Il calvario dei detenuti malati che non si chiamano Dell’Utri di Luca Rocca Il Tempo, 8 luglio 2018 Cure sbagliate e infarti: ogni anno cento decessi nella popolazione carceraria Più di cento detenuti muoiono ogni anno nelle carceri italiane per infarto, per una malattia e un malanno non curati bene, per una patologia cronica che porta al deperimento fisico. Lo certifica uno studio di “Ristretti Orizzonti”. Due detenuti su tre sono malati, ma la metà di essi non è consapevole della patologia che ha, come hanno affermato la Società italiana di medicina penitenziaria (Simspe) e la Società per le malattie infettive; il 77 per cento dei 58.223 detenuti italiani, infine, convive con disturbi mentali, come sostengono la Società italiana di psichiatria (Sip) e la Società italiana di psichiatria delle dipendenze (Sipdip). Al di là del caso Dell’Utri, dunque, sono questi i dati agghiaccianti sulla situazione nei nostri istituti penitenziari che, fra l’altro, soffrono di un sovraffollamento di nuovo allarmante. Non a caso, poco tempo fa Francesco Ceraudo, presidente dell’Associazione dei medici penitenziari, ha definito il carcere una “fabbrica di handicap”, spiegando che “con i tagli alle risorse della sanità penitenziaria, e la diminuzione del personale, già insufficiente, non è più possibile garantire al detenuto quel diritto alla salute sancito dalla nostra Costituzione”. Più di 200 esperti di Simpse, poi, affermano che è urgente “applicare nelle carceri i livelli essenziali di assistenza”, vale a dire i servizi che il Servizio sanitario nazionale fornisce ai cittadini. “Questo sarebbe un punto di svolta - aggiungono - perché fino a oggi la sanità penitenziaria è stata attendista, mentre l’obiettivo è di farla diventare proattiva”. Per Sergio Babudieri, direttore scientifico di Simspe, dunque, “bisogna prendere in carico i detenuti da quando entrano in carcere, con screening e test, e non più soltanto quando c’è una malattia conclamata”. Ad allarmare sono anche i dati sulle malattie infettive. Secondo le stime, infatti, i detenuti affetti da Hiv sono più di 5mila e quelli colpiti dall’epatite B più di 6.500, mentre quelli affetti da epatite C sono introno ai 30mila. Grave anche la situazione clinica dei detenuti stranieri (sono il 34 per cento della popolazione carceraria), di cui oltre la metà soffre di tubercolosi latente. Ma, come accennato, oltre 42mila detenuti hanno qualche disturbo mentale che va dalla psicosi ai disturbi della personalità alla depressione; patologie che possono portare all’autolesionismo ma anche al suicidio. Secondo la Società italiana di psichiatria, infatti, il carcere, con il suo isolamento, la mancanza di contatto con l’esterno e lo shock della detenzione, può facilitare la comparsa o l’aggravarsi di un disagio psichico. La sanità nelle carceri non funziona, però, anche per un altro motivo, come ha spiegato in più di un’occasione Rita Bernardini, del Partito Radicale: “Non molto tempo fa la sanità penitenziaria è passata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che la gestiva, al Sistema sanitario nazionale. Ma il Ssn sulle carceri tende a risparmiare. Lo fa, ad esempio, sulle visite, ma anche sulle medicine, che in carcere non si trovano e i detenuti se le devono comprare. È stato fatto un passo indietro”. Non è un caso, dunque, se il detenuto Daniele Zoppi, malato e invalido, è morto in carcere senza avere la possibilità di curarsi fuori; e non è nemmeno un caso se Federico Perna, aggredito da gravissime patologie, è stato lasciato marcire dietro le sbarre fino alla morte. Sentito da Il Tempo, Alessandro De Federicis, uno dei due legali che ha condotto la battaglia per il differimento della pena per Dell’Utri, ha spiegato che se l’ex senatore, visto il nome che porta, è stato “in parte sfavorito perché verso di lui i magistrati erano prevenuti”, è anche vero, però, che ha potuto contare su un’attenzione maggiore, quindi su “un più facile accesso alle cure”. E questo non accade per gli altri detenuti, “che hanno difficoltà di accesso alle cure, ma anche seri problemi nel portare a conoscenza dei giudici la loro situazione. E visto che la sanità in carcere non funziona, la gente in galera ci muore”. Perché l’export dei detenuti non funziona di Raffaele Piccirillo* La Repubblica, 8 luglio 2018 Il 34 per cento dei circa 59 mila detenuti che popolano le nostre strutture penitenziarie è costituito da cittadini stranieri. Circa i due terzi di costoro (12.250) scontano in Italia una pena o una misura di sicurezza detentiva applicata con sentenza definitiva. In un contesto nel quale le nostre strutture continuano a essere sovraffollate, con un tasso medio nazionale che periodicamente raggiunge il 126 per cento, i riflettori si accendono sul funzionamento delle procedure di trasferimento dei condannati con sentenza definitiva verso i Paesi di origine. Ed è comprensibile che la cifra media di circa 120 detenuti rimpatriati ogni anno, per quanto migliorativa rispetto al passato, possa risultare deludente. Il fatto è che queste procedure non sono disegnate per sfollare le carceri ma per favorire, attraverso il rimpatrio, e dunque attraverso il recupero dei rapporti con le famiglie e i contesti sociali di origine, la risocializzazione dei condannati. Tale obiettivo è riflesso dai requisiti indicati dalle fonti internazionali. La Convenzione di Strasburgo del 1983 indica il consenso del condannato quale presupposto indispensabile per l’avvio delle procedure. La decisione quadro n. 909 del 2008, che regola la materia tra gli Stati dell’Ue, ammette un rimpatrio senza il consenso, che deve però essere compensato da un provvedimento giudiziario o amministrativo di allontanamento verso il Paese di origine; o dalla prova che lo straniero detenuto in Italia ha conservato con il suo Paese legami linguistici, affettivi, lavorativi. Nella legislatura appena trascorsa si sono stipulati altri accordi bilaterali con la Nigeria, la Colombia, l’Argentina, che attendono la ratifica del nuovo Parlamento. Si sono ratificati accordi con il Brasile, il Kazakistan e il Marocco (2.344 cittadini marocchini scontano la pena nelle carceri italiane) che attendono la