La commissione Giustizia del Senato ridiscute i principi della riforma ecodaipalazzi.it, 7 luglio 2018 La commissione Giustizia del Senato si è riunita in sede consultiva sugli atti del Governo per discutere lo schema di decreto legislativo recante riforma dell’ordinamento penitenziario e per fornire il parere al Ministro per i rapporti con il Parlamento. Sulla relazione del relatore Giarrusso, si è sviluppato un dibattito con posizione di merito e di visione abbastanza distanti tra centrosinistra e centrodestra. Con il senatore del Pd Cucca che ha denunciato il rischio di una deriva oscurantista che potrebbe portare a uno stravolgimento rispetto alla filosofia degli interventi operati e dei risultati raggiunti nell’ultima legislatura, che aveva consentito al Paese di evitare i rischi di una ulteriore procedura di infrazione in sede europea per il mancato rispetto degli standard delle condizioni della vita carceraria. Di contro, il senatore della Lega, Pillon, ha ricordato come sia necessario un approccio più realistico nell’analisi della vicenda carceraria, richiamando il valore dell’espiazione connesso alla pena e dicendosi, di contro, convinto che a suo avviso non vi sia alcuna deriva oscurantista. Mentre il senatore di LeU, Pietro Grasso, ha auspicato che venga attuata la parte del decreto relativa alle previsioni in tema di volontariato e tutela sanitaria all’interno del carcere. In questo contesto il rappresentante del Governo ha dovuto dichiarare la volontà del Governo di prendere in considerazione tutte le posizioni espresse in seno alla Commissione in un’ottica di rispetto per la centralità del Parlamento e far presente l’esigenza di conciliare la sicurezza pubblica e quella all’interno delle carceri con misure realistiche e concretamente attuabili. Aggiungendo che la funzione rieducativa della pena dovrebbe, a suo avviso, essere garantita con interventi che assicurino un reinserimento sociale dopo l’espiazione. E dopo aver ribadito che il Governo valuterà tutti i contributi pervenuti e solo dopo deciderà se esercitare o meno la delega, ed in che termini, il relatore Giarrusso si è riservato di presentare una proposta di parere per la prossima seduta, che tenga conto delle posizioni emerse nel corso del dibattito. Il seguito dell’esame è quindi rinviato. Il percorso a ostacoli sul programma giustizia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 luglio 2018 Guardasigilli in imbarazzo per il fattore Lega. La polemica esplode per le parole pronunciate dal sottosegretario alla giustizia, il leghista Jacopo Morrone, durante un convegno organizzato dal Csm: “Via le correnti di sinistra delle toghe”. Il ministro della Giustizia, il pentastellato Alfonso Bonafede, ha cercato di gettare acqua sul fuoco. Ma in evidente imbarazzo per il fattore Lega. Il partito di Salvini sembra aver aperto un fronte con i magistrati. In attesa di provare ad attuare il contratto di governo che promette di “rimuovere le attuali logiche spartitorie e correntizie in seno all’organo di autogoverno della magistratura”, il ministro pentastellato della Giustizia Alfonso Bonafede si ritrova il giovane sottosegretario leghista Jacopo Morrone che, davanti ai giovani magistrati, si augura che le toghe si liberino presto delle correnti, “in particolare quelle di sinistra”. L’ha detto in una sede istituzionale dov’era intervenuto in luogo del Guardasigilli, a due giorni dalle elezioni per il rinnovo del Csm, nelle quali sono in lizza i candidati dei quattro gruppi (le correnti, per l’appunto) in cui si divide l’Associazione nazionale magistrati. Un’interferenza che ricorda quanto accadde quattro anni fa quando un altro sottosegretario alla Giustizia - Cosimo Ferri, giudice in aspettativa, oggi parlamentare del Pd - mandò un sms elettorale per sostenere due candidati della sua corrente, puntualmente eletti. Ne nacque un caso, qualche esponente grillino chiese le dimissioni di Ferri, l’allora premier Renzi promise di intervenire ma non se ne fece nulla. Anche stavolta, di fronte all’uscita di Morrone, molti reclamano conseguenze, che probabilmente non arriveranno. Di certo è un altro episodio che imbarazza Bonafede, già provato dal “ciclone Salvini” che ha investito i giudici della Cassazione. Dopo l’attacco del vice-premier leghista il ministro della Giustizia ha messo in guardia dal ritorno a toni e linguaggi da seconda Repubblica, cioè dall’interpretare e commentare le sentenze delle convenienze politiche. Le parole del sottosegretario Morrone - che ha provato a sostenere di aver parlato a titolo personale, ma di personale non può esserci nulla in un intervento istituzionale - sono un altro passo in quella direzione, perché attaccando le “toghe rosse” l’esponente del governo è andato ben oltre la pur legittima critica al correntismo e a ciò che di negativo ha portato con sé. Nei primi incontri con avvocati e magistrati, compresi i vertici della Cassazione, Bonafede ha suscitato una buona impressione nei suoi interlocutori, proprio parlando un linguaggio diverso da quello delle campagne elettorali. Ma avendo in casa (nel governo e ora anche al ministero) l’alleato leghista che va nella direzione opposta, quello sforzo costruttivo rischia di risultare vano. Di qui il consapevole impaccio, di cui è sintomo pure il comunicato con cui ieri sera ha rilanciato il metodo del dialogo contro le forzature altrui, e l’ulteriore difficoltà per chi è chiamato a trattare una materia che di per sé provoca continue e inevitabili ricadute politiche (basti pensare all’ultima inchiesta romana che ha coinvolto anche Cinque Stelle e Lega, o all’arresto di ieri di un governatore regionale del Pd). Le riforme annunciate dal nuovo Guardasigilli sono certamente ambiziose, a prescindere dall’essere più o meno condivisibili; affrontarle con queste premesse può renderle ancora più difficoltose. “Via le correnti di sinistra”, la Lega apre un altro fronte con le toghe di Emilia Patta Il Sole 24 Ore, 7 luglio 2018 “Mi auguro che da parte della magistratura ci sia una forte imparzialità e che siano sempre meno presenti le correnti, in particolare le correnti di sinistra”. A poche ore di distanza dalle polemiche suscitate dagli attacchi di Matteo Salvini alla Cassazione per la sentenza sui  milioni di euro di rimborsi “sottratti” dalla Lega, ad aprire un altro fronte contro le toghe è il sottosegretario leghista alla giustizia Jacopo Morrone. Il quale, parlando sia pure “a titolo personale” a un corso di formazione per giovani magistrati, arriva ad auspicare la sparizione delle correnti di sinistra della magistratura. Immediata la reazione del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini: “La libertà di associazione è riconosciuta dalla Costituzione a tutti i cittadini, e ovviamente anche ai magistrati”. E ancora, con parole che si fanno interpreti anche del pensiero del presidente della Repubblica, che del Csm è il presidente: “La critica alle correnti non può mai spingersi fino a negare il valore dell’associazionismo e tanto meno può essere indirizzata verso questa o quella corrente”. Mentre sul fronte del governo a prendere le distanze è ancora una volta il ministro grillino della giustizia Alfonso Bonafede, già intervenuto per invitare gli alleati leghisti al rispetto delle sentenze: “Ritengo l’associazionismo dei magistrati una buona cosa se non porta alle storture del correntismo”. L’uscita non felice di Morrone arriva proprio nelle ore in cui Salvini sta cercando di ricucire la frattura sfiorata con Sergio Mattarella, al quale si era appellato invocando la salita al Colle come leader di un partito vittima di “attacco alla democrazia” da parte della magistratura. “Spero di avere il prima possibile la gioia e l’onore di conferire con il mio presidente della Repubblica - sono le nuove parole di Salvini. Attendo rispettosamente la fissazione di una data per parlare delle tante cose buone che stiamo facendo”. Il Capo dello Stato esaminerà la richiesta di incontro al ritorno da Vilnius, ma certo nulla osta ad un incontro con il vicepremier e ministro degli Interni per discutere della sua attività politica e istituzionale. L’incontro, dunque, certamente si farà. Il nodo, come già fatto trapelare, è l’oggetto della richiesta di incontro, che non può certo essere la sentenza sui fondi pubblici sottratti dalla Lega. Di certo le parole del sottosegretario Morrone non contribuiscono a rasserenare il clima, così come a tenere accesi i fari sull’affaire Lega interviene la stessa Cassazione nelle motivazioni di conferma del sequestro dei beni personali dell’ex leader della Lega Umberto Bossi fino a 50 milioni: “È onere dell’imputato (Bossi) indicare al Pm dove indirizzare le ricerche per rinvenire i fondi allo Stato non rinvenuti in disponibilità della Lega ma secondo lo stesso imputato esistenti”. Giustizia, il caso Morrone scuote il governo Italia Oggi, 7 luglio 2018 Il sottosegretario leghista Morone: “Il Csm si liberi delle correnti di sinistra”. Legnini: “Parole inaccettabili”, intervenga il ministro Bonafede. Anche l’Anm parla di “dichiarazioni gravissime e inaccettabili”. Ma Morone non fa retromarcia. Torna a surriscaldarsi il clima intorno all’amministrazione della giustizia in Italia. Ed è il caso del sottosegretario del ministero di via Arenula, il leghista Jacopo Morrone, a fare esplodere nuova polemiche sui rapporti tra magistratura politica. Morrone, intervenuto a un corso di formazione per 350 magistrati, a due giorni dalle elezione del componenti togati del Csm, ha detto di sperare che l’organo di autogoverno della magistratura si liberi delle correnti politiche, in particolare di quelle di