Se il governo incorpora i controllori di Michele Ainis La Repubblica, 9 luglio 2018 Di qua i governanti, di là i garanti. In democrazia sono parenti, in Italia serpenti. La parentela deriva dal fatto che ogni sistema democratico si regge su una maggioranza che governa e su una minoranza garantita da un circuito di controlli, di contropoteri. La serpentela (chiamiamola così) è il veleno inoculato nel sistema se la politica disconosce il ruolo dei garanti, se s’oppone al loro agire. Fu per l’appunto questa la nostra maledizione nazionale durante il ventennio della seconda Repubblica, quando Berlusconi giunse a definire “disturbati mentali” quanti scelgono il concorso in magistratura (intervista al settimanale britannico The Spectator, 4 settembre 2003), chiedendo per sovrapprezzo un esame di sanità mentale per tutti i pm (comizio a Savona, 8 aprile 2008). Acqua passata, per fortuna. Nella terza Repubblica politica e giustizia amoreggiano come fidanzati. O no? Dopo la sentenza della Cassazione sui fondi neri della Lega, sembra proprio di no. Ad ascoltare l’intemerata del ministro dell’Interno (“processo politico”), a riascoltare le parole del sottosegretario alla Giustizia (“sciogliere le correnti di sinistra nella magistratura”), dovremmo concludere che la seconda Repubblica è ancora viva, e lotta insieme a noi. D’altronde non è che nella legislatura scorsa l’altro Matteo, all’epoca presidente del Consiglio, sprizzasse gioia dai pori per le inchieste giudiziarie sul suo babbo. Insomma, alle nostre latitudini giudici e politici sono sempre come cani e gatti. Sarà che la democrazia italiana è giovane, senza le tradizioni che altrove alimentano il rispetto delle garanzie costituzionali. Sarà che la rule of law, il primato del diritto sull’ordine sociale, è un concetto inglese, mentre noi italiani abbiamo scarsa dimestichezza con le lingue. O forse sarà, più semplicemente, che nessun automobilista bacia in fronte il vigile che lo sta multando. Controllati e controllori appartengono a due razze nemiche, c’è poco da fare. Eppure, nonostante ogni apparenza, l’esecutivo gialloverde ha un timbro diverso rispetto ai suoi predecessori. Perché è il primo governo giustizialista dell’età repubblicana, il primo schierato programmaticamente a fianco del potere giudiziario. Era giustizialista la Lega delle origini, quando un suo deputato sventolò un cappio nell’aula di Montecitorio (16 marzo 1993). È giustizialista la Lega del terzo millennio, con i suoi motti law and order, dalle pistole in casa al fine pena mai. Ed è giustizialista il Movimento 5 Stelle, che ha fatto della lotta alla corruzione una bandiera, fin dalla sua prima campagna (“Parlamento pulito”, 8 settembre 2007). Dunque il diritto, con i suoi riti, con le sue sentinelle in toga, dovrebbe ricevere il massimo rispetto presso il nuovo esecutivo. Non a caso è stato scelto, per guidarlo, un professore di diritto. E non a caso i gabinetti e gli uffici legislativi dei ministri sono in mano, oggi più di ieri, a un drappello di consiglieri di Stato, docenti universitari in materie giuridiche, avvocati dello Stato. Mentre giuristi in divisa gialloverde stanno per accasarsi alla Consulta (dove manca un giudice costituzionale da due anni) e al Csm (il 19 luglio Camera e Senato ne eleggeranno gli 8 membri laici). Ecco, a ben vedere stavolta il rischio non è l’opposizione, bensì l’incorporazione. Non l’ennesimo attentato all’indipendenza dei garanti, bensì un rosario di blandizie, d’adescamenti, di lusinghe. E anche le polemiche che ci hanno allietato in questo primo scorcio della legislatura ne offrono, a loro modo, una riprova. Quale elemento accomuna, infatti, il maldestro tentativo d’ordire un impeachment contro Mattarella e la richiesta (altrettanto maldestra) d’un suo intervento di censura contro la Cassazione? Uno soltanto: l’appello a un altro giudice, a un successivo grado di giudizio, quando la politica risulta soccombente nel verdetto dei garanti. Nel primo caso erano in ballo le garanzie costituzionali, nel cui nome il capo dello Stato aveva bocciato un singolo ministro (Savona); e allora i 5 Stelle pensarono d’appellarsi alla Consulta, che per l’appunto giudica i reati presidenziali. Nel secondo caso Mattarella, che presiede l’organo titolare dell’azione disciplinare verso i magistrati, che a sua volta è titolare del potere di grazia verso i condannati, è stato chiamato in causa dalla Lega come una sorta di super Cassazione, giacché la Cassazione le aveva dato torto. Troppa giustizia, insomma. Troppi appelli e contrappelli. Se nella seconda Repubblica l’autorità dei garanti era minacciata dall’odio dei politici, adesso la minaccia è il troppo amore. l voto per il Csm, l’occasione di cambiare il rapporto toghe-politica di Carlo Nordio Il Messaggero, 9 luglio 2018 Mentre i nostri cuori sono divisi tra l’esultanza e la trepidazione per la sorte dei bambini thailandesi, rimane poco spazio per occuparci del risultato di un’operazione più modesta, come l’elezione dei componenti togati del Consiglio Superiore della Magistratura, che conosceremo nelle prossime ore. In questi limiti, tuttavia, possiamo spendere qualche parola. Non ci saranno, ovviamente, rivoluzioni epocali. Ma alcuni significativi cambiamenti sono possibili. Per comprenderli, occorre partire da lontano. I componenti togati del Csm sono eletti nell’ambito di liste formate dalle cosiddette “correnti” dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), contro le quali, periodicamente, si scatenano critiche velenose. L’ultima, che ha fatto scalpore, è quella del sottosegretario alla Giustizia Morrone, che ne ha auspicato la soppressione. Ma questa sortita non deve ingannare. Le stesse cose le dicono da anni - in forma più soave - tutti i partiti. E le dicono anche i magistrati, principalmente quando vengono esclusi da qualche nomina o quando sono andati, o stanno per andare, in pensione. Il loro verecondo silenzio, durante il servizio, è dovuto al fatto che la loro progressione in carriera dipende, salvo casi rari, proprio dai rapporti con questi gruppi di potere. Qui viene il bello, o il brutto. Il magistrato ha infatti, come Giano, una duplice faccia. L’una rappresenta il suo ruolo di pubblico impiegato, che viene assunto, retribuito, e spedito in quiescenza. L’altra esprime la sua funzione giurisdizionale, per la quale è assolutamente indipendente dal potere politico godendo, per fortuna, di un’assoluta autonomia. Ora, è perfettamente lecito che il suo sindacato si articoli, come le altre organizzazioni nazionali, in varie componenti, per la tutela dei suoi diritti di lavoratore: ad esempio protestando se il governo taglia gli stipendi (come ha fatto) o la pensione (come pare intenda fare). Ma non è affatto lecito che lo stesso sindacato o le sue correnti si intromettano in questioni diverse, men che mai in quelle politiche. Purtroppo questo è avvenuto, con la sapiente complicità di un partito e con la colpevole rassegnazione degli altri, negli anni passati. Le correnti dell’Anm sono così intervenute su tutto: dalla guerra in Vietnam al divorzio, all’aborto, via via fino all’ultimo referendum. Alcune di esse hanno tenuto rapporti assai stretti con i partiti, e alcuni magistrati, una volta cessato il servizio, lo hanno ammesso apertamente. Infine, con lo scoppio di tangentopoli, si è avuto il corteggiamento delle toghe, molte delle quali sono entrate in Parlamento, in tutti gli schieramenti: un altro esempio funesto di confusione istituzionale. Con queste premesse, era inevitabile che si formasse la generalizzata opinione che la magistratura fosse in gran parte politicizzata. Ogni avvocato può testimoniare che la prima domanda rivoltagli dal cliente riguarda il colore della toga del suo giudice. Con la dissoluzione e la trasformazione dei vecchi partiti le cose son cambiate; più lentamente rispetto ai vari sconvolgimenti elettorali, ma son pur sempre cambiate, e stanno cambiando. È un bene o un male? Un bene, se questo significa una maggiore distanza dai condizionamenti esterni. Un male, se riflette uno sciatto ripiegamento verso una modesta mentalità impiegatizia. Una cosa è certa: poiché il crollo delle ideologie coinvolgerà anche la caratura dei membri eletti tra pochi giorni dal parlamento, avremo un Csm sempre più affrancato dai miti astratti delle vecchie dottrine fideistiche e più attento alla soluzione dei problemi concreti. Se si occuperà di quelli collettivi, relativi cioè alla nostra giustizia sgangherata, allora le correnti si trasformeranno - e ce lo auguriamo. in operose fucine di pensiero. Se invece si limiterà alla gestione di interessi individuali, cioè