così sul Csm non rischia di far saltare tutto? “Pretendere il rispetto delle regole è forse un’aggressione? Ma stiamo giocando? Io chiedo solo che il Csm rispetti le regole che esso stesso si è dato”. Confisca di prevenzione, l’evasione non giustifica la sproporzione dei beni di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 10 maggio 2018 n. 20826. “Nella confisca di prevenzione la sproporzione tra i beni posseduti e le attività economiche del proposto non può essere giustificata adducendo proventi da evasione fiscale, atteso che le disposizioni sulla confisca mirano a sottrarre alla disponibilità dell’interessato tutti beni che siano frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego, senza distinguere se tali attività siano o meno di tipo mafioso”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 10 maggio 2018 n. 20826, respingendo il ricorso di un uomo sottoposto anche a misure di prevenzione personale per appartenenza ad un clan mafioso, contro il decreto di conferma del provvedimento di prevenzione emesso dalla Corte di appello di Reggio Calabria. Più in generale, con riguardo alla confisca penale “estesa” (prevista dall’articolo 12-sexies del decreto legge 306/1992, convertito nella legge 356/1992), la Cassazione ha ribadito che “solo la positiva dimostrazione della provenienza lecita dei beni, in termini economici e non solo giuridico formali, costituisce valida “giustificazione” di un rapporto reddito-patrimonio oggettivamente sproporzionato”. “Di guisa che - continua la decisione - l’onere di allegazione difensiva in ordine alla legittima provenienza dei beni non può essere soddisfatto attraverso la mera indicazione della esistenza di una provvista sufficiente per concludere il negozio di acquisto degli stessi, dovendo invece il soggetto sottoposto al procedimento di prevenzione indicare gli elementi fattuali dai quali il giudice possa dedurre che il bene non sia stato acquistato con i proventi di attività illecita, ovvero ricorrendo ad esborsi non sproporzionati rispetto alla sua capacità reddituale”. In questo senso, i giudici ricordano un precedente (31751/2015) in cui la Cassazione ha annullato, per difetto di motivazione, il decreto che, con riferimento all’acquisto di un immobile mediante l’accensione di un mutuo da parte di proposto titolare di reddito appena sufficiente alle immediate necessità del suo nucleo familiare, aveva escluso la sussistenza della sproporzione affermando che il patrimonio si era formato in larga parte “attraverso il ricorso al sistema bancario”, anche in virtù di una garanzia personale prestata dal padre del destinatario della misura ablatoria. Nella medesima ottica, conclude la decisione, “si è ritenuta legittima la confisca di prevenzione di beni acquistati mediante il reimpiego dei proventi ricavati dalla dismissione di altri beni, la cui acquisizione non trova conforto in una proporzionata disponibilità finanziaria, reddituale o comunque lecita, nel periodo di riferimento”. Omesse ritenute, condanna evitata se l’imprenditore ha ipoteca per proseguire l’attività di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 maggio 2018 Corte di cassazione, sentenza Terza sezione penale 10 maggio 2018 n. 20725. Va annullata la condanna per omesso versamento delle ritenute se l’imprenditore si è attivato in tutti i modi possibili, anche accendendo mutui e ipoteche sui propri beni personali per assicurare la prosecuzione dell’attività d’impresa. Questa la conclusione cui approda la Corte di cassazione con la sentenza n. 20725 della Terza sezione penale depositata ieri. La Corte ha così annullato la condanna inflitta a un imprenditore al quale era stata contestato l’omesso versamento di ritenute sulle retribuzioni dei dipendenti per un importo di circa 15.000 euro. La difesa aveva sostenuto che l’impresa era stata investita non da una semplice crisi di liquidità, quanto piuttosto da una gravissima crisi economica e finanziaria dovuta da una parte a una riduzione del fatturato e dall’altro a importanti oneri finanziari per investimenti soprattutto in macchinari effettuati in una fase antecedente all’esplodere della crisi. La sentenza ricorda che l’imputato può invocare l’impossibilità di adempiere il debito d’imposta, come causa di esclusone da responsabilità penale, a patto di corroborare anche in via documentale il profilo della sua non imputabilità e l’impossibilità dell’azienda a fronteggiare in altro modo la crisi. Occorre cioè la prova che non è stato altrimenti possibile per il contribuente trovare risorse necessarie a permetterli un puntuale rispetto degli obblighi fiscali. La condanna inflitta invece non aveva neppure preso in considerazione le argomentazioni dell’imprenditore, che avrebbero potuto cambiare la valutazione almeno sull’elemento psicologico del reato valorizzando, per esempio, afferma la Cassazione, quelle soluzioni, come muti e ipoteche, individuate per reperire liquidità. Calabria: violenza di genere, si è insediato l’Osservatorio regionale Corriere della Calabria, 11 maggio 2018 Prima uscita dell’organismo che dovrà monitorare i fenomeni che vedono le donne come vittime. Irto: “Questa battaglia passa per la cultura e il rifiuto dei soprusi”. Con la seduta inaugurale, che si è tenuta questa mattina nella sala “Acri” di palazzo Tommaso Campanella, si è insediato l’Osservatorio regionale sulla violenza di genere, istituito con la legge regionale 38/2016. La normativa (approvata unanimemente dall’Aula in un momento storico contrassegnato da numerose e gravi vicende di cronaca che, in Calabria, hanno avuto come vittime donne) ha avuto come primo proponente il presidente del consiglio regionale Nicola Irto, che stamani ha aperto i lavori del nuovo organismo. Quest’ultimo è composto, oltre che da tre membri di diritto (presidente della Crpo, consigliera di parità e rappresentante del dipartimento regionale Tutela della Salute), da cinque esperti e dieci rappresentanti di associazioni attive nella materia del contrasto alla violenza di genere, che sono stati individuati attraverso un avviso pubblico. Avviando la seduta, il presidente Irto ha affermato: “Quella di oggi è una giornata importante per la Calabria, che con la legge istitutiva dell’Osservatorio ha colmato un gap del passato e adesso, con l’entrata a regime del nuovo organismo, si pone in una posizione più avanzata a livello nazionale. L’Osservatorio, che non ha alcun costo per la collettività - ha rilevato Irto - esercita funzioni diverse rispetto alla Commissione regionale per le pari opportunità e coopererà con quest’ultima, sia per monitorare i fenomeni legati alla violenza di genere, sia per promuovere iniziative concrete. Mi aspetto un approccio operativo, così come ci chiedono i cittadini, e una puntuale misurazione dei risultati. La Calabria è stata teatro di vicende orribili - ha ricordato ancora Nicola Irto - che hanno avuto come vittime le donne, ma è anche luogo nel quale esistono esempi di straordinario coraggio al femminile, come quello di Giuditta Levato. Auspico un costante raccordo con il mondo della scuola perché questa battaglia - ha concluso il presidente del Consiglio regionale - passa dalla diffusione di una cultura del rispetto di genere e dal ripudio di ogni forma di violenza o sopruso”. A far parte dell’organismo, che dunque sarà chiamato a svolgere funzioni diverse ma connesse e integrate con quelle della Crpo, sono stati chiamati cinque esperti di comprovata esperienza nel settore: Mario Nasone (coordinatore), Antonietta Accoti, Catiuscia Mazza, Clelia Bruzzì e Giuseppe Callà. Per conto delle associazioni di settore, sono stati designati a componenti dell’Osservatorio: Jessica Tassone (associazione Domino), Roberta Attanasio (Centro Roberta Lanzino), Laura Amodeo (Laboratorio da Sud-Per il cambiamento), Pasqualina Federico (Noemi - Soc. cooperativa sociale srl), Isolina Mantelli (Centro calabrese di solidarietà), Maria Stella Ciarletta (Associazione WWW - What Women Want), Concetta Grosso (Cif Cosenza), Monica Riccio (Fondazione “Città solidale” Onlus), Paola Cammareri (Associazione “Filo Rosa”), Giovanna Cusumano (Camera nazionale avvocati per la famiglia e i minorenni). Roma: mancata sorveglianza per quel suicidio, ma non doveva essere a Regina Coeli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 maggio 2018 Accusati di omicidio colposo otto agenti penitenziari e due medici del carcere romano di Regina Colei. Questa è la conclusione dell’inchiesta condotta dal pm Attilio Pisani per la morte di Valerio Guerrieri, suicidato a 21 anni il 24 febbraio dello scorso anno in una cella di Regina Coeli. La motivazione dell’accusa che rischia di rinviare a giudizio gli operatori penitenziari è concentrata sul tipo di sorveglianza effettuata a Valerio. I medici, secondo l’accusa, sarebbero colpevoli di programmare una sorveglianza non a vista, ma di accertamento ogni quarto d’ora; mentre gli agenti penitenziari colpevoli di aver effettuato un controllo blando. Per Guerrieri era stato disposto il regime di “grande sorveglianza”, che presuppone controlli ogni 15 minuti, mentre più appropriato, data la perizia che recitava “alto rischio di togliersi la vita, attenzione psichiatrica maggiore possibile”, sarebbe stata, secondo il pm, la sorveglianza speciale, ossia il detenuto andava tenuto costantemente a vista. Ma stiamo parlando di Valerio, un ragazzo che era illegittimamente trattenuto in carcere. Tant’è vero che il suo legale difensore Simona Filippi aveva presentato un esposto - poi archiviato dallo stesso pm - per identificare i responsabili della sua detenzione illegale. Parliamo di un ragazzo con problemi psichiatrici che sarebbe dovuto stare in una Rems, la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Il garante regionale Stefano Anastasìa, alla notizia della chiusura delle indagini e probabili rinvii a giudizio degli operatori penitenziari, ha commentato che la tale notizia “aiuta a non far cadere nel dimenticatoio quella tragica morte”, ma poi aggiunge: “Ciò detto, sorprende che il pubblico ministero abbia giudicato irrilevante il fatto che il ragazzo sia stato trattenuto in carcere per più di dieci giorni senza un titolo legittimo di detenzione. Valerio, infatti, al momento del decesso avrebbe dovuto essere sottoposto a una misura di sicurezza, ma né alla custodia cautelare, né a una pena detentiva, unici titoli legittimi di trattenimento in carcere. Il quesito principale dunque resta questo: a che titolo era trattenuto in carcere? Perché, quando è venuta meno la custodia cautelare per cui era entrato a Regina Coeli, non è stato liberato? E perché tanti altri come lui, persone con problemi di salute mentale, ma né condannati né sottoposti a custodia cautelare, continuano a essere trattenuti in carcere senza un titolo legittimo di detenzione?”