ratifica delle controparti. Dovrebbe essere rapidamente ratificato un recentissimo Protocollo modificativo della Convenzione del 1983 che semplifica ulteriormente le procedure, ampliando i casi nei quali il rimpatrio può prescindere dal consenso del condannato. Poiché l’efficacia della cooperazione internazionale non è soltanto questione di convenzioni ma anche di comunicazione tra i sistemi giuridici, la Direzione della giustizia penale ha condotto una serie di iniziative - protocolli operativi, incontri formativi tra le autorità giudiziarie, circolari - dedicate principalmente ai Paesi più significativi in questo contesto: l’Albania, che conta 1600 detenuti nelle nostre carceri; la Romania, con 1714 detenuti in Italia, 67 dei quali rimpatriati nel 2017 con una performance che ci colloca ai primi posti delle classifiche europee. Dietro i rifiuti espliciti, le mancate risposte o le prassi ostruzionistiche opposte dagli Stati di cittadinanza degli stranieri detenuti da noi si legge il timore di peggiorare i tassi di affollamento delle proprie carceri: condizione che, per esempio, caratterizza la Romania. Questa preoccupazione non può essere ignorata. Occorre immaginare altre strategie. Armonizzare i sistemi penitenziari, per ridurre lo svantaggio competitivo dei Paesi più garantisti nelle procedure che esigono il consenso del condannato. Supportare, anche finanziariamente, la costruzione di spazi detentivi conformi agli standard internazionali in alcuni Paesi, vigilando affinché essi non siano rapidamente saturati con i soggetti processati e condannati in patria. *Magistrato, ex Capo dipartimento per gli Affari di Giustizia Il rapporto politica-partiti-giustizia è una questione che va avanti dal 1992 di Fabrizio Cicchitto Il Dubbio, 8 luglio 2018 La separazione delle carriere, il divieto ai magistrati di entrare e uscire dal loro ordine per entrare in politica e l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti sono gli argomenti da dibattere e approfondire. Siccome abbiamo la memoria lunga non possiamo fare a meno di ricordare le manifestazioni eclatanti dei moralisti e dei giustizialisti anni ‘ 92-’ 94 contro il “cinghialone” Bettino Craxi contro i “ladri” (i socialisti e i democristiani). In prima fila furono i leghisti, con lo slogan “Roma ladrona” e con il cappio esibito in aula dall’onorevole Leoni Orsenigo. I moralisti post missini non furono da meno: Fini guidò il coro “ladri, ladri” quando Bettino Craxi fu assolto a scrutinio segreto da alcune imputazioni, l’ultra moralista Alemanno guidò un corteo che si dipanò intorno a Montecitorio al grido “arrendetevi, siete circondati”. Il clou ci fu con il lancio di monetine contro Craxi davanti al Raphael ad opera di attivisti post missini e post comunisti provenienti questi ultimi dal comizio di Occhetto a piazza Navona. Non possiamo fare a meno di rilevare che da allora ad oggi su ognuna delle forze protagoniste di quegli episodi si è abbattuta una sorta di maledizione di Tutankhamon: non si contano le vicende giudiziarie riguardante esponenti del Pds e del Pd, dell’area post missina solo Giorgia Meloni e Fabio Rampelli sono sopravvissuti perché i moralisti Fini e Alemanno sono stati rasi al suolo dalla casa di Montecarlo e dalle vicende del comune di Roma. Anche noi abbiamo qualche dubbio che alle origini dei guai di Bossi (riguardanti però circa 1 milione di euro) ci sia stata qualche mina poliziesca. Adesso però la vicenda che riguarda la Lega (che nel suo pedigree ha anche la vicenda di Credieuronord) è molto più complessa, perché riguarda ben 49 milioni di euro ed è sollevata dalla Cassazione, che non è un singolo magistrato che come ci dimostrano molti episodi può benissimo fare politica. La Cassazione è la Cassazione. Anche Berlusconi nelle sue tante polemiche sulle vertenze giudiziarie sulla Cassazione ci è andato sempre cauto. Di conseguenza non capiamo il richiamo di Salvini al presidente della Repubblica. Cosa dovrebbe fare Mattarella: intervenire sulla Cassazione perché si rimangi il suo deliberato? Diciamo tutto ciò perché rifiutiamo nel modo più assoluto che venga riproposta la questione dei rapporti politico- giustizia perché adesso ne è investita la Lega, che sul tema ha sempre adottato la linea dei due pesi e delle due misure: garantista quando si trattava di parlare Credieuronord, ultra giustizialista contro Craxi e singoli esponenti di Forza Italia non graditi. Le cose non si fermano qui: la Lega ha la responsabilità di aver portato al governo del paese la forza più giustizialista oggi in campo, cioè il Movimento 5 Stelle. Come ha messo in evidenza nel suo bellissimo articolo sul Dubbio di due giorni fa Peppino Gargani il disegno che accomuna Lega e Movimento 5 Stelle è quello di sostituire con un misto di salvinismo razzista e di populismo autoritario la liberal-democrazia e la stessa genuina dialettica parlamentare in nome di una democrazia diretta manipolata attraverso la gestione del web. Anche l’attacco ai vitalizi e agli stipendi dei parlamentari rientra in questo quadro. Volendo fare tabula rasa della storia di questo paese si demonizzano come privilegi quelli che storicamente sono stati strumenti di garanzia per assicurare al parlamentare libertà e autonomia per il presente e per il futuro, rendendolo così autonomo dal potere economico. Non a caso oggi c’è l’intenzione di affermare anche il vincolo di mandato: il parlamentare diventerebbe così un impiegato mal pagato guidato dalla piattaforma Rousseau o dagli ukase televisivi di Salvini. La subalternità culturale del M5S e della Lega è tale che mentre concentrano il fuoco contro i vitalizi e gli stipendi dei parlamentari non spendono una parola sugli stipendi e le pensioni degli alti burocrati e dei manager delle banche che sono 5 volte tanto, anzi l’attacco ai vitalizi è un’arma di distrazione di massa proprio per non fare i conti con i redditi davvero alti. Conclusioni: esiste non da oggi ma dal 1992-1994 una drammatica questione in Italia riguardante il rapporto politica-partiti-giustizia. La questione quindi va presa dalla testa partendo dai nodi di fondo quali la separazione delle carriere, il divieto ai magistrati di entrare