promozioni e trasferimenti, diventerà un arido deserto di clientelismo. Se poi, Dio non voglia, riprendesse a far politica, si troverebbe prima o dopo, ad affrontare un risolutivo intervento di quest’ultima. E in tal caso se lo sarebbe meritato. Un suicidio lungo venticinque anni, così la politica si è consegnata ai pm di Mattia Feltri La Stampa, 9 luglio 2018 I problemi della Lega con la magistratura, al di là del merito della faccenda, derivano dal terribile errore commesso dalla politica venticinque anni fa, quando trascurò una legge fondamentale della fisica istituzionale codificata da Alexis de Tocqueville: ogni potere tende per sua natura a espandersi. Il 29 aprile del 1993 la Camera negò l’autorizzazione a procedere per Bettino Craxi e il Pds - gettando le basi dei fallimenti successivi - in protesta ritirò la sua delegazione al governo di Carlo Azeglio Ciampi, che poche ore prima aveva giurato al Quirinale. Attraverso il presidente di Montecitorio, Giorgio Napolitano, promosse l’abolizione dell’immunità parlamentare, completata nell’arco di una notte. La guarentigia, di cui s’era fatta distorsione e soperchieria da lustri, era stata studiata anche per stabilire un equilibrio fra i poteri: la politica conservava una difesa invalicabile davanti a una magistratura dotata di un’autonomia sconosciuta nel mondo occidentale, dove i giudicanti sono autonomi, ma gli inquirenti vengono sottoposti al controllo, più o meno invasivo, del governo. L’equilibrio mutò in squilibrio e non se n’è usciti più. Nel frattempo almeno due governi (già instabili) sono caduti per inchieste giudiziarie, quello di Silvio Berlusconi nel 1994 e quello di Romano Prodi nel 2008. Berlusconi fu raggiunto da un invito a comparire della procura di Milano, che lavorava sulle tangenti alla Guardia di finanza, e Prodi ebbe il suo ministro della Giustizia, Clemente Mastella, indagato dall’ufficio di Santa Maria Capua Vetere, il che scandalizzò un altro ministro, Antonio Di Pietro, e non si trovò riparo. Le due inchieste sono finite in niente, oltretutto, ma il danno oramai era fatto. Un governo di destra e un governo di sinistra, e già almeno lì ci si sarebbe dovuti rendere conto che parlare di “toghe rosse”, come ha ripetuto l’altro giorno il sottosegretario leghista Jacopo Morrone, era stato un abbaglio giustificato dall’esito di Mani pulite, da cui il Pds era uscito fischiettando e con le mani in tasca, nonostante il suo contributo alla spartizione fosse stabilito anche per sentenza. Forse era più giusto parlare di (alcune) toghe a cui capitava di scambiare l’autonomia per arbitrio, e soprattutto di un potere che si era espanso e tendeva a espandersi ulteriormente. È una guerra che prosegue da due decenni e mezzo, ci sono stati condannati (lo stesso Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Umberto Bossi, Salvatore Cuffaro, solo per dirne alcuni fra molti, compresi parecchi semi-leader di sinistra) e ci sono stati scandali finiti in nulla, dalla mitologica inchiesta Why Not di Luigi De Magistris (oggi sindaco di Napoli) per cui venne indagato Prodi, a Telekom Serbia sulle fake-mazzette ai Ds, a Tempa Rossa che diede la prima scossa al governo di Matteo Renzi, e in attesa di capire come finirà Consip, e cioè se davvero è stata condotta con metodi ai limite dell’eversione. E ne sono derivati scontri cinematografici, a cominciare dalla defenestrazione nel 1995 attraverso sfiducia individuale (la buffonesca pratica cominciò lì) di Filippo Mancuso, ministro della Giustizia in violentissimo contrasto con la procura di Milano. L’anno dopo Bobo Maroni e Roberto Calderoli si opposero fisicamente a una perquisizione nella sede di via Bellerio, nell’ambito di una psichedelica inchiesta per attentato all’integrità dello Stato (i golpisti erano le camicie verdi), e finirono in tribunale per resistenza a pubblico ufficiale. Ecco, la Lega è sempre in mezzo. O di qua o di là. Esordì a certi livelli col cappio in Parlamento, da infilare al collo dei tangentisti, e intanto che Bossi prometteva di raddrizzare la schiena a un pm di Varese troppo interessato alla contabilità padana. È l’unica regola che abbia disciplinato la vita nella seconda Repubblica: se sono indagati loro, è l’epifanico disvelamento del marcio; se siamo indagati noi, è giustizia a orologeria, complotto, colpo di Stato. Non soltanto la politica ha deliberatamente ceduto terreno alla magistratura, per poi accusarla di averlo occupato, ma si è anche giovata del lavoro delle procure - a volte buono, altre volte spericolato - per colpire i rivali, che presto avrebbero ricambiato in una giostra demente. Anche oggi è tutto meraviglioso. La Lega, che ha impegnato una dozzina di campagne elettorali, in parte compresa l’ultima, per denunciare la criminalità degli avversari, adesso grida alla congiura, e intanto che quelli del Pd inondano i social (ma Matteo Renzi no, va detto) per chiedere ai salviniani la restituzione del maltolto, probabilmente senza avere letto due righe della sentenza. Va avanti così - è spossante - dal 1992, con il contributo dei giornali che dettagliano per pagine sull’apertura dei fascicoli, e sulle conseguenti scazzottate politiche, per poi trascurare le assoluzioni che si succedono implacabili: l’assoluzione di Filippo Penati, di Vasco Errani, di Gianni Alemanno, di Ercole Incalza (l’Alta velocità, ricordate?), di Calogero Mannino, di Luigi Cesaro, di Maurizio Gasparri, di Sandro Frisullo, persino le molte assoluzioni di Silvio Berlusconi. Si potrebbe andare avanti per venti pagine, con le assoluzioni. Ma siccome la vita è cadenzata dalle indagini preliminari, e soltanto quelle contano, e soltanto su quelle si fonda il dibattito pubblico, la nostra percezione della corruzione (utile a compilare dozzinali graduatorie internazionali) è simile alla percezione dell’immigrazione: distorta per autosuggestione, e le rime danno l’idea della cantilena. Come i politici, nella stragrande maggioranza, non capiscano in quale gioco scemo e suicida siano caduti, è un mistero. Eppure c’è un solo modo perché la magistratura ricominci a fare la magistratura, e cioè che la politica ricominci a fare politica: ecco una bella questione morale. Abnorme restituire gli atti al pubblico ministero se il Gup ritiene l’imputazione non corretta di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 26 giugno 2018 n. 29334. È abnorme il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare, investito della richiesta di rinvio a giudizio (nella specie in ordine al reato di cui all’articolo 73 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309), modifichi l’imputazione elevata dal pubblico ministero (nella specie, ritenendo ravvisabile il reato di cui al comma 5 del citato articolo 73, per il quale si doveva procedere a citazione diretta), disponendo la restituzione degli atti a quest’ultimo, perché proceda a citazione diretta. Lo ha stabilito la Suprema corte con la sentenza 26 giugno 2018 n. 29334. A supporto, la Cassazione ha evidenziato che è pur vero che l’articolo 33-sexies del Cppconsente al giudice dell’udienza preliminare, che ritenga che per il reato debba procedersi con citazione diretta a giudizio, di trasmettere con ordinanza gli atti al pubblico ministero per l’emissione del decreto di citazione ex articolo 552 del Cpp. Tuttavia, il giudice deve restare nell’ambito dell’imputazione formulata dal pubblico ministero, non potendo, ai fini dell’adozione del provvedimento ex articolo 33-sexies del Cpp, modificare i termini fattuali dell’imputazione. In definitiva, secondo il ragionamento della Corte di legittimità, l’articolo 33-sexies del Cpp presuppone un’erronea formulazione della richiesta di rinvio a giudizio in relazione al reato così come contestato dal pubblico ministero e non trova invece applicazione allorché il fatto-reato venga riqualificato autonomamente dal giudice dell’udienza preliminare. Per l’effetto, il giudice, nel caso in cui ritenga l’imputazione formulata in modo non corretto o infondata, può procedere alla sua modifica provvedendo a una riduzione dell’imputazione o a un proscioglimento dell’imputato ma a tali esiti può pervenire esclusivamente seguendo i percorsi previsti dagli articoli 429 o 425 del Cppe non già quello delineato dall’articolo 33-sexies del Cpp(in termini, tra le altre, sezione V, 10 luglio 2008, Pm in proc. Ragazzoni, nonché, sezione V, 22 febbraio 2012, Pm in proc. De Cicco). Mentre laddove procedesse erroneamente restituendo gli atti al pubblico ministero, l’abnormità del provvedimento deriverebbe dal fatto che un tale modus procedendi determinerebbe una stasi processuale, perché il pubblico ministero, che dovrebbe