. Casi come quelli di Valerio Guerrieri, infatti, non sono rari. Come già denunciò a Il Dubbio il garante regionale dei detenuti Stefano Anastasìa, “troppi internati non realmente pericolosi affollano le Rems e alimentano le liste d’attesa, fino all’abuso del trattenimento senza titolo in carcere”. Forse per il caso Guerrieri fa più comodo procedere contro la mancata sorveglianza in carcere, anziché aprire un procedimento sull’illegittima detenzione. In quest’ultimo caso si aprirebbe un vaso di pandora che coinvolgerebbe diversi fattori: dai magistrati che abusano troppo del ricovero nelle Rems, invece che predisporre percorsi di terapia alternativi con i servizi sanitari e sociali del territorio, all’inerzia dei servizi territoriali stessi fino al sequestro in carcere di persone che legalmente non ci dovrebbero assolutamente stare. Ma la responsabilità qualcuno se la deve pur prendere, affinché si evitino altre tragedie come quelle che hanno riguardato Valerio. Roma: progetto di pulizia della città con i detenuti in zona Romanina cittaceleste.it, 11 maggio 2018 A partire dal 9 maggio i detenuti della casa circondariale di Rebibbia ripuliscono le strade del quartiere di Roma sud, in zona Romanina. L’iniziativa fa parte del progetto “Lavori di pubblica utilità e recupero del patrimonio ambientale”, partito dopo la sottoscrizione dell’accordo congiunto Roma Capitale - Ministero della Giustizia e Dipartimento Amministrazione Penitenziaria con la successiva firma del Protocollo d’Intesa avvenuta nei mesi scorsi. Il progetto ha preso il via il 26 maggio scorso dai parchi di Colle Oppio, ha visto poi la riqualificazione di Villa Ada e dei giardini del Gianicolo ed è volto a favorire il reinserimento socio lavorativo dei soggetti in espiazione di pena. È partito in via sperimentale al Carcere di Rebibbia ma coinvolgerà successivamente anche gli altri istituti penitenziari. L’iniziativa ha il duplice intento di formare i detenuti dando loro la possibilità di padroneggiare un lavoro una volta terminata la pena e allo stesso tempo di offrire un servizio, a costo zero, per la Città. L’emergenza in questi mesi è ripulire e riqualificare diverse zone di Roma: per questo, grazie all’impegno del Dap e dell’Amministrazione attraverso la figura della Garante per i diritti delle persone private della libertà personale Gabriella Stramaccioni, Roma Capitale sta cercando di individuare i quartieri che maggiormente necessitano di un intervento. Come sottolineano l’Assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini Daniele Frongia e l’Assessora alla Sostenibilità Ambientale Pinuccia Montanari, partono quindi i lavori di ripristino di pulizia e decoro in uno dei quartieri maggiormente bisognosi, tristemente venuto alla ribalta per gli incresciosi fatti di violenza di qualche settimana fa. Trento: la pena che interroga di Patrizia Niccolini vitatrentina.it, 11 maggio 2018 Volti che da prigionieri diventano comunicazione, e sbarre che diventano penne. È l’immagine simbolo di “Liberi Da Dentro”, progetto biennale promosso dalla Scuola di Preparazione Sociale, dalla Fondazione Demarchi e da numerose realtà territoriali per promuovere una maggiore conoscenza del mondo del carcere e sensibilizzare la popolazione attraverso una rassegna di iniziative, anche nelle scuole. Il primo ciclo dedicato a “Punire, Rieducare, Ripartire? Riflessioni sulla sanzione penale oggi in Trentino” si è concluso con la tavola rotonda “La città di Trento e il carcere” moderata da Lucia Fronza Crepaz, giovedì 3 maggio nella sede di piazza S. Maria Maggiore. “Visioni semplificate, rigide e stereotipate si incrinano incontrando persone che con le loro storie generano domande che mettono in crisi le nostre rappresentazioni e richiedono un cambiamento culturale”, ha detto il presidente Reggio introducendo il momento di confronto sulle domande sorte durante il percorso culturale. Spazio poi alla testimonianza di Ader, presidente dell’Associazione “Dalla Viva Voce”, introdotto dalla vice-presidentessa Silvia Larcheri che ha indicato nel sostegno a ex-detenuti nel percorso di reinserimento sociale la finalità alla base dell’impegno dei volontari. Nato in un paese del Marocco e arrivato in Italia minorenne, Ader è cresciuto in strada iniziando presto a delinquere, sperimentando la detenzione e poi l’affidamento in prova al servizio sociale nel Comune di Trento. “A 19 anni sono stato condannato a 9 anni di carcere - ha raccontato -: non riuscivo più a immaginarmi libero, pensavo che non avrei più rivisto mio padre ed ero arrabbiato, e ad un certo punto ho anche pensato di farla finita. In appello la condanna è stata ridotta, ma non ho potuto partecipare a nessuna attività o programma rieducativo, e una volta uscito ero al punto di partenza. Ho iniziato a trasportare droga da Milano a Trento, poi sono stato arrestato e condannato a 4 anni e sei mesi”. Nel carcere di Trento però Ader ho potuto lavorare per una cooperativa sociale e tornare a studiare: “Ho avuto la possibilità di cambiare stile di vita e, una volta scontata la pena, ho trovato lavoro, un alloggio, costruito amicizie. Ora vivo con mia moglie e mia figlia e sono passati 7 anni dall’ultimo reato commesso”. Molti delinquono, e tornano a farlo, perché nella loro vita emarginata non trovano alternative legali: “Per spezzare questa catena, bisogna dare al detenuto la possibilità di ricostruirsi un’altra vita invece che rinchiuderlo in un luogo e dimenticarlo lì: la pena deve aiutare a capire di aver sbagliato, rieducando come farebbe una famiglia con un figlio che ha commesso un errore”. Il percorso si è concluso con il recital “Dalla viva voce. Storie dal carcere”, per voce narrante, pianoforte e video a cura dell’Associazione Quadrivium, andato in scena venerdì 4 maggio nella sede della Fondazione Demarchi. Il prossimo appuntamento è con le “Narrazioni oltre le mura del carcere” nell’ambito dell’evento Biblioteca Vivente: il 16 giugno in piazza Cesare Battisti a Riva del Garda, ore 17-21, il 25 giugno in piazza Duomo a Trento, ore 18-21, il 7 luglio in centro storico a Lavis, ore 19-22. Il progetto, sostenuto dalla Fondazione Caritro, vede coinvolti Scuola di Preparazione Sociale, Fondazione Franco Demarchi, Associazione “Dalla Viva Voce”, Associazione Quadrivium, Comune di Trento, Comune di Lavis, Comune di Riva del Garda, Rivista UnderTrenta, Sistema Bibliotecario Trentino, Museo Diocesano, Cooperativa ABCittà, Cinformi, Apas, Atas, Conferenza regionale volontariato carcere Trentino Alto Adige, con il patrocinio della Provincia autonoma di Trento. Roma: sport e detenuti, il Garante nazionale all’incontro sul protocollo Acli-Dap Ristretti Orizzonti, 11 maggio 2018 Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, ha partecipato all’incontro pubblico sulle realizzazioni del protocollo d’intesa fra l’Unione Sportiva Acli e il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, in tema di promozione delle attività sportive fra le persone detenute. L’evento, dal titolo “Lo sport nel percorso rieducativo e riabilitativo dei detenuti”, è stato l’occasione per presentare il ricco panorama di attività promosse in diversi istituti penitenziari italiani grazie alla firma del Protocollo nell’ottobre 2016. Allo stesso tempo è stato anche un’opportunità per rilanciare l’impegno dei sottoscrittori in vista di nuove, ambiziose iniziative future. Alla tavola rotonda hanno partecipato anche Santi Consolo, Capo del Dap, Giovanni Malagò, Presidenti del Coni, Roberto Rossini, Presidente nazionale Acli e Damiano Lembo, Presidente nazionale US Acli. Per il Garante erano presenti anche Claudia Sisti e Giovanni Suriano, rispettivamente coordinatrice e componente dell’Unità operativa “Privazione della libertà in ambito penale”. Premio Goliarda Sapienza, al Salone del Libro vince Edmond futura.news, 11 maggio 2018 Avrebbero voluto un’altra vita e lo hanno scritto. I loro “racconti dal carcere” hanno partecipato al Premio Goliarda Sapienza e le quindici storie selezionate dalla giuria sono state raccolte e pubblicate in un libro. Gli autori sono detenuti negli istituti di Rebibbia, Rebibbia femminile Saluzzo e Santa Maria Capua Vetere e oggi erano al Salone del Libro di Torino per assistere alla premiazione. Per la prima volta la cerimonia si è svolta fuori dal carcere, alla presenza dei finalisti e di tanti interessati che hanno riempito la Sala Rossa del padiglione del Lingotto. L’evento è stato il momento finale di un percorso iniziato a ottobre con i laboratori di scrittura creativa che hanno preceduto il concorso. Le aule dei penitenziari sono state attrezzate per permettere ai detenuti di scrivere e imparare da maestri d’eccezione, grandi autori che in collegamento video hanno fatto da “tutor letterari” per i detenuti. Tra loro Gianrico Carofiglio, Serena Dandini, Federico Moccia, Nicola Lagioia e Andrea Purgatori. A tutti i partecipanti al laboratorio è stato donato