L’ordinamento penitenziario è una riforma non rinviabile Il Tempo, 10 maggio 2018 Lettera dell’Unione Camere Penali al Capo dello Stato Mattarella. “Illustrissimo Presidente, Le scriviamo a nome della Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane consapevoli della gravità del momento e della serietà della crisi politica attraversata in questi giorni dal nostro Paese, e della straordinarietà dell’impegno da Lei sostenuto. Siamo, tuttavia, anche certi che in una vera democrazia non vi possano essere questioni riguardanti la tutela dei diritti e dei valori fondamentali della nostra Costituzione che possano essere escluse, in virtù di tali contingenze, dal novero delle iniziative istituzionali degne di immediata attenzione. D’altronde proprio Lei, Signor Presidente, non molti giorni fa, ha ritenuto di dover autorevolmente ricordare lo stallo nel quale la riforma dell’Ordinamento penitenziario, già approvata dal Governo su delega del Parlamento, veniva sostanzialmente a trovarsi. L’avvocatura penale, come Lei sa, si è fatta promotrice di una serie di iniziative politiche e culturali volte a sollecitare le Commissioni parlamentari, i Capigruppo ed i Presidenti di Camera e Senato a porre in essere, nell’ambito delle rispettive competenze, quanto necessario alla promulgazione della legge. Come abbiamo più volte ricordato, si tratta di una legge di riforma fondamentale che non solo risponde, dopo oltre quarant’anni, ad una avvertita necessità di ammodernamento e di adeguamento della legislazione penitenziaria, ma che ha il compito di dare attuazione ai principi costituzionali dell’art. 27 ed a quanto richiestoci dall’Europa, evitando altresì le pesanti sanzioni che seguirebbero ad un mancato adeguamento del nostro sistema carcerario. Si tratta di una normativa che evidentemente avrebbe il pregio di risollevare gli istituti di pena italiani da quella gravissima situazione di sostanziale illegalità, che viene quotidianamente denunciata e che è segnata dalla triste statistica, anche per l’anno in corso, di un suicidio alla settimana. Alla stesura della legge hanno contribuito con passione e competenza, non solo l’avvocatura penale, ma la stessa magistratura, l’accademia e gli operatori del settore, con un risultato che, sebbene ancora a tratti incompleto, costituisce una punta avanzata della legislazione in materia, strutturata in base alla sperimentata convinzione che un maggior numero di misure alternative, correttamente amministrata e gestita, costituisca, oltre che una opportunità di reinserimento per il condannato, un incentivo alla sicurezza di tutti i cittadini in virtù dell’abbattimento dei tassi di recidiva. L’intera avvocatura istituzionale, il Garante nazionale dei detenuti, l’accademia, la magistratura associata, e lo stesso organo di governo autonomo della magistratura da Lei presieduto, ancora un giorno fa attraverso le parole del Vice Presidente Giovanni Legnini, si sono reiteratamente espressi a favore di una sollecita definitiva approvazione e promulgazione della legge. Gli interventi del Ministro Orlando e del Presidente della Camera Roberto Fico, che hanno fatto seguito alla Sua sollecitazione, ci avevano fatto ben sperare in una soluzione oramai prossima, tenuto anche conto del fatto che le formalità imposte dalla Legge Delega risultavano oramai soddisfatte. E, tuttavia, preso atto del persistente silenzio da parte dei rappresentanti delle istituzioni chiamate in causa, non possiamo che ricorrere alla Sua autorevolezza chiedendoLe di voler intervenire, ancora in tempo utile, affinché la riforma dell’Ordinamento penitenziario divenga al più presto Legge dello Stato. Nella speranza di un Suo autorevole intervento Le inviamo deferenti saluti. Il Segretario dell’Unione Camere Penali, Avv. Francesco Petrelli Il Presidente dell’Unione Camere Penali, Avv. Beniamino Migliucci Carceri, una riforma insabbiata di Antonio Ricci ilcorriereapuano.it, 10 maggio 2018 In questi ultimi due mesi si è parlato molto della necessità di un governo stabile ed autorevole in riferimento ai tanti problemi legati all’economia, al lavoro, al ruolo dell’Italia in campo internazionale. In realtà ad essere messi in difficoltà da una politica incapace di mettere al primo posto il bene comune dei cittadini non sono solo settori della società riferibili agli ambiti sopra ricordati, ma anche parti già di per sé poste ai margini della società stessa. A dimostrare la verità di questa affermazione può essere chiamata in causa la vicenda delle riforma carceraria avviata dal ministro Orlando, approvata dal Parlamento nel 2017 ed ora bloccata dal mancato inserimento dei decreti attuativi della riforma nei lavori delle Commissioni speciali parlamentari. Per cercare di smuovere la situazione sono stati lanciati forti appelli: nel mese di aprile, da parte dei componenti degli Stati generali dell’esecuzione penale (che hanno lavorato alla stesura della riforma), poi all’inizio di maggio, da parte dell’Unione Camere Penali, che ha indetto due giorni di astensione dalle udienze degli avvocati penalisti e una manifestazione nazionale. La mancanza di un governo, come si diceva, non aiuta di certo a risolvere il problema, eppure di nuove misure riguardanti l’ordinamento penitenziario c’è assoluto bisogno. Va ricordato, infatti, che la riforma Orlando viene dopo la condanna dell’Italia, nel 2013, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti legati al sovraffollamento delle carceri: la Corte impose al nostro Paese di provvedere entro un anno dalla sentenza. Vale anche la pena di ricordare che l’ultima riforma è datata 1975 e riguardava un contesto sociale che oggi non esiste più. Un esempio per tutti: a quel tempo i detenuti stranieri erano l’1%, oggi sono il 33%. Alla riforma si oppone chi la definisce “salva-ladri” o “svuota-carceri”. Interpretazioni respinte da chi sostiene che essa va esattamente nella direzione opposta: non contiene nessuna “liberatoria” per pericolosi delinquenti, mafiosi o terroristi, non risponde a un criterio indulgenziale, ma elimina piuttosto alcuni automatismi dei benefici e prevede la concessione di misure alternative e permessi premio a seconda della condotta del detenuto. In linea con la Costituzione che bandisce i “trattamenti contrari al senso di umanità” e afferma che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma anche in omaggio al buon senso perché è facile capire che un recluso al quale sia negata la speranza difficilmente potrà uscire dal carcere rieducato. La situazione delle carceri italiane è fotografata dai dati riguardanti i suicidi: nel 2017 sono stati 52, quest’anno sono già 13. Circa dieci suicidi su diecimila detenuti, contro un tasso di 0,51 su diecimila cittadini liberi. Osce: “Imam moderati nelle carceri, per prevenire la radicalizzazione” Nova, 10 maggio 2018 Imam moderati nelle carceri per evitare “pericolose strumentalizzazioni della fede” musulmana e la radicalizzazione. Questo il “modello italiano” condiviso oggi dall’ambasciatore Vinicio Mati, coordinatore della presidenza italiana dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) per il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, alla Conferenza Osce contro il terrorismo al via oggi a Roma. Da circa un anno e mezzo, infatti, l'Italia ha avviato un progetto che prevede, appunto, la presenza di imam moderati nelle carceri dove sono detenuti soggetti ritenuti a rischio radicalizzazione. “Riteniamo importante seguire con attenzione le dinamiche che si sviluppano all'interno delle carceri. Siamo consapevoli della circostanza che il periodo di detenzione possa accelerare un percorso di radicalizzazione o di auto-radicalizzazione già in atto e, pur nella piena e ferma convinzione che il fenomeno del terrorismo non possa essere ricondotto a specifiche nazionalità e religioni, abbiamo deciso di accompagnare la detenzione di individui di fede musulmana con la presenza di ministri di culto moderati, gli imam”, ha detto Mati. Un elemento chiave della lotta al terrorismo è la condivisione delle informazioni. “La natura trasfrontaliera del fenomeno dei “foreign fighter” richiede lo scambio tempestivo di informazioni tra Stati per prevenirne il transito, che è l'elemento chiave per salvare un paese da un attacco”, ha detto l'ambasciatore. Occorre quindi “rovesciare il concetto di sicurezza, passando dalla difese delle informazioni alla loro condivisione”. Se questi combattenti sono cittadini dei paesi Osce, ha aggiunto Mati, “abbiamo il dovere, non solo la necessità, di consegnarli alla giustizia - ed è necessario che questi processi vengano svolti sulla base di prove certe, affidabili e credibili”. Vi è poi la problematica rappresentata dai rapporti con i familiari e i fiancheggiatori di questi combattenti e “un capitolo a parte” riguarda i figli dei combattenti, “bambini che finora hanno conosciuto solo guerra, violenza povertà e paura”. È fondamentale, ha aggiunto Mati, “potenziare lo scambio di informazioni e potenziare i sistemi di riconoscimento e di identificazione dei passeggeri a aerei e di quanti attraversano le frontiere” per prevenire che questi combattenti, invece di rientrare nel luogo di origine, di spostarsi tra Stati per compiere attentati. L'evento di oggi, dedicato al tema “The Reverse Flow of Foreign Terrorist Fighters (Ftfs): Challenges for the Osce Area and Beyond”, è promosso dalla presidenza italiana dell’Osce. La conferenza vede la partecipazione di numerosi esponenti governativi italiani e stranieri, nonché di studiosi ed esperti internazionali, a indicare quanto il progetto sia condiviso e sostenuto internazionalmente. Magistratura, quale modello? di Elio R. Belfiore* Gazzetta del Mezzogiorno, 10 maggio 2018 La recente sentenza della Corte d'Assise di Palermo, che lo scorso 20 aprile ha "chiuso" il primo grado di quel giudizio (protrattosi per cinque anni) giornalisticamente noto come processo