attenersi alla indicazione del giudice, non potrebbe più elevare l’imputazione ritenuta più corretta in base ai dati fattuali a disposizione, con inevitabile stallo del procedimento. La Corte limita gli effetti penali delle presunzioni tributarie di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2018 Le contestazioni basate su presunzioni tributarie possono essere rilevanti ai fini penali solo per l’eventuale sequestro ma non per la successiva condanna. È questa la posizione consolidata della giurisprudenza di legittimità rispetto all’utilizzo delle presunzioni fiscali in ambito penale (tra le ultime, le sentenze 26274, 23182 e 22002 del 2018). Negli accertamenti tributari gran parte delle rettifiche sono fondate su presunzioni: si pensi agli accertamenti bancari, agli accertamenti induttivi sulle medie di ricarico riscontrate in sede di verifica, alle contestazioni Iva in presenza di fatture soggettivamente inesistenti per assenza di buona fede da parte dell’acquirente. Si tratta di casi in cui la pretesa erariale non deriva da prove concrete di evasione, ma da presunzioni legali e talvolta anche prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. In queste frequenti ipotesi i verificatori, una volta effettuate le contestazioni (derivanti appunto dall’applicazione delle presunzioni) e rilevato il superamento della soglia di punibilità, segnalano il tutto alla procura della Repubblica. Il Pm successivamente può anche richiedere al Gip il sequestro per importi equivalenti a quelli evasi in previsione di una futura confisca nel caso di condanna Da evidenziare che spesso la Guardia di finanza già nella comunicazione della notizia di reato sollecita il Pm affinché richieda la misura cautelare Il raggio d’azione delle presunzioni fiscali - Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, le presunzioni fiscali non possono da sole essere utilizzate ai fini della quantificazione della imposta evasa penalmente rilevante. A tale principio fa eccezione il sequestro preventivo diretto o per equivalente attraverso il quale sottoponendo a vincolo determinati beni di valore equivalente ovvero il profitto diretto dell’evasione si assicura la futura esecuzione della confisca in caso di condanna dell’indagato. In sostanza per la Corte di cassazione le presunzioni vigenti in campo fiscale, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati tributari, rappresentano esclusivamente dati di fatto liberamente valutabili dal giudice penale insieme ad altri riscontri. Tali risultanze non possono quindi rappresentare da sole un elemento di prova idoneo a sorreggere l’accusa: il giudice penale ha pertanto il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa mediante una verifica che deve privilegiare il dato fattuale rispetto ai criteri formali che caratterizzano l’ordinamento fiscale. L’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude, in sostanza, che il giudice possa avvalersi degli stessi elementi posti a base della contestazione fiscale, a condizione però che siano assunti non con efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione probatoria. Le presunzioni hanno così il valore di un indizio e, per assurgere a prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni gravi, precise e concordanti. Il doppio binario - Nell’ordinamento esiste così il “doppio binario”: nel processo penale, l’onere della prova è sempre a carico dell’accusa e non è ammessa un’inversione probatoria attraverso l’utilizzo di presunzioni. Deve essere effettivamente provata la sussistenza del reato, sia circa la commissione del fatto materiale, sia per quanto concerne l’elemento psicologico (nei reati tributari in genere costituito dal dolo specifico); nel giudizio tributario, l’elemento soggettivo è irrilevante per la configurazione di un’evasione e se il contribuente non fornisce la prova contraria a quella meramente presuntiva viene comunque ritenuto responsabile della violazione contestata. Reati ambientali: la culpa in vigilando del titolare dell’impresa Il Sole 24 Ore, 9 luglio 2018 Reati in materia ambientale - Rifiuti - Abbandono incontrollato - Reato a condotta attiva - Non necessariamente - Culpa in vigilando del titolare o del responsabile aziendale. In materia ambientale e in riferimento al reato di abbandono incontrollato di rifiuti, il titolare e il responsabile dell’impresa o dell’ente rispondono non solo a titolo commissivo ma anche per omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti che abbiano posto in essere la condotta di abbandono. Infatti il reato di cui all’articolo 256 del d.lgs. 152 del 2006, anche se reato proprio dell’imprenditore o del responsabile, non è necessariamente un reato a condotta attiva. Tuttavia la culpa in vigilando del titolare o del responsabile aziendale postula sempre un accertamento pieno dell’eventuale contenuto attivo, partecipativo od omissivo della condotta incriminata; in altri termini occorre accertare che quest’ultima non sia frutto di un’autonoma iniziativa del dipendente contro le direttive e ad insaputa del titolare dell’impresa o del suo responsabile. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 20 giugno 2018 n. 28492. Reato di cui all’articolo 256 c. 2 D.lgs. 152/2006 - Azienda - Abbandono di rifiuti bituminosi da parte degli operai in violazione dell’art. 192 c. 1 D.lgs. citato - Proprietario e Amministratore unico di società - Dovere di vigilanza - Inottemperanza - Responsabilità non esclusa. In materia ambientale, i titolari e i responsabili di enti ed imprese rispondono del reato di abbandono incontrollato di rifiuti non solo a titolo commissivo, ma anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti che abbiano posto in essere la condotta di abbandono. (Fattispecie di scarico incontrollato di rifiuti bituminosi all’interno di un parco fluviale). • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 1° ottobre 2014 n. 40530. Sanità pubblica - In genere - Gestione dei rifiuti - Abbandono incontrollato - Reato di cui all’articolo 256, secondo comma, d.lgs. n. 152 del 2006 - Condotta - Reato commissivo e/o omissivo - Ammissibilità. In tema di gestione dei rifiuti, il reato di abbandono incontrollato di rifiuti è ascrivibile ai titolari di enti ed imprese ed ai responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull’operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta di abbandono. (Fattispecie nella quale il sequestro preventivo riguardava un autocarro adibito al trasporto di rifiuti abbandonati in modo incontrollato e condotto da un dipendente del titolare dell’impresa). • Corte di Cassazione, sezione III, sentenza 22 giugno 2007 n. 24736. Reati ambientali - Gestione dei rifiuti - Responsabilità del titolare di azienda - Fondamento - Individuazione. In tema di rifiuti, la responsabilità per l’attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza, per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione, e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell’azienda. (In applicazione di tali principi la Corte ha ritenuto la responsabilità dei titolari di una impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto e lo smaltimento degli stessi, con automezzo di proprietà della società, in assenza delle prescritte autorizzazioni). • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 11 dicembre 2003 n. 47432. Sicilia: malati psichiatrici in carcere “mancano progetti per l’inserimento nelle Rems” superabile.it, 9 luglio 2018 Parla padre Pippo Insana, per oltre 29 anni cappellano dell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. In Sicilia attualmente le Rems sono 2 per 40 posti, ma è in fase di attivazione anche una terza struttura. “Viviamo una situazione disastrosa”. Fare uscire per legge i pazienti psichiatrici ancora detenuti “illegalmente” nelle carceri attraverso i progetti terapeutici individualizzati che il dipartimento di salute mentale dovrebbe stilare in accordo con il magistrato. Secondo padre Pippo Insana, per 29 anni cappellano dell’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, solo a partire da questo si può pensare ai trasferimenti in comunità di accoglienza oppure al ritorno in famiglia. Nelle Rems, invece, dovrebbero andare - come ultima ratio - soltanto coloro che hanno patologie psichiatriche acute e che non sono collaborativi. “Il superamento degli Opg con la loro chiusura definitiva - sottolinea padre Pippo Insana - non significa il passaggio o trasferimento automatico delle persone dentro le Rems. La legge 81 del 2014 prevede che entro 45 giorni il dipartimento di salute mentale che segue la persona sottoposta a regime cautelare produca