un pc da usare anche dopo i tre mesi e mezzo di corsi. Arrivato alla settima edizione, il Premio Letterario Goliarda Sapienza 2018 ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica, a conferma di quanto ha detto al Salone il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Santi Consolo: “Il carcere è una struttura a servizio della società a cui la società deve dare in cambio collaborazione e aiuto. Il concorso è stato una possibilità di espressione per chi ha un vissuto duro e proprio per questo ha capito il senso della nostra esistenza”. Alla premiazione erano presenti anche Dacia Maraini, madrina del concorso; Elio Pecora, presidente della giuria; Erri De Luca, “tutor letterario” dalla prima edizione, e Pino Corrias. La giornalista Antonella Bolelli Ferrara, ideatrice e curatrice dell’iniziativa, ha condotto la cerimonia e premiato il vincitore: Eugenio Deidda. Edmond, questo il suo nome d’arte ispirato a “Il conte di Montecristo”, ha partecipato al concorso con due racconti: “Sette pazzi”, per il quale ha vinto, e “Non chiamatemi Guendalina”. Il primo dei tre premi speciali previsti dal concorso è andato a Gesuele Ventrice, autore del racconto “Si prontu?”, che ha ispirato il titolo della raccolta “Avrei voluto un’altra vita. Racconti dal carcere”. “Ti ho ucciso” di Patrizia Durantini è stato il racconto femminile più votato. Salvatore Torre ha invece vinto il premio speciale Vatican News per i due racconti “Cose che capitano a Palermo” e “Allegoria di un’espiazione. Senza Attenuanti”. Il racconto di Floriana, detenuta a Rebibbia: “avrei voluto un’altra vita” di Monica Coviello vanityfair.it, 11 maggio 2018 Al Salone del Libro di Torino, alla premiazione del concorso letterario Goliarda Sapienza, l’unico al mondo dedicato ai detenuti, abbiamo incontrato l’autrice di uno dei racconti finalisti. La prima cosa che Floriana, 46 anni, si è comprata, appena ha avuto a disposizione qualche decina di euro da spendere, è stata una crema per il viso. Nei primi mesi di detenzione, a Rebibbia, non aveva nulla, ma qualche compagna, “solo qualcuna, perché c’è tanta invidia della felicità altrui”, le aveva prestato un po’ di soldi per procurarsi il minimo necessario: “Qui sopravvivi solo se hai del denaro”. Da qualche mese ha un piccolo lavoro in carcere: fa la “scrivana”, raccoglie gli ordini dei prodotti di igiene o farmaceutici che i detenuti chiedono di acquistare. Del suo piccolo stipendio, una volta sottratte le spese di mantenimento, le rimangono poco più di 100 euro, che però riescono a rendere un po’ meno dura la vita. Quando la incontriamo, alla premiazione del concorso letterario Goliarda Sapienza, al Salone del libro di Torino, ha l’eye liner, lo smalto, il rossetto. “L’identità è anche questo, per me. Voglio sentirmi in ordine, sentire che la pelle profuma del mio bagnoschiuma preferito”. Sentirsi viva, per Floriana, significa anche poter ascoltare la musica, che è la sua grande passione da sempre, “soprattutto quella italiana, perché faccio molta attenzione ai testi: mi piacciono Gianna Nannini, Tiziano Ferro”. E scrivere: lo fa da quando era bambina, perché per lei è sempre stato terapeutico. In carcere, dove è finita perché “mi venne notificato che facevo parte di un clan mafioso, per tre telefonate che non avevo neanche fatto”, si era procurata un taccuino e una penna. In ogni momento libero si metteva a scrivere, e di sera, quando la compagna di cella si addormentava, dedicava ore a raccontare sul foglio quello che era successo, quella che era stata e quella che avrebbe voluto fosse la sua vita. Un’altra detenuta l’ha notato, ha intuito che scrivere quegli appunti fosse davvero importante per Floriana, e le ha proposto di partecipare al premio letterario, l’unico, in tutto il mondo, rivolto ai detenuti (è ideato e curato da Antonella Bolelli Ferrera e promosso da inVerso Onlus, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e Siae). “Così, in un mese e mezzo, ho scritto il racconto della mia vita, Frecciamore oltre. L’ho detto subito: “Non dovete cambiare niente. Non mi interessa arrivare fra i finalisti, ma voglio parlare di quello che è successo davvero”. E così è stato: non hanno modificato niente. In quel racconto (che fa parte della raccolta Avrei voluto un’altra vita, Giulio Perrone editore, ndr) ci sono tutte le mie memorie: mi tornano in mente ogni volta che socchiudo gli occhi. Quelli belli mi sfiorano con dolcezza, gli altri non smetteranno mai di farmi male”. Belli come il ricordo affettuoso della mamma Rosa, della nipote di undici anni “che è come se avessi messo al mondo io” e di quel figlio che per quattro mesi ha portato dentro, ma che non è mai nato. Terribili come l’esperienza della cocaina e dell’eroina, il sesso in cambio di denaro, le violenze fisiche e psicologiche subite dal marito, poi morto in carcere, e a cui lei aveva imparato, in qualche modo, a volere bene. A vincere questa edizione del premio Goliarda Sapienza è stato un ragazzo di 26 anni, che si chiama Eugenio Deidda, ma che si firma Edmond, come Edmond Dantès, il protagonista del romanzo Il conte di Montecristo, e che ha scritto Sette Pazzi, un racconto sul tema della follia. Floriana non è stata premiata, ma per un giorno, ha dimenticato la solitudine che tanto l’ha fatta soffrire. Prima di essere arrestata, viveva da sola, ed era diventata dipendente dai social: “Avevo trovato tante amicizie”, sostiene. Eppure nessuna di quelle persone la va a trovare in carcere. “Non ho una famiglia. Anzi, ho una sorella, che è la mamma di quella nipotina che tanto amo. Le avevo dato dei soldi per venire a trovarmi, ma dopo un paio di visite è scomparsa”. Ed è a cercare quella nipote che Floriana vuole andare, appena uscita dal carcere. “Dopo averla ritrovata, mi prenderò cura di me stessa, proverò a volermi bene. Voglio dimagrire e voglio farmi un lifting. E poi voglio crearmi una nuova vita, ma non con un’altra persona. Sto bene da sola. Vivrò diversamente rispetto a prima, perché qualcosa il carcere me l’ha insegnato”. Che cosa? “A non fidarmi di nessuno”. Erri De Luca al Salone del Libro, “La scrittura è un’esperienza sanitaria” libreriamo.it, 11 maggio 2018 Dare la possibilità di conoscere prima di tutto se stessi, mettere a fuoco dei dettagli della propria vita che sarebbero rimasti fuori fuoco. È questo il potere della scrittura secondo Erri De Luca, uno degli autori protagonisti del Premio Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere”, il progetto nato per dare una possibilità di riscatto ai detenuti attraverso la scrittura. In occasione del Salone del Libro di Torino, sono stati assegnati i premi dell’edizione 2018 del concorso. Ne abbiamo parlato con uno dei giurati protagonisti, lo scrittore Erri De Luca. Come è stata l’esperienza del progetto “Racconti dal carcere”? Sono stato convocato per partecipare a questo progetto con protagonisti dei racconti scritti dai detenuti. L’invito a scrivere ha prodotto un beneficio sanitario in chi scrive. Uno degli scrittori detenuti ha affermato “mettersi a scrivere è stato provare dei sentimenti che non sapevo di avere”. È questo il prodigio della scrittura: dare la possibilità di conoscere prima di tutto se stessi, mettere a fuoco dei dettagli della propria vita che sarebbero rimasti fuori fuoco. Possiamo dire che non solo la lettura, ma anche la scrittura ha un potere terapeutico? Fino a quando non l’affronti la scrittura, la realtà non ti sembrava a bassa definizione: solo scrivendo la realtà diventa ad alta definizione improvvisamente. L’esperienza della scrittura è un’esperienza sanitaria. C’è un racconto o uno degli scrittori partecipanti al progetta che l’hanno particolarmente colpita? Sono scritture che hanno una custodia particolare per i dettagli. Gli scrittori detenuti sanno raccontare dei dettagli che riescono a diventare dei punti di rimbombo che raccolgono l’insieme di questa esperienza. Sono scrittori perché si soffermano su dei particolari per loro importanti e delle scintille d’illuminazione per chi legge. Gabriele Del Grande, nuovo libro e uno speciale ritorno in carcere di Daniele Biella Vita, 11 maggio 2018 In prigione non ci metteva piede da quando era stato messo in isolamento, in Turchia, nell’aprile 2017. Lunedì 7 maggio 2018, Gabriele Del Grande è andato di nuovo dietro le sbarre, nella Casa circondariale di Monza. Per qualche ora, e per fare ciò che più gli riesce bene: raccontare. Il reporter e scrittore nativo di Lucca, che il prossimo 19 maggio compirà 36 anni, ha incontrato la decina di detenuti che compongono la redazione del nascente giornale carcerario “Beyond borders”, promosso in collaborazione con l’associazione Zero Confini (che ha organizzato l’arrivo di Del Grande a Monza) e che troverà distribuzione anche fuori dalle mura, in tutto il territori della provincia di Monza e Brianza, grazie alla testata locale “Il cittadino”. A fianco di Del Grande e della redazione carceraria, oltre ad alcuni educatori e volontari, c’era Vita.it. Che ha potuto documentare passo per passo tre ore di intensi scambi di vedute e narrazioni soprattutto partendo dalla novità degli ultimi giorni, l’uscita del lavoro più impegnativo di Del Grande, le 600 pagine del libro “Dawla - La storia dello Stato islamico raccontata dai suoi disertori” (Mondadori). Un lavoro durato 18 mesi (compresa la prigionia arbitraria in Turchia al confine con la Siria), che realizzato con un crowdfunding molto partecipato: 47.918 euro lordi raccolti in due mesi del 2016, grazie a 1342 sostenitori che in gran parte hanno seguito suoi lavori dedicati soprattutto alle migrazioni forzate, come i libri “Mamadou va a morire” e “Il mare di mezzo”, il docufilm “Io sto con la sposa”, e “Fortress Europe”, il primo blog che per anni ha registrato i numeri e i volti delle persone morte nel Mar Mediterraneo. “Io ho letto tutto quello che hai scritto, ho