e uscire dal loro ordine per entrare in politica e viceversa. Un’ultima questione: la lettura dei verbali di Parnasi fa capire quale follia sia stata fatta dal governo Letta con l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Nel suo articolo su “Vitalizi nel mirino, ma l’obiettivo è la democrazia parlamentare” Peppino Gargani ha sollevato questioni di fondo sulle quale sarebbe davvero auspicabile che sul Dubbio si apra un dibattito. Oggi e domani urne aperte nei tribunali: si vota per i 16 membri del Csm di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 8 luglio 2018 Giudici. La sfida più interessante è quella per i due seggi in palio nel collegio dedicato proprio ai magistrati di Cassazione, quello dove compete Piercamillo Davigo, star mediatica, beniamino del Movimento 5 Stelle e leader della nuova corrente Autonomia e indipendenza. Urne aperte oggi e domani nei tribunali di tutta Italia per eleggere i 16 membri togati del Consiglio superiore della magistratura. Circa 9 mila giudici e pm sono chiamati a scegliere i loro rappresentanti in un clima segnato dalle recentissime dichiarazioni del sottosegretario alla giustizia Jacopo Morrone, che si è augurato la scomparsa delle correnti, “in particolare quelle di sinistra”. Un revival dello scontro politica-giustizia di sapore berlusconiano originato dalla sentenza della Cassazione sulla truffa ai danno dello Stato da 49 milioni di cui si è resa responsabile la Lega, il partito del sottosegretario. La sfida più interessante è quella per i due seggi in palio nel collegio dedicato proprio ai magistrati di Cassazione, quello dove compete Piercamillo Davigo, star mediatica, beniamino del Movimento 5 Stelle e leader della nuova corrente Autonomia e indipendenza. Contro di lui in campo Carmelo Celentano di Unicost, la “balena bianca” centrista e (quasi sempre) maggioritaria, Loredana Micciché di Magistratura indipendente (Mi), la corrente di destra di cui Davigo ha sempre fatto parte, e Rita Sanlorenzo di Area, il gruppo progressista formato da Magistratura democratica e dal Movimento per la giustizia. Le previsioni della vigilia danno il moderato Celentano come sicuramente eletto, mentre si prevede un testa a testa fra l’ex pm di Mani pulite e Sanlorenzo per aggiudicarsi l’altro posto in palio. Davigo punta a prosciugare il bacino della sua ex corrente e a insinuarsi anche a sinistra, fra quelle toghe (già) rosse più sensibili al discorso grillino contro le correnti tradizioniali. Probabilmente sarà decisivo l’orientamento dei suoi ex amici di Mi, che potrebbero seguirlo ma anche voltargli le spalle per punirlo per la scissione e fare addirittura un “voto utile” a favore della storica avversaria di Area. Nel Csm in scadenza il gruppo di maggioranza relativa era quello dei progressisti, che ambiscono ovviamente a bissare l’elezione di 7 componenti, ma che anche con uno in meno si direbbero soddisfatti. Obbiettivo fissato a quota 6 anche per Unicost, mentre Mi aspira alla difficile impresa di mandare a Palazzo dei marescialli 5 toghe. Solo 3 i davighiani in competizione: certa l’affermazione dei candidati nei collegi pm e giudici di merito, l’en plein lo assicurerebbe proprio il líder maximo. Al di là delle correnti, un altro numero sarà indicativo: quello delle donne. Pur essendo ormai la maggioranza fra le toghe in servizio, nel consiglio uscente c’era solo una magistrata. Stavolta potrebbero essere in 6, comunque meno della metà. I risultati si sapranno non prima di mercoledì. Esaurite le operazioni lunedì nei vari tribunali, tutte le urne dovranno essere spedite a Roma e lo spoglio potrà cominciare solo quando saranno arrivate tutte. Giudici e pm potranno seguire lo spoglio in diretta attraverso un canale web loro riservato approntato per la prima volta dall’ufficio elettorale del Csm. Il 19 luglio prima seduta comune del parlamento per l’elezione dei membri laici, banco di prova per la tenuta della maggioranza gialloverde e per capire se a livello politico prevarrà la linea di scontro con le toghe o quella del dialogo. Davigo sfida centristi e sinistra, ecco come può cambiare il Csm di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2018 Oggi e domani magistrati alle urne per rinnovare la componente togata del Csm. Il 19 comincerà l’altra partita che cambierà il volto del Consiglio: prima seduta del Parlamento per eleggere 8 componenti laici, uno di loro sarà il nuovo vicepresidente. Alla luce del voto del 4 marzo, tre saranno in quota M5S, due Lega, due Pd e uno FI. Il vicepresidente dovrebbe essere indicato dal M5S, in cambio la Lega avrebbe un giudice di marchio federalista alla Consulta, Luca Antonini. La campagna elettorale delle toghe si è incentrata sulle polemiche legate alle modalità delle nomine dei vertici degli uffici giudiziari, quindi sulla deriva del correntismo. È l’accusa della base dei magistrati: la lottizzazione delle correnti. Le nomine a pacchetto: uno a te, uno a me. Correnti divise fra loro in questa campagna ma unite contro il sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, che venerdì ha parlato come un leghista a Pontida durante un seminario al Csm con i giovani magistrati. Ha auspicato la fine delle correnti, soprattutto di sinistra. Un’affermazione esorbitante che potrebbe pesare su queste elezioni, così come le sparate contro i giudici di Salvini, manco fosse Silvio Berlusconi. La differenza tra correnti e correntismo a Morrone l’ha spiegata il presidente dell’Anm, Francesco Minisci: “C’è confusione, l’adesione a un gruppo non c’en tra nulla con l’imparzialità dei magistrati”, è una ricchezza. Il quesito è il seguente: queste bordate sposteranno voti verso Unicost, la corrente centrista più “rassicurante” per i magistrati e maggioritaria se si guarda all’ultimo voto per l’Anm? Convincerà quei magistrati che si sono detti delusi da Area a votarla comunque? (al Csm attuale ha la maggioranza). Autonomia e Indipendenza di Piercamillo Davigo, la corrente che ha costretto le altre a una rincorsa sull’anticorrentismo, sarà premiata o siccome viene accusata di essere troppo vicina ai grillini, pur non avendo occupato il ministero di Via Arenula (come volevano indiscrezioni