sulla trattativa stato-mafia - processo che ha visto la condanna degli ex-vertici del Ros dei Carabinieri per "Violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario" (art. 338 c.p.) - riaccende la polemica intorno al tormentato tema dei rapporti politica-magistratura, da decenni - quanto meno - al centro dell'attenzione del dibattito (non solo penalistico). Riassumo brevemente i punti sui quali in seno alla dottrina si registra una sostanziale convergenza. Vincoli - Lo si afferma da più parti: l'insofferenza maturata nel corso degli anni da ampi settori della magistratura nei confronti dei vincoli posti dalla legalità formale è figlia della crisi della politica. La perdita di credibilità dell'istituzione parlamentare, unitamente al declino dei partiti, ha determinato, a tutti i livelli dell'ordinamento, un'espansione incontrollata del ruolo del magistrato. Da qui la crescente tendenza dei giudici ad orientare le proprie decisioni secondo parametri di giustizia sostanziale, con conseguente ingresso di scelte di valore all'interno dell'attività interpretativa e applicativa delle norme. In una cornice siffatta, non solo appare sempre più irrealistica la visione vetero-illuministica del giudice bocca della legge: diventa altresì ineludibile il confronto del giurista con le valenze politiche dell'attività giurisdizionale. Parlare di "politicità" della funzione giudiziaria non significa però - beninteso - riconoscere l'esistenza di un fantomatico "partito dei giudici" dotato di un preciso programma politico. Significa piuttosto rifiutare quella concezione che pretende di ridurre l'attività interpretativa e applicativa della legge e meccanica formulazione di sillogismi. Rifiuto dal quale discende, inevitabilmente, il rischio di esporre l'esercizio della funzione giudiziaria all'incidenza di valutazioni finalistiche - orientate all'idea di scopo nel diritto - destinate ad intrecciarsi con giudizi di valore di fonte anche extra-normativa. D'altra parte, Fatto del giudicare, con il suo ineliminabile tasso di creatività e politicità, non è l'unico responsabile del declino del primato della lex parliamentaria. Lo stesso legislatore, venendo frequentemente meno al dovere di dare una fisionomia ben definita alle fattispecie che i giudici saranno poi chiamati ad applicare, crea vuoti destinati ad essere occupati da altri poteri, diversi dal Parlamento. La situazione è paradossale. Il potere decisionale del giudice si amplia per effetto del compito affidatogli dalla stessa classe politica: e cioè, il compito di definire discipline appena tratteggiate, eccessivamente indeterminate, mal costruite, contraddittorie. È così che la sciatteria del legislatore, non è chiaro fine a che punto colposa, induce fonti private (ad esempio associazioni di categoria) e fonti pubbliche (autorità garanti e indipendenti, oltre alla stessa magistratura) a colmare l'horror vacui. Si consolida per questa via il diffuso convincimento di un deliberato rifiuto della politica ad assumersi la responsabilità di decisioni coinvolgenti questioni particolarmente spinose, approfittando anche della disponibilità della magistratura a farsi carico di funzioni politicamente supplenti. Se il ceto politico non è in grado di fornire risposte alle crescenti esigenze della società, nessun problema: c'è sempre la magistratura, pronta a porsi come unico interlocutore credibile nei confronti di una opinione pubblica sempre più sfiduciata. Ma la "scelta" di percorrere la scorciatoia giudiziaria non altera soltanto l'equilibrio tra poteri, indispensabile al corretto funzionamento della democrazia. Lo sbilanciamento che si registra per effetto dell'eccessivo protagonismo dei giudici porta con sé un inevitabile incremento dell'incertezza giuridica. Come noto, le tensioni che oggi attraversano il mondo del diritto sono in gran parte originate dalla presenza nelle società contemporanee di un'esasperata frammentazione degli orientamenti culturali. La polifonia di voci riscontrabile ormai in tutti i campi della vita sociale condiziona pesantemente - e non potrebbe essere altrimenti- anche la vita del "diritto vivente": in particolare, il momento interpretativo-ap-plicativo della norma ad opera del giudice. Della discordia spesso regnante patisce le conseguenze - non sempre in modo comprensibile - il cittadino, esposto com'è "ai venti" della imprevedibilità della decisione che il giudice riterrà di adottare: il magistrato sceglierà infatti, fra le diverse possibili "letture" della norma preposta alla soluzione del caso concreto, quella che più rispecchia la propria formazione, i propri gusti, le proprie convinzioni etiche, politiche, religiose e - non può del tutto escludersi - eventuali interessi personali o di categoria. Questa, in estrema sintesi, la situazione su cui concordano gli osservatori quando si tratta di descrivere i rapporti tra politica e giurisdizione. Orbene, le cose non stanno diversamente neanche nello specifico ambito del diritto penale. Celeberrima l'immagine delle norme incriminatrici come arcipelago di divieti in un mare di libertà. Aggiornando la metafora, si potrebbe dire che il divieto di analogia chiama i protagonisti del dibattito penalistico ad una mobilitazione contro la costruzione di ponti: una sorta di movimento no tav a difesa della "insularità" del diritto penale. Senonché, la vocazione espansiva della giurisprudenza si è manifestata anche in questo settore, nel quale - per lo meno fino a pochi decenni fa - inimmaginabile sarebbe apparsa la messa in discussione di un caposaldo del nostro sistema come il principio costituzionale di legalità. A ciò si aggiunga il fortissimo ruolo di sostegno allo straripamento dell'azione della magistratura (soprattutto inquirente) esercitato dalla maggior parte del sistema mediatico. Difficile aggiungere qualcosa al molto che si è detto e scritto in questi anni. Al riguardo, occorrerebbe forse ripensare al ruolo del giurista nella formazione dell'opinione pubblica: ruolo che inevitabilmente incide (o dovrebbe incidere) sulla corretta percezione del messaggio mediatico. Ci rendiamo tutti conto delle frequenti approssimazioni ed inesattezze veicolate da mezzi di informazione che condizionano il dibattito pubblico, lasciando filtrare - non sempre in buona fede - solo alcuni segmenti delle complessità del discorso giuridico. Sulla costante proliferazione negli ultimi anni di talk show e rubriche televisive (per lo più di livello mediocre e privi di autentico spessore analitico) che affrontano, non senza pretesa d'un certo tecnicismo, tematiche squisitamente penalistiche sarebbe il caso di avviare una lunga riflessione che in questa sede non può essere neanche accennata. Preferisco invece riproporre l'interrogativo circa il futuro prossimo dei rapporti tra politica e magistratura. In particolare, se è possibile prevederne un riequilibrio. L'esito dipenderà, a mio avviso, dal tipo di cultura che prevarrà all'interno dell'istituzione giudiziaria. Fisionomia - Oggi la magistratura esibisce una fisionomia complessa, caratterizzata da una varietà di orientamenti che rendono quell'universo magmatico, eterogeneo, difficilmente decifrabile. La difficoltà più vistosa, ma non l'unica, riguarda le "esternazioni" del magistrato considerate sotto il profilo deontologico, con particolare riferimento alle forme di partecipazione al dibattito politico. Se così è, il "discorso pubblico" dei magistrati, ancorché legittimo, da un lato finisce per elaborare una nuova deontologia che allontana sempre più l'ordine giudiziario dal modello di protagonista super partes delineato dalla Costituzione e, dall'altro, ci interroga sui limiti entro cui sia ammissibile, ad esempio, che un pubblico ministero, come spessissimo di fatto avviene, rilasci interviste su indagini da lui gestite o ne parli in televisione. Perplessità come quelle appena accennate spingono a chiedersi se non sarebbe il caso di aprire un franco dibattito su quale sia il modello di magistratura più appropriato all'attuale fase della democrazia italiana. * Professore ordinario di Diritto penale nell'università di Foggia Caso Mered. Il Dna scagiona il trafficante “sbagliato” di Romina Marceca La Repubblica, 10 maggio 2018 Il figlio del vero Mered ritrovato in Svezia. L’esame della sua saliva è incompatibile con l’uomo in carcere. Il test del Dna lo scagiona. Quel bambino di due anni e mezzo non è suo figlio. La genetica non mente e dà ragione al ragazzo che dentro a un carcere palermitano giura di non essere “il generale” eritreo Medhanie Yehdego Mered, il pericoloso trafficante che sulla pelle dei migranti avrebbe guadagnato una fortuna. È l’ennesima prova a favore della difesa nel processo che si celebra davanti alla Corte d’Assise di Palermo in cui è imputato “il generale”. L’uomo in carcere dal 24 maggio del 2016, arrestato dai servizi segreti britannici e dalla polizia sudanese a Karthoum, però, dice di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Behre e di essere un falegname. Ma non un trafficante di disperati dalle coste libiche. Adesso arriva anche il profilo genetico di quel bambino sconosciuto a insinuare il dubbio che ci sia stato uno scambio di persona. Il piccolo è figlio di Lydia Tesfu Hannes e di Medhanie Yehdego Mered, il suo Dna non è compatibile con quello del giovane di 29 anni. “La procura negli atti scrive che quel bambino è figlio del trafficante e io sono andato a trovare la moglie, anche lei citata nelle carte”, dice l’avvocato Michele Calantropo, che è volato in Svezia a Pasqua con un genetista. Le conclusioni del consulente di parte sono state depositate alla Corte d’Assise che adesso dovrà decidere se ammettere o meno la prova. Medhanie Yehdego Mered, stando al risultato di laboratorio, sarebbe ancora libero. Si troverebbe in Uganda con il nome di Amanuel Habte. Per la Procura, invece, il giovane in carcere è senza dubbio “il generale” e