pronte tante domande”, inizia Massimo, detenuto con pena medio-lunga così come la gran parte delle persone presenti all’incontro con Del Grande. Che con franchezza, ha risposto punto su punto. Anche quando si è trattato di scendere nei dettagli della sua prigionia: “hai avuto paura quando ti hanno messo dentro?”, la domanda. “Mentirei se dicessi di no”, l’inizio della risposta. “Ma poi è prevalsa una strana lucidità, quando la cancellata si è chiusa dietro di me. Fino a pochi momenti priva ritenevo impossibile che sarei finito in prigione, anche perché non stavo facendo nulla di grave se son fare un’intervista per il libro in un ristorante: dopo almeno 5 ore di dialogo con il mio interlocutore, si sono presentati 7-8 agenti in borghese che ci hanno prelevato e messo in un furgone e portato in un centro di detenzione. In quei momenti mi è servito sapere l’arabo, per instaurare un rapporto diretto con molti dei 35 detenuti nel braccio del carcere in cui mio trovavo. Mi sono dovuto adattare, il fattore umano ha superato quello politico, avevo davanti a me anche affiliati di Al Qaeda e paradossalmente il tempo in quella prima prigione mi è servito per continuare a recuperare materiale per “Dawla” (che significa proprio “Stato islamico” in gergo colloquiale, ndr). Poi però mi hanno spostato in isolamento e lì sì che è stata dura: 11 giorni a leggere libri che hanno passato, tra questi il corano e un romanzo inglese tradotto, fare ginnastica, ma anche contare le mattonelle e svitare una vite del letto per scrivere sui muri, ovvero tutto per rimanere lucido e non pensare troppo, anche perché per i primi giorni non mi hanno concesso un avvocato”. Quando si è mosso qualcosa e sono arrivati l’avvocato e il console italiano in Turchia, ha potuto telefonare alla compagna italiana e sentire la voce dei due figli. “Da quel momento ho recuperato energie e ho iniziato per protesta uno sciopero della fame che, nonostante mi privasse del sonno notturno dato che a stomaco vuoto si dorme di meno, è servito come pressione verso le autorità turche così come l’azione diplomatica del governo italiano e - ho saputo in seguito - le tante iniziative di supporto di amici e solidali in Italia”. “Le storie che senti non ti toccano, non ti buttano mai giù?”, arriva la domanda di Francesco, uomo di corporatura enorme e due lauree alle spalle prima di finire nelle grane. “No, ma solo perché riesco a dare un senso a queste storie, ovvero non è un ascolto fine a se stesso, so che andranno a finire in una narrazione e altri le leggeranno”. La conoscenza, lo storytelling che è nel dna dei veri reporter. “Questo libro però è diverso da tutti gli altri, prima ho sempre parlato con le vittime: con “Dawla” mi sono trovato davanti i carnefici, diventati disertori dello Stato islamico ma pur sempre autori di crimini efferati. In questo caso, provando meno empatia e più distacco, in realtà sono riuscito a lavorare con la giusta freddezza, dato che lo scopo del libro non è capire le scelte di queste persone ma piuttosto raccontare dall’interno, spiegare i meccanismi come fa per esempio un infiltrato nella Mafia”. Questa volta il soggetto è Isis, i “tagliagole”, persone “che hanno avuto un consenso enorme nonostante le atrocità che hanno commesso, che hanno attratto decine di migliaia di persone a diventare combattenti”. A questo punto Del grande lancia un messaggio chiaro: “sarebbe più semplice dire che loro sono tutti psicopatici, purtroppo la realtà è più complessa, prevalgono meccanismi di potere e assoggettamento che portano persone all’apparenza normali a commettere criminalità atroci. In questi mesi di lavoro il parallelo che più mi è venuto in mente e quello di Marzabotto, strage nazista in cui i tedeschi raccolsero donne, bambini, anziani, preti, contadini e li mitragliarono: come è possibile che un soldato di 20 anni possa fare questo, come è possibile che un affiliato allo Stato islamico arrivi a sgozzare qualcuno? Ho seguito questo filo conduttore e sono arrivato alla banalità del male delle storie di vita delle persone”. La curiosità a questo punto prende il sopravvento e la richiesta a Del Grande è univoca: dire qualcosa sui protagonisti del libro. Ovvero 70 figure, che ruotano però intorno a quattro personaggi principali - ripresi nell’immagine metaforica della copertina, dove una persona che protesta in modo pacifico “lanciando” note musicali, viene affrontata da tre figure diverse tra loro ma unite nell’uso della violenza, ovvero un esponente del regime siriano, uno dei gruppi ribelli e uno di Dawla, appunto. Protagonisti molto diversi tra loro, che il reporter italiano ha conosciuto da vicino durante 6 mesi passati tra Iraq, Turchia ed Europa raccogliendo 200 ore di registrazione che sono poi diventate 2mila pagine di battitura. “Ridurre alle 600 pagine finali del libro è stato molto faticoso, un lavoro quasi scientifico di incrocio delle fonti e narrazione che mi ha occupato un anno intero quasi completamente rinchiuso nella stanza di lavoro”. Il libro si apre con la storia a tinte forti di un giovane militante politico torturato negli anni prima della guerra dalla polizia segreta dell’attuale presidente siriano Bashar Al-Asad (noto in Italia più come Assad), nel famigerato carcere di massima sicurezza di Saydnaya, aperto dopo che era stato chiuso quello di Tadmur l’altro luogo infernale per migliaia di oppositori politici dagli anni ‘80 in poi in cui era al governo il predecessore di Assad, ovvero suo padre. “Sono racconti a tratti insostenibili per la crudeltà, ma servono per capire il contesto in cui è nato l’estremismo della Stato islamico e la radicalizzazione di molte persone ‘normali’ che per contrastare l’efferatezza del regime hanno aderito a un’ideologia altrettanto sanguinaria quale quella di Dawla, appunto”. Tramite la drammatica storia del giovane militante chi legge conosce “da dentro” la storia di Al Qaeda e Isis, mentre gli altri tre personaggi sono veri e propri ritratti di tre tipi di carnefici, raccontati ancor più nel dettaglio rispetto al primo. E sono: un siriano che davanti alla corruzione dei chi riteneva essere i potenziali liberatori del suo paese, ovvero i ribelli, passa a guidare addirittura la polizia morale di Isis; un giordano, esperto hacker, che sposa la causa dello Stato islamico ma poi viene creduto una spia e finisce nelle sue famigerate prigioni; un iracheno a caccia di soldi e avventure guerrafondaie che iniziando come infiltrato in Al Qaeda per il regime di Assad finirà poi nel cuore dei servizi segreti dello Sato islamico, con un ruolo principale nell’eliminazione degli oppositori politici interni ma anche nei primi attentati in Europa. “Entri in queste storie, e capisci quando può scendere nell’oscurità l’essere umano”, commenta uno dei detenuti più giovani presenti all’incontro, che ha iniziato a leggere il libro prima dell’arrivo di Del Grande come ospite in carcere. È proprio così, ed è per questo che “Dawla” merita poche anticipazioni e un’attenta, profonda lettura. “Vorremmo riaverti presto fra noi”, e il congedo a Del Grande dei reclusi monzesi. Invito accettato, al termine dell’ultima, impegnativa domanda che gli è stata rivolta: “come vedi il futuro della Siria?”. Risposta netta: “Le potenze internazionali, comunque sia, puntano a lasciare Assad dov’è perché l’alternativa sarebbe lasciare fuori controllo una delle zone più calde del mondo. Stiamo parlando in particolare di Russia e Stati Uniti che sono contrapposte tra loro e che fin da subito sono stati attori di questa guerra che dura da sette anni e verso la quale ogni potenza ha propri interessi, nessuno dei quali umanitari. La Russia per le sue basi militari e le risorse del sottosuolo, gli Usa per arginare le mire dell’Iran, Stato che ha forte influenza in Siria ed è considerato nemico a tutti gli effetti”. In mezzo, “viene lasciata a se stessa la popolazione civile che piange le 500 mila persone morte e che coverà in ogni caso risentimento verso chi governa per i prossimi decenni, i bambini che hanno vissuto tre anni sotto l’occupazione dello Stato islamico a Raqqa e che sono imbevuti di fanatismo”. Un mondo alla rovescia, con cui tutti dovremo fare i conti nel prossimo futuro. “Servono ponti, non muri”, Meridiano d’Europa si conclude e rilancia di Camilla Cupelli La Stampa, 11 maggio 2018 Il progetto ha portato 300 ragazzi italiani in Serbia per discutere sul senso e il futuro dell’Unione. Ora si pensa all’edizione 2019. “Sono stati cinque giorni intensi, adesso la palla passa a voi. Tornate a casa, nei vostri territori, e raccontate quest’esperienza. Raccontate cosa significhi essere cittadini europei”. Diego Montemagno, presidente di Acmos, chiude così i cinque giorni del progetto del Meridiano d’Europa a Belgrado, iniziato il 6 maggio. Quasi trecento ragazzi provenienti da tutta Italia hanno incontrato, in Serbia, istituzioni e rappresentanti della società civile per interrogarsi sul ruolo dell’Unione Europea nella vita dei giovani contemporanei, dentro e fuori dall’Ue. Hanno discusso con realtà giovanili, ascoltato le parole dell’Osce, dell’Ambasciata italiana in Serbia e si sono costruiti un’idea di Europa inclusiva. Quella dei ponti, non dei muri, come hanno spiegato grazie alle parole di Ivo Andric. Il 9 maggio, il giorno della Festa dell’Europa. Ma proprio mercoledì maggio, in Italia, era anche l’anniversario della morte di Peppino Impastato: “Come lui, che ha combattuto contro la sua famiglia, la società, provando a proporre un’idea diversa, anche voi dovete oggi provare a cambiare le cose nel vostro piccolo, nelle vostre città - ha dichiarato Giulia Bartolini, una delle organizzatrici del progetto, rivolgendosi agli studenti - Ogni giorno si può fare qualcosa per cambiare”. Il progetto si chiude il 10 maggio, ma è già in preparazione l’edizione per il prossimo anno. Organizzata dalla rete We