malevole) sarà penalizzata? I componenti da eleggere sono 16. La vera partita è quella della Cassazione: due posti per quattro candidati. E che candidati. Due in particolare si pestano i piedi, elettoralmente parlando: Davigo, presidente di sezione, e il sostituto procuratore generale Rita Sanlorenzo di Area, la corrente che ha perso finora una parte di consensi (vedi elezioni Anm) migrati verso AeI, corrente nata da toghe di destra, di Magistratura Indipendente, ma divenuta trasversale. È alla sua prima elezione per il Csm. Gli altri due candidati sono Carmelo Celentano, Unicost, sostituto pg e Loredana Micciché, Mi, consigliere. Su Mi il peso vero ce l’ha sempre Cosimo Ferri, nemico di Davigo e parlamentare del Pd, pur essendo magistrato (in aspettativa) della corrente più a destra. I maligni dicono che pur di ostacolare l’elezione di Davigo fa il tifo anche per la Sanlorenzo. Partita già chiusa, invece, per i pm: quattro posti, quattro candidati: Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto di Roma, ex segretario dell’Anm, Area; Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Catania, AeI; Luigi S p in a, sostituto a Castrovillari, Unicost; Antonio Lepre, sostituto a Paola, Mi. Sono, invece, 13 i candidati giudici di merito per dieci posti. Il bubbone elettorale sul criterio delle nomine l’ha fatto scoppiare AeI facendo infuriare la stragrande maggioranza del Consiglio. “L’assenza di reali regole oggettive e predeterminate nelle scelte consiliari - scrive AeI - è la chiave di questo super-potere (delle correnti, ndr) che ha creato un solco profondo tra autogoverno e base dei magistrati”. È pure aumentato il peso della politica: “Spesso i componenti laici hanno avuto un peso decisivo e quasi sempre una parte di essi ha votato insieme a un gruppo consiliare (i laici del centrodestra con Mi)”. Ma secondo Area “nessun gruppo può pretendere di presentarsi come unico estraneo al sistema… Abbiamo più volte ribadito la necessità di un deciso cambio di passo nella gestione delle nomine, come condizione necessaria per restituire autorevolezza e credibilità all’istituzione consiliare. Vi è la necessità di una assunzione di responsabilità condivisa, in chiave critica e autocritica”. In questo contesto si inseriscono due appelli con decine di adesioni. “Liberiamo il Csm dalle correnti”, primo firmatario Andrea Mirenda, chiede l’adozione di misure “per scongiurare che le decisioni del Csm siano determinate da logiche correntizie, anziché dai criteri oggettivi e trasparenti”. Un altro appello, di toghe vicine ad Area, lancia “un patto fra elettori”: che tutti i magistrati della base si impegnino a “ripudiare scorciatoie, logiche clientelari e contatti privilegiati”. Sassari: carcere di Bancali, due bimbe in cella con le giovani madri L’Unione Sarda, 8 luglio 2018 Due bimbe, di un anno e mezzo e poco più di due anni, stanno crescendo dietro le sbarre del carcere di Bancali con le rispettive giovani mamme, entrambe di etnia rom. A denunciare una situazione definita “inaccettabile” è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’Associazione Socialismo Diritti Riforme, che sottolinea “la necessità di un intervento del Garante nazionale delle persone private della libertà affinché si faccia chiarezza sulle ragioni per le quali l’Istituto a Custodia Attenuata per Madri Detenute sardo non entra in funzione”. Caligaris sottolinea come, dopo il processo, in Sardegna le giovani madri vengano detenute in “istituti di pena senza tenere conto del minore, spesso di pochi mesi di vita”. Una condizione che rappresenterebbe “una violazione delle norme inaccettabile”: “La legge è chiara su questo punto ma anche il buon senso impone una riflessione. Bambine in così tenera età richiedono spazi idonei al loro sviluppo fisico e psichico. I condizionamenti derivanti dalla vita in cella, regolamentata secondo standard organizzativi rigidi, incidono profondamente sulla crescita e sulla formazione del carattere. I mesi estivi inoltre pesano sulla esistenza di queste innocenti in modo ancora più pesante”, continua la presidente di Sdr. Caligaris chiede alle istituzioni di cercare “una sistemazione alternativa alle detenute madri e alle bambine, anche perché la presenza in un istituto come quello di Sassari-Bancali con 441 detenuti (92 in regime di 41bis), 143 stranieri e 17 donne, richiede una particolare attenzione igienico-sanitaria per le piccole che devono essere costantemente visitate dal pediatra”. Reggio Emilia: Fiorini (Fi) “il ministro dia alla penitenziaria più agenti e il taser” Gazzetta di Reggio, 8 luglio 2018 “Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede intervenga subito per risolvere il problema del sottodimensionamento dell’organico della polizia penitenziaria nel carcere di Reggio Emilia, dove scontano la pena 370 detenuti e dove operano circa 170 agenti, invece dei 240 previsti. Dopo gli ultimi fatti violenti, il governo valuti la possibilità di dotare la penitenziaria di Taser”. Ad affermarlo è Benedetta Fiorini, deputata emiliana di Forza Italia che ieri mattina ha effettuato una visita accurata alla struttura, durata più di due ore. “Ringrazio per la disponibilità e per avermi accompagnato il direttore generale della Direzione Generale Detenuti e Trattamento Roberto Piscitello, il comandante Mauro Pellegrino e il segretario provinciale del Sappe, Michele Malorni - ha detto Fiorini al termine dell’incontro - Mi hanno dato la possibilità di parlare con molti detenuti e toccare con mano la situazione di tutti i reparti, da quello dell’articolazione difesa salute mentale (ex Opg) e quello di alta sicurezza, dove ci sono i detenuti del processo Aemilia e il reparto femminile. Nel carcere di Reggio è forte il rischio di radicalizzazione islamica, il 68% dei detenuti non è italiano”. Da parte sua il Sappe, per voce del segretario provinciale Michele Malorni, fa proposte concrete per sopperire alla cronica carenza d’organico. “In assenza di un urgente integrazione dell’organico, si chiede la riduzione delle tipologie dei detenuti presenti e la chiusura immediata della sezione AS3 Femminile Z (8 detenute) e quella dei trans (3), in maniera tale che le