sinistra. Un auspicio che segue la richiesta della Cassazione di sequestrare beni e conti del Carroccio per la nota vicenda dei rimborsi elettorali usati dalla famiglia di Umberto Bossi per uso personale, secondo le accuse, e che ha provocato sconcerto e protesta nella magistratura, tanto che il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha chiamato in causa il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Gli telefonerò e gli scriverò per chiedergli di assumere delle determinazioni”, ha dichiarato il vicepresidente del Csm. “Le parole del sottosegretario della Lega non possono essere né condivise né accettate. La libertà di associazione è riconosciuta dalla Costituzione a tutti i cittadini e ovviamente anche ai magistrati. Morrone, per, non demorde: “‘Ho parlato a titolo personale, rivendico la mia posizione politica, in magistratura non ci sono correnti migliori di altre. Ma le mie parole pronunciate questa mattina al Csm sono una opinione personale che non rappresenta la posizione del ministro. In questo senso ho avuto un’uscita irruente e infelice rispetto al contesto e alla rappresentanza. Ma la Lega ha sempre criticato le correnti in magistratura perché portano alle storture che sono emerse e a più riprese denunciate in diversi anni. Rispetto la stragrande maggioranza della magistratura che porta avanti la propria missione con abnegazione e imparzialità”. Per l’Anm le parole di Morrone sono “gravissime e inaccettabili”. Per il deputato M5s Andrea Colletti Morrone si dovrebbe scusare anche se la vergogna è un’altra: “Se è vero che va scardinato il sistema correntizio che sottintende alle nomine presso il Csm esso va scardinato in tutte le sue componenti, siano esse di destra che di sinistra. E va cancellata anche la vergognosa normalità di indicare politici come membri laici del Csm visto che non si deve mai politicizzare la magistratura, men che meno l’organo di autogoverno”. Governo, giustizia, avvocati: è aperta una battaglia decisiva di Piero Sansonetti Il Dubbio, 7 luglio 2018 Uno legge le notizie che arrivano dal Giappone, sente che hanno impiccato sette esseri umani, e rabbrividisce. Però pensa: in fondo il nostro giustizialismo è molto migliore, si limita ad invocare qualche anno di prigione in più. Non è un modo per scherzare su cose sulle quali c’è niente da scherzare, ma per dire una verità indiscutibile. Questo è un paese dove la tolleranza e il senso del diritto sono radicati molto profondamente, fanno parte dello spirito pubblico. Molto più che in altri paesi dell’Occidente. Anche in periodi difficilissimi, come questo che stiamo vivendo. E’ stato il paese di Beccaria e resta il paese di Beccaria. Nessuno, qui da noi, considera come una buona cosa la pena di morte o - peggio- la barbarie medievale dell’impiccagione. Vogliamo fare qualche paragone con gli Stati Uniti? Beh - a parte la pena di morte - basta qualche cifra: negli Stati Uniti i detenuti sono circa 3 milioni, quasi uno ogni cento abitanti. Qui in Italia sono un po’ meno di sessantamila, cioè meno di uno ogni 1000 abitanti. La differenza è abissale: dieci volte. Questo non vuol dire che negli Stati Uniti non esista lo Stato di diritto (come una volta mi disse, credo paradossalmente, il grande scrittore americano Gore Vidal): esiste, ma ha molte crepe. E questo non vuol dire che da noi lo Stato di diritto sia al sicuro. Non lo è. Spesso viene violato (basta pensare alle condizioni di vita nelle carceri, alla detenzione preventiva o, credo io, allo stesso 41bis) e corre molti rischi. È evidente che i recenti mutamenti politici aumentano le preoccupazioni per la tenuta dello Stato di diritto. Hanno vinto le elezioni - e sono andati al governo - i due partiti meno garantisti di tutto lo schieramento politico. I 5 Stelle non hanno mai fatto mistero delle proprie tendenze giustizialiste, e sono “marcati a vista” da giornalisti e opinionisti molto intransigenti. Basta leggere i quotidiani editoriali di Travaglio che sono altrettanti ammonimenti al partito di Di Maio a non “derazzare”. Certezza della pena, ridimensionamento della prescrizione, aumento delle intercettazioni e del diritto di pubblicarle, difesa ad oltranza della magistratura anche quando sbaglia. Sono queste le idee più conosciute dei 5 Stelle sulla Giustizia. La Lega invece è un partito che con il garantismo ha sempre avuto un atteggiamento altalenante. Non lo ha mai considerato un principio, neppure ai tempi di Bossi, piuttosto uno strumento legittimo per difendere l’autonomia della politica. Il problema è che lo Stato di diritto non può reggersi su un principio altalenante. Il garantismo non può essere solo uno strumento di difesa dell’autonomia della politica (che pure è una cosa assolutamente necessaria) ma deve tutelare soprattutto i singoli e i più deboli; e il ridimensionamento della prescrizione, l’aumento delle intercettazioni, la certezza della pena, l’inasprimento penitenziario sono tutte idee che non si conciliano con lo Stato di diritto. Per questo credo che siamo a un passaggio che può essere decisivo per il futuro del paese. Se la nuova coalizione deciderà di accettare la discussione sul terreno dei diritti e del diritto, e di rivedere molte delle sue idee, allora è possibile anche stabilire un rapporto diverso tra potere politico e opinione pubblica. E cioè si può interrompere il circolo vizioso che ha portato, in pochi anni, a un incattivimento impressionante dell’opinione pubblica e a un suo spostamento su posizioni che considerano il diritto e la democrazia due mostri da abbattere. Se questa apertura invece non ci sarà, e se la nuova maggioranza cercherà di imprimere una svolta reazionaria alla gestione del diritto, allora dovremo assistere a un arretramento pericolosissimo e a un allontanamento dalla modernità. E dentro a questo complicato discorso che il ruolo degli avvocati può essere importantissimo e forse decisivo. La battaglia del diritto, se è lasciata solo ai partiti politici, è una battaglia perdente. I partiti politici, proprio per come è fatto il loro Dna, non riescono a considerare il diritto come un aspetto essenziale della politica. Lo trattano come un problema secondario, e lo trattano in funzione dei propri interessi di quel momento. Il diritto ha un problema: crea giustizia ed equità, sì, ma non crea consenso. Per questo il ceto politico lo ama pochissimo, anzi lo teme. Gli avvocati possono essere decisivi, sia per il patrimonio di conoscenze del quale dispongono, sia per la forza di convincimento che possono esprimere. Devono decidersi a buttare il cuore oltre l’ostacolo, a rischiare, ad accettare di diventare soggetto politico, cioè strumento delle proprie idee e della propria visione di società. Non più spettatori, ma protagonisti. Recentemente è stata lanciata dal Cnf (il Consiglio nazionale forense) l’idea dell’inserimento del ruolo dell’avvocato in Costituzione. Non è una idea di difesa di interessi o di tendenze corporative. Non c’è nessun vantaggio personale da difendere o conquistare. È semplicemente un modo per dare forza al giusto processo e alla parità tra accusa e difesa. Cioè riguarda una questione decisiva. Esiste un articolo della Costituzione, il 111, che è il pilastro dello Stato di diritto per quel che riguarda la giustizia penale. Purtroppo quell’articolo che stabilisce la parità tra difesa e accusa - è di difficilissima applicazione. Oggi non esiste la parità di accusa e difesa. E’ solo una affermazione di principio. Se al difensore viene riconosciuta la dignità di “protagonista costituzionale” del Diritto, ne guadagnano tutti. E’ una garanzia di equilibrio. Di autorevolezza. Di autonomia della Giurisdizione. I partiti di governo sono disposti a discutere di questo? Da dove nasce la nostra insicurezza di Luca Ricolfi Il Mattino, 7 luglio 2018 Tra le convinzioni più granitiche del mondo progressista vi è quella che la domanda di sicurezza, e la connessa paura dello straniero, siano l’amaro frutto della propaganda di destra, e in particolare della spregiudicatezza comunicativa di Matteo Salvini, sempre pronto ad amplificare qualsiasi episodio di violenza che veda come vittima un italiano e come autore uno straniero, specie se migrante, richiedente asilo o rifugiato. A sostegno di questa tesi vengono citati, quasi sempre, i dati sull’andamento dei delitti, un po’ vecchiotti (fermi al 2016) ma piuttosto univoci. In era renziana i delitti totali, compresi quelli di maggiore allarme sociale come omicidi, furti, violenze sessuali, mostrano una netta tendenza alla diminuzione. Se i delitti calano, come spiegare il crescente senso di insicurezza degli italiani, nonché la conseguente impetuosa crescita della domanda di sicurezza, se non come il risultato di una manipolazione dell’opinione pubblica, scientemente aizzata ad avere paura? Questa lettura di quel che è successo non è insensata, o puramente autoconsolatoria. Penso anch’io che, senza l’azione combinata della politica e dei media, il senso di insicurezza degli italiani non sarebbe aumentato tanto quanto è aumentato in questi ultimi anni. E tuttavia credo che, da sola, quella spiegazione non funzioni. Quando si parla di insicurezza, e si imputa la sua crescita essenzialmente agli “imprenditori della paura”, a mio parere si dimenticano due importantissimi fattori che, in questi anni, hanno contribuito non poco ad alimentare insicurezza e domanda di protezione. Per illustrare il primo fattore riporto qualche passaggio di una mail, alquanto cruda, che ho ricevuto qualche tempo fa da un giovane studioso italiano che ha avuto la ventura di entrare per la prima volta negli Stati Uniti per un convegno. Parlando