un progetto terapeutico riabilitativo individualizzato richiesto dal magistrato. Quindi solo in base ad una valutazione del caso si potrà capire se la persona dovrà essere inserita in una Rems oppure in una struttura residenziale come comunità terapeutica assistita o comunità alloggio. Inoltre, dentro le Rems in base al programma terapeutico si dovrebbe stare soltanto il periodo limitato e atto a prendere consapevolezza della malattia e della possibilità di migliorare. E uscire se si diventa collaborativi”. In Sicilia attualmente le Rems sono 2 per 40 posti, ma è in fase di attivazione anche una terza struttura. “A Naso nella Rems con 20 posti - continua Insana - ci sono 16 persone con misure definitive che avendo ormai da tempo i progetti terapeutici individualizzati aspettano che il magistrato di competenza li dimetta per capire dove trasferirli. In questi casi, quindi il ruolo del magistrato può essere determinante per snellire di fatto lo svuotamento delle Rems e favorire l’eventuale inserimento di altre persone”. Attualmente in Sicilia c’è una lista di 70 richieste da parte dei magistrati per l’inserimento di alcune persone dentro le Rems. “Però dobbiamo stare attenti perché - continua ancora padre Pippo Insana - andrebbe valutato se per tutti i casi sia necessario l’inserimento nelle Rems oppure se le persone possono rimanere nelle realtà dove si trovano, dove stanno facendo un percorso terapeutico o addirittura possono stare in famiglia con gli obblighi di presentarsi ai servizi di salute mentale”. “Pur considerando, inoltre, che la situazione di alcune persone ‘ristrette illegalmentè è grave, non penso che la soluzione immediata possa essere quella di realizzare delle strutture intermedie in carcere - sottolinea ancora - perché significherebbe fare un passo indietro rispetto alle battaglie che abbiamo finora portato avanti. Occorre, invece, che magistratura competente in accordo con il Dsm valutino i progetti di fuoriuscita per capire in quale realtà possano essere subito inseriti”. “In una prospettiva più ampia, se però nel territorio ci fossero cure di accompagnamento terapeutico assistito adeguate - aggiunge ancora p. Insana - come prevede la legge soltanto in casi sempre più rari la persona con patologia psichiatrica commetterebbe reato. Il problema reale è che si deve attuare pienamente la normativa sulla salute mentale secondo quanto prevede il piano socio-sanitario regionale. Viviamo una situazione disastrosa in quasi tutta la Sicilia facendo eccezione per la provincia di Enna che ha saputo organizzare le risorse e attraverso un lavoro di rete tra enti locali e distretto socio-sanitarie fa vivere in maniera dignitosa alcune persone con patologie psichiatriche”. “Il 55% delle risorse sanitarie per la psichiatria in Sicilia sono tutte per le residenze h24 (Cta e comunità alloggio). Nonostante dovrebbero vivere in questi luoghi, secondo un decreto della Borsellino, non più di 72 mesi, alcuni ci vivono anche 18 anni e addirittura fino alla morte. Tutto questo andrebbe cambiato rivalutando e ridiscutendo le risorse finanziarie per questo tipo di residenze la cui gestione poco controllata a volte è molto discutibile. Ci aspettiamo, invece, maggiori risorse di cura, riabilitazione e risocializzazione dedicate a queste persone come prevede il piano socio-sanitario del 2017”. Un discorso a parte si deve fare invece per i parecchi “sopravvenuti” cioè persone che sono entrate sane ma che si ammalano purtroppo in carcere. “Questa è un’altra cosa che va denunciata - incalza p. Pippo Insana - alle autorità competenti sanitarie e giudiziarie. Si tratta di persone per cui occorre intensificare il lavoro di tutto il personale di assistenza in carcere. In alcuni casi vivono situazioni di abbandono, di solitudine e di ozio molto forti dove si innescano pure i casi di promiscuità, aggressione, autolesionismo, tentati suicidi e suicidi. È stata approvata una modifica del codice penale in cui si dice che le persone inferme di mente detenute devono stare in luoghi diversi dal carcere. Ancora però il governo deve definire questo processo di modifica del codice”. Padre Pippo Insana oltre ad avere partecipato da anni attivamente a tutto il percorso che ha portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici giudiziari in Italia, oggi è responsabile dell’associazione di volontariato “Casa di solidarietà e accoglienza” che a Messina opera a favore di persone dimesse dall’ex Opg con patologie psichiatriche. Attualmente la comunità ospita sei persone. Fossombrone (Pu): vite, vittorie e limiti del polo universitario penitenziario di Giulia Della Martera termometropolitico.it, 9 luglio 2018 Accompagno la professoressa Daniela Pajardi, coordinatrice del polo universitario penitenziario di Fossombrone - sede distaccata dell’ateneo di Urbino - nel tragitto dalla sede della facoltà di sociologia fino ad un ufficio. Giusto il tempo di una chiacchierata sotto le goccioline di pioggia che cominciavano appena a scendere. Le domando della situazione dei poli universitari penitenziari in Italia, della sua esperienza come insegnante di detenuti, delle difficoltà ma anche delle possibilità che apre questo progetto. Una realtà funzionante, ma sicuramente da implementare soprattutto a causa della disomogenea distribuzione geografica dei poli e della burocrazia Dai dati del Ministero della Giustizia, al 2016 si contavano 19 poli universitari all’interno delle carceri italiane. Secondo lei la mancanza di un polo nei restanti istituti di pena è dovuta più a resistenze istituzionali o mancanza di interesse da parte dei detenuti? O comunque quali potrebbero essere le cause di questa mancanza? Beh, sicuramente non disinteresse da parte dei detenuti. Incide molto la geografia di distribuzione del polo universitario penitenziario in Italia - oggi dovrebbero essere un po’ di più rispetto al 2016. L’importante è che quella dei poli sia diventata ad oggi una realtà istituzionale riconosciuta dal Crui, cioè dalla conferenza dei rettori. La conferenza dei Pup all’interno del Crui coordinata dal professore Pria di Torino, che è stato votato come presidente del coordinamento e che quindi diventa una realtà che non è più, isolata, legata alla buona volontà Infatti, avevo percepito l’attività dei professori nel carcere come una sorta di volontariato… Sì, la nostra attività è volontaria. Quella che noi professori facciamo è comunque un’attività che fa parte del nostro dovere riconosciuto dall’ateneo, con Fossombrone come polo distaccato. Tutti i colleghi aderenti si impegnano molto, organizzando seminari e incontri all’interno del penitenziario ad esempio. Anche il mio ruolo da coordinatrice è assolutamente volontario. Secondo lei sarebbe possibile istituire una realtà universitaria unica per le carceri, distaccata dagli atenei? Mah, non avrebbe molto senso. La situazione va benissimo così come si sta creando. Quindi poli universitari penitenziari come distaccamento degli atenei presenti sul territorio. Questa organizzazione serve anche per mantenere un legame con la società? La situazione è che ci sono alcuni poli che sono iniziati storicamente - Torino, Bologna, la Toscana - altri che sono piccole realtà. Il problema è che non c’è una equa distribuzione geografica. Il centro-sud deve incrementare questa realtà; ciò dipende dalla sensibilità degli atenei di promuovere delle iniziative con i nostri referenti - i provveditorati all’amministrazione penitenziari, enti regionali o di due regioni consorziate - oltre che con le direzioni dei singoli carceri interessati. Quindi è una realtà - quella de polo universitario penitenziario - che rimane più locale, non è prevista un’ottica di accentramento… No e non può esserci. Rimane un progetto di coordinamento. Non sarebbe possibile perciò la costituzione di un’unica istituzione di polo universitario penitenziario con propri professori? No, non sarebbe possibile farlo… hai comunque dei numeri esigui di studenti. Noi (polo universitario di Fossombrone) abbiamo già dei numeri medio alti per essere stato istituito da poco. Il polo più grande, mi sembra Torino, ha comunque 50 studenti. I nostri 23 studenti sono poi iscritti a 7 corsi diversi. È quindi impensabile anche per il fatto che la popolazione penitenziaria migra: scarcerazioni, trasferimenti, avvicinamenti. Quindi in realtà la soluzione così funziona - cioè che gli atenei e le carceri e i provveditorati delle amministrazioni penitenziarie si consorzino e organizzino un distaccamento e una realtà organizzativa che permetta ai detenuti-studenti di avere qualche attività didattica e un collegamento, secondo le modalità possibili, con