Care, l’iniziativa ha coinvolto ragazzi da Torino, Verona, Novara, Verbania, Firenze, Bologna, Trieste, Olbia e Foligno. La Commissione Europea e il Miur sono partner del progetto, che ha anche il sostegno di Regione Toscana, Consiglio Regionale del Piemonte, Città di Ivrea e Città di Nichelino. Il Consiglio Regionale piemontese, in particolare, ha inviato tre consiglieri a seguire e partecipare ai lavori a Belgrado: Domenico Rossi (Pd), Gianna Gancia (Lega) e Carla Chiapello (Moderati). La Stampa è media partner da due anni. Quante armi nucleari ci sono nel mondo? di Paolo Magliocco La Stampa, 11 maggio 2018 Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di uscire dal patto sul nucleare iraniano firmato nel 2015 dicendo di avere “la prova definitiva che la promessa (dell’Iran) di non sviluppare le armi atomiche era una bugia”. Secondo l’ultimo rapporto della Federation of American Scientist i Paesi del mondo che possiedono armi atomiche sono soltanto nove per un totale di 14.200 testate nucleari. Gli Stati dotati di armi nucleari sono, in ordine di armi possedute, Stati Uniti e Russia, Francia, Cina, Gran Bretagna, Pakistan, India, Israele e Corea del Nord. Usa e Russia da soli posseggono 13.000 ordigni, pari a circa il 93% del totale. Israele non ha mai ammesso ufficialmente il possesso di armi atomiche. La Corea del Nord è stato l’ultimo Paese a sviluppare armi atomiche e poco si sa sulla sua capacità di usarle. Gli arsenali nucleari si sono ridotti a circa un quinto rispetto al livello massimo che avevano raggiunto a metà degli anni Ottanta (circa 70.000 ordigni). Il rapporto segnala che Stati Uniti e Russia e Gran Bretagna stanno ancora diminuendo il numero di ordigni. Cina, Pakistan, India e Corea del Nord lo stanno aumentando. Il Bulletin of Nuclear Scientist indica che le armi ancora negli arsenali militari sarebbero meno, circa 9000, dislocate in 14 Paesi del mondo e anche in Italia, dove sono presenti testate statunitensi come pure in Belgio, Olanda, Germania e Turchia. Nel 1968 venne adottato dalle Nazioni Unite il Trattato di non proliferazione nucleare, entrato in vigore nel 1970, sottoscritto quell’anno da Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna e da altri 40 Stati. Oggi è stato sottoscritto da 190 Paesi. Per molti anni il Trattato non è riuscito a evitare l’aumento del numero di armi nucleari e del numero di Paesi che le possiedono. Nel 2017 120 Paesi hanno votato alle Nazioni Unite il Trattato per la proibizione delle armi nucleari che prevede l’impegno a non sviluppare, testare, produrre, acquistare, possedere o accumulare armi nucleari. Il trattato entrerà in vigore quando sarà firmato e ratificato da 50 Stati. Fino ad oggi è stato firmato da 58 Stati e ratificato da 9. Nessuno dei 9 Paesi in possesso di ordigni nucleari lo ha ancora firmato o ratificato e neppure l’Italia lo ha fatto. L’ira antisistema ostile alla libertà di Benedetto Vecchi Il Manifesto, 11 maggio 2018 Salone internazionale del Libro di Torino. Intervista con Yascha Mounk autore del volume “Popolo vs Democrazia”. Una radiografia della crisi dei sistemi politici liberali e della crescente disaffezione alla politica. Lo studioso di origine tedesca presenterà oggi il suo saggio alla kermesse editoriale di Torino. Tagliente nei giudizi, chiaro nell’esporre il suo punto di vista e capace di offrire una visione semplice di un mondo tuttavia complesso. Yascha Mounk ha dalla sua anche la giovine età che lo porta a disattendere convenzioni e modi d’essere dell’Accademia universitaria. Nel suo primo libro (Stranger in My Own Country. A Jewish Family in Modern Germany, Farrar Straus and Giroux) rende, ad esempio, pubblico il malessere di un giovane di origine ebraica che si sente straniero nel paese, la Germania, dove è nato. Un memoir dove il tema dell’identità è affrontato con disincanto, rifiutando tuttavia la facile strada della rivendicazione di una appartenenza senza tempo consapevole del fatto che nel paese di nascita non c’è stata mai una rielaborazione sul nazismo, ma solo una consolatoria e autoassolutoria condanna del Terzo Reich. Oppure hanno destato sospetto e discussione le tesi contenute nel suo libro The Age of Responsibility. Luck, Choice and the Welfare State (Harvard University Press) dove sostiene che la responsabilità, termine frequentemente usato da esponenti politici conservatori, deve diventare un concetto chiave nel lessico politico della sinistra dato che la responsabilità verso gli altri è stata la leva fondamentale nella costruzione del welfare state. Mounk, che insegna negli Stati Uniti, si è schierato contro la candidatura di Donald Trump, sottolineando però che il suo populismo è tutto meno che un fenomeno politico e sociale folkloristico. Il populismo, per Mounk, va preso sul serio perché costituisce il pericolo maggiore per la democrazia. È questo il tema del suo libro Popolo vs Democrazia (Feltrinelli, pp. 333, euro 18), che sarà presentato oggi al Salone internazionale del libro di Torino (ore 15.30, sala Blu). E questo il tema dal quale ha preso avvio l’intervista avvenuta tra uno un appuntamento di lavoro tra Milano e la città piemontese. Nel suo libro scrive della fine della grande illusione che ha tenuto banco dopo il crollo del Muro di Berlino. Il mondo, questa la retorica dominante, stava entrando in un periodo di benessere, mentre la democrazia sarebbe stato il destino politico per tutti i paesi. Lei sostiene che a quella illusione è subentrata un’era di tensioni, conflitti e dove la democrazia non è il destino manifesto dei sistemi politici…. Allora veniva affermato che la globalizzazione economica avrebbe consentito la crescita del benessere su tutto il pianeta. Superata una soglia di benessere, la democrazia sarebbe stata alla portata di tutti i paesi. La situazione è cambiata con la crisi economica e quando in paesi di recente democratizzazione ci sono state elezioni all’interno di un quadro di forte limitazione di libertà di stampa, di associazione. Mi riferisco a paesi come l’Ungheria, la Polonia. Ci troviamo di fronte a situazioni che potremmo definire di democrazia senza diritti. Qui la parola chiave è il popolo, che deve essere rappresentato nella sua organicità. Il populismo tuttavia non riguarda solo l’Europa. È infatti un fenomeno politico globale. Molti commentatori dipingono il populismo come una cultura politica antisistema. Potrebbe, all’opposto, essere visto come una ciambella di salvataggio per sistemi politici in deficit di legittimazione e in crisi di rappresentanza…. Il populismo non è certo un fenomeno unitario, eguale sempre a se stesso. Podemos è cosa diversa dalle formazioni populiste dell’Europa del Nord. Ma tutti i populisti sono anti-establishment. O come dice lei antisistema. Non penso vada cercata una coerenza da parte dei partiti populisti. Spesso esponenti politici populisti esprimono posizioni antitetiche l’una con l’altro nell’arco della stessa giornata. Quel che rimane costante è la critica all’operato del governo perché corrotto; perché trama contro gli interessi del popolo. La critica riguarda anche i media, colpevoli di falsificare la rappresentazione della realtà. Il governo, i media e gli altri partiti politici sono cioè responsabili di soprusi, ingiustizie sistematiche. Non penso dunque che il populismo funzioni come ciambella di salvataggio. Ho seguito con attenzione la diffusione di parole d’ordine populiste in Germania: la dominante era il terrore che il primato economico tedesco potesse essere messo in discussione. Il populismo era cioè declinato dentro una cornice nazionalista. In Italia, invece il declassamento del ceto medio, la crisi economica, l’impoverimento della popolazione è stato l’ordine del discorso che ha trovato un forte collante nella denuncia della corruzione, dei privilegi della casta. Qui i sentimenti dominanti sono stati l’ira cieca contro le ingiustizie, il risentimento. Inizialmente, Beppe Grillo proponeva una idea di comunità tollerante, aperta, giovane: cosa diversa dall’establishment vecchio, egoista, corrotto e avido rappresentato dai vecchi partiti. Ma il movimento dei 5 Stelle ha poi veicolato una visione chiusa della comunità, alimentando una logica complottista in base alla quale tutti gli altri politici erano in combutta per annientare la voglia di libertà, di pulizia, di tutela dei beni comuni espressi dal popolo. Nel suo libro, lei si sofferma sul fatto che la democrazia corre il rischio di rimanere ostaggio delle élite. Cita il caso del denaro necessario per essere eletti al Congresso e al Senato degli Usa…. Per essere eletti al Congresso o al Senato statunitense servono milioni di dollari. Per questo le élite sono avvantaggiate. Spesso i candidati fanno già parte di circoli economici e finanziari che possono favorire il finanziamento della campagna elettorale. Fanno parte dell’élite anche i lobbisti È costume negli Usa che grandi imprese o grandi azionisti finanziano candidati in maniera tale da condizionare il loro operato una volta eletti. Anche qui i rischi della democrazia sono alti. Se invece guardiamo a paesi non democratici, scopriamo che le leadership funzionano come caste separata dal resto della società e che riproducono se stessi secondo logiche familiste. La depoliticizzazione è un altro dei temi che lei affronta. La democrazia più che far crescere l’attenzione verso la gestione della cosa pubblica sembra favorire la depoliticizzazione. È così? In tutto i paesi democratici c’è una caduta nella partecipazione alle elezioni. Spesso il numero dei votanti costituisce una minoranza della popolazione. I partiti perdono iscritti. Tutti i tentativi di rivitalizzare i partiti non funzionano come dovrebbero. La cosiddetta società civile privilegia gli affari privati, la logica amicale del piccolo gruppo che si incontra per condividere ansie e speranze che rimangono