degli “sbarchi via aereo”, comincia con il farmi notare la ingombrante burocrazia dei visti d’ingresso, le domande cui tutti - bianchi e non bianchi - devono rispondere (tipo: cosa vieni a fare? quando te ne vai? a che indirizzo pernotti? quanti soldi hai?). Per poi concludere: “La mera esistenza di questa procedura di selezione degli ingressi (che fa anche un po’ paura, ci sono stemmi della polizia intimidatori ecc.) dà l’impressione che per lo meno gli Usa cercano di proteggere i loro cittadini, mentre in Italia questo è l’ultimo dei problemi. C’è anche questo modo di vederla: se gli accessi fossero regolati e avessero un aspetto meno selvaggio di un barcone pieno di africani, i cittadini italiani avrebbero forse più l’impressione che allo Stato importa qualcosa di loro, cosa di cui l’americano medio non dubita”. Naturalmente so bene che le situazioni dell’Italia e degli Stati Uniti sono molto diverse, anzi speculari (là il problema è la frontiera con il Messico, qui è il Mediterraneo), però la domanda fondamentale resta la stessa: in questi anni i nostri governi hanno dato l’impressione che allo Stato interessasse proteggere i propri cittadini filtrando rigorosamente gli ingressi? La risposta è: assolutamente no. Per anni il messaggio è stato esattamente quello contrario: non dovete preoccuparvi, e se lo fate è perché siete preda di paure irrazionali; la nostra missione, e quindi la nostra priorità, è salvare vite umane. C’è voluto l’approssimarsi delle elezioni, e l’avvento di Minniti, per cambiare registro, ma era troppo tardi, e comunque non poteva bastare. Perché la gente non si basa sulle statistiche, ma su quel che vede:100 mila ingressi regolari e controllati creano meno inquietudine di un solo barcone con 100 migranti che non si potranno mai respingere, anche quando risultasse che non hanno diritto ad alcuna forma di protezione. E dire che, anche a sinistra, qualcuno aveva provato a dirlo, che non c’è dialogo senza sicurezza: “La sensazione di sicurezza da entrambi i lati della barricata è una condizione essenziale per il dialogo fra le culture”, scriveva Zygmunt Bauman nel 2011, giusto prima dell’inizio delle primavere arabe (“Per tutti i gusti”, Laterza 2011). La rinuncia di chi ha il dovere di proteggere a prendere sul serio il proprio ruolo non è però l’unico fattore che ha fatto lievitare il senso di insicurezza. Ce n’è anche un altro, molto più subdolo e sottile. Anche in questo caso preferisco spiegarmi con un esempio: qualche giorno fa, guardando un telegiornale, apprendo che, in vista di qualche giornata un po’ calda, le autorità stanno predisponendo una gigantesca campagna di sorveglianza e protezione denominata “estate sicura”, come se un gravissimo pericolo incombesse sulle nostre vite. Lungi da me criticare una simile lodevole iniziativa, ma non posso non notare che una campagna simile era inconcepibile anche solo un paio di decenni fa, e che sono ormai centinaia le iniziative, le pubblicità, gli eventi nei quali siamo implacabilmente avvertiti dei pericoli che corriamo, nonché dei rimedi che, per lo più a pagamento, sono a nostra disposizione purché prendiamo atto della nostra vulnerabilità. Non so se lo avete notato, ma è da anni e anni che sia la pubblicità commerciale, sia la pubblicità progresso, ci terrorizzano con quello che ci potrebbe succedere se non stiamo attenti alla placca dentaria, se non stipuliamo un’assicurazione, se non installiamo impianti di allarme nella nostra casa, se non disinfettiamo la stanza in cui gioca il bambino, se non ci sottoponiamo a controlli medici periodici, se non ci vacciniamo contro l’influenza, se non portiamo il cane e il gatto dal veterinario, se non mettiamo la mascherina anti-smog, se non scegliamo un’auto con 9 airbag (salvo aggiungere: “ma gli airbag non bastano più”, e giù dispositivi elettronici che ci avvertono di tutto e ci proteggono in ogni situazione). E questo martellamento, come stanno documentando molti studi di psicologia (specie negli Stati Uniti), non sta solo impaurendo le generazioni più anziane, ma sta forgiando una generazione di ragazzi sempre più insicura, intimorita, iperprotetta, e proprio per questo non attrezzata ad affrontare le difficoltà della vita adulta. Già una quindicina di anni fa, parlando dell’evoluzione della società americana, Hara Estroff Marano ebbe a coniare l’espressione Nation of Wimps (una “nazione di schiappe”), mentre un’altra psicologa, Jean Twenge, da poco ha pubblicato un libro (iGen, in italiano Iperconnessi, Einaudi 2018) nel cui sottotitolo i ragazzi della generazione internet sono descritti come “del tutto impreparati a diventare adulti”, proprio per l’eccesso di attenzioni protettive da parte di genitori e docenti. È il progresso, ovviamente. Come si fa a non compiacersi degli standard sempre più elevati di sicurezza? Tuttavia forse sfugge l’altra faccia della medaglia: una società bombardata dall’imperativo della sicurezza, ossessivamente invitata a proteggersi da ogni sorta di minaccia, non diventa soggettivamente sempre più sicura, bensì sempre più vigile, e inevitabilmente sempre più sensibile ai problemi della sicurezza. Avete notato quanto è aumentato l’uso, soprattutto nei media, di espressioni come “sicuro”, “sicurezza”? e l’uso ossessivo, nelle situazioni più disparate, dell’espressione “mettere in sicurezza”? Il paradosso delle campagne per la sicurezza è che il loro effetto collaterale è di aumentare il sentimento di insicurezza. Ma tutto questo non può non avere effetti anche sul modo in cui viene percepito il problema dei migranti. Più una società è impegnata in una ricerca ossessiva della sicurezza, più è destinata a mal digerire qualsiasi evento che appaia fuori controllo. E’ la dialettica della protezione. Nella società italiana la paura dello straniero è stata certamente alimentata dalle campagne politiche anti-sbarchi e anti-Ong, ma non possiamo dimenticare che il terreno della paura era stato scrupolosamente concimato da due meccanismi, per certi versi opposti, che con Salvini nulla hanno a che fare. Il primo si ha quando chi deve proteggerti (governo) cerca di convincerti che le tue preoccupazioni sono infondate. Il secondo si ha quando chi vuole offrirti un prodotto o un servizio (pubblicità) cerca di convincerti che ti devi preoccupare. Il cocktail fra questi due grandi meccanismi della psicologia sociale, entrambi assai rigogliosi negli anni della crisi, ha reso altamente infiammabili le anime dei cittadini: è forse per questo che è bastato Salvini a farle prendere fuoco. Il taser all’italiana sarà un rimedio peggiore del male di Paolo Delgado Il Dubbio, 7 luglio 2018 La pistola elettrica funziona negli Usa, dove la polizia ha il grilletto facile. Nel 2012 un rapporto di Amnesty International contava circa 500 vittime a partire dal 2001. Oggi i morti sono poco più di mille. Stavolta pare che il Taser arrivi davvero. Sta lì in stand by dal 2014, quando la pistola elettronica in dotazione alle forze dell’ordine fu introdotta, sulla carta, con un emendamento al decreto sulla sicurezza negli stadi fortemente voluto dall’allora ministro degli Interni Angelino Alfano. Per ora l’uso sarà molto contenuto: 30 pistole in tutto da dividersi tra poliziotti, carabinieri e finanzieri delle 11 città scelte per la sperimentazione su tutto il territorio nazionale. Niente a che vedere con le migliaia di ordigni elettronici adoperati negli Usa (e in un centinaio di altri Paesi) non solo dalle forze dell’ordine ma anche dalle agenzie private. Il significato di quella strana sigla che nel dubbio tutti finiscono per pronunciare teaser, come se invece di un’arma quasi letale si trattasse di una ragazzotta provocante, è bizzarro. Sta per Thomas A. Swift’s Electric Rifle. Tom Swift, personaggio di un ciclo di romanzi di fantascienza scritti all’inizio del XX secolo, era l’eroe d’infanzia di Jack Cover, ricercatore della Nasa che nel 1969 iniziò a lavorare sull’ordigno che, a contatto con il corpo umano, provoca un shock elettrico stordente. Realizzato per la prima volta nel 1974 e poi via via perfezionato, il Taser è in dotazione alla polizia americana dagli inizi del XXI secolo ed è adoperato oggi da 107 Paesi per un totale di circa 15mila agenti dotati di “pistola elettronica”. Dal 2007, però, è considerato ufficialmente “strumento di tortura” dall’Onu. Esistono in commercio cinque modelli diversi di Taser, tutti prodotti dalla Axon. Non è chiaro quale sarà quello adoperato in Italia. Probabilmente si tratterà dell’X2, uno dei due modelli in dotazione alla polizia americana. Tutti i modelli lanciano due elettrodi, collegati al dispositivo con fili lunghi 8 metri, che bucano i vestiti e trasmettono una scarica elettrica pari a 50mila volt per 5 secondi. La legislazione italiana dovrebbe però imporre una scarica di durata più breve. Il modello X2 contiene due cariche e negli Usa è fornito della micidiale modalità d’uso detta “Drive Stun”, che permette di adoperare il Taser anche direttamente a contatto del soggetto. Il pericolo principale essere costituito dalla reazione alle scariche e dello stato di salute. Ma evidentemente non è e sapere in anticipo se il colpito è in buona salute o meno, e proprio questo che sarebbe il rischio dell’uso della pistola elettronica. Gran parte delle vittime è stata registrata come affetta da sindrome da “Excited Delirium”, una crisi acuta che provoca violenza, moltiplicazione delle forze e totale incontrollabilità del soggetto. E’ una diagnosi che però va presa con le pinze. Si tratta infatti di un disturbo, provocato da malattie mentali o da abuso di stupefacenti, non riconosciuto da tutta la