l’università. Com’è l’impatto con le storie dei detenuti? Si riesce a mantenere il distacco, classico nel rapporto docente-studente, oppure si viene per forza di cose coinvolti? Che rapporto si instaura tra docente e studente? Dipende molto dalla materia, sia dal detenuto che dal docente. Ci sono materie che coinvolgono. Certo che se uno dà un esame di diritto o di linguistica, ci sono pochi agganci possibili di coinvolgimento. Se uno insegna sociologia della devianza, psicologia o degli argomenti in cui ci può essere una breccia con l’spetto personale. Difficilmente i detenuti toccano aspetti personali perché sentono molto, rispetto agli studenti, la formalità del rapporto. Perché sono abituati a situazioni di interazione con agenti e operatori, in un rapporto assolutamente distaccato e formale. Rimane comunque un rapporto professionale, quindi deve esserci del distacco. Rimangono studenti e docenti. Ci sono docenti che vengono spesso con cui si instaura un rapporto e allora lì può esserci il parlare, raccontare, fare riferimento al proprio vissuto. Direi che le distanze sono abbastanza analoghe a quelle che si instaurano fuori, ma con un margine maggiore di formalità…per darle un’idea uno studente non sapeva che poteva rifiutare un voto. Gli abbiamo detto: “ma lo potevi rifiutare.” “Ma io ho pensato: se il professore ha fatto questa valutazione di me, io chi sono per rifiutarlo”. C’è quindi un grande rispetto per la figura del docente, nel polo universitario penitenziario… Un enorme rispetto e gratitudine perché sentono che le persone si organizzano fanno sacrifici, che qualcuno si interessa a loro. un granissimo rispetto che hanno manifestato anche l’incontro con gli studenti. Loro non si capacitano di come siano possibili queste aggressioni verso i professori, che ultimamente si sentono. Hanno molto questo senso di… Di riverenza… Sì di riverenza non solo rispetto al ruolo formale del docente, ma anche verso la sua cultura e preparazione. Noi tendenzialmente come staff e come docenti delle loro storie processuali e criminologiche, dei loro reati non sappiamo niente e niente vogliamo sapere. Gli studenti che hanno cominciato la loro carriera universitaria, si sono visti migliori nelle capacità di adattarsi alle condizioni di vita all’interno del carcere, accettano meglio la loro situazione, oppure avvertono ancora un maggiore distacco? La maggior parte di loro vive questa esperienza come di grande crescita personale e ci dicono “ci date delle ore di libertà in carcere, perché la nostra mete vaga su qualche cosa che non è solo pensare al passato”. È comunque un tempo che dedicano a qualcosa di produttivo… Qualcuno di loro ci ha detto “con questa esperienza io no tornerò mai dentro.” Quello che serve molto a loro è ritrovare fiducia nelle proprie capacità. Il carcere è un ambiente in cui loro non hanno attività gratificanti. Nemmeno nelle attività lavorative. Non percepiscono di avere ancor valore come persone, che possono ancora fare qualcosa di bello e di buono… con questo progetto loro possono focalizzare le proprie energie verso un obiettivo. Sono degli obiettivi che riescono a realizzare, ciò gli permette di ritrovare un’autostima. Per esempio, quando riescono a capire un argomento particolarmente difficile. In conclusione, quali sono state le maggiori difficoltà incontrate durante la progettazione e l’operativizzazione del progetto polo universitario nel carcere? La burocrazia di tre amministrazioni diverse. La gestione degli spazi, che a Fossombrone sono veramente pochi e su cui stiamo lavorando. Anche portare del materiale all’interno del carcere è difficile… Stiamo cercando di lavorare con l’amministrazione penitenziaria per trovare una soluzione operativa a dei vincoli che non avete idea di cosa possono essere. Ad esempio, i cd devono essere solo non riscrivibili, controllati. Abbiamo cercato di trovare soluzioni e in questo c’è una grande disponibilità da parte delle amministrazioni. C’è un’apertura anche se ovviamente ci sono persone che ci possono credere di più o di meno. I problemi riguardano anche ad esempio il fatto che deve essere tutto fatto con moduli cartacei, mentre per voi studenti si svolge ormai tutto su piattaforme online. Ci sono molto aspetti in cui le amministrazioni devono basarsi e tornare indietro nel tempo in cui niente è online, ma è tutto cartaceo e ci sono aspetti di burocrazia che come non capite voi studenti, là vengono compresi ancora meno. Dobbiamo pensare che alcuni studenti iscritti sono detenuti da 10-15 anni e quindi non si sono potuti aggiornare, ci sono studenti che hanno svolto addirittura le medie e le superiori all’interno del penitenziario. Pavia: borse lavoro ai detenuti per pulire il paese di Cassolnovo La Provincia Pavese, 9 luglio 2018 La giunta pulisce il paese con le borse lavoro. “Abbiamo fatto pulizia in tutto il paese - spiega il vicesindaco Davide Vai - dando fondo ai pochi fondi in cassa e utilizzando tutte le borse lavoro. Come l’anno scorso abbiamo messo in pratica la convenzione con la Provincia di Pavia per pulire tutti gli ingressi del paese. Con i pochi fondi disponibili abbiamo incaricato le due ditte che già lavorano per la manutenzione del verde di fare altri interventi. Ora il paese è pulito, ma è necessario che tutti i cittadini contribuiscano a non sporcare”. Oltre alle borse lavoro, ridotte rispetto al passato, a causa delle risorse diminuite con la nuova organizzazione dei piani di zone, l’amministrazione ha utilizzato la convenzione con il carcere di Vigevano. La prossima settimana alcuni detenuti torneranno a occuparsi della pulizia del paese, come fatto per una settimana a giugno. “Manterremo le borse lavoro fino a dicembre - continua Vai - e siamo soddisfatti del lavoro dei detenuti”. Padova: Pallalpiede, altra Coppa Disciplina, è la quarta su altrettanti tornei di Stefano Volpe Il Mattino di Padova, 9 luglio 2018 La squadra dei detenuti del carcere Due Palazzi è stata premiata dal sindaco Giordani e dalla giunta comunale. E sono quattro su quattro. Anche questa stagione si è chiusa con il massimo riconoscimento possibile per Pallalpiede, che ha portato a casa la quarta Coppa disciplina (su altrettanti campionati disputati) di Terza Categoria. Quasi non farebbe più notizia se non fosse che Pallalpiede è la squadra composta da detenuti del carcere Due Palazzi, che dal 2014 gioca nel campionato federale, pur senza fare classifica, visto che tutte le proprie partite le disputa nel campo di calcio interno al penitenziario. Altrimenti alla Coppa disciplina (assegnata alla squadra più corretta del torneo) la formazione, presieduta da Paolo Piva e allenata da Fernando Badon, avrebbe potuto aggiungere una promozione. Giorni fa Pallalpiede è stata premiata a Palazzo Moroni dal sindaco Giordani e dall’intera giunta, che ha consegnato alla dirigenza una targa. In cambio i giocatori (rappresentati da tre detenuti in permesso) hanno regalato al primo cittadino e agli assessori le medaglie vinte in questa stagione. “Mi sono emozionato, non avevo mai incontrato un sindaco “, ha confessato Riad, uno dei tre giocatori presenti alla cerimonia. “Questo progetto ci sta aiutando molto, speriamo l’anno prossimo di avere anche il tifo dalla nostra parte”. Sì perché da qualche mese al campo del carcere è stata costruita una tribuna che la prossima stagione potrebbe ospitare qualche detenuto come spettatore delle gare. “I lavori al campo ci hanno costretto in quest’ultima annata ad allenarci per quasi tre mesi in palestra e al rinvio delle prime quattro gare”, spiega la direttrice sportiva Lara Mottarlini. “Un disagio che rischiava di tagliare le gambe alla squadra, invece hanno reagito al meglio. Per la prima volta, e queste ci rende felici, abbiamo visto un gruppo molto coeso”. E questo fa ben sperare per la prossima stagione che va a iniziare. L’attenzione che l’amministrazione comunale di Padova dimostra per la squadra è sintomo che la città crede in questa straordinaria realtà. Avezzano (Aq): assaggio di libertà ai detenuti, partita contro Comune, giudici e avvocati marsicalive.it, 9 luglio 2018 Assaggio di “libertà” per alcuni detenuti del carcere di Avezzano che giocheranno ad “armi pari” con amministratori comunali, giudici e avvocati una partita di beneficenza alla palestra di via Pereto. L’incontro di calcetto, promosso dal Comune in sintonia con il direttore della casa circondariale, che sancisce la promessa fatta in occasione dei tornei di calcetto e calcio balilla svoltesi all’interno della casa di pena, è in agenda domenica alle 11. L’impegno, quindi, si trasforma in realtà grazie alla collaborazione tra gli