private. Il populismo non ferma la depoliticizzazione. Semmai l’accelera quando sostiene che i politici fanno parte di una casta che tutela solo i loro interessi. Lei sostiene che i social media sono il vettore di propagazione del populismo che proponeva un futuro roseo. Eppure i social media prospettano più che un futuro un eterno presente…. I social media sono stati presentati dai tecno-ottimisti come il mezzo, lo strumento per una democratizzazione radicale dei media. Questo fino al 2010, 2011. Ci sono state anche dei tumulti, rivolte qualificate come twitter revolution. Poi è subentrato un pessimismo radicale sulle capacità liberatoria dei social media. Sono stati considerati una sorta di potente strumento di manipolazione dell’opinione pubblica che per di più istupidiva le persone. Certo i social media mettono in discussione il potere dei media tradizionali, ma rispondono comunque alla stesso logica economica. Per quanto riguarda il populismo, i social media sono stati un vettore per la sua diffusione. Da questo punto di vista il Movimento 5 stelle è stato un case study interessante per comprendere il potere di un nuovo media che fa della critica ai vecchi media il proprio marchio di origine. Tra mafia e scommesse, perché Malta è la nuova isola del tesoro di Cecilia Anesi e Matteo Civillini La Repubblica, 11 maggio 2018 È il centro con la più alta concentrazione di operatori del gioco d’azzardo d’Europa fiscalmente domiciliati e garantiscono al governo il 12 per cento del Pil. Se soltanto i luoghi in cui si affollano avessero un indirizzo, dei tavoli verdi su cui depositare delle fiches, una leva da afferrare per far girare una slot, Malta conterebbe più giocatori d’azzardo che abitanti. Perché sull’isola, ogni giorno, ventiquattro ore su ventiquattro, 300 casinò virtuali macinano centinaia di migliaia di giocate. A gestirli sono società di gioco a distanza, con clienti lontani. “Gambling”, “Betting” on line. Un business che ha fatto da volano all’economia di Malta. Cercato e voluto a cominciare dal 2004, quando il governo guidato dall’allora primo ministro nazionalista Lawrence Gonzi introdusse la prima legge sul gioco online nell’Unione Europea. Oggi, quattordici anni dopo, Malta ha la più alta concentrazione di operatori del gioco d’azzardo d’Europa fiscalmente domiciliati sull’isola, cui garantiscono il 12 per cento del PIL. La crescita esponenziale del “gambling” on line aveva incuriosito Daphne Caruana Galizia, la giornalista investigativa uccisa con un’autobomba il 16 ottobre scorso. Il “Daphne Project” (consorzio di 18 organizzazioni giornalistiche di 15 diversi Paesi, e di cui Irpi e Repubblica fanno parte) ha lavorato per cinque mesi per completare anche questo capitolo del suo lavoro. Traendone una conclusione. Che quella del gambling maltese è la storia di un successo economico pagato a caro prezzo: infiltrazioni criminali, riciclaggio e una preoccupante commistione tra organismi di controllo e controllati indicano che l’isola continua a permettere un uso spregiudicato delle licenze per questo tipo di business. Del resto, sono anni ormai che le Direzioni Distrettuali Antimafia d’Italia documentano come le mafie investano e riciclino milioni di euro attraverso il gioco d’azzardo online. A Malta, accade addirittura che le licenze di gioco passino di mano da un’organizzazione criminale a un’altra. Dalla ‘Ndrangheta a Cosa Nostra. Come fossero un carico di cocaina. E per giunta “assicurato”. Perché anche nell’ipotesi in cui le autorità maltesi reagiscano sospendendo una licenza, la soluzione è già brevettata. Ridisegnare le architetture societarie dei beneficiari delle licenze attraverso società fiduciarie gestite da ex funzionari dell’Autorità di controllo del gioco d’azzardo online, capaci dunque di mettere a posto le cose. Colletti bianchi fidati, a cui i mafiosi si affidano per aprire società maltesi con patrimonio e identità dei beneficiari nascosti in qualche paradiso fiscale dei Caraibi. Gli stessi colletti bianchi che poi, per quelle società, otterranno le licenze di gioco da usare in tutta Europa. il nipote di Nitto Santapaola sul traghetto per Malta - Uno stretto braccio di mare separa La Valletta, capitale di Malta, e la nostra Pozzallo. La cittadina siciliana è nota come uno dei punti di approdo principali delle navi cariche di migranti salvati lungo la rotta che attraversa il Mediterraneo meridionale. Ma, in direzione opposta, dal suo porto partono anche i traghetti che in un’ora e mezza raggiungono Malta. Una rotta frequentata anche dal nipote del boss catanese Nitto Santapaola, Vincenzo ‘Enzo’ Romeo, che nell’aprile del 2015 si è imbarcato su uno di quei traghetti con 38mila euro in contanti. Per gli inquirenti italiani, Vincenzo Romeo è un ‘diamante grezzo’ di mafia. Padrino di una nuova leva di capi: istruito, con uno sguardo internazionale e l’intuito per gli affari più redditizi. In quel 2015, Romeo sembra voler puntare tutte le sue fiches sul gioco d’azzardo online. E, per questo, attraversa il Mediterraneo. A Malta può contare sul messinese Massimo Laganà, che lì organizza importanti eventi di poker nel casinò di Portomaso e collabora con “Planetwin365”, uno tra i marchi di betting online più noti. A Malta il passato in chiaroscuro Laganà può lasciarselo alle spalle. In Italia era stato indagato per gioco online abusivo e per avere facilitato il clan dei Casalesi con la distribuzione di slot machines, ma ne è poi uscito pulito. Per Romeo, l’esperto di Poker ha la giusta esperienza e gli affida quindi un compito importante: aprire molteplici siti online, senza che vengano registrati con l’Autorità dei Monopoli di Stato, cui potersi agganciare dai computer di centri scommesse aperti tra Catania e Messina. Un sistema capace di generare profitti milionari, rigorosamente in contanti e da portare poi a Malta. In teoria, le regole per evitare gli abusi esistono. Chi ottiene una licenza a Malta, come in qualsiasi altro paese europeo, può aprire sale scommesse in tutta l’Unione, a patto che i clienti registrino un proprio profilo in cui caricare fondi con la carta di credito, e giochino direttamente sul sito connesso ai server maltesi. In modo tale che le transazioni possano essere tracciate dagli organismi di controllo. E tuttavia, in Italia, le cose vanno diversamente. La maggior parte dei giocatori d’azzardo entrano in un punto vendita dove pagano in contanti per scommettere online. Giocate che, a questo punto, non transitano più da un account individuale, ma da una cassa unica che rende le scommesse anonime. Una pratica del tutto illegale per gli operatori non riconosciuti dall’Aams (i monopoli italiani), non fosse altro perché permette anche di creare enormi fondi neri. I contanti delle giocate raccolti nella sala scommesse vengono quindi affidati a degli spalloni, alcune volte dei veri e propri broker finanziari, che si occupano di trasferirli fisicamente in qualche istituto bancario “distratto”. In Italia, a Malta o in Svizzera. In altri casi, come scoperto recentemente dalla Procura di Palermo, il denaro viene “caricato” (versato) nell’account di un giocatore connivente o di un gestore di un centro scommesse affiliato ai clan, che, in questo modo, diventa la cassaforte per il denaro destinato alle giocate on line e per i proventi di attività illecite tipiche delle mafie. Insomma, una sorta di “libretto al portatore” 2.0 per i soldi delle mafie. È quello che avrebbe voluto continuare a fare Vincenzo Romeo, se solo non fosse stato fermato. Sia lui che il suo braccio destro Laganà sono stati infatti arrestati lo scorso luglio dalla Procura di Messina per associazione mafiosa e raccolta di scommesse abusive. Accuse, come ha detto a Repubblica il suo avvocato che “Laganà sarà in grado di dimostrare infondate di fronte a un tribunale”. Romeo non è stato il solo a coltivare il business del gioco d’azzardo sull’asse Malta-Sicilia. Lo scorso 26 gennaio la Procura di Palermo conclude infatti un’indagine che rivela per l’ennesima volta l’infiltrazione delle mafie italiane nell’industria del gioco maltese. Tra gli arrestati c’è anche Benedetto Bacchi, accusato di aver stretto un’alleanza con Cosa Nostra palermitana per garantirsi il monopolio delle sue piattaforme di gioco d’azzardo online liberandosi di ogni forma di concorrenza. Grazie a Mario Gennaro, un bookmaker che all’epoca operava per conto della ‘ndrangheta di Reggio Calabria, Bacchi ottiene infatti in prestito delle licenze maltesi con cui offrire gioco online a Palermo. Arriva a raccogliere oltre 15 milioni al mese di euro in giocate. In cambio, stando all’accusa, i suoi punti scommesse diventano una cassaforte per i soldi dei clan palermitani. La Dda descrive il sistema come una sorta di “bancomat” che ha permesso ai boss di Cosa Nostra di avere accesso ad un “continuo flusso di denaro” grazie a prelievi in contante che avvenivano puntualmente per qualsiasi necessità delle cosche. “Prova a prendermi” - Le continue indagini sugli interessi mafiosi nel gioco online a Malta hanno macchiato profondamente la reputazione dell’intera industria, anche di quella che opera in una cornice di piena legalità. Non a caso, una fonte del settore ha spiegato a IRPI come alcune grosse aziende di gambling abbiano dato un ultimatum alla Malta Gaming Authority (MGA), l’Agenzia di controllo maltese, pretendendo un intervento. In mancanza del quale, avrebbero lasciato l’isola. Per questo, spinta dal timore di perdere clienti importanti, l’MGA si è impegnata a un’analisi approfondita dei suoi concessionari italiani prendendo in breve tempo alcuni provvedimenti. Il più evidente dei quali è stata la revoca della licenza di “Leaderbet”, marchio di scommesse diffuso in tutta Italia e citato anche nell’indagine palermitana. L’MGA non ha motivato il provvedimento di revoca. Ma, stando agli atti giudiziari, a Palermo il marchio “Leaderbet” sarebbe stato sponsorizzato dalle famiglie mafiose di Partinico e Resuttana. Anche se la vera spinta imprenditoriale sarebbe arrivata da Mazara del Vallo, dove si gestiva la diffusione del brand. Per altro, proprio qui, sulla costa trapanese, gli investigatori hanno scoperto che i milioni incassati con il gioco online avrebbero addirittura finanziato la latitanza di Matteo Messina Denaro. Ed è per questo che i carabinieri arrestano Carlo Cattaneo, imprenditore in erba del gioco d’azzardo di Castelvetrano, che faceva la spola tra la Sicilia e Malta. Controllava decine di centri scommesse in tutta la Sicilia occidentale, che assicuravano guadagni di centinaia di migliaia di euro alla settimana. Un po’ per lui, un po’ per Messina Denaro e famiglia. C’è di più. Cattaneo avrebbe fatto il doppio gioco. Ufficialmente, le sue agenzie di scommesse avevano l’insegna di “Betaland”, un noto marchio registrato a Malta e autorizzato a operare in Italia, che non ha alcun legame con l’inchiesta e che ha interrotto ogni rapporto con Cattaneo. Ma, in realtà, le piattaforme di Cattaneo nascondevano un banner invisibile ma noto a gestori conniventi di centri scommesse. Un banner che, cliccato, consentiva di accedere al sito “Bet17Nero”, il vero brand di Cattaneo. Si offriva così un servizio illecito, ma molto apprezzato dai giocatori. Garantiva quote con vincite più alte, capaci di sbaragliare qualsiasi concorrenza. E lo faceva grazie alla possibilità di evadere il fisco italiano. Anche “Bet17Nero” porta a Malta. I dati di registrazione dei domini web svelano infatti che dietro a questo marchio c’è la “LB Group”, società di Gzira, quartier generale del gioco d’azzardo di Malta, che controlla anche il marchio Leaderbet. Leaderbet ha dichiarato a La Repubblica che “Cattaneo non è nulla di più che un cliente comune. Con contratti standard. Che ha operato con LB Group solo per un limitatissimo periodo temporale e non ha mai destato sospetti per operazioni anomale”. È un fatto che la licenza maltese di Leaderbet sia stata ritirata dalla MGA, ma che Leaderbet continui a raccogliere scommesse nei punti vendita italiani e i suoi operatori proseguano ad operare dall’ufficio di Gzira. E su questo, sempre a Repubblica, Leaderbet ha sostenuto che “l’azienda ha acquisito una ulteriore licenza, e non ha mai interrotto la propria attività.” Irpi ha così scoperto che in Italia Leaderbet opera grazie ad una scappatoia. Tiene in vita i propri servizi dichiarando sul proprio sito di usare la licenza austriaca di un’altra azienda di giochi online, la Tipexbet. Quel che sorprende però è che a Repubblica Tipexbet dichiara di non avere mai autorizzato Leaderbet all’uso della propria licenza. Dicono di essersi accorti solo ora che Leaderbet si “appoggiava” alle loro licenze da un mese, e di essere riusciti a rimuoverle dal loro sito con successo oggi pomeriggio. “La legge austriaca non permette a terzi di usare la nostra licenza. Abbiamo proceduto a informare i nostri legali per diffidare Leaderbet e chiedere una sanzione pecuniaria”. Chi debba risponderne rimane un mistero. Dal registro delle imprese maltese risulta che l’amministratore sia un ragusano su cui non esistono informazioni. E l’identità del proprietario di Leaderbet è protetta da una serie di scatole cinesi. Il capitale è infatti detenuto da una holding maltese, che a sua volta fa riferimento a una società di consulenza. Fino al 2016, quel ruolo di fiduciaria era ricoperto dalla “GVM Holding” di David Gonzi, figlio dell’ex primo ministro Lawrence. Proprio colui che nel 2004 diede il là all’industria del gioco d’azzardo online. Del resto, il trust di Gonzi sembra essere stato molto popolare tra gli operatori italiani, compresi i siciliani indagati dalla Procura di Palermo. Per il suo servizio prestato anche a Mario Gennaro, il bookmaker della ‘Ndrangheta poi diventato collaboratore di giustizia, David Gonzi finì iscritto al registro degli indagati dell’Antimafia di Reggio Calabria. Ma la sua posizione è stata poi archiviata per insufficienza di prove. Un ruolo chiave quello dei trust maltesi che è proprio Gennaro a raccontare ai pm. “Ci sono delle società di consulenza - dice a verbale - che se tu ti vuoi, diciamo ipoteticamente, nascondere, quindi non fare apparire la vera proprietà, loro si prestano. Per esempio, la Unit Group era appunto la nostra società, le risulta che il proprietario della Unit Group è la Star Games - dice al pm, continuando la spiegazione. “E chi è Star Games? Il proprietario di Star Game è GVM, che è la fiduciaria, chi è dietro GVM non me lo dicono”. David Gonzi ha dichiarato a Repubblica di “non essersi mai incontrato o aver parlato con Mario Gennaro” e che “dal Dicembre 2015 la GVM Holdings ha cessato la propria attività”. Dalla MGA alla Mafia - L’avvocato maltese Anthony ‘Tony’ Axisa è uno dei pionieri del gaming a Malta. Oggi è un affermato consulente per decine di società, ma fino al 2006 era uno dei controllori dell’MGA. Fu addirittura lui a disegnare le normative nazionali per il gioco online: un ruolo di primissimo piano che gli ha permesso di acquisire una perfetta conoscenza del settore e preziosi contatti da mettere a disposizione dei propri clienti. Axisa ha aperto dozzine di società di gambling e avviato vari marchi, tra cui Bet1128, che stando alle indagini della DDA di Catanzaro sarebbe riconducibile alla criminalità organizzata. A guidare la società - scrivono i pm - è Francesco Martiradonna, figlio di “Vitino l’Enel”, un barese già condannato per associazione mafiosa. Martiradonna - arrestato a maggio 2017 - è accusato di aver stretto un patto commerciale con il potente clan Arena di Isola di Capo Rizzuto, mettendo di fatto a disposizione il suo marchio Bet1128. Nel 2009, la Bet1128 viene trasferita in fretta e furia da Londra a Gzira, dopo che le autorità britanniche avevano risposto positivamente a una richiesta di sequestro e di sospensione delle licenze a seguito di un’indagine dell’antimafia barese. A Malta, il marchio finisce nella mani di una azienda aperta per l’occasione, Centurionbet, amministrata da Tony Axisa e controllata da società di comodo con sede in paradisi fiscali nei Caraibi. Il nome di Martiradonna è scomparso. Ma le conversazioni intercettate dalla Guardia di Finanza di Crotone, guidata dal Colonnello Emilio Fiora, svelano che Martiradonna il brand Bet1128 non lo ha mai abbandonato. Sarebbe stato lui, infatti, il burattinaio. Gestiva i contatti a Malta. Raccoglieva gli incassi in contanti e viaggiava in lungo e il largo per l’Italia e il mondo, America Latina compresa, a stringere nuovi accordi commerciali. Inclusi quelli con il clan Arena. L’avvocato di Martiradonna ha detto a Repubblica che il suo assistito “chiarirà la propria posizione in sede giudiziaria”. La misura di Catanzaro dipinge un quadro di un’imprenditoria espressione e strumento di interessi mafiosi. Il boss Pasquale Arena avrebbe infatti imposto i termini di gioco della Bet1128 in centri scommesse e bar del territorio di riferimento, in cambio di una percentuale sui guadagni. A giugno 2017, un mese dopo gli arresti, la Malta Gaming Authority sospende tutte le licenze concesse alla Centurionbet. Le autorità maltesi non rispondono però alla richiesta di sequestro preventivo avanzata dal Tribunale di Catanzaro, nonostante il timore che il patrimonio dell’azienda potesse venire spostato offshore. La mancanza di collaborazione manda su tutte le furie il Procuratore Capo Nicola Gratteri che in un’audizione della Commissione Parlamentare Antimafia dichiara: “Ho più facilità a collaborare con la Colombia e col Perù che con Malta. Se Malta decide di non collaborare con l’Italia, o risponde con sei mesi o un anno di ritardo, l’indagine sarà inutile.” A gennaio di quest’anno è stato richiesto nuovamente il sequestro tramite rogatoria. Dopo una cordiale risposta, i maltesi sono spariti per fare capolino nuovamente solo quando Repubblica ha contattato la Procura Generale Maltese per un commento. Il Procuratore Generale Peter Grech ha dichiarato di avere proceduto all’esecuzione della misura e di averlo già comunicato alla controparte italiana. In Calabria però il decreto maltese non è ancora arrivato. Alla richiesta di potere vedere il decreto da parte di Repubblica, il procuratore Grech ha risposto picche. Resta quindi incerto su cosa, esattamente, i maltesi abbiano apposto i sigilli. Anche considerato che all’ufficio di Tas-Sliema 11, a Gzira, Centurionbet non c’è piu. “Centurionbet ha fatto le valigie e se ne è andata in tutta fretta lo scorso dicembre”, ha spiegato a IRPI la receptionist dell’edificio che ospitava l’ufficio di Centurionbet. Oggi, al suo posto lavora una start-up norvegese del gioco online. Ma, un piano più in basso, in un ufficio identico e completamente vuoto, seduto all’interno di un box di vetro, c’è una vecchia conoscenza. Si tratta di un ex manager di Bet1128, e uomo fidato di Francesco Martiradonna, la mente dietro Centurionbet. Dal gioco d’azzardo si è lanciato in una nuova avventura: “Ivy Net Ltd”, un’azienda che offre sistemi di pagamento in criptovalute. Un rappresentante di Ivy Net raggiunto da Repubblica ha negato alcuna connessione con Centurionbet, dichiarando che l’attuale manager è stato scelto per le sue competenze e che è un “professionista serio e persona onesta”. Ivy Net dichiara anche di avere scelto quell’ufficio per puro caso, ma stava cercando in quella zona, a Gzira. Non è una coincidenza. Il quartiere sta infatti diventando il quartier generale delle criptovalute, dopo avere ospitato per anni il gambling. Come accaduto per il gioco online più di un decennio fa, Malta ora si sta proponendo come la prima capitale al mondo delle monete virtuali. L’attuale primo ministro laburista Joseph Muscat le ha definite “il futuro” e sta spingendo affinché nel paese venga introdotta la prima normativa al mondo