il nome che dichiara è un alias. L’accusa, rappresentata dai pm Annamaria Picozzi e Geri Ferrara, ha sempre sostenuto che l’indagine non si basa su dati genetici, ma “su dati di altra natura”: intercettazioni, collegamenti con altri soggetti e il riconoscimento vocale. Al Csm linea soft sull’avocazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2018 Linea soft al Csm sull’avocazione. Al plenum in agenda per la prossima settimana sarà presentata una risoluzione - che ha ricevuto anche l’assenso dell’Associazione nazionale magistrati - che fornisce un pacchetto di (prime) indicazioni operative sull’applicazione di una delle norme più contestate della riforma del processo penale. Quella che punta a rendere più veloce ed efficiente lo svolgimento del procedimento penale e a fronteggiare eventuali situazioni di inerzia assegnando al pubblico ministero nuovi termini per formulare le proprie conclusioni. In caso di mancata decisione (esercizio dell’azione penale o richiesta di archiviazione) a scattare sarà l’avocazione, che si precisa essere priva di rilevanza disciplinare, da parte della Procura generale. Come obbligo però o come facoltà? La risoluzione sposa alla fine le conclusioni raggiunte dal Procuratore generale della Cassazione contrario a un automatismo applicativo. Tanto più, osserva il testo, che da una prima ricognizione dei progetti organizzativi delle procure generali e dalla relazione in tema di buone prassi per il 2017 del Procuratore generale della Cassazione, sono univoche le indicazioni nel senso del carattere facoltativo “dell’avocazione per inerzia, nell’ottica di rendere la stessa uno strumento a garanzia del rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale, funzionale alla maggiore efficienza del sistema giustizia”. Nel dettaglio poi esiste tutta una serie di procedimenti che vanno sottratti, all’area di applicazione della nuova avocazione. In particolare: • i procedimenti non indicati dalla legge o da provvedimento organizzativo del Procuratore della Repubblica come prioritari; • i procedimenti in cui è pendente davanti al Gip una richiesta di misura cautelare oppure un procedimento di incidente probatorio; • i procedimenti a citazione diretta per i quali il pm è in attesa della fissazione della data di udienza; • i procedimenti per i quali, firmata la richiesta di archiviazione, si è in attesa della conclusione delle notifiche alla persona offesa; • i procedimenti per i quali, pur risultando applicabile l’avocazione per uno dei reati o dei soggetti iscritti, risultano iscrizioni successive, di altri reati oppure di altri soggetti, per i quali i relativi termini non sono ancora scaduti, rinviando ogni valutazione al momento della scadenza dei termini di legge per l’ultima delle iscrizioni successivamente effettuate in quel procedimento complesso; • i procedimenti nei quali il pubblico ministero è in attesa del deposito da parte della polizia giudiziaria delegata della informativa finale e riepilogativa degli esiti complessivi delle investigazioni. Se poi è vero che le Procure generali sono spesso già prive di risorse e quindi in prospettiva in forte difficoltà rispetto al moltiplicarsi dei fascicoli a loro destinati per inerzia del Pm, la risoluzione esprime tuttavia una forte perplessità sulla possibilità del ricorso su larga scala all’istituto dell’applicazione; sarebbe inoltre in larga parte inutile prevedere un ampio impiego della polizia giudiziaria a sostegno dell’attività delle Procure generale: di solito infatti il nodo da sciogliere è quello dell’inerzia decisionale non dell’incompletezza delle indagini. Il Gip può chiedere di valutare la tenuità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 20569/2018. Niente ricorso in Cassazione contro il provvedimento con il quale il Gip, investito della richiesta di un decreto penale di condanna, restituisce gli atti al Pm perché valuti la possibilità di archiviare per la particolare tenuità del fatto. Le Sezioni unite (sentenza 20569) escludono che l’iniziativa del Gip sia un atto abnorme, come sostenuto da parte della giurisprudenza e dallo stesso Pm presso la Cassazione, nelle sue conclusioni. A differenza della scelta fatta dal Supremo collegio, infatti, il Pm aveva aderito all’orientamento secondo il quale la restituzione degli atti per considerare l’archiviazione, in base all’articolo 131-bis del Codice penale, sarebbe affetta da un’abnormità strutturale perché fuori dal raggio d’azione del Gip, per una serie di ragioni. La prima barriera si troverebbe nel codice di rito penale (articolo 459 comma 3) che limita i casi in cui il Gip può rifiutare di emettere il decreto penale di condanna: legittimità del rito, definizione giuridica del fatto, adeguatezza della pena. Altra controindicazione, il tempo in cui interviene la scelta del Gip: a esercizio dell’azione penale già avvenuta. Circostanza davanti alla quale il giudice avrebbe due sole opzioni: pronunciare il decreto di condanna o emettere sentenza di proscioglimento per uno dei motivi previsti dall’articolo 129 del codice di rito che impone di dichiarare immediatamente le cause di non punibilità. Tra queste però non potrebbe rientrare l’articolo 131-bis, non conciliabile con il rito monitorio, caratterizzato da finalità premiali e privo di contraddittorio. Per finire, ci sarebbe una regressione del procedimento. Diversa la conclusione delle sezioni Unite. I giudici premettono che è corretto affermare che il Gip non possa prosciogliere l’imputato in base all’articolo 129 del codice di rito, ma va escluso che a fronte di una riscontrata particolare tenuità del fatto - come nel caso esaminato in cui l’imputato aveva rubato 4,60 euro e due pacchetti di sigarette - l’unica strada sia emettere un decreto di condanna lasciando all’interessato il compito di opporsi. La soluzione del problema sta proprio nella restituzione degli atti al Pm, il quale mantiene intatti i suoi poteri rispetto all’esercizio dell’azione penale e alle sue modalità. Alla soluzione adottata non ci sono ostacoli neppure dal punto di vista sistematico. La regressione della fase del processo a quella procedimentale è, infatti, una situazione contemplata da altre norme che rimettono al vaglio giudiziale la scelta del rito speciale, fatta dalla pubblica accusa. Con la “navetta” non si realizza dunque né un indebito ritorno a uno “stadio” del procedimento già esaurito né una paralisi irrimediabile del suo corso. Anche le scelte che potrà fare la parte pubblica non entrano in rotta di collisione con nessuna disposizione di legge e non sono a rischio nullità solo perché adottate dopo la restituzione. La possibilità di archiviare per la particolare tenuità del fatto è disciplinata dall’articolo 4111, comma 1 bis del codice di rito. Ed è dunque in linea con il modello procedimentale che la considera una via alternativa per concludere le indagini, rispetto all’esercizio dell’azione penale. La mancata collaborazione del fallito non prova la bancarotta documentale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2018 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 9 maggio 2018 n. 20484. Il giudice non può considerare, ai fini della bancarotta documentale, una prova la mancata collaborazione del fallito. L'inerzia del fallito non dimostra, infatti, la consapevolezza e la volontà di recare un pregiudizio ai creditori. Per la Corte di cassazione (sentenza 20484) la conclusione della Corte d'Appello può andare bene solo rispetto alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, caratterizzata dal dolo generico, mentre non soddisfa l'onore di dimostrare la specifica finalità fraudolenta che contraddistingue la bancarotta documentale per sottrazione, distruzione o falsificazione delle scritture contabili. I giudici di appello hanno dunque sbagliato, nel caso esaminato, a generalizzare. L'imputato era stato condannato per bancarotta patrimoniale e documentale in relazione al fallimento della società di cui era titolare. La Corte territoriale aveva male interpretato il suo comportamento nel corso della procedura concorsuale, anche a causa di un mancato incontro con il curatore, giustificato da gravi ragioni personali e familiari, “derubricate” dai giudici di merito a banali liti in famiglia e non meglio precisati impegni fuori sede. Al di là dei fraintendimenti, la Suprema corte precisa che per far scattare la condanna per occultamento delle scritture contabili, nel caso vengano sottratte al curatore, serve il dolo specifico di recare un pregiudizio ai creditori. Va dunque annullata la sentenza di condanna se i giudici hanno contestato il reato solo sulla base del dolo generico: un elemento soggettivo supportato solo dalla mancata collaborazione. Accesso abusivo a Facebook, l'indirizzo Ip incastra l'operatore di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 maggio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 9 maggio 2018 n. 20485. L'accertamento dell'indirizzo Ip del dispositivo è sufficiente - anche in assenza di ulteriori accertamenti tecnici, ma utilizzando diversi “elementi dimostrativi” - alla condanna “per accesso abusivo e sostituzione di persona” di chi acceda al profilo Facebook di un terzo. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 9 maggio 2018 n. 20485, confermando la decisione della Corte di appello di Milano nei confronti di un cinquantenne. Il ricorrente aveva contestato la motivazione della sentenza che faceva unicamente riferimento all'indirizzo IP, “in quanto avrebbe omesso di svolgere gli approfondimenti tecnici necessari per superare i limiti nell'associazione tra l'lnternet Protocol rilevato e utente/proprietario del sistema”. La Cassazione premette che l'indirizzo IP è costituito da un codice numerico che identifica univocamente un dispositivo - host - collegato a una rete informatica che utilizza l'Internet Protocol come protocollo di rete. Tale indirizzo, prosegue, “viene assegnato a una interfaccia (ad esempio una scheda di rete) che identifica l'host di rete, che può essere costituito da un personal computer, un palmare, uno smartphone, un router o altro dispositivo”. L'indirizzo IP, dunque, “identifica oggettivamente il dispositivo elettronico associato, mentre l'identificazione dell'operatore richiede indagini ulteriori, di tipo tecnico o di tipo logico”. Vi sono perciò due modi per identificare l'operatore: il primo, tramite specifici accertamenti tecnici, conduce “ad una sorta di “mappatura genetica digitale” che può consentire l'identificazione certa dell'operatore che abbia effettuato connessioni attraverso un dispositivo connesso alla rete attraverso l'indirizzo IP”. Al medesimo risultato probatorio può, tuttavia, pervenirsi “attraverso elementi dimostrativi diversi dall'accertamento tecnico”, purché sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti. In questo senso, prosegue, va ricordato, da un lato, che l'imputato, nel richiedere il giudizio abbreviato, non ha condizionato l'istanza ad accertamenti finalizzati all'analisi dei reperti informatici. Dall'altro, che gli elementi indiziari, “complessivamente apprezzati”, hanno portato “alla attribuzione della illecita condotta all'imputato in quanto esclusivo usuario del personal computer collegato all'indirizzo IP, alla luce delle dichiarazioni dell'intestatario dell'utenza, congiunto convivente dell'imputato, e dello stesso imputato”. Né, infine, risulta che l'imputato abbia denunciato l'abusivo accesso all'indirizzo IP associato all'utenza domestica, o comprovato una potenza della banda router wi.fi tale da poter essere intercettata dall'esterno, nonostante la protezione della connessione attraverso apposita password. In definitiva, conclude la Corte, a fronte della “convergenza degli elementi individualizzanti” e “dell'accertamento dell'indirizzo IP associato al computer dal quale sono stati operati gli accessi”, “non appare decisivo il mancato accertamento delle ulteriori credenziali identificative”. Napoli: carcere di Poggioreale, due detenuti in coma in pochi giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2018 Nel giro di pochi giorni, nel carcere napoletano di Poggioreale due detenuti sono finiti in coma. In un carcere dove il sovraffollamento non tende ad affievolirsi (secondo i dati aggiornati al 30 aprile, risultano presenti 2.243 detenuti su un totale di 1.659 disponibili) e nonostante lo sforzo della nuova direzione per attenuare le criticità presenti, torna più prepotente che mai la problematica della malasanità in carcere. Due sono i casi eclatanti che destano non pochi interrogativi e dove la magistratura dovrà vederci chiaro. Il primo riguarda Roberto Leva, un detenuto di 50 anni che doveva scontare sei mesi di carcere ma che è finito in ospedale in gravi condizioni il 26 aprile scorso. Un caso emerso grazie ad un servizio di Fanpage nel quale i familiari di Roberto hanno denunciato probabili percosse ricevute. “Stanno dicendo che ha avuto un attacco di epilessia - racconta la sorella alla giornalista Gaia Bozza di Fanpage - ma mio fratello non soffre di epilessia. Fa uso di Minias per dormire perché è un ex tossicodipendente, quando non prende queste gocce per due o tre giorni ha crisi di astinenza che abbiamo sempre gestito noi e certo non si è mai ritrovato con lividi e traumi per tutto il cor- addirittura in coma. Per noi è chiaro che è stato picchiato e lo denunciamo perché vogliamo giustizia e verità”. Roberto Leva era stato ricoverato al Cardarelli per una frattura al setto nasale e dimesso dopo un giorno per essere poi trasferito in gravi condizioni in un altro ospedale. I familiari, nei giorni scorsi hanno quindi presentato un esposto in procura per sollecitare accertamenti su eventuali negligenze dei medici e sulla causa delle lesioni. La direzione della Casa circondariale di Poggioreale respinge le accuse. “Nel doveroso e profondo rispetto delle indagini giudiziarie in atto, intende precisare - si legge in una nota - che i ricoveri subiti dal detenuto Roberto Leva sono stati determinati dalle gravi patologie di cui egli è risultato affetto e per le quali gli è stato concesso il differimento della pena”. Sempre la direzione del carcere poi scrive: “Le notizie che i ricoveri siano stati invece causati da abusi in suo danno sono smentite dalle attività sin qui compiute dagli operatori medici e di polizia dell’Istituto”. Secondo la direzione la diffusione di notizie prive di adeguato riscontro “non rende un buon servizio alla tutela dei diritti dei detenuti, gettando ingiustificato discredito sull’operato dell’amministrazione penitenziaria e della Polizia penitenziaria e minando il rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni”. L’istituto di Napoli “è in prima linea nella difesa dei diritti costituzionali dei cittadini detenuti e rappresenta un luogo di recupero e riaffermazione del primato della legalità, sforzandosi con le risorse di personale ed economiche a disposizione e con tutte le difficoltà strutturali ben note, di interpretare un modello detentivo volto alla rieducazione dei condannati”. Restano comunque dei punti poco chiari. Perché il detenuto avrebbe scambiato le sorelle per guardie carcerarie, chiedendo loro di non picchiarlo e descrivendo una situazione di pericolo all’interno delle mura di Poggioreale? Sono solo suoi deliri, oppure c’è un fondo di verità? Sarà la magistratura a fare le dovute verifiche. Altro caso, invece, riguarda un detenuto di appena ventuno anni. Si chiama Michele Antonio Elia ed è in coma. Detenuto nel padiglione San Paolo del carcere di Poggioreale, venne arrestato lo scorso anno nel blitz dei carabinieri al Pallonetto di Santa Lucia, contro presunti esponenti del clan che porta il cognome del ragazzo. La situazione è precipitata due notti fa, dopo che per venti giorni di fila avrebbe accusato forti dolori alla testa, motivo per il quale sarebbe stato sottoposto a una cura di antibiotici e antidolorifici. Ma non era bastato. I dolori, ogni giorno che passava, si facevano sempre più lancinanti, fino a quando è stato traportato di urgenza al San Paolo e al Cotugno. Ora si trova al Cto e lotta tra la vita e la morte. Non sappiamo le cause e se ci sia stata una sottovalutazione del problema o meno. Resta il fatto che Michele si è ammalato dentro quelle quattro mura. “Denunciamo ancora una volta le fatiscenti condizioni igienico- sanitarie del carcere di Poggioreale - dichiara Pietro Ioia, presidente dell’associazione ex detenuti - Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un caso di malasanità”. Roma: dieci indagati per il suicida in cella di Valeria Di Corrado Il Tempo, 10 maggio 2018 Il detenuto di 22 anni si è impiccato a Regina Coeli lo scorso 24 febbraio. Per i pm non è stato sorvegliato a dovere. Nei guai 8 agenti e 2 medici. Non solo non doveva trovarsi in carcere, ma, considerate le sue condizioni psichiatriche, doveva essere sorvegliato a vista. Invece ha avuto tutto il tempo per "fabbricare" nella propria cella un cappio e, il giorno dopo, togliersi la vita. La Procura di Roma ha chiuso l'inchiesta su Valerio Guerrieri, impiccatosi lo scorso 24 febbraio a soli 22 anni in uno dei bagni della seconda sezione del Regina Coeli, con un lenzuolo legato alla grata. Il suo caso è emblematico delle storture che spesso caratterizzano il nostro sistema carcerario. Sono in totale dieci le persone indagate per omicidio colposo: otto agenti della polizia penitenziaria e due medici del carcere. Essendo affetto da manie suicide, il ragazzo era infatti sottoposto al regime della "grande sorveglianza", che impone ai poliziotti di verificare ogni quarto d'ora cosa faccia il detenuto. Controllo che non sarebbe stato eseguito, nei termini prescritti, dal personale che si è alternato a quel piano; visto che dalle testimonianze dei compagni di cella, la vittima aveva già attorcigliato le lenzuola il giorno prima del suicidio. Per di più, in base alla consulenza dei periti nominati dal pm Attilio Pisani, il giovane, proprio a causa della sua patologia, doveva essere controllato a vista o comunque mandato in una Rems, una residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza destinata a persone con problemi psichiatrici. Per questo ai due medici del carcere viene contestato di non aver valutato correttamente la situazione clinica di Guerrieri. Valerio, che da minorenne aveva già precedenti penali (finiti tutti con l'assoluzione per via dei suoi problemi mentali) viene arrestato il 2 settembre 2016 per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale, e danneggiamento. Nonostante in sede di convalida il giudice avesse disposto gli arresti domiciliari, il ragazzo viene portato al Regina Coeli, perché l’abitazione dei genitori a Ostia è giudicata non idonea. Il 25 ottobre, durante la prima udienza del processo, il giudice conferma la misura dei domiciliari. Un’ordinanza che resta lettera morta. Guerrieri resta in carcere senza titolo, fino a quando, il 30 novembre, sulla base di una perizia del consulente del giudice, che lo reputa pericoloso a causa di un vizio di mente, gli viene applicata la misura di sicurezza presso la Rems di Ceccano. Da questa struttura socio-sanitaria viene mandato via poco dopo, il 19 dicembre: secondo il responsabile il 22enne era "lucido, in possesso della capacità di intendere e volere". Un parere frutto di un falso ideologico, è l'ipotesi al vaglio della Procura di Frosinone, alla quale i pm romani hanno inviato gli atti per competenza. L'addio a Ceccano, "da dove Valerio era fuggito più volte in tre settimane", spiega il suo difensore, l'avvocato Claudia Serafani, "è stato una tappa determinante nell'evoluzione della tragedia". E così per il ragazzo si riaprono le porte del Regina Coeli. Il 14 febbraio 2017 viene condannato a 4 mesi di reclusione resistenza e lesioni a pubblico