amministratori e il direttore del carcere Mario Silla, il comandante delle guardie Giovanni Luccitti, i collaboratori e suor Benigna che hanno ottenuto le autorizzazioni per disputare l’incontro di calcetto fuori dalla casa circondariale dove i detenuti stanno scontando le pene. “La manifestazione all’insegna dello sport”, affermano il sindaco Antonio Floris e l’assessore allo sport Vincenzo “Pissino” Gallese, “consentirà un momento di aggregazione per i detenuti con l’auspicio che molti di loro possano avere al più presto la possibilità di un sereno reinserimento nella vita sociale”. Un assaggio di libertà per il gruppo di detenuti, quindi, in attesa di tornare cittadini liberi. La partita di calcetto, che sarà arbitrata dall’avvocato Alfredo Chiantini, vedrà schierati in campo il sindaco Antonio Floris, gli assessori Pissino Gallese, Luca Dominici e Lillino Ferreri, i giudici Giuseppe Grieco, Stefano Venturini e Francesco Elefante, l’avvocato Roberto Verdecchia, Francesco Floris, Andrea Di Vito, Corrado Tiburzi e Francesco Andreetti. Solidarietà e forza del diritto di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 9 luglio 2018 Va protetta la “libertà di aiutare gli altri per spirito umanitario, regolare o irregolare che sia il loro soggiorno sul territorio nazionale”. Papa Francesco dice così, ma questa volta così ha parlato il Consiglio costituzionale francese, correggendo la legge che puniva il cosiddetto delitto di solidarietà verso i migranti. Non è dunque solo dal Vangelo che il principio deriva, ma da una norma di legge costituzionale, come quella che esprime il principio fondamentale di Fraternità, accanto a quelli di Libertà e Eguaglianza. La sintonia tra i doveri evangelici e quelli legali è evidente. La forza della legge si aggiunge a quella etica. La sentenza del Consiglio costituzionale francese non è solo di interesse per la Francia. Così avrebbero deciso molte altre Corti in Europa e certo la Corte costituzionale italiana. La Costituzione italiana non menziona la fraternità, ma non dissimilmente impone alla Repubblica di garantire i diritti inviolabili dell’uomo e richiede a tutti l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. Tutte le Costituzioni, nell’Europa di cui siamo parte, sono figlie non solo della tradizione cristiana, ma anche e soprattutto della gloriosa affermazione di libertà, eguaglianza e, appunto, fraternità che, a partire dalla Rivoluzione francese, ha innervato la civiltà dell’Occidente europeo. Il Consiglio costituzionale francese, con la sua sentenza, ha ricordato che non si tratta solo della storia e dell’indirizzo fondamentale dello Stato, ma, appunto, di una legge costituzionale. Pur nella sua genericità, che ogni volta va riempita di contenuti, essa vincola tutti, individui e poteri dello Stato. Non c’è maggioranza elettorale e parlamentare che vi si possa opporre, imponendo leggi che la neghino. Infatti quella legge, frutto di un voto della maggioranza nel Parlamento francese, è stata annullata: annullata da giudici, non da un altro Parlamento. È questo un esempio della forza delle Costituzioni. La pretesa di ricavare ogni legittimità dal risultato elettorale o dall’orientamento di una più o meno vasta opinione pubblica è abusiva, eversiva. Gli Stati democratici dividono il potere, istituiscono giudici a garanzia dei fondamenti costituzionali e assicurano l’indipendenza dei giudici - costituzionali e comuni - proprio perché essi possano giudicare e annullare le leggi approvate dalla maggioranza politica. Ciò che la vicenda francese indica è facilmente trasferibile al contesto italiano e di diversi altri Paesi europei. E può riguardare nuove leggi, ma anche e forse soprattutto il veleno che viene instillato dal frequente appello al popolo, contro istituzioni di garanzia come la magistratura. Non è un fatto solo recente, ma ora è più virulenta la pretesa di incarnare la volontà del popolo, per travolgere ogni difficoltà o limite posto dalle istituzioni repubblicane. Questioni come quelle legate alle migrazioni o alla sicurezza, ove realtà e percezione non combaciano, ma finiscono per sommarsi, offrono materia per manifestazioni muscolari e sbandieramento di maschie intenzioni. Non importa quanto siano indifferenti all’obbligo che i francesi chiamano Fraternità e noi Solidarietà e diritti inviolabili. Assisteremo al braccio di ferro tra portatori del consenso politico del momento e autorità pubbliche di garanzia della Costituzione. Ne abbiamo già visto un esempio (un devastante precedente) nel recente attacco al Presidente della Repubblica. Ne abbiamo visto e ancora vedremo esempi nell’accusa ai giudici di contrastare la volontà della maggioranza governativa, loro che non hanno legittimazione popolare. Nei tempi recenti, in Italia e in gran parte d’Europa, si sono poste le premesse del rischio grave del conflitto di legittimità: popolo o capipopolo contro giudici. Contro la Costituzione che quello stesso popolo si è dato per garantirsi. Un elenco (pauroso) delle nostre paure di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 9 luglio 2018 Sperando di non aver omesso da questa lista, per distrazione o ignoranza, molte paure politiche importanti. Molto si dice, giustamente, degli “imprenditori della paura” che sfruttano politicamente la paura per le invasioni dei migranti. Bene, ma bisognerebbe onestamente ammettere che ci sono molte paure che hanno ricadute politiche e sociali importanti. Dite voi di quale paura siete. La paura degli stranieri. La paura delle Ong. La paura degli Ogm. La paura della carne. La paura della carne rossa. La paura del chilometro uno in poi. La paura dei vaccini. La paura per chi ha paura dei vaccini. La paura degli accertamenti fiscali. La paura delle multinazionali. La paura della globalizzazione. La paura del nuovo fascismo. La paura del nuovo nazismo. La paura del vecchio comunismo. La paura delle case farmaceutiche. La paura del sole. La paura del buio. La paura dei poveri. La paura dell’impoverimento. La paura del politicamente scorretto nelle pere di Shakespeare. La paura delle donne emancipate. La paura del disordine. La paura per l’adozione dei single. La paura delle idee opposte alla tua. La paura delle bufale su Internet. La paura degli haters dei social. La paura delle scemenze sui social. La paura dei meridionali. La paura delle potenza della televisione. La paura per la costruzione di una moschea. La paura dei pedofili. La paura dei prodotti surgelati. La paura delle aviarie e delle mucche pazze. La paura dei pochi controlli in aeroporto. La paura dei molti controlli all’aeroporto. La paura del global warming. La paura delle bombe d’acqua. La paura dell’emergenza caldo. La paura dell’emergenza freddo. La paura dei padroni. La paura del sindacato. La paura dei voucher. La paura della mobilità. La paura dell’immobilità. La paura del populismo. La paura dell’establishment. La paura di Bilderberg. La paura di Wall Street. La paura di Occupy Wall Street. La claustrofobia. L’agorafobia. La paura delle punture di zanzara. La paura dei lupi. La paura degli orsi. La paura dell’influenza negativa dei libri che vendono troppo la paura del leader forte. La paura della mancanza di leadership. La paura degli americani. La paura degli africani. La paura dei ladri che entrano di notte. La paura dei magistrati. La paura per la polizia che non c’è. La paura per la polizia che c’è troppo. La paura di aver omesso da questo elenco, per distrazione o ignoranza, molte paure politiche importanti. Italiani che vanno via, problema ignorato dalla politica di Federico Fubini Corriere della Sera, 9 luglio 2018 Il nostro è un atteggiamento lungimirante come investire sulle sementi ma risparmiare sulla raccolta, lasciando che altri colgano i frutti migliori. Negli ultimi dodici mesi sono sbarcati in Italia 52 mila stranieri e, comprensibilmente, l’intero sistema politico ha dedicato loro un’attenzione ossessiva. Nel frattempo nel 2017 i flussi migratori continuavano anche in altre direzioni. Nella sola Germania si sono trasferiti 65 mila italiani - un record e numero del 25% più grande di quello degli sbarchi degli ultimi dodici mesi - eppure per loro si fatica a trovare una sola parola spesa da maggioranza o opposizione. Del resto i politici non sembrano accorgersi neppure che gli italiani emigrati in Gran Bretagna nell’ultimo anno sono tanti quanti i rifugiati sbarcati qui, o dei 22 mila andati in Spagna. Un tale strabismo in chi governa è spiazzante, ma resta un problema di più. Al Corriere lo abbiamo mostrato con l’inchiesta sulla diaspora intellettuale italiana. Dovunque arrivino, i nostri connazionali si rendono