comunità scientifica e certamente addotto in molti casi a giustificazione per decessi dovuti invece semplicemente a violenze poliziesche ed è probabile che sia stato adoperato come giustificazione per l’uso, rivelatosi poi fatale, del Taser da parte della polizia. Secondo le stime di Amnesty, il 90% delle vittime del Taser erano disarmate e la percentuale sarebbe in crescita con un raddoppio dei casi letali negli ultimi due anni. Negli usa lo Stato con il più alto numero di vittime è la California, seguito dalla Florida e dal Texas. Va anche rilevato che non sempre la pistola elettronica basta a mettere fuori combattimento il soggetto colpito. Nel 2015 la Corte suprema annullò, riconoscendo l’infermità mentale, la condanna a morte ai danni di un homeless ex marine ed ex poliziotto, Humberto Delgado. Fermato mentre si aggirava con un carrello della spesa, Delgado era fuggito. Colpito dal Taser aveva retto lo shock, probabilmente perché indossava diversi strati di indumenti, e ucciso il poliziotto che lo aveva colpito. Quello sulle vittime della scarica elettrica è però un dato che va ponderato con attenzione. Negli Usa la polizia ha il grilletto facile: le vittime si aggirano sul migliaio ogni anno. Di conseguenza è plausibile la tesi secondo cui il Taser avrebbe salvato più vite di quante non ne abbia compromesse e che la soluzione al problema dei colpi letali sia nella messa a punto di ordigni più sicuri. Del resto in Italia l’accelerazione sull’avvio della sperimentazione è stato deciso dopo il caso del sudamericano ucciso a Genova dopo che aveva ferito un agente. L’uso del Taser avrebbe potuto in quel caso evitare il ricorso all’arma da fuoco. Il punto critico è la differenza tra la situazione italiana e quella degli Usa. La polizia italiana, fortunatamente, spara molto meno di quella a stelle e strisce. I morti, come nei casi Cucchi e Aldovrandi o Magherini (unico caso di “Excited Delirium” sinora in Italia), sono invece a forte sospetto di maltrattamenti. Il Taser, soprattutto se dotato di “Drive Stun” potrebbe rivelarsi davvero un rimedio peggiore del male. Dell’Utri oggi sarà scarcerato: “si è aggravato, rischia un infarto” di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 7 luglio 2018 La moglie: “Mi diceva: preferisco la morte a questa tortura”. I giudici: pena differita, va ai domiciliari. I legali: finalmente si riconosce l’incompatibilità. Il concreto pericolo di un infarto fatale e le generali condizioni di deperimento fisico e psicologico sono tali che “la detenzione in carcere non è più rispondente alla finalità rieducativa ed al senso di umanità”. A chiusura di un procedimento iniziato oltre un anno fa, diventano decisive le visite a cui è Marcello Dell’Utri è stato sottoposto di recente nel reparto di emodinamica del San Filippo Neri. Sulla base del certificato aggravamento del quadro clinico il Tribunale di sorveglianza ha così accordato nella serata di ieri il differimento della pena che porterà l’ex senatore da Rebibbia ai domiciliari nel pomeriggio di oggi. “La patologia cardiaca di cui Dell’Utri soffre - scrive il tribunale - ha subito un recente e significativo aggravamento rispetto alle pregresse condizioni e non sono secondarie le negative ricadute di altri fattori complicanti quali l’età, 77 anni, il trattamento radioterapico, la malattia oncologica e le condizioni psichiche. I sanitari - si legge ancora nell’ordinanza - hanno segnalato il rischio di morte improvvisa per eventi cardiologici acuti non fronteggiabili con gli strumenti sanitari del circuito penitenziario”. Il fondatore di Forza Italia, arrestato da latitante in Libano nel giugno 2014, deve scontare la parte restante della condanna definitiva a sette anni per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il fine pena è fissato nell’autunno 2019. “L’unica riflessione possibile - commentano gli avvocati Alessandro De Federicis e Simona Filippi - è che finalmente si prende atto di una situazione di assoluta incompatibilità con la detenzione in carcere”. Sulle condizioni di salute del detenuto si sono contrapposte nei mesi perizie e interpretazioni. Lo stesso Tribunale di sorveglianza aveva rigettato la richiesta dei legali nel dicembre scorso, salvo poi vedersi dar torto dalla Cassazione che si è pronunciata nella direzione della incompatibilità col carcere. Da febbraio ad aprile Dell’Utri è stato nel frattempo ricoverato nel reparto di radioterapia del Campus biomedico di Trigoria per curare il suo tumore alla prostata. Una scelta, anche questa, che aveva suscitato forti contrapposizioni: “La sua posizione giuridica non è in alcun modo rassicurante”, scrivevano i giudici di sorveglianza. Pesavano in questa valutazione i precedenti penali e i processi ancora in corso (è dell’aprile scorso la ulteriore condanna in primo grado a 12 anni nel processo sulla trattativa tra Stato e Mafia). Ma soprattutto, motivava il tribunale, “allarmante appare la pregressa latitanza in Libano, nonostante l’età, la patologia cardiaca e le altre affezioni già all’epoca presenti”. Dell’Utri, scrivevano i giudici, “potrebbe facilmente allontanarsi”. “Motivazioni fantasiose”, le aveva definite l’ex senatore in una lettera dal carcere, nella quale si definiva “amareggiato più che sorpreso” per quello che a suo dire era un atto di “crudeltà giudiziaria”. Abruzzo: il M5S dal Provveditore per discutere le problematiche delle carceri cityrumors.it, 7 luglio 2018 Ieri mattina i deputati Fabio Berardini e Valentina Corneli hanno incontrato il Provveditore del Lazio, Abruzzo e Molise, Cinzia Calandrino per testimoniare la grave problematica relativa alla carenza di personale e di sovraffollamento degli istituti penitenziari abruzzesi. In particolare è stato riferito al Provveditore anche in merito alla situazione del carcere di Castrogno recentemente visitato il quale necessita di interventi immediati sull’organico della polizia penitenziaria che, anche a causa dei pensionamenti che saranno posti in essere a fine anno, rischia di compromettere la sicurezza dell’intero Istituto. “Ringrazio la Dottoressa Calandrino per la disponibilità che ha mostrato nell’incontro di oggi. Dopo avere esposto le problematiche ci ha assicurato la massima attenzione per il territorio abruzzese anche attraverso delle iniziative lavorative rivolte ai detenuti da poter insediare all’interno del carcere di Castrogno - ha detto Berardini - Il grande sovraffollamento e la difficile gestione di detenuti psichiatrici sono temi da affrontare con la massima celerità. Noi continueremo a porre la massima attenzione a queste problematiche ed a lavorare in sinergia con gli uffici per trovare le giuste soluzioni nell’interesse della collettività”, ha concluso. I deputati hanno richiesto al Provveditore una relazione dettagliata riguardante tutta la situazione degli istituti amministrati al fine di poter intervenire al più presto con gli strumenti a disposizione visto che, attualmente, il Ministero della Giustizia è vincolato agli stanziamenti di spesa previsti dalla legge finanziaria approvata dal Governo precedente. Lecce: nuovo padiglione per 200 detenuti, i sindacati “basta sacrifici, dateci uomini” lecceprima.it, 7 luglio 2018 Sei sigle sindacali denunciano la cronica carenza di organico, ma anche il trasferimento di un detenuto che proprio a Lecce aveva provato a suicidarsi. Sei sigle sindacali chiedono un intervento immediato del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per la revisione, al rialzo, della pianta organica nel carcere di Lecce. L’annosa questione si ripropone all’indomani di una vicenda che ha creato un profondo, ulteriore motivo di malessere tra gli agenti in servizio ma anche in previsione dell’apertura di un nuovo padiglione per un regime di media sicurezza: “Dateci più uomini o sfollate i detenuti in eccesso”, questo, in poche parole il messaggio. Nelle scorse ore, infatti, è stato tradotto da Genova un detenuto, affetto da patologia psichiatrica, che ad aprile aveva tentato il suicidio, quasi riuscendoci, nell’istituto salentino. In quell’occasione fu rianimato da un agente e dal personale medico presente nell’apposito reparto di osservazione psichiatrica. Prima ancora l’uomo si era reso protagonista di varie aggressioni nei confronti degli agenti e del personale medico e il comportamento violento lo ha ribadito nel primo giorno della nuova detenzione, maturata per essere evaso da una comunità presso il capoluogo ligure. La decisione di riportarlo nel Salento, proprio dove ha tentato di togliersi la vita, viene fortemente contestata dai sindacati che denunciano il pericolo attuale per il personale oltre che per lo stesso detenuto. Sappe, Uil, Sinappe, Uspp, Cgil e Cisl hanno dato appuntamento ai cronisti, questa mattina presso il penitenziario di Borgo San Nicola dove è giunto anche il segretario cittadino della Lega, Mario Spagnolo, nella speranza di far arrivare per le vie brevi ai livelli governativi il malcontento dal capoluogo salentino. Il partito di Salvini, del resto, è da tempo molto presente nelle questioni dell’amministrazione penitenziaria e ora, logicamente, ci si aspetta che dalle parole si passi ai fatti. Giusto tre settimane addietro, una delegazione leghista composta dai parlamentari Marti e Sasso, dal segretario regionale Caroppo e da quello provinciale, Calò, aveva effettuato una visita nel carcere di Lecce prendendo atto della situazione e impegnandosi a segnalare al ministero della Giustizia l’urgenza di interventi migliorativi. Un altro elemento di preoccupazione è dato dalla prossima apertura, probabilmente a settembre, del nuovo padiglione per 200 detenuti all’interno