ufficiale ma, in seguito al riconoscimento di “un rischio suicidario non basso, quindi non trascurabile”, il giudice dispone di mandarlo “in una casa di cura in regime residenziale per sei mesi”, con revoca della misura cautelare in carcere. E invece Valerio resta dietro le sbarre per altri 10 giorni, fino a quando non decide di togliersi la vita. In un altro fascicolo, in cui viene ipotizzato il reato di omissione di atti d'ufficio, la Procura sta cercando di chiarire perché la direzione del penitenziario l'avesse indebitamente trattenuto. Benevento: un solo infermiere per 400 reclusi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 maggio 2018 Un solo infermiere per 400 detenuti al carcere campano di Benevento? Secondo quanto denuncia il sindacato della Uil sembrerebbe proprio di sì. “Un infermiere per le necessità assistenziali di 400 detenuti - denuncia il sindacato di categoria, ubicati in tre strutture anche separate fisicamente. Un carico di lavoro insostenibile è quello che si registra alla Casa Circondariale di Capodimonte. Con il rischio di dover lasciare un paziente con la flebo nel braccio per dover correre da tutt’altra parte”. Giovanni De Luca, il segretario della Uil di Benevento, non risparmia nemmeno una critica all’ordine degli infermieri. Infatti denuncia che tra gli infermieri dipendenti Asl che lavorano al carcere di Benevento, “c’è anche il presidente dell’Opi di Benevento”. L’Opi è l’ordine delle professioni infermieristiche che da poco tempo ha sostituito il collegio Ipasvi. “È presso questo organismo - denuncia il segretario della Uil che gli infermieri devono iscriversi per avere diritto ad operare come tali. Organismo che ha il compito di rappresentare e tutelare il corpo infermieristico. Ci sorprende - incalza De Luca - che proprio il presidente dell’Ordine che lavora nel carcere e sa benissimo la situazione non abbia speso una parola di denuncia, non tanto come lavoratore, ma come rappresentante dell’organismo che tutela la categoria infermieristica”. Il segretario poi sottolinea: “Tra l’altro a Benevento l’Opi ha una delle rette più alte che si registrano sulla Penisola e certamente gli infermieri, anche quelli carcerari, si attendono un’alta attenzione verso le loro problematiche. Confidiamo che in futuro ci sia un atteggiamento diverso - conclude De Luca - e che anche questo organismo aggiunga la propria voce per risolvere i problemi degli infermieri di Benevento”. Ricordiamo che l’assistenza sanitaria in carcere, grazie alla legge del 1999, non riguarda il ministero della giustizia, ma quello della salute. All’Azienda Sanitaria Locale (Asl) è assegnata la funzione di erogare le prestazioni sanitarie, mentre all’Amministrazione Penitenziaria di mantenere i compiti relativi alla sicurezza. Tale legge ha rappresentato un vero e proprio cambiamento culturale. Non basta più mantenere l’integrità fisica della persona detenuta, ma si deve garantire la tutela della salute di un cittadino che si trova, più o meno temporanea- mente, privato della libertà personale. Il problema è che ancora oggi, permangono diverse criticità. In diverse carceri non pochi infermieri non sono nemmeno contrattualmente stabilizzati e si ritrovano al lavorare presso ambienti non idonei e svolgono mansioni che spesso vanno oltre quelle di propria competenza. A questo si aggiunge il discorso del poco personale, quindi diversi infermieri si ritrovano a gestire un numero importante di detenuti a testa. Prelievi, rilevazione dei parametri, terapia, medicazioni, ripristino dei carrelli e gestione di eventuali urgenze. Compiti tipici dell’infermiere di reparto. Un mondo particolare quello della medicina penitenziaria che merita un’attenzione maggiore da parte delle Asl. Roma: "non può incontrare il Garante", respinta la richiesta del boss mafioso Madonia palermotoday.it, 10 maggio 2018 Lo ha deciso il tribunale di sorveglianza di Roma. Il palermitano Salvino Madonia sta scontando al 41bis una serie di condanne all'ergastolo. I legali avevano chiesto un colloquio riservato con il Garante regionale per i detenuti del Lazio e dell'Umbria. Il tribunale di sorveglianza di Roma ha respinto la richiesta presentata dai legali del boss palermitano Salvino Madonia, che sconta al 41bis una serie di condanne all'ergastolo, di incontrare in un colloquio riservato il Garante regionale per i detenuti del Lazio e dell'Umbria. La decisione conferma quanto stabilito dal magistrato di sorveglianza di Viterbo, che aveva già negato il consenso al capomafia. Madonia ha impugnato il diniego davanti al tribunale, che gli ha dato torto. Una decisione di segno opposto, che aveva destato molte preoccupazioni al Dap, era stata presa invece dal tribunale di sorveglianza di Perugia, che aveva consentito al Garante regionale di effettuare un colloquio riservato con un detenuto al carcere duro: il boss della camorra Umberto Onda. Dopo l'adesione dell'Italia alla Convenzione Onu del 2002, che prevede che ogni Stato abbia una figura istituzionale che possa effettuare colloqui riservati con i detenuti, nel 2013 il nostro Paese ha istituito il Garante nazionale a cui è stata riconosciuta questa prerogativa. Ai garanti regionali, come i sacerdoti e i parlamentari, la legge riconosce solo il diritto di far visita, ciascuno per specifiche finalità, ai carcerati. Visite di questo tipo non possono però avvenire in forma riservata. "A differenza di quanto accade per il Garante nazionale - scrive il Tribunale di sorveglianza di Roma nel rigettare l'autorizzazione - non esiste una legislazione statale che individui le minime caratteristiche e principi fondamentali in ordine alla nomina dei garanti territoriali e ne disegni, sia pure in termini essenziali, lo status. Allo stato attuale della normativa qualsiasi Comune - quando non addirittura qualsiasi Municipio - può istituire un Garante per i detenuti e nominarne del tutto discrezionalmente il titolare, aprendogli l'accesso alle prerogative disegnate nell'ordinamento penitenziario, senza che necessariamente questo offra di per sé alcuna garanzia di autorevolezza concreta, di affidabilità e di indipendenza". Secondo i magistrati "non v'è dubbio che la funzione svolta dal Garante per i detenuti sia molto importante, terza ed istituzionale, ma la natura della funzione di per sé non dice nulla del suo spessore e del suo grado di effettiva indipendenza ed affidabilità: sono le modalità di scelta e le guarentigie in concreto assegnate a determinare il grado di affidabilità, professionalità ed indipendenza di un organo. E su questo il legislatore statale non ha dettato alcuna indicazione, neppure minima. L'esperienza concreta e giudiziaria ci ha insegnato che la geografia delle infiltrazioni di mafia, camorra e 'ndrangheta nel territorio nazionale e nelle amministrazioni locali - concludono - è oramai del tutto cambiata e soprattutto in continua evoluzione, così che la concreta distribuzione sul territorio nazionale della popolazione detenuta al regime del carcere duro non può essere l'architrave della tenuta del ragionamento che ridimensiona i rischi di contatti non sufficientemente affidabili e verificati. Se è facile presumere che in concreto tutti i Garanti, anche locali, siano personalmente all'altezza del ruolo delicato assegnatogli, deve prendersi atto che la disciplina in esame vigente non distingue né disegna la tipologia dei garanti territoriali, facendo di tutta l'erba un fascio, proprio perché il legislatore non ha avuto una visione d'insieme e non ha effettuato queste scelte in modo complessivamente consapevole". Livorno: isola-carcere di Gorgona, la prevenzione incendi insegnata ai detenuti ilgiornaledellaprotezionecivile.it, 10 maggio 2018 Al via il piano sicurezza per l'Isola-carcere di Gorgona: un corso di addestramento rivolto a dieci detenuti con una prova pratica a giugno con simulazione di spegnimento di incendio boschivo. L'organizzazione Antincendi boschivi (Aib) della Regione Toscana, in accordo con la direzione della Casa circondariale di Livorno, ha avviato un primo corso di addestramento per la prevenzione e la lotta attiva agli incendi forestali sull'Isola di Gorgona. Il corso è rivolto ai detenuti del carcere, impegnati in questi giorni nelle lezioni in aula e nelle prove pratiche in bosco. La formazione è curata da personale tecnico regionale e dagli istruttori del Centro di addestramento antincendi boschivi la Pineta di Tocchi di Monticiano (Si) e prevede anche una prova pratica a giugno che consisterà in una simulazione di spegnimento di incendio boschivo. Il primo corso, rivolto a dieci detenuti sull'Isola di Gorgona, disporrà della presenza stabile di una squadra operativa formata per la lotta agli incendi boschivi e fornita di dispositivi di protezione individuale, di apparati radio per le comunicazioni sulla rete Aib e di un mezzo 4x4 con cisterna della capacità di 1.000 litri. A conclusione di questo addestramento partirà un corso Aib rivolto al personale della struttura penitenziaria di Gorgona e un analogo percorso di formazione è in fase di definizione anche per l'isola di Pianosa. Ferrara: i detenuti raccontano la loro vita agli studenti di Martin Miraglia estense.com, 10 maggio 2018 “Non ci sono modi per coltivare le passioni di fuori ma si può studiare, ci sono il teatro, l’orto, i corsi di computer, di fotografia, di pittura e il giornalino - l’Astrolabio, qualcosa si può fare. Abbiamo bravi insegnanti e volontari che ci fanno prendere una strada che prima non potevamo intraprendere. È un inizio”. E ancora: “Chi fa giurisprudenza all’inizio vede un detenuto come un numero, ma non è così. C’è una persona, c’è un percorso da intraprendere. Io sono fortunato, ho una famiglia, un percorso da intraprendere, ma c’è chi esce e non ha nessuno da cui andare”. Oppure: “Vedere gente esterna è sempre bello. È gente nuova, hai comunque la speranza che un giorno sarai come loro, potrai