del settore. Quella delle criptovalute è ancora un’industria indecifrabile, tra grosse potenzialità e timori di illegalità diffusa. Per questo, diversi paesi se ne tengono alla larga. Muscat è comunque pronto a scommetterci. “È come navigare in acque inesplorate, dove non abbiamo una mappa da seguire. Ma cammineremo, impareremo e saremo in testa,” ha dichiarato il primo ministro nel marzo del 2018. “Anche se ci saranno degli ostacoli lungo la strada, saremo i pionieri del mondo. La nostra direzione è chiara.” Un decreto legge è attualmente in discussione nel Parlamento di La Valletta. Se approvato, il compito di regolamentare l’industria delle monete virtuali ricadrà sulla Malta Financial Services Authority (MFSA), l’autorità finanziaria del paese. Alla sua guida a quel punto ci sarà Joseph Cuschieri, fino a poche settimane fa a capo della Malta Gaming Authority. Porte girevoli. A Malta tutto cambia, perché nulla cambi. Amnesty: “Embargo su Israele, usa armi per commettere crimini” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 maggio 2018 La Marcia del Ritorno lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele ha due volti, quelli delle donne, gli uomini, i giovani e i bambini che danzano, cantano e mangiano insieme e quella del fuoco sparato dai cecchini israeliani. Una strage: dal 30 marzo si contano 52 morti, oltre 7mila feriti: contro un tale sproporzionato uso della forza è intervenuta Amnesty International che ha chiesto l’embargo nella vendita di armi a Israele. Ne abbiamo parlato con Magdalena Mughrabi, vice direttrice di Amnesty per Medio Oriente e Nord Africa. Non è la prima volta che chiamate all’embargo verso Israele, stavolta a seguito delle uccisioni e i gravi ferimenti a Gaza. Negli ultimi anni abbiamo fatto diversi appelli di questo tipo per l’utilizzo di lunga durata di forza eccessiva contro palestinesi durante la repressione di manifestazioni e anche durante operazioni militari contro gruppi armati palestinesi, come le ultime tre offensive su Gaza. Stiamo da tempo sollevando il rischio per il trasferimento di armi verso Israele, utilizzate per commettere gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale. Nel rapporto indicate le armi usate da cecchini a Gaza, sia di fabbricazione israeliana che statunitense. Come siete giunti all’identificazione? La nostra ricerca si basa su interviste condotte con medici di Gaza e su foto dei feriti che siamo riusciti a ottenere tramite i nostri referenti in loco: abbiamo identificato due tipi di armi usate della forze di Tel Aviv in risposta alle proteste, una è israeliana e l’altra è statunitense. Quest’ultima è un fucile utilizzato nella caccia. Entrambe causano ferite molto gravi. Il numero di feriti da proiettili è molto alto e questo, insieme al bilancio di morti, suggerisce che le forze israeliane feriscono i manifestanti deliberatamente. Si tratta di proiettili vietati dal diritto internazionale? Non sono armi proibite, ma generalmente sono usate in situazioni di combattimento o di guerra. Qui non ci troviamo di fronte a una situazione di combattimento, ma di fronte a manifestanti che non rappresentano una minaccia. La questione sta nell’utilizzo di forza letale, al di là del tipo di arma usata. Assolutamente. Qui il problema è l’uso di proiettili che non dovrebbero essere usati affatto: secondo il diritto internazionale si è autorizzati a usare forza quando c’è un’imminente minaccia alla vita. La situazione è diversa: le autorità israeliane dicono di usare forza letale contro istigatori alla violenza, accusando Hamas, o quando i manifestanti tentano di infiltrarsi in Israele, ma la nostra ricerca dimostra che vengono colpiti manifestanti che non rappresentano una minaccia o che si trovano ad almeno 400 metri dalla barriera. In alcuni casi è vero che i palestinesi hanno lanciato pietre, ma è difficile pensare che una pietra rappresenti una minaccia diretta alla vita di cecchini e soldati protetti da una barriera, montagne di sabbia e veicoli militari. Altri casi da noi analizzati sono quelli di persone, molte, colpite alla schiena o alle gambe mentre correvano via dalla barriera. Questo uso della forza è illegale, l’ordine dato ai soldati e ai cecchini di aprire il fuoco a manifestanti è illegale. È l’uso della forza a essere illegittimo. Se poi ci si trova di fronte ad armi da caccia o da combattimento che provocano danni gravissimi e ferite che cambiano la vita della persona colpita, l’unica conclusione che ne deriva è che sia una politica deliberata per infliggere danni permanenti. In un contesto di crisi umanitaria strutturale e di un elevato tasso di disoccupazione, quanto una simile politica va a colpire l’intera società gazawi? Questa situazione si aggiunge a un blocco di oltre 10 anni su Gaza. I medici ci dicono che la situazione negli ospedali è orribile, le infrastrutture sono indebolite, i materiali per la ricostruzione non entrano e la Striscia manca ancora di case e strutture. C’è una cronica crisi di elettricità e di carburante, come effetto del blocco israeliano e della divisione interna palestinese. I medici stanno lavorando in una situazione disperata, combattono per affrontare l’alto numero di feriti che richiedono operazioni complicate a causa del tipo di armi usate. Sono due i tipi di ferite: la distruzione di tessuti e ossa e la frammentazione interna. Gli ospedali a Gaza non hanno il necessario equipaggiamento, lavorano in stato di emergenza. Anche un ospedale europeo avrebbe problemi seri ad affrontare un tale numero di feriti e di questa gravità. Molte di queste persone vivranno per mesi e anni in riabilitazione, ma tante altre hanno come sola prospettiva una vita di disabilità. E si tratta per lo più di adolescenti e giovani che vedono cambiare del tutto la propria vita a causa dell’uso di una forza letale illegale e senza ragione. Non c’è assolutamente nessun motivo per sparare. Tale situazione si inserisce in un contesto di conflitto prolungato: da anni bambini e ragazzi seguono terapie psicologiche per riprendersi dai continui conflitti e dal blocco. E se un giovane diviene disabile e incapace a sostenere la famiglia, ha un impatto sull’intera società. Avete ricevuto riscontri al vostro appello? Non ci sono state reazioni da parte degli Stati. Stiamo lanciando una campagna per prendere di mira specifici governi che vendono armi e munizioni allo Stato di Israele, soprattutto Stati uniti, governi europei e Corea del Sud. Vietnam. Critica il governo su Fb, condannato a 4 anni di carcere di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 11 maggio 2018 Bui Hieu Vo affidava a Facebook le sue opinioni politiche. Un errore grave in Vietnam dove il social network collabora con il governo vietnamita per prevenire la comparsa di “contenuti illegali” sulla piattaforma e rimuovere “contenuti falsi in merito a funzionari ed esponenti del governo”. Così l’uomo, 56 anni, è stato condannato da un tribunale della città di Ho Chi Min, dopo un processo durato un solo giorno, a 4 anni e mezzo di reclusione per aver pubblicato lo scorso anno 57 post che esprimevano opposizione al Partito comunista e “incitavano a commettere atti terroristici”. L’uomo era stato arrestato il 17 marzo del 2017. In carcere ci sarebbe anche un secondo internauta, Nguyen Duy Son, sulla base degli stessi capi d’accusa. La lettera a Zuckenberg - Nonostante le riforme economiche e l’apertura al cambiamento sociale il Vietnam il partito comunista ricorre ancora frequentemente alla censura per tenere il controllo del Paese. IL mese scorso alcuni attivisti per i diritti umani e media indipendenti hanno scritto al fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, denunciando la collaborazione del noto social media con le pratiche di soppressione del dissenso del regime comunista di Hanoi. La lettera, pubblicata dal gruppo per i diritti umani Viet Tan, con sede negli Usa, reca la firma di 50 altri gruppi e associazioni, e sostiene che il sistema di rimozione automatica dei contenuti adottato da Facebook rischia di “silenziare gli attivisti per i diritti umani e i cittadini giornalisti nel Vietnam”. La carica dei troll - Lo scorso anno il Vietnam ha inaugurato una unità militare di guerra elettronica forte di 10mila hacker ed esperti informatici, nota come Force 47 e incaricata in primo luogo di dare la caccia alle opinioni “sbagliate” nella Rete. La lettera aperta inviata dalle organizzazioni per i diritti umani a Zuckerberg definisce l’unità un gruppo di “troll di Stato” che sfrutta le community policies di Facebook per silenziare il dissenso e disseminare informazioni false in merito agli attivisti civili. Una portavoce di Facebook ha replicato che “i nostri standard comunitari, che stabiliscono cosa sia e non sia consentito su Facebook, puntano ad incoraggiare l’espressione e a creare una comunità sicura sulla piattaforma”. I precedenti - All’inizio del mese scorso una corte di Hanoi ha condannato a lunghe pene detentive sei attivisti vietnamiti accusati di aver complottato per rovesciare il governo. Il processo, che si è concluso mercoledì 9 maggio, è l’ultimo atto della stretta al dissenso operata dal Partito comunista vietnamita, che nei mesi scorsi ha interessato lo stesso establishment politico ed economico del Paese. Il noto avvocato e attivista dei diritti umani Nguyen Van Dai e cinque altre persone sono stati incriminate per la loro affiliazione al gruppo della “Fratellanza della democrazia”, che stando alla pubblica accusa avrebbe complottato con organizzazioni domestiche e straniere per alterare il sistema politico del Paese e con l’obiettivo di lungo termine di abbattere il sistema di governo a partito unico. Dai, gà agli arresti dalla fine del 2015, è stato condannato a 15 anni di reclusione e cinque di arresti domiciliari, mentre gli altri imputati hanno subito una condanna a 12 anni di reclusione.