del penitenziario. I sindacati rivendicano una tempestiva integrazione dell’organico. Al momento sono 999 i detenuti e 550 gli agenti in servizio (numero complessivo, al netto di ferie e malattia). Per far fronte alla nuova struttura ci vorrebbero altre 150 unità, dicono i sindacati che sottolineano come, nel corso degli anni, le previsioni di pianta organica siano state sistematicamente riviste al ribasso: da 766 nel 2001 a 581 nel 2017. I concorsi previsti, ricordano, servono a malapena a colmare i pensionamenti. Rovigo: l’allarme del Sindacato “carcere senza laboratori e senza direttore, così non va” rovigoindiretta.it, 7 luglio 2018 “La Fp-Cgil prende le proprie distanze dai comunicati emessi in questi giorni su una presunta aggressione da parte di detenuti ad un agente di polizia penitenziaria dell’Istituto rodigino, poiché non rappresentano la realtà dei fatti”. Lo spiega il coordinatore regionale Gianpietro Pegoraro, che interviene su quanto avvenuto nei giorni scorsi in carcere a Rovigo. Sulla questione era intervenuta anche al Uil, la Pegoraro ha una visione in parte differente. “L’agente ha avuto un infortunio mentre stava dividendo due detenuti in un litigio molto forte, quindi non si può parlare di rissa, poiché non vi erano più detenuti. Se l’agente fosse stato preparato l’incidente non sarebbe accaduto e oggi non si sarebbe parlato di aggressione”. “Come sindacato puntiamo il dito per la mancanza di protocolli d’intervento utili al personale di polizia penitenziaria all’interno delle carceri, come intervenire in caso di litigi tra detenuti, aggressioni, per soggetti che hanno problemi psichiatrici. Praticamente manca l’Abc di sicurezza per i poliziotti penitenziari. E’ come se mancassero, in uno dei lavori più rischiosi, le regole di sicurezza”. “Una situazione questa che come Fp - Cgil abbiamo denunciato più volte agli organi preposti, quali provveditorato regionale e amministrazione penitenziaria centrale senza ottenere nessuna risposta, ma intanto gli incidenti per mancanza di protocolli, preparazione del personale di polizia penitenziaria, accadono con una certa cadenza”. “Altra aggravante è la totale assenza di lavorazioni all’interno del carcere di Rovigo. Infatti, le lavorazioni interne all’istituto rodigino sono scarse, esistono solo le lavorazioni domestiche pagate dall’amministrazione penitenziaria. Questa situazione, con le celle aperte, a lungo andare porta all’esasperazione dei detenuti, che per diversi problemi personali cercano lavoro ma non lo trovano all’interno del carcere di Rovigo”. In pratica, uno dei problemi sarebbe proprio la mancanza di laboratori e attività che possano tenere impegnati i detenuti. Ma i problemi non sono finiti qui. “In ultima analisi è la mancanza costante di un direttore a tempo pieno nel carcere di Rovigo, in quanto allo stato attuale lo si ha solo per due giorni, a volte anche uno, alla settimana. Anche questo è significativo, com’è significativo che le udienze ai detenuti il direttore del carcere non le abbia mai fatte, mentre solo il comandante di reparto di Rovigo le svolge”. “Come Fp Cgil - chiude la nota - rivendichiamo che si attui subito dei protocolli d’intervento all’interno del carcere di Rovigo; trovare delle occupazioni dei detenuti, impegnarli anche nei lavori socialmente utili con borse lavoro; che vi sia in pianta stabile un direttore e che faccia anche colloqui con detenuti”. Roma: il piano rom del Campidoglio e i diritti umani dimenticati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 luglio 2018 La sindaca Raggi si è detta disponibile a guidare il ministro Salvini in un giro nei campi della capitale. Pronto per il blitz nei campi rom della Capitale. Il ministro degli interni Salvini l’aveva annunciato domenica pomeriggio dopo lo show di Pontida. La sindaca Virginia Raggi si è resa disponibile ad un incontro. “Ci incontreremo quanto prima - ha riposto la sindaca interpellata alla fine della presentazione della Mic card in Campidoglio -, sarà bello portare il ministro a vedere i campi, soprattutto l’attività che stiamo facendo e che ci suggerisce l’Europa per superarli nel segno dell’inclusione, dell’applicazione per tutti dei diritti e dei doveri come stabilisce la Costituzione. Questo è un percorso che abbiamo avviato due anni fa”. Uno dei campi che saranno oggetto della visita è il Camping River che, di fatto, doveva essere sgomberato attraverso il “piano rom” voluto dal Campidoglio. Ed è qui che sono nati dei problemi. Le associazioni principali dei rom e sinti, a partire dall’Associazione 21 luglio, hanno denunciato che si tratta di una vera e propria violazione dei diritti umani. Ma partiamo dall’inizio. Il 15 maggio scorso l’Amministrazione Capitolina aveva inviato una lettera notificando ad ogni famiglia presente nell’insediamento di Camping River la necessità di “lasciare immediatamente libero da persone e cose il modulo abitativo occupato, unitamente al suo nucleo familiare, inderogabilmente entro la data del 15 giugno 2018”. Ora la scadenza si è spostata al 30 giugno e il “pugno di ferro” utilizzato dall’Amministrazione non fa che svelare sempre più clamorosamente le fragilità del “piano Rom”, un progetto di cui il Camping River doveva essere la sperimentazione pilota nel pieno rispetto dei principi della Strategia Nazionale per l’Inclusione dei rom, sinti e caminanti. Il camping river e il “piano rom” - Il Camping River era entrato all’interno della sperimentazione delle misure previste dal “Piano di Roma Capitale per l’inclusione dei rom” a partire dal 1 luglio 2017 con deliberazione n. 146 del 28 giugno 2017. Nonostante la gran parte delle famiglie residenti all’interno del “campo” sia risultata idonea al progetto di fuoriuscita assistita dal “villaggio Camping Ri- ver”, le persone in questione non hanno potuto accedere ai contributi per il contratto di locazione perché - trovandosi in una situazione di inoccupazione e indigenza - non possono fornire le garanzie economiche necessarie per accedere al mercato immobiliare privato. Ne è seguito che da ottobre 2017 il Camping River non è stato più considerato un “villaggio attrezzato” ma un’area privata occupata per la quale l’Amministrazione Comunale ha disposto la modifica della Deliberazione n. 146 del 28 giugno 2017, esonerando la stessa Amministrazione Comunale da qualsiasi responsabilità nei confronti di questa struttura ricettiva. Tale situazione di precarietà, unita all’assenza di un dialogo adeguato con le famiglie presenti nell’insediamento, hanno impattato gravemente sui residenti specialmente sui minori. È significativo, a questo proposito, il dato relativo alla frequenza scolastica: secondo l’associazione 21 Luglio, nell’anno scolastico 2015- 2016, i minori rom residenti nel Camping River e iscritti a scuola erano 238. Nell’anno scolastico 2017- 2018 risultavano essere invece 107, segnando un crollo delle iscrizioni pari al 55%. Il pugno di ferro - L’azione del Campidoglio, definita dall’Associazione 21 Luglio come un vero e proprio “pugno di ferro”, si è dovuto scontrare con la realtà dei fatti: come già detto, le persone non hanno potuto accedere ai contributi per il contratto di locazione perché prive di garanzie economiche. Vetri divelti, pareti sfondate, porte e finestre smontate. Scaduto l’ultimatum del Comune di Roma alle famiglie residenti all’interno del Camping River, l’insediamento che da tredici anni ospita circa 400 persone di origine rom, l’Amministrazione ha iniziato il “superamento del Camping River” distruggendo, nelle mattinate del 21 e 22 giugno, 18 container nei quali vivevano le famiglie. La soluzione abitativa alternativa per i residenti è stata, come di consueto, quella di dividere le famiglie: donne e bambini in case famiglia, uomini per strada. La proposta non è stata accettata da nessuno dei nuclei in questione e i residenti sono rimasti inermi a guardare lo scempio che si consumava sotto i loro occhi. Rimaste senza un tetto sopra la testa, le famiglie hanno dormito all’addiaccio, accampate vicino ai container distrutti. In questo modo, persone già vulnerabili e in condizioni di emergenza abitativa, sono oggi in una situazione di ancora maggiore fragilità. Ed è qui che è scattata la denuncia da parte di 61 organizzazioni rom e 27 accademici. Oltre a rappresentare una pesante violazione dei diritti umani che infrange gli standard internazionali del diritto all’abitare, distruggere i container è stato un atto cinico e illogico, fa notare Associazione 21 luglio. Le strutture di proprietà del Comune di Roma hanno un costo, stando ai prezzi di mercato, di circa 20 mila euro. Distruggere e vandalizzare i container rappresenta dunque un consistente danno erariale per l’Amministrazione. “Si è trattato di azioni gravissime, ciniche e crudeli. Sono state attuate ai danni di queste persone perché rom. Se si fosse trattato di qualcun altro, questa storia avrebbe avuto un esito diverso - ha affermato Associazione 21 luglio Onlus - Accusiamo la Giunta di incompetenza, per non essere stata capace di superare il Camping River secondo i principi della Strategia Nazionale di Inclusione. È ormai chiaro che questo “Piano rom” viola i diritti umani - aggiunge l’Organizzazione - e chiediamo ancora una volta e con sempre maggiore preoccupazione una revisione profonda delle azioni previste”. Ora la situazione è critica. Diverse famiglie rom sono rimaste nel campo nonostante la scadenza. C’è un’ansiosa curiosità in Comune per la strategia che potrà mettere in piedi il leader della Lega. Nel caso del River - dove appunto è scaduto il termine per lasciare gli insediamenti comunali ma ciò non è ancora