sedici agenti donne di penitenziaria possano essere impiegate nella gestione di altri servizi, con un minore ricorso di lavoro straordinario - ha dichiarato il Sappe. Inoltre chiediamo che vengano inviate a Reggio Emilia, con trattamento di missione giornaliera, almeno dieci agenti, fino alle fine del processo Aemilia”. Padova: unica candidata italiana a capitale Europea del volontariato di Diana Cavalcoli Corriere della Sera, 8 luglio 2018 È la prima volta che accade dal lancio, nel 2013, del riconoscimento internazionale, il vincitore verrà annunciato il 5 dicembre. In bocca al lupo a Padova. La città veneta assieme a Stirling, cittadina al centro della Scozia, è uno dei due comuni candidati al titolo di Capitale europea del volontariato 2020. A comunicarlo è il Cev, il Centro Europeo per il volontariato che da anni promuove l’iniziativa. Padova rappresenterà quindi l’Italia intera. Ed è la prima volta che accade da lancio nel 2013 del riconoscimento europeo. “La sfida che ci aspetta adesso - afferma Emanuele Alecci, presidente del Csv provinciale di Padova - è di fare in modo che ai cittadini, alle associazioni sia chiaro il messaggio che la candidatura di Padova sarà la candidatura dell’intera regione e delle migliaia di volontari che la popolano e di tutta Italia”. La municipalità vincitrice verrà successivamente selezionata da una giuria internazionale di esperti. I tecnici valuteranno gli interventi messi in campo per rispettare le raccomandazioni della “Policy Agenda on Volunteering in Europe” e le priorità politiche “5R”. Tra i criteri che verranno considerati rientra anche la modalità attraverso la quale verranno supportati e promossi i “Corpi europei di solidarietà”. Il vincitore verrà annunciato ad Aarhus, Capitale Europea del Volontariato 2018, in Danimarca, il 5 dicembre 2018. Napoli: Assoallenatori, concluso stamattina il corso per i detenuti di Mario Tramo iamnaples.it, 8 luglio 2018 Si è concluso ieri mattina il corso per allenatori dedicato ai detenuti della Casa Circondariale di Poggioreale a Napoli. Il percorso formativo, presentato nell’ambito di Football Leader nel giugno del 2017, è stato organizzato dall’Associazione Italiana Allenatori Calcio (Aiac), con la sezione Campania in prima linea, ed è stato promosso proprio da Football Leader, premio nazionale dell’Assoallenatori. È stato il presidente dell’Aiac Renzo Ulivieri a consegnare gli attestati di partecipazione ai detenuti, a seguito di un breve colloquio con esame di fine corso. Tali attestati dell’Aiac consentiranno ai detenuti la possibilità di iniziare la carriera nel mondo del calcio, una volta rimessi in libertà, ottenendo crediti utili per l’accesso ai corsi ufficiali Uefa. “È stato un percorso molto emozionante - ha riferito Renzo Ulivieri, presidente dell’Assoallenatori, ho visto passione e partecipazione in questi ragazzi che devono avere un’altra opportunità nella loro vita e lo sport può essere un’occasione di riscatto e di inclusione. Diventare istruttori significa non solo rispettare le regole ma impartirle ai più giovani, gestire una squadra di calcio significa gestire persone e aggregarle per un obiettivo comune. Ai ragazzi ho detto di non disperdere questa unione formatasi tra di loro, questa comunità. Questa capacità di aiutarsi l’un con l’altro è un valore importante per il prosieguo della loro vita. Come AIAC siamo molto soddisfatti del lavoro compiuto, abbiamo lasciato tracce formative crediamo motivanti per il loro futuro lontano dalle carceri”. Il segretario dell’Aiac Campania, Raffaele Ciccarelli, motore dell’organizzazione dei corsi, ha aggiunto: “Abbiamo parlato di calcio ma anche di regole di vita. Anche nel corso dei Mondiali abbiamo discusso di tattica e tecnica, ora i ragazzi hanno un approccio più professionale e competente al calcio. Il corso è stato un successo, ma sono loro che hanno arricchito noi docenti dal punto di vista umano”. In un’area dedicata del Padiglione Genova (la zona del carcere di cui è responsabile la dottoressa Gabriella Niccoli e dove si fanno più “attività trattamentali” votate al reinserimento in società), i 20 detenuti prescelti perché meritevoli, hanno dunque partecipato con entusiasmo alle 18 lezioni tenutesi in carcere e organizzate dall’Aiac con i docenti Sebastiano Scarfato, Raffaele Ciccarelli, Aldo Matano e Vincenzo Potenza e fortemente sostenute dalla Casa Circondariale, con il Direttore, Maria Luisa Palma, in testa. Nel corso, durato 4 mesi da aprile a luglio, i partecipanti hanno affrontato temi tecnico-tattici, aspetti comportamentali e di gestione di una squadra. In sostanza l’Aiac ha fornito ai nuovi allenatori gli strumenti completi per poter operare a 360 gradi nel mondo del calcio. Tutti i corsisti hanno ricevuto il kit tecnico ufficiale (tute, maglie, pantaloncini, calzerotti e palloni) donato dall’Assoallenatori completato dalle scarpette di calcio donate dalla Zeus. Nel contempo hanno ottenuto anche l’attestato di operatori Blsd, ovvero per il primo soccorso medico, avendo l’abilitazione per utilizzare il defibrillatore dopo aver seguito corsi specializzati - organizzate sempre all’interno delle lezioni Aiac - con operatori qualificati. Il progetto dell’Aiac nelle carceri è finalizzato al reinserimento e alla rieducazione del detenuto. Il corso di allenatori aspira a cambiare attitudini ed interessi del soggetto svantaggiato cercando di riportarlo verso un percorso di vita legittimo e moralmente condiviso. Basta con Brecht, c’è bisogno di eroi di Roberto Saviano La Repubblica, 8 luglio 2018 In un mondo sempre più indifferente c’è ancora chi, come Mandela, è disposto a tutto per migliorarlo: due storie esemplari. “Posa i soldi dei diamanti!” urlerebbero oggi a Mandela i tifosi della vendetta a tutti i costi. “Dicci in quale libro paga sei scritto”, aggiungerebbero gli ultrà dell’odio. L’avesse fatta oggi, Madiba avrebbe pagato a caro prezzo la sua scelta di pacificazione - senza vendette - con la comunità bianca sudafricana. Purtroppo è così. Dire eroe oggi è dire: infame. È dire: ti vuoi distinguere dagli altri, chi ti credi d’essere? Nel nostro tempo, nel tempo del populismo web è autentico solo chi cura il proprio