uscire”. Il tutto mentre dietro le spalle “nascono amicizie che poi rimangono fraterne. Ci consigliamo, c’è tanta solidarietà e benevolenza tra i detenuti”. Sono queste le parole dei detenuti del carcere di Ferrara, pronunciate nel corso di un incontro con gli studenti, una trentina circa, dei corsi di procedura penale e del diritto dell’esecuzione penale della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Ferrara, accompagnati da Stefania Carnevale nella doppia veste di garante dei detenuti e di professoressa universitaria. Gli studenti, nel corso della loro visita, hanno potuto dare un’occhiata alle diverse strutture della casa circondariale dentro e fuori il muro di cinta: la palazzina che ospita i detenuti in regime di semilibertà e i lavoratori socialmente utili - che si muovono dentro e fuori dalla struttura grazie a biciclette messe a disposizione dal Comune per recarsi verso le diverse associazioni che li impiegano come Asp, Il Fienile e La Canoa, l’orto curato dai “ristretti” - diversi ettari in questo momento dedicati parzialmente alle fragole, la palazzina colloqui - stanze con tavoli e anche un giardino, con gli appuntamenti pre programmati per evitare file ai cancelli e di traumatizzare gli eventuali minori - ed infine la sala teatro dove avviene il colloquio con i detenuti ed infine le celle, occupate in maniera preponderante da detenuti per via di reati collegati alle sostanze stupefacenti. “Cerchiamo di fare una visita all’anno”, spiega Stefania Carnevale, “qui ci sono alcuni studenti dell’Università con difficoltà nel diritto allo studio e in questo periodo è in corso il rinnovo della convenzione tra Università e casa circondariale: vorremmo prevedere tirocini, tutoraggi e orientamenti allo studio. Poi c’è il confronto coi detenuti”. I detenuti, appunto, una decina di diverse nazionalità che hanno accettato di sedersi in cerchio insieme agli studenti senza particolari barriere. A loro chiedono del loro rapporto con la magistratura e dopo le loro esperienze e come hanno affrontato l’ingresso in una struttura che ne ha decretato la perdita della libertà personale. Loro rispondono con esperienze dirette, citano le fidanzate: “Accettare e vivere il fatto di stare qui non è facile”, spiegano. “Ad esempio perdere una compagna perché passano tanti anni, quello uccide dentro finché non accetti la cosa, ti dai un obiettivo e del coraggio e vai avanti un passettino alla volta”. Non lo dicono direttamente ma fanno capire chiaramente di voler essere considerati persone: “I malati di Sla ad esempio, quelli sono i veri condannati”, dice uno, “Pensare che c’è chi sta più male di te e fare qualcosa fa stare meglio, e in questo il carcere mi ha cambiato: sono molto più sensibile. Noi diciamo sempre che è meglio sentire le catene muoversi che le campane suonare”. Finché c’è vita, insomma, c’è speranza. È un incontro che, anche per via dei punti di contatto tra gli studenti e i detenuti come ad esempio sullo studio - “per noi è più difficile, non abbiamo accesso alle fonti su internet” - lascia i primi con un segno: “L’impatto”, spiega una studentessa, “è molto forte. Entrando mi aspettavo un approccio più freddo”. E invece alla delegazione viene regalato anche uno dei prodotti fatti dai detenuti - è uno dei loro lavori, c’è anche una bottega in via Adelardi, “Noi per Loro” dove si possono acquistare, un ricordo della giornata. “Abbiamo preso l’impegno di tornare, vogliamo instaurare un rapporto, l’incontro è stato vivace”, conferma Carnevale. A dirsi soddisfatta infine è anche la responsabile della struttura, il commissario capo della Penitenziaria Annalisa Gadaleta: “Abbiamo investito tanto in questi anni sui lavori di pubblica utilità e abbiamo ricevuto tanti complimenti. Questi progetti poi creano osmosi tra i detenuti e il mondo esterno, così che vengano reimmessi in libertà dopo aver ripreso confidenza con il mondo all’esterno. Sono tutte cose che hanno ridotto il numero di eventi critici perché i detenuti sono più impegnati”. Il tutto, nonostante un organico sottodimensionato “ma sempre nei range”. Velletri (Rm): pet therapy in carcere per il recupero dei detenuti castellinotizie.it, 10 maggio 2018 Un convengo per illustrare i risultati della sperimentazione con animali. La Direzione della Casa Circondariale di Velletri ha organizzato per il 18 maggio p.v. un Convegno “Guardarsi dentro..per imparare a vedere fuori”. Interventi Assistiti con Animali in ambito penitenziario: Esperienze a prospettive future”. L’evento presenta i risultati di alcuni Laboratori di Zooantropologia applicata che si sono svolti presso l’Istituto nei mesi scorsi grazie al supporto tecnico e specialistico degli Operatori di Pet Therapy della Cooperativa Sociale Nuove Risposte Onlus. “Sono sempre stata convinta - afferma la dr.ssa Maria Donata Iannantuono, Direttore dell’Istituto di Velletri - che gli interventi trattamentali attivati in ambito penitenziario nei confronti dei detenuti debbano avere lo scopo principale di stimolare un cambiamento sostanziale, al fine di reinserire nella società una persona che abbia svolto un processo di riflessione profonda rispetto a se stessa, all’atto deviante ed al danno causato alla società. Ed in questa ottica ho accolto con entusiasmo la proposta dei miei collaboratori Funzionari Giuridico Pedagogici di iniziare alcuni Laboratori di Zooantropologia, soprattutto quando mi è stato prospettato il target a cui erano destinati e le modalità di intervento. L’idea era innovativa ed i presupposti teorici su cui si basava erano concreti ed applicabili. Tutti sappiamo che gli elementi del trattamento penitenziario, tra cui l’istruzione, il lavoro, la religione, le attività culturali, ricreative e sportive, l’agevolare opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia, hanno il fine di rispondere all’art. 27 della Costituzione, che sancisce il valore rieducativo della pena, e permettono anche di espletare la cosiddetta “osservazione scientifica della personalità del detenuto”. “L’Osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di ostacolo all’instaurazione di una normale vita di relazione e che hanno potuto determinare l’atto deviante, al fine di promuovere un processo di correzione degli atteggiamenti pregiudizievoli. Basandoci su altre esperienze di pet therapy, attuate in ambito penitenziario, e sui risultati ottenuti, abbiamo pensato di inserire ed utilizzare questa nuova tecnica, per coloro che avessero voluto, per modulare un cambiamento di ottica rispetto ai danni causati alle vittime e pervenire pertanto ad una modifica profonda e sostanziale. Abbiamo attuato la prima sperimentazione a livello nazionale in cui, utilizzando per l’appunto la metodologia innovativa degli Interventi Assistiti con Animali, siamo intervenuti nei confronti di detenuti condannati per reati di maltrattamento in famiglia facendoli interagire con cani che erano stati maltrattati”. “Volevamo incidere in tal modo sensibilmente, anche a livello emotivo, nel far riconoscere le conseguenze di un maltrattamento e nella percezione della sofferenza di un altro essere “diverso da se”, consapevoli che un cambiamento si attua nel momento in cui affrontiamo i danni causati. Ed i risultati di tale sperimentazione, che ci apprestiamo a presentare nel Convegno del 18 maggio con il supporto di Esperti in questo campo a livello nazionale, hanno superato le nostre aspettative. Una sperimentazione che stiamo pensando di estendere anche ai sex offenders. In un momento in cui l’attenzione dei media è quotidianamente sollecitata da atti di femminicidio e reati similari, ci rendiamo conto dell’importanza che ha per tutti gli operatori che operano in ambiente penitenziario individuare metodologie ed interventi che riescano ad incidere sostanzialmente sulla presa di consapevolezza di coloro che sono già detenuti per tali reati, e che prima o poi saranno reimmessi nel tessuto sociale, al fine di restituire persone che abbiano effettuato una sostanziale revisione critica. Perché pervenire a questo obiettivo significa fare prevenzione e fare prevenzione è un elemento fondamentale del concetto di Sicurezza sociale. E su questi obiettivi ci siamo concentrati in maniera congiunta, Area Pedagogica e Polizia Penitenziaria, nel riconoscimento del nostro ruolo e delle competenze specifiche”. Genova: con Uisp una corsa in “libertà” per i detenuti al carcere di Marassi primocanale.it, 10 maggio 2018 Pronti, ai posti, via: ma questa non è una gara come le altre. Si spalancano le porte della Casa circondariale di Marassi, per una corsa in città. Un respiro di libertà per una quarantina di detenuti accompagnati dai podisti della Lega Atletica dell’Uisp genovese. “L’obbiettivo è molto semplice, noi riusciamo attraverso lo sport a offrire spazi di libertà poiché il corpo si muove libero. Riusciamo a farlo con i nostri operatori offrendo un po’ di benessere anche all’interno delle strutture carcerarie e qui in Liguria anche a Imperia, Sanremo e La Spezia”, ha detto il presidente nazionale Uisp Vincenzo Manco. Appuntamento attesissimo quello di “Vivicittà-Porte Aperte”, giunto alla sua settima edizione. 