avvenuto - si potrebbe convocare un comitato per l’ordine e la sicurezza ad hoc, lanciare un ultimatum agli occupanti diventati abusivi e in caso di esiti negativi far partire uno sgombero con le forze dell’ordine. Una soluzione che nel M5S (da Raggi all’assessore Baldassarre passando per gran parte dei consiglieri comunali) nessuno auspica. Ma fino a quando visto l’imminente visita del ministro degli interni? La Barbuta - Il secondo campo rom che Salvini vorrà visitare è quello de La Barbuta. È situato al di fuori del Grande Raccordo Anulare, in via di Ciampino 63, nel Municipio VII. Nasce come insediamento formale nel 2012, nel pieno dell’” Emergenza Nomadi”, accogliendo inizialmente un centinaio di rom macedoni provenienti dallo sgombero forzato del “campo tollerato” di via del Baiardo. Successivamente, al suo interno sono stati trasferiti oltre 200 rom di nazionalità bosniaca provenienti dal vicino “campo tollerato” e circa 250 rom di nazionalità macedone e bosniaca sgomberati dall’insediamento di Tor de’ Cenci. L’insediamento presenta diverse forme di criticità principalmente legate a forme di convivenza forzate tra famiglie eterogenee tra loro. All’interno della baraccopoli vivono 586 persone in 83 unità abitative. L’insediamento è provvisto di utenza elettrica (400kW per un costo annuo superiore ai 100.000 euro) e di utenza idrica. Il rapporto degli abitanti con il quartiere limitrofo è fortemente segnato dalle problematiche legate ai roghi tossici che periodicamente si segnalano in prossimità della baraccopoli. Sono stati 94 i minori iscritti alla scuola dell’obbligo nell’anno scolastico 20172018. Di essi 5 alla scuola d’infanzia, 57 alla scuola primaria e 32 alla scuola secondaria di primo grado. Un altro campo che dovrebbe essere superato. Ma la procedura è ancora in alto mare. Oristano: “A spasso tra le nuvole”, concorso di poesia e prosa per i detenuti sardanews.it, 7 luglio 2018 La direttrice della Casa di Reclusione Paolo Pittalis di Nuchis, dottoressa Caterina Sergio, ha lanciato il concorso letterario dal titolo a Spasso tra le Nuvole, rivolto alla popolazione carceraria d’Italia. Un concorso che vuole essere una ulteriore opportunità per i detenuti che desiderano proseguire nel loro percorso rieducativo di recupero necessario durante la detenzione. “A spasso tra le nuvole per i detenuti d’Italia con Ma... donne”. Il concorso prevede due sezioni distinte, una dedicata alla poesia ed una alla narrativa a cui tutti i detenuti potranno partecipare distinti anche i giovani in una categoria a parte. Visto i tempi della macchina della giustizia si è resa necessaria la riapertura dei termini per la consegna degli elaborati che potranno essere inviati entro la mezzanotte del 31 luglio prossimo all’indirizzo di posta elettronica associazionema.donne@gmail.com a cui potranno essere anche indirizzate richieste di chiarimenti o la consultazione del bando. A credere nel progetto oltre che la dottoressa Sergio e la presidente di Ma… donne, Brunilde Giacchi, anche l’Amministratore Straordinario della provincia di Sassari, dottor Guido Sechi, il quale ha concesso il patrocinio gratuito sottolineando l’originalità della manifestazione oltre che l’importante valore sociale che si prospetta sullo sfondo. Il concorso è dedicato al “secondino” Paolo Pittalis, di Muros (come venivano chiamati all’epoca gli agenti di custodia) trucidato con cinque colleghi nel 1945, durante l’evasione in massa di un gruppo di ergastolani dal carcere di Alghero. Sono molte le aspettative che questo concorso ha fatto nascere nei suoi promotori; la dottoressa Sergio è tesa ad offrire una ulteriore occasione a tutti coloro che hanno deciso di intraprendere il percorso di recupero e integrazione che condurrà ogni singolo detenuto alla possibilità di un rientro nella società civile con la quale tornare a confrontarsi per ritrovare la famiglia e i valori che da essa ne derivano. Aspettative condivise anche dall’associazione “Ma… donne” la quale spera in un elevato numero di elaborati prodotti dalla popolazione carceraria femminile che dalle recenti statistiche si evidenzia che a livello mondiale, sono sempre di più le donne che finiscono in carcere per reati di droga. Negli ultimi 15 anni, la popolazione carceraria femminile globale è cresciuta del 50%, contro un aumento generale di appena il 20% nello stesso periodo. E la causa principale di questo incremento è dovuta proprio a illeciti legati agli stupefacenti. Una opportunità diremmo necessaria per una seconda opportunità. “Rifarsi una vita”. Le storie di chi ce l’ha fatta, “nonostante” il carcere di Paola Springhetti retisolidali.it, 7 luglio 2018 Abbiamo scelto come risposta all’esigenza di giustizia il carcere, che non riabilita. Altri tipi di pena sarebbero più costruttivi. Abbiamo bisogno di storie, che ci parlino non di problemi astratti o inventati, ma della vita delle persone, della realtà che vivono, vista dal di dentro, in modo da coglierne il senso. “Rifarsi una vita. Storie oltre il carcere” (ed. Dehoniane 2018), curato da Paolo Beccegato e Renato Marinaro di Caritas Italiana, è un piccolo libro di grandi storie: grandi non perché riguardano personaggi famosi o fatti eclatanti, ma perché raccontano persone comuni che però fanno una cosa eccezionale: prendono coscienza di sé e dei propri atti, scoprono che, nonostante gli errori, qualcuno si fida di loro e loro possono fidarsi di qualcuno, e cambiano. Persone finite in carcere per i più diversi motivi, spesso complici le difficili situazioni in cui vivevano, ma che grazie alle persone, ritrovano la strada giusta, riescono a rifarsi una vita. Il carcere non funziona. Sottolineo grazie alle persone, non al carcere. Perché le storie di queste persone sono interessanti in sé, ma anche in quanto ribadiscono un’idea di pena che oggi non è molto condivisa dall’opinione pubblica, ma che è indicata nel dettato costituzionale: la pena non solo come punizione, ma come percorso di rieducazione. Emergono, da queste storie, due temi fondamentali, quando si parla di pena. Il primo è che per accompagnare le persone a rifarsi una vita è necessaria una pedagogia relazionale, che si attua attraverso il “farsi prossimo”, perché, come scrive nell’introduzione Andrea Soddu, “è nella relazione con gli altri, nell’essere riconosciuti persone, pur nella consapevolezza delle proprie responsabilità, che può iniziare un percorso di rinascita”. Il secondo è che il carcere non porta a un cambiamento, perché non porta la persona a riflettere e a prendere coscienza di quello che ha fatto, anzi, spiega Alessandro Pedrotti nella post fazione, “chi oggi trascorre tutto il tempo della pena in carcere, in una condizione di sovraffollamento, in carceri fatiscenti, si vede come vittima e non come autore di reato”. Il ruolo del volontariato. Da queste due constatazioni, discende il ruolo del volontariato, che la Caritas ha ben chiaro. Un ruolo che non è solo quello, pur indispensabile, di sostegno e aiuto concreto dentro e fuori dal carcere, per costruire percorsi di autonomia e integrazione. Ma è anche quello, altrettanto fondamentale, di “mettere in discussione la funzione del carcere stesso e il perché la nostra società abbia dato come risposta primaria all’esigenza di giustizia non la pena, ma il carcere, l’allontanamento dalla società”. (Alessandro Pedrotti). Il carcere, in fondo, è il fallimento di un’idea di persona, di un’idea dei diritti, di un’idea di società. Diciotto milioni di italiani a rischio povertà, record nel Sud Il Manifesto, 7 luglio 2018 Istat. Oltre 18 milioni di italiani risultano a rischio povertà o esclusione sociale, il 30% della popolazione, quasi uno su tre. In Europa stanno peggio solo in Bulgaria, Romania, Grecia e Lituania, ma la situazione sociale italiana è molto lontana da quella francese di Francia (il 18,2% è a rischio “esclusione”), Germania (19,7%) e Regno Unito (22,2%). è il risultato del monitoraggio sui 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile contenuti nell’Agenda 2030 (Sustainable Development Goals - Sdgs). Per la strategia Europa 2020 l’Italia dovrebbe far uscire 2,2 milioni di persone dalla condizione di povertà ed esclusione sociale, rispetto al 2008 quando 15 milioni si trovavano in questa situazione. In poco meno di due anni si dovrebbe fare quello che non è accaduto in dieci. La povertà sta invece crescendo. Nel Mezzogiorno è a rischio di povertà quasi la metà della popolazione (46,9%) contro uno ogni cinque del Nord (19,4%). Nel 2017 si stima siano 5 milioni e 58mila gli individui a trovarsi in una condizione di difficoltà estrema (8,4% in “povertà assoluta”), mentre peggiora la condizione dei giovani e degli anziani, i più esposti in questo processo dove non manca la povertà di reddito e la grave deprivazione materiale. Va ricordato, come emerso chiaramente nel rapporto Istat che le più malmesse sono le famiglie degli stranieri residenti che vivono e lavorano: il 27% di quelle povere nel nostro paese, oltre una su quattro, più di un terzo sul totale degli indigenti. Ieri l’Istat ha evidenziato una nuova decelerazione della crescita. I consumi crescono solo sul web. Cibo e bevande esclusi, a maggio, sono ferme le vendite della grande distribuzione e in caduta libera quelle dei piccoli negozi (-2,3%). Confesercenti ha definito i dati Istat “una tragedia”. I saldi 2018 saranno “i più scontati degli ultimi anni” con riduzioni del 30-40% sul prezzo di cartellino. L’insieme dei primi cinque mesi dell’anno, poi, mostra un quadro di consumi in caduta, dello 0,2% in valore e dello 0,6% in volume. Nel commercio tradizionale, solo le grandi catene alimentari