interesse e lo rivendica con orgoglio. Qualunque gesto altruistico è percepito come falso e ipocrita. Non è tempo di eroi, è tempo di “uno vale uno”. Tanto da aver fatto diventare un insopportabile luogo comune la citazione di Brecht dalla Vita di Galileo: “Sventurato quel paese che ha bisogno di eroi”. Insopportabile perché ormai viene citata a ogni piè sospinto come alibi per evitare ogni gesto unico, importante, raro. L’eroe è colpevole: perché mostra una capacità di sacrificio intollerabile a chi preferisce la mediocrità. E invece, proprio perché troppi paesi in cui viviamo sono sventurati, abbiamo bisogno di eroi. E sono ancora molti coloro che rischiano tutto, anche le loro vite, per provare a correggere la direzione di questo dannato mondo. Le loro storie meritano di essere conosciute. Ve ne racconto due. Era un eroe Javier Valdez Cárdenas, che faceva il giornalista in Messico. Ne parlo al passato perché l’hanno scannato, ucciso, lasciato a terra poco più di un anno fa. Il Messico, terra con il maggior numero di giornalisti ammazzati del mondo lo scorso anno, è lo Stato dove il giornalismo - un certo giornalismo - ha riempito i colpevoli vuoti della politica, della società civile, dei giudici. Questi reporter danno fiducia alla parola più d’ogni altra cosa, credono che, se la conoscenza germoglia, nelle persone qualcosa potrà mutare. È l’ultima utopia vivente al mondo. Nel 2003 Javier Valdez Cárdenas, insieme ad alcuni colleghi, fondò Riodoce, un settimanale con l’intento di raccontare senza sconti i mali principali dello stato di Sinaloa: lo strapotere dei cartelli del narcotraffico e la corruzione a livello politico-istituzionale. Javier sapeva fare bene il suo lavoro, era diventato famoso in Messico perché i suoi libri e i suoi articoli accompagnavano il lettore sino al nocciolo più oscuro delle storie criminali, sino all’origine. Questo dava fastidio: nel 2009 una bomba era stata fatta esplodere nella sede del giornale. Solo per un caso nessuno rimase ferito ma il palazzo divenne inagibile. Pochi giorni prima dell’attentato Riodoce aveva pubblicato un’importante inchiesta a puntate sul narcotraffico. Nonostante l’attentato e le minacce, Javier era andato avanti a scrivere e raccontare, ma la situazione nel Sinaloa si era fatta ancora più complicata dopo l’ultimo arresto del Chapo e la sua estradizione nel gennaio 2017. Iniziò la guerra di tutti contro tutti, e Javier seppe che sottrarsi avrebbe significato far perdere senso a tutto il lavoro svolto. Continuò a scrivere, continuò ad ascoltare, continuò a rischiare. Non gli piaceva il rischio, non gli dava adrenalina, tutt’altro: ma le verità a cui voleva accedere lo esponevano, semplicemente, al pericolo. In questo clima, il 15 maggio 2017, a pochi passi dalla sua redazione, fu ammazzato. Era un lunedì, intorno a mezzogiorno, Javier era appena uscito dal giornale e si stava allontanando in macchina, quando un commando gli bloccò la strada e sparò 12 pallottole calibro 9, senza lasciargli scampo. I sicari scapparono sulla sua auto per poi abbandonarla poco distante. Il corpo di Javier rimase in mezzo alla strada, con il suo inseparabile cappello imbrattato di sangue a coprire lo scempio avvenuto sul suo volto. Il suo computer e il suo cellulare non sono mai stati ritrovati. Quando nel 2011 il CPJ (Committee to Protect Journalists) gli conferì il Premio internazionale per la libertà di stampa, nel suo discorso di accettazione disse: “A Culiacán, nello stato di Sinaloa, è pericoloso essere vivi, e fare giornalismo è camminare su una linea invisibile segnata dai cattivi - che sono nel narcotraffico e nel governo - in un campo disseminato di esplosivi”. Anche Can Dündar ha vinto il Premio per la libertà di stampa del CPJ, nel 2016. Intellettuale laico turco, ha lavorato per la carta stampata, la televisione e dal febbraio 2015 dirigeva il giornale Cumhuriyet (che in turco significa Repubblica, ed è il principale quotidiano di opposizione del Paese). Proprio questo giornale nel 2015 pubblicò un reportage con immagini che ritraevano camion del Mit, i servizi segreti turchi, trasportare in Siria armi pesanti e munizioni nascoste sotto casse di medicinali: in pratica si trattava delle prove del coinvolgimento della Turchia nel conflitto siriano. Dopo lo scoop i video online furono censurati e partì subito un’indagine. Erdogan volle presentare personalmente una denuncia contro il direttore Dündar e il capo della redazione di Ankara, Erdem Gül. Ma il gesto più violento contro di loro fu una vera e propria minaccia tuonata in conferenza stampa: “Chi ha pubblicato questo scoop pagherà un caro prezzo”. Nel novembre 2015 Dündar e Gül furono arrestati: l’accusa per entrambi era di far parte di un’organizzazione terroristica e di spionaggio, per aver divulgato segreti di stato. L’appellativo che li marchiò fu quello che il regno neo-ottomano riserva a tutti i giornalisti critici: “traditori della patria”. Furono rinchiusi nel carcere di Silivri, sbattuti in isolamento per 40 giorni per evitare che parlando con altri detenuti facessero uscire fuori una loro versione dei fatti. Dopo tre mesi la Corte Suprema stabilì che la loro detenzione preventiva era ingiustificata. Qualche mese dopo, il 6 maggio 2016, all’esterno del Palazzo di Giustizia di Istanbul, un sostenitore di Erdogan si diresse verso Dündar urlando “traditore” e sparò dei colpi di pistola. A salvarlo fu la persona che sino a quel momento era riuscita a sostenerlo, sempre e in ogni situazione: la moglie. Fu lei a toglierlo dalla traiettoria dei proiettili, che finirono per ferire alla gamba un giornalista lì vicino. Nonostante l’attentato innescato da un clima di odio contro Dündar, il processo andò avanti e poche ore dopo il giornalista turco fu condannato a 5 anni e 10 mesi per aver divulgato segreti di Stato. Il suo collega Gül a 5 anni. Caddero le altre accuse, per le quali il pm aveva chiesto l’ergastolo. Dündar espatriò in Germania. Da allora vive in esilio e su di lui pende un mandato di cattura dello Stato turco. Erdogan realizzò la sua ritorsione togliendo alla moglie il passaporto, impedendole così di raggiungerlo. Intervistato dall’Espresso nell’aprile