2 km di corsa tra dentro e fuori le mura, scortati dalle moto della polizia penitenziaria, ma soprattutto dal tifo dei compagni in cella. Nel frattempo, una partita di calcio nel campo all’interno contro una squadra esterna. “Mi sono piaciute molto le parole del presidente del Coni, Antonio Micillo, ovvero che lui e la città siano aperti ad incontrare il carcere. Lo sport, con le sue regole, per noi è un importante strumento rieducativo”, ha detto Maria Milano, Direttore della casa circondariale di Marassi. Eventi come questo fanno da ponte con la città e l’interno del carcere, oltre a offrire un momento di svago per i detenuti. E uno di loro mostra una maglietta che ha realizzato apposta per l’occasione con dietro scritto “Se leggi quello che c’è scritto significa che stai andando a 200 km/h”. “Lo sport è importante sempre e credo che far correre anche loro sia un modo per simboleggiare che lo sport sia e debba essere un motivo di inclusione sociale”, ha detto l’Assessore allo Sport della Regione Liguria Ilaria Cavo. Napoli: Progetto Jonathan, giovani detenuti in barca a vela per la regata dei Tre Golfi ildenaro.it, 10 maggio 2018 Anche in questa edizione, per il nono anno consecutivo, ai nastri di partenza della Tre Golfi, regata organizzata dal Circolo Italia con partenza venerdì 11 maggio a mezzanotte dal porticciolo di Santa Lucia, ci saranno due equipaggi speciali. Sono quelli composti dei ragazzi collocati in misura cautelare nelle comunità Jonathan e Oliver, gestite dalla Jonathan Onlus. I ragazzi, accompagnati da operatori e guidati da professionisti della vela di altura, regateranno a bordo di Alcor V, la barca di proprietà dell’armatore Gennaro Aversano del Club Nautico della Vela, già protagonista di una traversata transoceanica. L’altra imbarcazione messa disposizione dei giovani è Blue Adventure dell’armatore Maurizio de Nicola del Circolo Savoia. I ragazzi del progetto Jonathan vela dopo un lungo periodo di preparazione presso la Lega Navale di Napoli potranno così sperimentare attraverso una competizione sportiva il significato della responsabilità e il valore della condivisione. Un’esperienza che per le sue difficoltà e per le emozioni che regala rappresenta la metafora della vita. Il progetto viene realizzato in collaborazione con i Centri per la giustizia minorile della Campania, la Lega Navale di Napoli e la Whirlpool Corporation e si pone l’obiettivo dell’inclusione, reintegrando nella collettività ragazzi con problemi sociali in conflitto con la giustizia. “Per perseguire queste finalità - affermano Silvia Ricciardi e Vincenzo Morgera della comunità Jonathan - lo strumento sportivo della vela risulta estremamente educativo, perché sensibilizza l’attenzione sull’importanza della partecipazione, delle regole, della correttezza e della legalità”. Sondrio: “I quasi per caso” suonano per le persone detenute Centro Valle, 10 maggio 2018 Un'ora di musica seguita da una cena con la pasta del pastificio che impegna le persone detenute. È l'iniziativa che si è tenuta il 9 maggio nel carcere di Sondrio con il gruppo “I quasi per caso”. Si tratta di una delle numerose iniziative promosse nell'ambito di un progetto di rapporto tra la città e le persone detenute. Protagonisti, come detto, “I quasi per caso”. Dopo anni di musica a livello amatoriale, nonno e nipote si incontrano casualmente ad una festa di comuni amici durante la quale improvvisano una pausa musicale composta da tastiera e sax. Il grande apprezzamento ed i complimenti ricevuti, spingono Martino Angeloni e Danilo Lazzeri a fondare il gruppo musicale “I Quasi Per Caso”, nome che ben descrive l'origine della band. Grazie alla comune conoscenza del maestro Renzo Frate, organizzano un incontro durante il quale il gruppo musicale prende vita delineando le sue peculiarità. All'interno del sodalizio convivono diversi stili musicali che spaziano dalla musica classica al liscio, dalla musica d'ascolto al jazz. La grande esperienza e professionalità Frate, frutto di oltre trent'anni di musica ai più alti livelli in Italia e all'estero, consente di amalgamare i vari stili in modo armonico che ben descrivono questi musicisti a 360 gradi. Vero segreto del gruppo sono l'amicizia, la complicità e il comune amore per la musica in tutte le sue espressioni. Istat: la povertà assoluta tocca 5 milioni. Bankitalia: “Non toccare la legge Fornero” di Antonio Sciotto Il Manifesto, 10 maggio 2018 Le audizioni sul Def. L’istituto di statistica e la banca centrale riferiscono davanti al nuovo Parlamento. Il disagio è in crescita. Il monito al prossimo governo sulla possibile cancellazione della legge Fornero. L’aumento dell’Iva potrebbe costare lo 0,1% di mancata crescita. I cittadini italiani in povertà assoluta continuano ad aumentare - sono 5 milioni secondo l’ultima rilevazione Istat- e il prossimo governo, nella messa a punto del Def e della legge di Bilancio d’autunno, dovrà tenere d’occhio il debito - non toccando le pensioni e cercando nel contempo di evitare l’aumento dell’Iva. Le audizioni dell’Istituto di statistica e di Banca d’Italia presso il nuovo Parlamento sul Documento di economia e finanza lascerebbero pochi margini di manovra all’esecutivo che si formerà a breve, sia esso politico (Lega-M5S) o “neutrale”, indicato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Di povertà e possibile aumento dell’Iva ha parlato l’Istat, mentre Bankitalia si è concentrata su gestione del debito pubblico e pensioni. Sono 5 milioni, come detto, gli italiani in povertà assoluta, quelli cioè che non riescono a far fronte a spese essenziali per il mantenimento di livelli di vita “minimamente accettabili”. Il fenomeno ha raggiunto una soglia limite e il numero non fa che aumentare: nel 2017 si contano 261 mila individui in più in tali condizioni rispetto al 2016 e il confronto è ancora più implacabile guardando al periodo precedente la crisi economica. Oggi l’8,3% della popolazione italiana vive in difficoltà estrema, contro appena il 3,9% del 2008, anno di inizio della recessione. Le famiglie in povertà assoluta sono 1,8 milioni, con un’incidenza del 6,9% sul totale dei nuclei, in crescita di sei decimi rispetto al 6,3% del 2016 - pari a 154 mila famiglie in più - e di quasi tre punti rispetto al 4% del 2008. L’aumento, spiega l’Istituto di statistica, dipende in parte dalla ripresa dell’inflazione verificatasi lo scorso anno, ma anche dal peggioramento della capacità di spesa di molte famiglie, concentrate soprattutto al Sud. Amara anche la fotografia dell’occupazione: lo scorso anno erano 1,1 milioni le famiglie italiane in cui tutti i componenti in età da lavoro erano in cerca di un impiego, praticamente in 4 nuclei su 100 non si percepiva alcun reddito da lavoro. Dato ancora una volta sconcertante rispetto al 2008, quando nella stessa situazione si trovavano circa la metà delle famiglie rilevate oggi, cioè 535 mila. Anche in questo caso è il Sud la zona d’Italia dove il fenomeno è più grave: più della metà del milione misurato dall’Istat (il 56,1%) è infatti residente nel Mezzogiorno. Bankitalia ha approfittato dell’audizione sul Def per lanciare il suo avvertimento: dare un “colpo secco e visibile” al debito, non toccare le pensioni e non mettere in discussione i risultati faticosamente ottenuti sui conti pubblici. Tema caldo, la previdenza, visto che come è noto tra i punti prioritari di un eventuale governo Lega-M5S ci sarebbe la cancellazione della legge Fornero. Il vicedirettore generale di Via Nazionale, Luigi Federico Signorini, ricordando che il debito pubblico italiano è ancora molto elevato, inferiore nell’area euro solo a quello greco, ha spiegato che la sua sostenibilità poggia in larga misura sulle riforme pensionistiche introdotte negli ultimi decenni, “uno dei punti di forza della finanza pubblica italiana” che non va indebolito. Anche perché la crescita, fino al 2017 in accelerazione, potrebbe ora rallentare, scendere nel 2018 all’1,4% o forse anche più in basso. In questo scenario, se davvero si vuole sterilizzare gli aumenti dell’Iva, come espressamente indicato da tutte le forze politiche, bisogna farlo cercando entrate alternative o tagli di spesa, ha concluso Signorini, senza utilizzare la leva del deficit. Le clausole di salvaguardia restano del resto un punto nodale per i prossimi mesi. Secondo Rete Imprese Italia, con gli aumenti dell’aliquota il rischio è di perdere 11,5 miliardi di Pil. Anche in base alle stime dell’Istat, non estinguerli peserebbe sul Pil del 2019 per lo 0,1% e sui consumi per lo 0,2%. L’Istituto di statistica teme peraltro già da quest’anno anche l’impatto amplificato sull’andamento dell’economia dei dazi statunitensi, pari al -0,3%, dovuto alla crisi dell’export soprattutto di auto, farmaci, prodotti chimici, oltre che dei più prevedibili mobili e alimentari. Infine, ieri è stata pubblicata la stima del patrimonio immobiliare pubblico italiano: secondo i dati diffusi dal ministero dell’Economia, l’Italia dispone di 1 milione di immobili pubblici, per un totale di 325 milioni di metri quadri e un equivalente valore patrimoniale di 283 miliardi di euro. In gran parte sono occupati dalla pubblica amministrazione, per un valore di 51 miliardi sono affidati a privati (gratuitamente o dietro affitto), per 12 miliardi non sono utilizzati. L’Europa tenta di salvare l’accordo con l’Iran (e la faccia) di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 10 maggio 2018 Riunione d’emergenza a Parigi, lunedì, tra i ministri degli esteri di Francia, Germania, Gran Bretagna e rappresentanti dell’Iran, per cercare di salvare l’accordo 5+1 del 2015. Emmanuel Macron ha telefonato a Hassan Rohani, ieri pomeriggio, per ricordare “la volontà della Francia di continuare a mettere in opera l’accordo nucleare iraniano in tutte le sue dimensioni”. I Ministri degli esteri di Francia e Iran si incontreranno prossimamente e oggi, a Aquisgrana, Macron discuterà della grave crisi con Angela Merkel. La cancelliera tedesca ha “preso atto con rammarico e inquietudine” della decisione Usa e assicurato che l’Europa “farà tutto” perché l’Iran rispetti l’accordo “vitale”. Il ministro britannico, Boris Johnson, ha sottolineato “l’incertezza diplomatica” aperta dalla decisione di Trump, chiedendosi “cosa propone?” il presidente Usa, ricordando che “l’accordo è vitale per la sicurezza britannica”. L’Ue insiste per “preservare il piano d’azione”, definito “uno dei migliori successi mai realizzati dalla diplomazia”. È la prima risposta degli europei alla richiesta dell’ayatollah Ali Khamenei, che vuole “garanzie reali” da parte dell’Europa. Le dichiarazioni dei tre paesi europei firmatari