crescono (+1% da gennaio) sulla spinta dei discount. L’agenzia S&P Global Ratings ha tagliato le stime sulla crescita all’1,3% nel 2018 (dall’1,5%) e ha lasciato invariato all’1,2% quella del 2019. Come si legge in una nota, “la più alta inflazione, in parte collegata al rialzo dei prezzi dell’energia, peserà sui consumi, specialmente perché la crescita dei salari deve ancora prendere piede”. Migranti. Centri libici vicini al collasso: “serve accogliere in Europa” di Adriana Pollice Il Manifesto, 7 luglio 2018 Il vice premier Salvini smentito da Unhcr e Ue. Un morto in mare ogni 38 migranti nel 2017, un morto ogni sette nel 2018, la riduzione della capacità di salvataggio causa un aumento dei decessi, dice l’agenzia delle Nazioni unite. Bruxelles: l’Italia non può spostare i 42 milioni dell’accoglienza ai rimpatri, sono fondi comunitari. Il sistema dei centri di detenzione per migranti in Libia è a rischio collasso: nei siti dove vengono riportati i naufragi dalla Guardia costiera di Tripoli, monitorati dall’agenzia delle Nazioni unite Unhcr, attualmente ci sono oltre 52mila rifugiati e richiedenti asilo. Per evitare che i rimpatri assistiti saltino è necessario che i paesi europei accolgano quote di profughi. È quanto ha spiegato ieri a Roma Roberto Mignone, responsabile Unhcr per la Libia. A Niamey, in Niger, dove è operativo un centro di rimpatrio per 1.500 profughi, si è creato un “collo di bottiglia” e l’unico modo per riportare la situazione sotto controllo è alleggerire la pressione: “L’Europa ha offerto di accogliere 4mila migranti bloccati in Libia nel 2018, ma nei primi sei mesi ne ha presi poco più 200. Noi possiamo evacuare dalla Libia al Niger mille persone al mese, ma ognuno dei paesi Ue dovrebbe prendere 200, 300 profughi”. L’Unhcr sta trattando con i paesi del Sahel, tra cui Sudan, Ciad e Burkina Faso, per ospitare centri simili ma il problema, sottolinea Mignone, non si risolve con l’impegno dei soli stati africani. Dall’avvio del programma, alla fine del 2017, sono 1.474 le persone tornate in Niger attraverso l’Unhcr, 312 sono state portate in Italia, undici in totale gli Stati che hanno accolto quote di migranti liberati in Libia. Le condizioni dei centri di detenzioni gestiti da Tripoli sono drammatiche, solo 17 sono attivi e il sovraffollamento è oltre il limite: “L’aumento degli sbarchi da parte della Marina locale peggiora la situazione, che rischia di diventare esplosiva” prosegue Mignone. Tra circa venti giorni sarà inaugurato a Tripoli un “centro per il trasferimento in sicurezza di mille richiedenti asilo” gestito in collaborazione con il ministero dell’Interno libico: “Ci andranno le persone più vulnerabili tra quelle riportate a riva in modo che non finiscano negli altri centri, dove non ci sono le condizioni per assisterle”. Sul ruolo delle ong, l’Unhcr dà torto al ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini: “Un morto in mare ogni 38 migranti nel 2017, un morto ogni sette nel 2018. La riduzione della capacità di salvataggio sta causando un aumento dei decessi”, ha spiegato Carlotta Sami, portavoce dell’agenzia Onu. È ancora Mignone a sottolineare: “È difficile che la Guardia costiera libica possa gestire da sola il flusso dei migranti. Per questo è importante che ci siano anche le Ong”. Bocciata dall’Unhcr anche la politica dei porti chiusi: “C’è bisogno di una maggiore concentrazione e coordinamento delle attività di soccorso e c’è bisogno che le persone sbarchino in porti sicuri - prosegue Sami. Molti paesi dovrebbero collaborare di più per sbarchi veloci ed efficienti”. Tra i “porti sicuri” non c’è la Libia: “In molte zone manca la governance - ha sottolineato il rappresentante dell’Unhcr Felipe Camargo, andrebbe concesso a tutte le imbarcazioni di sbarcare nel posto sicuro più vicino”. La prossima settimana ci sarà un incontro tra rappresentati dell’agenzia delle Nazioni unite e Salvini per discutere dei richiedenti asilo, dopo la circolare del Viminale che impone una stretta sui permessi di soggiorno umanitari: “Chiederemo di continuare a offrire opportunità di protezione internazionale”, conclude Camargo. Ieri il presidente della Camera, Roberto Fico, ha precisato: “Per i richiedenti si deve rispettare la legge”. Ma Salvini ha già annunciato che 42 milioni saranno spostati dall’accoglienza ai rimpatri. Anche se dall’Ue avvisano: se si tratta di fondi comunitari, sono vincolati allo scopo per cui sono stati assegnati. Il Consiglio europeo ieri ha comunicato di aver stanziato 90 milioni per i programmi relativi alle migrazioni, risorse da impiegare per tenere i migranti dall’altro lato del Mediterraneo: saranno destinati infatti alla gestione delle frontiere marittime, alla protezione dei migranti in Libia, allo sviluppo del mercato del lavoro in Africa. Migranti. La svolta francese: vale il “principio di fraternità” di Massimo Nava Corriere della Sera, 7 luglio 2018 La Corte costituzionale ha annullato le condanne per “délit” di solidarietà inflitte a diversi cittadini che avevano aiutato migranti ad attraversare il confine italiano. Non è reato soccorrere migranti nei viaggi della speranza e aiutarli materialmente una volta entrati sul territorio nazionale. C’è un “principe de fraternité” sancito dalla Corte costituzionale francese che ha annullato le condanne per “délit” di solidarietà inflitte a diversi cittadini che avevano aiutato clandestini ad attraversare il confine italiano, contravvenendo alla rigida disciplina sul controllo delle frontiere. Il principio di fraternità non è applicabile quando siano accertati intenti speculativi o attività di trafficanti, ma la sentenza - resa nota alla vigilia della “Giornata internazionale del Mediterraneo” - è uno schiaffo alla coscienza collettiva e a tentativi di alcuni governi e leader europei di confondere pur necessarie misure di controllo dei flussi con presunte illegalità di quanti - volontari, Ong, associazioni - si occupano a vari livelli di mitigare la sofferenza del mondo. Se respingimenti ed espulsioni possono essere una politica, soccorso e solidarietà non devono mai venire meno, qualunque sia la condizione giuridica dell’individuo in difficoltà. È in fondo un messaggio evangelico quello che arriva dalla Francia laica ed è un valore universale che viene ancora una volta riaffermato nella patria dei diritti dell’uomo. “Fraternité” è parola della Rivoluzione, scritta nella Costituzione, immanente sulle facciate di istituzioni ed edifici pubblici. Ricordarlo oggi fa bene innanzi tutto alla Francia di Macron, che i suoi valori fondanti li ha un po’ smarriti nelle sue periferie, nelle ex colonie, nei territori d’oltremare, nelle misure sull’immigrazione, salvo dare lezioni a parole ai vicini italiani. E fa bene a tutti, poiché il “principe de fraternité”, riaffermato sui passi alpini, non può non valere nelle lande balcaniche, nei deserti e nel Mare Nostrum. Francia. La Fraternité è un principio costituzionale di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 7 luglio 2018 Per la prima volta il principio di fraternità considerato valore costituzionale. Il Consiglio costituzionale censura il “reato di solidarietà”: c’è libertà di aiutare gli altri a scopi umanitari. Una importante vittoria per le associazioni. L’alta corte era stata sollecitata da Cédric Herrou, l’agricoltore della Roya amico degli esiliati. La “fraternité” dell’emblema francese non è solo una parola, ma un principio che stabilisce un “ideale comune” che ha valore costituzionale. Lo ha stabilito ieri il Consiglio costituzionale, con una decisione storica che eleva a legge fondamentale “la libertà di aiutare gli altri a scopi umanitari, senza considerazioni sulla regolarità del loro soggiorno sul territorio nazionale”. E’ un’importante vittoria che mette fuori legge il “reato di solidarietà”, in un momento in cui l’Europa affossa negli egoismi nazionali e nel rigetto degli esiliati. L’alta corte era stata sollecitata da Cédric Herrou, l’agricoltore della Roya che aiuta i migranti al confine con l’Italia, appoggiato da una dozzina di associazioni umanitarie, tra cui la storica Cimade. Herrou era stato condannato a 4 mesi con la condizionale dalla Corte d’appello di Aix-en-Provence nell’agosto del 2017 con l’accusa di aver aiutato 200 migranti, in maggioranza sudanesi e eritrei. Era stato anche condannato Pierre-Alain Mannoni, per aver accompagnato tre eritree alla stazione. Il Consiglio costituzionale censura una parte della legge Ceseda, il Codice che regola l’entrata e il soggiorno degli stranieri e che prevede fino a 5 anni di carcere e 30mila euro di multa per chi si rende colpevole di “aiutare direttamente o indirettamente uno straniero a entrare, circolare o soggiornare irregolarmente in Francia”. In seguito al dibattito sull’ultima legge sull’immigrazione, presentata dal ministro degli Interni Gérard Collomb e che impone un giro di vite sulle migrazioni, i deputati avevano un po’ attenuato l’estensione del reato, prevedendo esenzioni per aiuti che “non hanno dato luogo a nessuna contropartita diretta o indiretta”. Ma per l’avvocato di Herrou il testo era “vago”, non faceva una distinzione chiara tra aiuto umanitario e passeurs, che sfruttano i migranti. Il Consiglio costituzionale gli ha dato ragione. Sono legali ormai non solo i consigli giuridici, il dare da mangiare o da dormire, prodigare cure mediche “per preservare la dignità o l’integrità fisica” dello straniero, ma “ogni altro atto a scopo umanitario”. Il Consiglio costituzionale mantiene solo un aspetto dell’articolo L622-4, parzialmente censurato: resta un reato aiutare all’entrata illegale sul territorio francese, perché