del 2017 Dündar ha dichiarato: “Tornare ora nel mio Paese dove vige lo stato di emergenza sarebbe come mettere la testa nella ghigliottina. Non ho più alcuna fiducia nella magistratura turca. La Turchia non è più neanche lontanamente uno Stato di diritto. È uno Stato basato sul terrore. (...) La Turchia è da tempo uno stato “putinesco” dove la società civile ha paura a esporsi perché scattano subito le manette, anche per un solo tweet”. In Turchia ci sono oltre 150 giornalisti detenuti, e Dündar non ha smesso di denunciare la complicità europea al governo di Erdo?an “Purtroppo - ha dichiarato in un’intervista ad Articolo21 - l’Europa ha dato una pessima prova di sé durante la crisi dei rifugiati. È come se avesse accettato un ricatto da parte di Erdo?an, abdicare alla difesa della democrazia pur di fermare i profughi”. La storia di Dündar racconta come la Turchia, un Paese candidato a entrare nell’Unione Europea, sia uno Stato in cui la libertà di espressione è compromessa. Lo strumento utilizzato per fermare ogni tipo di critica al governo è il reato di insulto al Presidente, per cui ci sono oltre 2000 denunce in corso in Turchia. La figura di Erdogan è al di sopra di ogni critica e l’esito dell’ultimo voto gli conferisce ancora più potere. In Turchia molti continuano ad accusare Dündar di essere un “traditore della patria”. Lui ha risposto così a Lettera43: “Oscurare la verità significa opprimere i popoli, per questo non mi ritengo un traditore, ma accuso Erdogan di tradire la Turchia (...) Fare il giornalista significa svelare i segreti che attentano alla democrazia e per farlo nel mio Paese, come in altre parti del mondo, serve molto coraggio e bisogna essere disposti a sacrificare tutto”. Come diceva Valdez Cárdenas: eroe è colui che sa che è più pericoloso essere vivi che morti. Migranti. #maglietterosse invadono web. Scintille Salvini-don Ciotti La Stampa, 8 luglio 2018 L’hashtag è tra i primi della classifica Twitter di sabato. Migliaia le adesioni e tantissimi i cittadini che hanno postato un “no all’indifferenza”. In rosso Fiorella Mannoia, Vasco Rossi, Roberto Saviano, Carlo Lucarelli, Rosy Bindi. A maniche corte, lunghe o anche senza: sono migliaia gli utenti del web che hanno risposto all’appello di Libera di indossare magliette rosse “per fermare l’emorragia di umanità”. L’hashtag #magliettarossa è tra i primi della classifica Twitter di sabato: da una parte l’adesione record all’iniziativa in solidarietà ai bambini migranti morti in mare, dall’altra le polemiche del ministro dell’Interno Matteo Salvini. “Che peccato in casa non ho trovato neanche una maglietta rossa da esibire oggi”, è il post su Facebook, accompagnato dall’emoticon di un bacio, con cui il leader della Lega prende le distanze. “Gliela porto molto volentieri al Viminale. Un piccolo gesto, fatto con rispetto”, ribatte don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Il colore non è un caso: è lo stesso dei vestiti scelti dalle madri per i propri figli durante la traversata nella speranza che, in caso di naufragio, richiami l’attenzione dei soccorritori. Il rimando al piccolo Aylan Kurdi, simbolo della tragedia dei migranti, è immediato. Sui social Salvini attacca il giornalista Gad Lerner che si fa fotografare vestito di rosso. “Maglietta rossa e rolex, fantastico”, tuona Salvini. “Tranquillo, costa sicuramente meno dei suoi numerosi cambi d’abito quotidiani - rassicura Lerner -. Il mio è un vecchio Rolex d’acciaio comprato nel 1992 grazie ai primi guadagni televisivi. Senza datario”. Il conduttore televisivo non è l’unico operatore dell’informazione oggetto di polemica. Il deputato della Lega Alessandro Morelli, presidente della Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni, se la prende con i giornalisti di RaiNews24 andati in onda indossando magliette rosse: “È grave, perché così facendo il servizio pubblico radio-televisivo smette di essere pluralista per diventare partigiano. Si tratta di un’iniziativa vergognosa e deontologicamente imbarazzante”, e annuncia la richiesta di provvedimenti alla prossima Commissione parlamentare di Vigilanza Rai. La giornata del dissenso del ‘popolo delle magliette rossè si è svolta nelle piazze e ha invaso il web. Illuminati di color porpora il colonnato di Piazza del Plebiscito e il Maschio Angioino a Napoli. In rosso Fiorella Mannoia, Vasco Rossi, Roberto Saviano, Carlo Lucarelli, Rosy Bindi e il medico di Lampedusa. Migliaia le adesioni e tantissimi i cittadini che hanno postato un “no all’indifferenza”. Hanno risposto all’appello di don Ciotti anche i sindaci e le associazioni della Città metropolitana di Milano in presidio ad Abbiategrasso contro il raduno dell’estrema destra ‘Festa del Solè organizzato da Lealtà Azione. La ex presidente della Camera Laura Boldrini aderendo alla campagna invita a “restare umani” e a “organizzare il dissenso, trasformandolo in progetti e speranze”. La strage di migranti in mare “non è solo una responsabilità di chi oggi fa altre scelte con modalità che ci lasciano perplessi o ci offendono: facciamo un’analisi di coscienza, abbiamo delegato troppo agli altri”, avverte don Ciotti. L’iniziativa, lanciata da Libera e Gruppo Abele, è promossa da Arci, Legambiente, Anpi e dal giornalista Francesco Viviano. Stati Uniti. “Innocente”, viene liberato dopo 30 anni di prigione di Francesco Semprini La Stampa, 8 luglio 2018 Era stato condannato esattamente 30 anni fa, sul suo capo pendeva un’accusa di omicidio, ma lui non aveva commesso nessun reato. Solo ora ha potuto riconquistare la sua libertà, dopo una lunghissima e ingiusta detenzione. È la drammatica storia di Jerome Johnson, afroamericano di Baltimora scarcerato dopo che è stata fatta cadere l’accusa di assassinio, per la quale si trovava dietro le sbarre da trent’anni. Johnson era stato riconosciuto colpevole e condannato nel 1988 per il suo coinvolgimento in una sparatoria avvenuta in un locale della stessa città del Maryland dove era residente. L’episodio risale 14 luglio di quell’anno, quando Aaron Taylor fu raggiunto da colpi di arma da fuoco vicino a un locale di nome Night Owl Bar. 15 ricorsi in 30 anni - Alcuni testimoni raccontarono che