conto di essere fra i più preparati. Solo che sono dovuti andare via per dimostrarlo e questo fenomeno nasconde rischi politici: 50 mila laureati che lasciano l’Italia ogni anno sono stati oggetto di otto miliardi di investimenti pubblici per arrivare al titolo di studio e altri sette delle famiglie. Realizzeranno questa ricchezza altrove, spesso solo perché in Italia l’investimento pubblico in ricerca è appena un quarto dei 100 miliardi della Germania e la metà della Francia. Queste politiche italiane sono lungimiranti come investire sulle sementi ma risparmiare sulla raccolta, lasciando che altri colgano i frutti migliori. Magari fra non molto ci sarà chi propone il ritorno all’autarchia, già praticata dall’Ungheria di Viktor Orbán: impedire ai giovani di andare via “perché abbiamo investito molto per loro”. La soluzione è un’altra: aprire più spazi ai giovani istruiti, anche non italiani, quindi investire di più in ricerca. Non solo sulle sementi. Sui migranti il re sovranista adesso è nudo di Stefano Cappellini La Repubblica, 9 luglio 2018 Sui migranti Salvini fa propaganda. L’affermazione non viene da un esponente dell’opposizione, e nemmeno da uno di quei cittadini in maglia rossa che l’artiglieria social del governo gialloverde ama catalogare, con pertinenza e ragioni pari a zero, alla voce radical chic. L’accusa al vicepremier e ministro dell’Interno arriva da una collega dell’esecutivo, la ministra della Difesa in quota M5S Elisabetta Trenta. A differenza di Danilo Toninelli, il ministro eco di Salvini, la cui specialità è ribadire i concetti già espressi dal leader leghista, Trenta ha spiegato nell’ordine: non è competenza dell’Interno sindacare sull’attracco in Italia della nave Eunavformed che ha sbarcato a Messina 106 migranti. La nave ha puntato sull’Italia perché esistono delle regole d’ingaggio che, nel caso, sono pienamente rispettate. E, soprattutto, ha aggiunto che la legittima intenzione di cambiare queste regole va dispiegata nelle sedi competenti, a meno che l’obiettivo non sia solo quello di accaparrarsi qualche titolo di giornale. Il riferimento esplicito è all’annuncio di Salvini di voler sfruttare il vertice dei ministri dell’Interno Ue previsto a Innsbruck in settimana per impedire che altri navi militari sbarchino migranti nel nostro Paese. Un annuncio privo della minima possibilità di tradursi in un’azione concreta. La presa di posizione della Difesa ha il merito di svelare una volta per tutte l’imbuto nel quale proprio Salvini, fin qui con la complice remissività dei 5Stelle, ha cacciato l’Italia. L’aggressività dei toni anti-migranti, spacciata per insurrezione e ritrovata centralità dell’Italia ai tavoli europei, ha prodotto come unico risultato il nostro allineamento a quell’asse di Paesi e forze politiche - dal ministro dell’Interno tedesco Seehofer alle nazioni del cartello di Visegrad - il cui obiettivo è strutturalmente anti-italiano: negare qualsiasi forma di mutualismo nella gestione dei migranti già su suolo europeo, anzi restituire all’Italia anche quelli che, sbarcati sulle nostre coste, hanno poi cercato riparo nel nord Europa e, in generale, lasciare che il problema dell’accoglienza resti in carico ai Paesi che la geografia ha posto in prima linea sul Mediterraneo. Il sovranismo casereccio di Salvini si segnala solo per il suo inevitabile vassallaggio di quei sovranisti mitteleuropei che, a parità di intolleranza, le frontiere possono chiuderle davvero. Ora Trenta dice che il re sovranista è nudo. E che le chiacchiere fin qui mulinate, a parte vellicare gli istinti xenofobi quando non apertamente razzisti di un pezzo di opinione pubblica, hanno prodotto meno che niente. Anzi, con queste premesse, potranno produrre solo ulteriori arretramenti, dato che la minaccia già brandita dall’Austria nei confronti dell’Italia è accettare i diktat o subire una dolorosissima (per l’economia, oltre che per l’ideale europeista) sospensione di Schengen. Infine, un ultimo aspetto da sottolineare. Se questo Paese avesse un premier di fatto oltre che di nome, non dovrebbe essere un comunicato della Difesa a mettere nero su bianco che in Europa si va con una linea strategica e non con una sacca di “mi piace” rastrellati su Facebook. Migranti. L’idea di Vienna: azzerare le richieste d’asilo in Europa di letizia tortello La Stampa, 9 luglio 2018 Il dossier a Bruxelles: selezione fuori dai confini dell’Ue e accoglienza solo per chi condivide i valori occidentali. “Stop alle domande per il diritto di asilo sul territorio della Ue”. L’Austria è da nove giorni presidente di turno della Ue e spinge a tavoletta sull’acceleratore per promuovere la linea dura sulla gestione della crisi dei migranti. Non solo confini europei sigillati, per bloccare qualunque sbarco o arrivo via terra non controllato. Presto, se passerà il piano di nove pagine illustrato la settimana scorsa a Vienna, alla riunione dei funzionari del Cosi (Comitato per la cooperazione in materia di sicurezza interna del Consiglio Europeo), sarà impossibile presentare qualunque domanda di asilo nei nostri Paesi. Una rivoluzione radicale, che stopperebbe di fatto la prassi in vigore da decenni, regolata dalla Convenzione di Ginevra: le persone che fuggono dalla loro terra per motivi di persecuzione politica, razza o religione e raggiungono un Paese sicuro, hanno diritto di avviare lì una procedura per una richiesta di protezione. Siamo alla vigilia del vertice dei ministri degli Interni a Innsbruck, l’11 e 12 luglio, e il governo Kurz porta al tavolo un documento potenzialmente esplosivo, per cambiare completamente il paradigma dell’accoglienza. “È solo la base per discutere”, mette le mani avanti il portavoce della cancelleria, Peter Launsky-Tieffenthal. Il documento segreto di Vienna, pubblicato dal settimanale “Profil”, ha scatenato polemiche interne, risvegliando una sonnolenta opposizione: “Così si viola la convenzione di Ginevra”, dicono i socialdemocratici dell’Spö. Il cambio di paradigma - Il paper è stato proposto dall’entourage di Herbert Kickl, ministro degli Interni della destra austriaca (Fpö). Ha come obiettivo un cambio di paradigma, che viene così motivato: la crisi dei migranti del 2015 ha mostrato in modo drammatico i limiti dell’attuale sistema di richieste di asilo, dicono a Vienna. Inoltre, “i migranti che arrivano nei nostri Paesi non sono i soggetti più bisogni di protezione, ma quelli che possono permettersi di pagare i trafficanti”, alimentando quello che nella retorica d’Oltralpe viene chiamato il “turismo dell’asilo”, sfruttato da “estremisti e terroristi”. Chi può entrare? - Ma secondo Vienna, dunque, chi può entrare? Dovrebbero essere gli Stati Ue a scegliere quante persone far venire. Nei campi - “hotspot” - creati fuori dal territorio dell’Unione le organizzazioni internazionali come l’Unhcr o la Iom dovrebbero identificare chi ha davvero bisogno di protezione, su mandato dei singoli Paesi Ue. Ogni membro Ue potrà stabilire a quanti migranti concedere l’asilo. Va detto che sulla possibilità di costruire hotspot in Africa vige la totale incertezza, primo perché molti stati africani si sono rifiutati di ospitare centri-migranti, secondo perché il Consiglio europeo del 28 giugno di fatto li ha esclusi. E infatti Vienna usa questo argomento per difendersi: “È un documento per i funzionari, è stato in parte superato dalle decisioni del 28”, dice il portavoce del governo. In conflitto con Ginevra - Due categorie di migranti potrebbero far domanda di asilo: “Coloro che rispettano valori, diritti e libertà fondamentali della Ue”. Una richiesta, però apparentemente in contrasto con la Convenzione di Ginevra del 1951: tra i doveri del richiedente c’è quello di conformarsi alle leggi del Paese ospitante, non ai valori. Sarebbero anche accettati i migranti che “scappano da un Paese vicino all’Ue”, o da terre lontane, ma “se non trovano nessun Paese terzo sicuro tra il loro e il Paese di primo approdo Ue”. Afghani, iracheni, siriani, eritrei e somali, insomma, che con l’attuale sistema hanno buona probabilità di vedere accettate le loro domande di asilo, sarebbero tutti respinti alle frontiere esterne. Loro e le loro domande d’asilo. Sempre il giro di vite proposto da Kickl andrà avanti, trovando prima di tutto consenso tra i colleghi del ministero degli Interni degli altri Paesi. La forza dei numeri sull’emergenza migranti di Alberto Alesina Corriere della Sera, 9 luglio 2018 Se la discussione sull’immigrazione continuerà a basarsi su percezioni errate e, dall’altra parte, su sogni irrealizzabili di ammettere tutti, non si risolverà nulla. Le navi Ong che vagano nel Mediterraneo sono solo