dell’accordo con Teheran del 14 luglio 2015 fanno seguito al comunicato comune di Francia, Germania e Gran Bretagna, subito dopo la decisione unilaterale di Trump, “determinati ad assicurare la messa in opera” dell’accordo, “mantenendo i benefici economici”. Per il ministro degli esteri francese, Jean-Yves Le Drian, “l’accordo non è morto”, ma mette in guardia sui “rischi di scontro reali”: “spero che non sia un fallimento per la pace” ha aggiunto. Le Drian accusa gli usa di “rottura di un impegno internazionale” e ricorda che l’Aiea (Agenzia per l’energia atomica) afferma che “l’Iran rispetta gli impegni”. Il 24 maggio Macron va in Russia, per incontrare Vladimir Putin. L’Europa prende posizione, incassando il fallimento dei recenti viaggi a Washington di Merkel, Johnson e Macron, che con la messa in scena dell’amicizia con Trump ha solo ottenuto una telefonata del presidente Usa, poco prima della dichiarazione esplosiva di mercoledì sera, per avvertirlo della sua scelta. Un comunicato breve e freddo dell’Eliseo, ha solo ricordato che “i due presidenti hanno evocato le questioni relative alla pace e alla stabilità in Medioriente”. Le relazioni transatlantiche sono scosse nelle fondamenta, peggio che nel 2003 e la divisione sulla guerra in Iraq. Questa volta, l’Europa ha reagito unita, almeno per il momento. Lo aveva già fatto con il precedente attacco, economico, sull’aumento dei dazi per acciaio e alluminio (ottenendo una sospensione temporanea). C’era già stata una reazione comune quando gli Usa erano usciti dall’accordo sul clima di Parigi. Oggi, ci sono reali rischi di guerra generalizzata in Medioriente, regione più vicina all’Europa che agli Usa. La distruzione del multilateralismo, operata da Trump, preoccupa gli europei, interdetti di fronte all’attacco contro il diritto internazionale e il rispetto degli accordi firmati. Le accuse di Trump all’Iran, di essere all’origine del terrorismo, lasciano di marmo gli europei, che hanno subito attentati organizzati da Daesch, espressione dell’islam sunnita. Macron ha tentato di trattenere Trump, con la proposta di riaprire un negoziato sugli aspetti trascurati dall’accordo del 2015. Ha fallito e oggi propone di prendere “come base l’accordo nucleare del 2015 per arrivare a un quadro mutualmente benefico”. C’è poi la questione economica. La minaccia di Washington è chiarissima: le imprese europee dovranno scegliere se fare affari con gli Usa o con l’Iran. Gli europei hanno molto da perdere, Francia in testa, con Germania e Italia. L’Iran ha ordinato 100 Airbus, per 19 miliardi di dollari, Total ha firmato un mega-contratto per South Pars 11, il più grande giacimento mondiale di gas, Renault e Peugeot si spartiscono il 40% del mercato dell’auto in Iran, Sanofi è presente con la farmaceutica. L’Europa deve fare i conti con l’extraterritorialità delle leggi Usa, hanno già subito mega-multe nel passato, per aver fatto contratti con l’Iran. L’Europa cercherà di aggirarle, con l’ipotesi di concludere contratti in euro e non più in dollari. Dimenticato Vanunu, l’uomo che rivelò il nucleare segreto di Israele di Michele Giorgio Il Manifesto, 10 maggio 2018 Il tecnico nucleare israeliano ha pagato con 18 anni di carcere l'aver denunciato le produzioni militari nella centrale di Dimona e il possesso da parte di Israele dell'arma atomica. Un arsenale su cui la comunità internazionali non ha mai voluto indagare. “Con voi italiani non ci parlo” ci dice sorridendo Mordechai Vanunu incontrandoci per strada a Gerusalemme Est, la zona palestinese, dove l’ex tecnico nucleare israeliano vive dal 2004, da quando è uscito, dopo 18 anni, dal carcere di Shikma. Scherza Vanunu ma fino ad un certo punto. Le condizioni del suo rilascio gli impongono da 14 anni di non dare interviste e neppure di parlare ai giornalisti. Altrimenti tornerà in prigione e i giornalisti stranieri saranno subito espulsi. E dell’Italia Vanunu non può certo avere una buona opinione. Nel 1986 il Mossad lo attirò in una trappola a Roma e da lì lo portò con la forza a Tel Aviv interrompendo le clamorose rivelazioni stava facendo al Sunday Times sull’atomica israeliana. Un rapimento sul quale l’Italia ha indagato molto poco preferendo nascondere sotto il tappeto l’accaduto in nome dei buoni rapporti con Tel Aviv. Roma, come le altre capitali occidentali, non ha mai avuto alcuna intenzione di proteggere l’uomo che ha svelato al mondo le produzioni atomiche militari nella centrale di Dimona e il possesso da parte di Israele di ordigni atomici. Il premier israeliano Netanyahu ieri ha ripetuto le sue accuse all’Iran che, afferma, avrebbe l’intenzione di costruire bombe nucleari mettendo a rischio l’esistenza di Israele. E ringrazia Donald Trump che martedì ha sfilato gli Stati Uniti dall’accordo internazionale del 2015 sul nucleare iraniano e imposto pesanti sanzioni a Teheran. Ma a conti fatti l’unico Paese del Medio Oriente a possedere segretamente l’atomica era e resta Israele. Usa, Europa e l’Aiea non hanno mai voluto indagare seriamente sul programma nucleare di Israele che, peraltro, non ha mai firmato il Trattato di non proliferazione e mantiene una posizione di ”ambiguità nucleare”, non ammette e non smentisce. “La vicenda del possesso da parte di Israele dell’arma atomica è uno degli aspetti più scandalosi della comunità internazionale” spiega al manifesto la giornalista e saggista Stefania Limiti, autrice del libro “Rapito a Roma” (ed. L’Unità, 2006) “i movimenti pacifisti e democratici devono molto a Mordechai Vanunu che nel 1986 ebbe il coraggio di denunciare quanto aveva avuto modo di vedere nella centrale di Dimona. Andò a Londra e denunciò che Israele possedeva un armamento atomico importante. Lo fece per una scelta di impegno civile e di testimonianza”. Vanunu “è stato dimenticato”, aggiunge Limiti, “è stato abbandonato, ha vissuto terribili anni di isolamento in prigione, e non può lasciare Israele. Nei suoi confronti l’Italia è in debito. La premier Thatcher intimò al Mossad di non rapirlo in Gran Bretagna e gli agenti israeliani misero in atto il sequestro a Roma. L’Italia ha avuto nel tempo una grave responsabilità, quella di abbandonarlo. Vanunu non va dimenticato perché ha sollevato il velo di menzogna che Israele aveva steso sul possesso di armi nucleari”. Le rivelazioni di Vanunu sono state decisive, grazie ad esse esperti internazionali hanno potuto calcolare fra 100 e 200 gli ordigni atomici negli arsenali israeliani. Il tecnico lavorò per nove anni a Dimona, costruita ufficialmente per la produzione di energia elettrica ma che il laburista Shimon Peres con l’aiuto del padre della atomica francese Francis Perrin trasformò in un impianto militare. Anni di lavoro in cui Vanunu maturò la decisione di riferire al mondo quanto vedeva ogni giorno. Con una Pentax scattò in segreto 58 foto nel Machon 2, un complesso di sei piani sotterranei della centrale atomica dove venivano prodotti annualmente una quarantina di kg di plutonio. Costretto a dimettersi, con uno zaino pieno di informazioni, Vanunu partì per l’Australia dove si mise in contatto con il Sunday Times. Giunto a Londra nell’agosto del 1986, si recò al giornale riferendo per due intere settimane i suoi segreti. Il giornale esitò a pubblicare il racconto. Lo fece solo il 5 ottobre, quando si seppe della scomparsa dell’israeliano. Vanunu si rivide in pubblico il 7 ottobre, a Gerusalemme, durante il processo per “alto tradimento”, quando con uno stratagemma - scrivendo sul palmo della mano che mostrò ai fotografi fuori dall’aula - fece sapere di aver raggiunto Roma il 30 settembre con il volo 504 della British Airways e di essere stato rapito. Indonesia. Rivolta nel carcere di massima sicurezza, sei morti e un ostaggio asianews.it, 10 maggio 2018 I prigionieri del centro di detenzione Mako Brimob sono circa 130 e sono sospettati o condannati per terrorismo. Si presume che i rivoltosi siano legati ad Amman Abdurrahman, leader del gruppo terroristico Jamaah Ansharut Daulah (Jad). L’ex governatore di Jakarta Basuki “Ahok” Tjahaja Purnama, detenuto nella struttura, è al sicuro. Agenti della squadra antiterrorismo Densus 88 circondano il centro di detenzione presso il quartier generale della Brigata mobile della polizia nazionale (Mako Brimob) a Kelapa Dua, reggenza di Depok (West Java). Da circa 24 ore l’edificio è teatro della rivolta di un gruppo prigionieri legati allo Stato islamico (Is), che ne rivendica le azioni su internet. Durante gli scontri hanno perso la vita cinque agenti di polizia ed un detenuto. Al presente, le autorità stanno negoziando il rilascio di un altro agente. Almeno quattro persone sono state incaricate di dialogare con i detenuti, che si presume siano legati ad Amman Abdurrahman, leader del gruppo terroristico Jamaah Ansharut Daulah (Jad). Anch’egli si trova all’interno della struttura. Secondo la polizia di Jakarta, la rivolta è iniziata intorno alle 19.30 di ieri sera. Uno dei detenuti ha chiesto il cibo che era stato portato da un membro della famiglia, ma il pasto era stato trattenuto da un ufficiale di polizia. Il prigioniero ha protestato con violenza e a lui si sono uniti gli altri carcerati, che hanno dato inizio ai disordini nei blocchi B e C. I rivoltosi hanno abbattuto i muri e le sbarre della prigione e fatto irruzione nella stanza degli investigatori, dove hanno aggredito gli agenti che stavano interrogando nuovi detenuti, sottraendo loro le armi. I prigionieri del centro di detenzione Mako Brimob sono circa 130 e sono persone sospettate o condannate per terrorismo. Il carcere è una struttura di massima sicurezza. L’ex governatore di Jakarta, Basuki “Ahok” Tjahaja Purnama, che sta scontando una condanna a due anni per blasfemia, vi è detenuto per motivi di sicurezza. Sua sorella ed ex assistente personale confermano che egli è al sicuro, dal momento che Ahok si trova in un altro blocco, separato dai terroristi.