la vittima era stata vista pochi istanti prima discutere animatamente con alcune persone in mezzo alla strada, quando all’improvviso una di queste ha tirato fuori l’aria e ha fatto fuoco. Il primo colpo è però andato a vuoto dando a Taylor la possibilità di trovare rifugio nel bar, dove però è stato raggiunto dai uno dei due uomini, il quale ha esploso altri colpi ferendolo mortalmente. Per quell’omicidio furono portati alla sbarra quattro uomini, tra cui Johnson, il quale ha sempre proclamato la sua estraneità ai fatti e urlato la sua innocenza. Per lui si sono aperte però le porte del carcere da dove ha proseguito la sua battaglia per la libertà: 15 ricorsi in 30 anni. Parte dei quali sono caduti nel vuoto. Sino a quando il caso non è stato riesaminato dalla procuratore Nancy Forster: ha chiesto alla Conviction Integrity Unit (Cui) un riesame di tutta la vicenda e degli atti processuali. Dopo qualche mese la Cui, l’organismo di vigilanza degli istituti carcerari, il Mid-Atlantic Innocence Project e lo stesso procurato Forster sono riusciti a trovare le prove dell’innocenza di Johnson. Tra queste le testimonianze dei co-imputati con confermavano la sua estraneità alla sparatoria del 14 luglio 1988, testimoni che sostenevano il suo alibi che non era stato possibile sentire al momento del processo. Così ogni accusa nei suoi confronti è venuta a cadere, la condanna è stata cancellata e lui è potuto ritornare ad assaporare la libertà. Anche se, dopo trenta anni di galera scontati da innocente, non è chiaro se e tra quanto tempo la “vittima” Jerome Johnson riuscirà a riabbracciare la propria vita. Filippine. Ascesa ed eccessi del sindaco Duterte di Francesco Montessoro Corriere della Sera, 8 luglio 2018 Davao City, agosto 1988. Sulla copertina di un settimanale due uomini reggono un vassoio. Sul vassoio due teste mozzate. Sindaco della città è Rodrigo Duterte, un boss che mantiene la legge e l’ordine con omicidi “extragiudiziali”. Ventotto anni più tardi - nel 2016 - sarà eletto presidente delle Filippine con il 39% dei voti. La sua campagna è spregiudicata ed efficace: il traffico congestionato di Manila, la corruzione e la criminalità che promette di eliminare in pochi mesi con i metodi spicci impiegati a Davao. Duterte fa grande uso dei social network, con il consueto corredo di troll e falce news, provoca con il suo linguaggio violento e scurrile (definisce i suoi avversari froci, inveisce contro quel “figlio di p...” di Papa Francesco), conquista i titoli dei giornali e riesce a intercettare un voto di paura e di protesta. La vittoria è favorita dalla legge elettorale maggioritaria, ma è genuina, e mette fine alla fase iniziata nel 1986 con la caduta del regime autoritario di Ferdinand Marcos. Trent’anni all’insegna della democrazia ma senza che muti il carattere clientelare e corrotto di un mondo che ha tutti i difetti e nessuno dei pregi dell’economia di mercato; in un contesto asiatico in rapido sviluppo, le Filippine sono un’eccezione negativa. Il successo elettorale di Duterte si completa con il passaggio di molti ex avversari politici dalla sua parte; non è una novità in un Paese in cui la fedeltà personale e le clientele contano più di ideologie e programmi. Anche tre esponenti di sinistra entrano nel governo, nel contesto di una curiosa apertura al Partito comunista, in clandestinità e impegnato nella lotta armata da cinquant’anni. L’idillio durerà fino al dicembre 2017 ma consentirà a Duterte di lucidare la sua immagine di padre della patria. Da parte sua il nuovo presidente filippino rivendica un’anima “di sinistra” che è inconsistente e non suffragata dai fatti: permette che la salma di Marcos sia sepolta nel “Cimitero degli Eroi” ed esprime apprezzamento per gli anni della legge marziale (1972-1986), conferma in economia le linee neoliberiste dei suoi predecessori e non pare intenzionato ad affrontare temi come la riforma agraria o - questa è ancora la bandiera dei comunisti filippini - la nazionalizzazione delle imprese. Nei primi due anni di governo, Duterte si è mostrato pragmatico più che dottrinario, furbo più che rivoluzionario. Durante la campagna elettorale ha fatto dichiarazioni ultranazionaliste sulle isole del Mar Cinese meridionale rivendicate da Pechino, ma da presidente ha rigettato l’arbitrato internazionale favorevole a Manila per riconoscere il primato regionale della Cina. Un atto che ha mutato sostanzialmente la collocazione internazionale delle Filippine, pesando negativamente sui rapporti con Washington. Duterte non è un caso isolato: è la variante filippina delle tendenze populiste e neo-autoritarie che stanno diffondendosi in Asia, Europa e America. Ma il presidente filippino non è attratto da princìpi o da ideologie: come altri populisti è indifferente alle idee, al pensiero politico, alla coerenza. È di “sinistra” come Hitler era “nazional-socialista” o Salvini “comunista padano”. La sua è una “narrazione” in cui la retorica della sofferenza e della crisi - reale o immaginaria - giustifica la presenza di un nemico e l’adozione dei metodi e degli strumenti adatti a schiacciarlo. Sistemi spicci, definizioni brutali, menzogne con cui avvelena il discorso pubblico. I suoi avversari sono le élite, la Chiesa cattolica e le Ong; avversa i difensori dei diritti umani, schiaccia gli istituti e le forme della liberal-democrazia. Come Trump, Viktor Orbàn e Salvini, anche Duterte usa un linguaggio politicamente scorretto, aggressivo, denigratorio. Offre soluzioni semplici a questioni complesse e vuole dare di sé l’immagine di chi risolve i problemi. Si stima che nei primi io mesi al potere i morti ammazzati senza processo siano stati tra 7 mila e 12 mila. Piccoli trafficanti di droga delle aree povere delle città, al solito, e poi gente capitata per caso nel posto sbagliato. Bambini, anche, subito definiti da Duterte “danni collaterali”. La campagna di omicidi legalizzati si è interrotta temporaneamente all’inizio del 2017 per il rapimento a scopo di ricatto e l’assassinio di un uomo d’affari sudcoreano: autori, i poliziotti del Quartier generale di Manila. Non un buon viatico, per il presidente tutto “legge e ordine” venuto da Davao City.