il simbolo di un problema molto più generale. L’Europa sta diventando una meta desiderata dai “poveri” di tutto il mondo. Quindi - di conseguenza - i Paesi europei stanno diventando multietnici, come lo sono sempre stati gli Stati Uniti. Anche là, a dire il vero, il presidente Trump sta chiudendo le porte, nonostante il motto che si legge sulla statua della libertà a New York sia: “Datemi le masse stanche e povere che aspirano a respirare libere”. Il problema dell’immigrazione andrebbe affrontato con la massima chiarezza sui fatti: invece avviene esattamente il contrario. Armando Miano, Stefanie Stantcheva ed io abbiamo condotto una indagine sull’informazione e opinione di Europei e Americani sugli immigrati nei loro Paesi*. Abbiamo usato società di sondaggi per intervistare un campione rappresentativo di circa 23 mila nativi in 6 nazioni: Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Svezia. La disinformazione sugli immigrati, definiti come persone legalmente residenti nel Paese del soggetto intervistato ma nate all’estero, è enorme. In 5 Paesi su sei i nativi sovrastimano il numero degli immigrati di circa uno a tre. Cioè per ogni “vero” immigrato, i nativi ne vedono tre. In Italia il numero di immigrati è il 10 per cento della popolazione (il valore più basso fra i sei Paesi in questione, e leggermente più basso della media dei 28 Paesi membri della Ue): invece gli italiani pensano che siano quasi il 30 per cento della popolazione. Gli svedesi sono quelli che hanno una visione più aderente alla realtà: ci sono quasi il 20 per cento di immigrati e pensano di averne il 30. L’origine degli immigrati è anch’essa distorta nella mente dei nativi. Quelli provenienti da zone o culture “problematiche” sono sovrastimati. Gli italiani pensano che quasi il 50 per cento degli immigrati siano musulmani: sono in realtà il 30 per cento. Il 60 per cento degli immigrati in Italia sono cristiani: gli italiani stimano che siano meno del 30 per cento. In tutti i sei Paesi, i nativi pensano che gli immigrati siano più poveri, meno istruiti e più disoccupati di quanto lo siano in realtà, e quindi che siano un peso enorme per le finanze pubbliche. Gli italiani ritengono che il 40 per cento degli immigrati sia disoccupato, mentre il dato esatto è poco più del 10 per cento, un valore non molto diverso da quello dei nativi. Non solo, ma quasi il 30 per cento degli italiani crede che un immigrato con lo stesso livello di reddito, occupazione e stato di famiglia di un nativo, riceva molto più di quest’ultimo: il che non è vero. Abbiamo poi condotto il seguente esperimento. A una metà (scelta a caso) dei soggetti intervistati abbiamo fatto prima domande sull’immigrazione e dopo domande sullo stato sociale e sulla redistribuzione del reddito. L’altra metà ha visto l’ordine di domande invertito. Coloro che hanno visto prima le domande sugli immigrati e quindi hanno “pensato” agli immigrati si dimostrano più avversi allo stato sociale di coloro ai quali e stato chiesto prima di parlare dello stato sociale che di immigrazione. Ovvero i nativi sono generosi con altri nativi, ma non con i “diversi” cioè gli immigrati. Ma quanto di questa reazione anti stato sociale è dovuta a un’informazione poco accurata sull’immigrazione? Una metà, scelta a caso, degli intervistati è stata informata sul numero esatto e sull’origine degli immigrati nel loro Paese; dopo abbiamo chiesto le loro opinioni sulle leggi sull’immigrazione e sullo stato sociale. Il risultato è stato che se informati correttamente, l’avversione anti immigrati e allo stato sociale per tutti, sparisce. Ovvero gran parte dei sentimenti anti immigrati deriva da percezioni errate. Ma da dove deriva la disinformazione sulla realtà? Ormai è normale nei giornali e in Tv sbandierare le origini di un criminale, se e solo se, è un immigrato, anche se magari già cittadino, o addirittura nato nel Paese, quindi neppure un immigrato vero e proprio. A queste notizie segue poi la solita valanga di commenti incendiari sulla Rete che si autoalimentano con miriadi di “fake news”. In realtà non c’è alcuna evidenza in Italia di un aumento della criminalità associata all’immigrazione come mostra una ricerca di tre studiosi italiani: Bianchi, Buonanno e Pinotti. Del resto, i tassi di criminalità in Italia stanno scendendo. I partiti anti immigrazione hanno interesse a fomentare questa disinformazione. Lo dimostra ad esempio il dibattito tra il ministro dell’Interno Matteo Salvini ed il presidente dell’Inps Tito Boeri. Quest’ultimo ha presentato dei dati sul fatto che gli immigrati legali in Italia aiutano le casse dell’Inps. Del resto anche un bambino non accecato dall’ideologia lo capirebbe: gli immigrati sono molto più giovani dell’italiano medio che invecchia sempre più, e fanno più figli. Salvini non ha risposto con dati diversi da quelli di Boeri, che peraltro non esistono, ma ha solo detto che all’Inps ci vorranno dei cambi, ovvero ci vorrà un presidente che segua i voleri del ministro dell’Interno. Peraltro: cosa c’entra il ministro dell’Interno con l’inps? Nulla. Mi chiedo se i ministri dei dicasteri economici Luigi Di Maio e Giovanni Tria siano preoccupati di queste ingerenze. Lo dovrebbero essere. È ovvio che l’Europa non può accogliere chiunque voglia entrare nei propri confini e vanno fatte scelte più eque tra i Paesi europei per le emergenze. Come è altrettanto ovvio che chi commette crimini vada espulso con rigore e prontezza, ed è necessario che la cittadinanza vada concessa con criteri chiari e rigorosi che rispondano alle esigenze del mercato del lavoro oltre che a criteri di moralità su cui la nostra cultura si basa. Ma se la discussione sull’immigrazione continuerà a basarsi su percezioni errate e stereotipate, su slogan urlati, “fake news”, e dall’altra parte su sogni irrealizzabili di ammettere tutti, non si risolverà nulla. Brasile. Corte d’appello ordina la scarcerazione di Lula (poi bloccata) di Rocco Cotroneo Corriere della Sera, 9 luglio 2018 L’ex presidente doveva essere scarcerato, la un giudice federale, responsabile delle inchieste sull’ex presidente, blocca l’ordinanza. Lula rimesso in libertà? Non per adesso. In una mesta domenica senza Mondiali in tv, con la Seleção eliminata e già rientrata a casa, il Brasile sussulta per alcune ore a causa dell’ennesimo scontro tra giudici. Una guerra di fazioni sul destino dell’ex presidente, condannato a 12 anni di prigione per corruzione, che ricorda da vicino gli infiniti tira e molla della giustizia brasiliana sul caso Battisti. Solo che stavolta ne va di mezzo il futuro del Paese, perché Luiz Inacio Lula da Silva, pur privato della libertà, resta un protagonista della vita nazionale, ed è ancora in testa ai sondaggi per le elezioni presidenziali del prossimo ottobre che però non potrà disputare. La mossa di un giudice amico, Rogerio Fraveto, militante del Partito dei lavoratori per vent’anni, arriva in una domenica di luglio quando il grande accusatore di Lula, Sergio Moro, è in vacanza e lui è di turno. Fraveto, giudice di secondo grado, determina che Lula debba essere messo immediatamente in libertà, per “mancanza di fondamento giuridico della sua detenzione”. È l’argomento che i militanti e una buona parte dell’opinione pubblica brasiliana appoggiano sin dal giorno della sua consegna, lo scorso aprile, perché manca il terzo e definitivo grado di giudizio. Il giudice Fraveto argomenta che anche il fatto che Lula sia “pre-candidato” alle prossime presidenziali sia un motivo per rimetterlo in libertà. La legge non permette che Lula si candidi (come condannato in secondo grado), ma c’è chi sostiene che la decisione finale spetti all’authority elettorale solo nei prossimi mesi. Mentre i militanti del Pt già accorrevano alla sede della polizia federale di Curitiba, dove l’ex presidente è detenuto in una struttura speciale, è arrivata la doccia fredda. Prima il giudice accusatore Moro, dalle ferie, ha fatto sapere che la Procura non avrebbe eseguito l’ordine di rimettere Lula in libertà, contestando la competenza di Fraveto. Poi è arrivata una contro sentenza del giudice “naturale” del processo, João Pedro Gebran, il quale ha ribadito che Lula è stato condannato in prima e seconda istanza, e che tutte le istanze di liberazione a organi superiori, come il Supremo tribunale federale, sono state respinte. Il caso Lula è solo il più clamoroso a quattro anni dall’inizio dell’operazione anticorruzione Lava Jato, la Mani Pulite brasiliana. Sono parecchi i casi di imputati e condannati in prima e seconda istanza che sono in libertà condizionata oppure dietro le sbarre a seconda dell’orientamento dei vari giudici.