questo atto “crea una situazione illecita”. Questa decisione del Consiglio costituzionale permette di neutralizzare il reato di solidarietà. La legge Ceseda è da rivedere, entro il prossimo dicembre, perché per l’alta corte non rispetta il necessario equilibrio tra il principio di fraternità e la salvaguardia dell’ordine pubblico. Cédric Herrou ha giudicato la decisione della Corte costituzionale una “vittoria della Francia”. La decisione dell’alta corte è importante per le associazioni umanitarie, ma anche perché va controcorrente rispetto al clima generale che sta soffocando l’Europa. In Germania, Angela Merkel, in grave difficoltà e costretta a cedere all’ala destra, ieri ha almeno ricordato che “l’umanità è l’anima dell’Europa”. Il Parlamento europeo, con una risoluzione votata il 5 luglio, ha chiesto di mettere al bando in tutti gli stati membri il “reato di solidarietà”. Giappone. Ma in uno Stato di diritto è possibile impiccare 7 persone? di Paolo Comi Il Dubbio, 7 luglio 2018 In Giappone hanno impiccato sette persone. Sette. L’impiccagione è avvenuta qualche giorno fa ma è stata resa nota solo ieri. Sono sette uomini appartenenti ad una setta religiosa fondata da un certo Soko Asahara molti anni fa, e che ha radunato decine di migliaia di adepti anche fuori dal Giappone. Asahara diceva di essere Gesù e anche Budda. E pare che la sua religione fosse essenzialmente induista. Un pasticcio, ma niente di male, finché Asahara non ha deciso che per fare proselitismo occorreva passare al delitto e al terrorismo. E così, nel 1995, e cioè 23 anni fa, organizzò insieme a una quindicina di suoi collaboratori il più terrificante e folle attentato mai compiuto in Giappone nel dopoguerra. Fece sistemare nei vagoni della metropolitana delle sacchette di gas Sarin con un congegno che a un certo punto, nell’ora di massimo affollamento, provocò la fuoriuscita del gas. Morirono 13 persone e circa 200 restarono intossicate. La polizia, due mesi dopo l’attentato, arrestò centinaia di appartenenti alla setta e, naturalmente, il loro capo. Che per dieci anni, nel braccio della morte, si dichiarò innocente. Poi, al processo di appello, nel 2006, ammise. Ma neanche la confessione lo salvò dalla sentenza di morte. Che fu pronunciata contro di lui e contro altre 12 persone. Finora sembra che i giustiziati siano sette. Sono stati accompagnati venerdì mattina, uno ad uno, sul patibolo allestito nel cortile del carcere di Tokyo. Sono stati fatti salire su un piedistallo costruito su una botola. Poi gli è stato sistemato il cappio al collo, e dopo qualche minuto la botola si è aperta e i condannati sono stati strangolati. Sono morti dopo pochi minuti di sofferenze atroci. Asahara è stato il primo a salire sul patibolo. Ora ci sono altri cinque condannati nel braccio della morte. Non si sa se saranno impiccati anche loro, o se saranno graziati. E’ evidente che il reato per il quale sono stati condannati gli appartenenti a questa setta è un reato terribile. E’ il più grave di tutti i reati: strage. E a quel che si capisce ci sono pochi dubbi sulla loro colpevolezza. Ma cosa c’è di umano nella pena di morte? Possibile che ancora in grandi paesi civili dell’Occidente, come il Giappone e gli Stati uniti, questa pratica medievale, assolutamente barbara ed estranea a qualunque principio moderno del diritto, sia ancora attuata e anche con una certa frequenza? In questo caso poi ci sono una serie di particolari ancora più agghiaccianti, rispetto alle esecuzioni, alle quali purtroppo siamo abituati, negli Stati Uniti. Il primo particolare che lascia sgomenti è l’esecuzione di gruppo. Non avveniva qualcosa del genere, in Occidente, forse dai tempi di Norimberga, cioè da più di 70 anni. Il secondo particolare terrificante è lo strumento atroce dell’esecuzione: l’impiccagione. Sembra di tornare indietro nei secoli, al medioevo o nel far- west dell’ottocento. Sembra che non siano mai vissuti i giuristi che hanno fatto grande il mondo occidentale. Sembra che sia stata dimenticata la dichiarazione dei diritti dell’uomo. Il Giappone è un paese ricchissimo, moderno, avanzato. Sicuramente democratico. Si dice che il popolo giapponese sia anche molto educato e gentile. Eppure la notizia della strage di Stato compiuta ai danni di sette condannati probabilmente stragisti (ma sempre di strage ordinata dallo Stato si tratta), non ha suscitato proteste significative. Come è possibile? In Giappone è sempre esistita la pena di morte, come negli Stati Uniti. Però fino a quattro o cinque anni fa era utilizzata rarissimamente. Da qualche anno invece la forca è tornata in attività. Negli ultimi tre anni 21 esecuzioni. Che segno è? Di un ritorno al forcaiolismo in tutto l’Occidente? Certo, quando uno viene a sapere di queste sette impiccagioni, quasi quasi si felicita di vivere in Italia, dove il forcaiolismo è molto vasto ma, per fortuna, assai meno violento. C’è una domanda che viene spontanea: ma uno Stato che fa impiccare sette persone, come si faceva coi briganti nei secoli scorsi, può definirsi uno Stato di Diritto? Turchia. Cattafesta: “Finalmente libera dopo 10 giorni nella casa delle lacrime” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 7 luglio 2018 Intervista a Cristina Cattafesta, l’attivista italiana arrestata a Batman il 24 giugno e detenuta in un centro di deportazione: “Ci sono donne, bambini, curdi, ex membri di Daesh. Senti piangere continuamente”. Dodici giorni di detenzione e finalmente ieri Cristina Cattafesta è stata rilasciata dalle autorità turche. È rientrata in Italia, nella sua Milano, accolta dalla festa di famiglia e amici. Sessantadue anni, attivista di lungo corso, presidentessa di Cisda (Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane), era stata fermata il 24 giugno, giorno delle presidenziali e le parlamentari (anticipate) turche. Si trovava a Batman su invito dell’Hdp, il Partito democratico dei popoli, per monitorare il voto - a rischio brogli - nel sud est a maggioranza curda. Cattafesta è stata arrestata a urne aperte e dopo due giorni in prigione è stata trasferita in un centro di deportazione a Gaziantep. Isolata, senza telefono né informazioni sul suo caso. Fuori, in Italia, si mobilitavano - oltre alla Farnesina - la sua Cisda, l’Arci di cui è membro, tante associazioni e singoli individui. Ieri l’atteso rilascio: Cristina non potrà rientrare in Turchia per cinque anni ma è libera. L’abbiamo raggiunta ieri al telefono. Cristina, bentornata. In quel centro di detenzione mi sono sentita abbandonata, non sapevo nulla della grande mobilitazione che avveniva in Italia. Ma oggi ho saputo tutto: è incredibile, la lettera di Giuliana Sgrena, associazioni, esponenti politici da cui non me lo sarei aspettata. E la Farnesina che ha avuto un ruolo fondamentale: hanno chiesto tre volte di potermi incontrare ma le autorità turche non lo hanno mai permesso. Ti hanno tenuto all’oscuro dello sviluppo del tuo caso? Mi hanno sequestrato il telefono subito, me lo hanno riconsegnato solo in aeroporto, scarico. Ho capito che avevano cancellato l’accusa di terrorismo grazie a una telefonata. Mi spiego. Al centro di deportazione c’è la lista dei nomi dei presenti e davanti a ognuno una sigla che indica perché ti trovi lì: la mia sigla indicava terrorismo. Chi è accusato di terrorismo può telefonare solo il mercoledì, per dieci minuti e a un solo numero. Ma lunedì scorso mi hanno detto che potevo fare una telefonata. E ho capito che non ero più una “terrorista”. Una compagna di detenzione si è rivolta a una guardia che ha confermato: il governo aveva cancellato l’accusa di terrorismo. Ma a me non hanno detto nulla. Se chiedi rispondono che devi aspettare e rimandano sempre a domani. Quali sono le condizioni di vita in un centro di deportazione turco? Condizioni difficilissime. Fisicamente non stai male: ti danno cibo e acqua, il posto è pulito, ma siamo come polli di allevamento, psicologicamente è terribile. Non ci sono libri, passi il tempo sul letto. Lo chiamano “la casa delle lacrime”, perché lì senti persone piangere di continuo. Ci sono donne sole o con bambini, ma anche famiglie, molte provenienti da Siria e Iraq. Ci sono europee arrivate in Siria con l’Isis. Ci sono curdi accanto a ex membri di Daesh: scoppiano spesso delle risse. E c’è chi tenta il suicidio. In teoria si può restare lì fino a sei mesi ma ci sono persone detenute in attesa dell’espulsione da molto più tempo. Una ragazza mi ha colpito particolarmente: laureata, da anni in Turchia dopo essersi trasferita con la famiglia da un paese vicino (non indichiamo nome né luogo di provenienza per ragioni di sicurezza, ndr), arrestata mentre rinnovava la carta di identità. È da otto mesi nel centro di deportazione di Gaziantep. Non sa nulla del suo destino. Meglio il carcere: almeno ti dicono qual è la tua colpa e quanto durerà la pena. Perché ti hanno accusata di terrorismo? Ero lì con l’Hdp, per Cisda siamo andati in sei a fare da osservatori del voto. Quando ci hanno fermato, eravamo per strada, nemmeno davanti a un seggio. Era già successo in passato che mi fermassero, a Diyarbakir. Forse il mio nome era segnalato. Le accuse? Ridicole: mi mostravano le immagini del mio profilo Facebook, delle manifestazioni a cui ho preso parte a Milano, addirittura il volantino elettorale con cui mi sono presentata alle municipali. Ma io sono un’attivista, ho di tutto sul mio profilo Fb, dal Pakistan all’Afghanistan fino alla Colombia. In realtà vogliono solo fare terra bruciata della solidarietà internazionale: quando i popoli saranno soli, potranno davvero fare quello che vogliono. Della Turchia è questo che fa paura: ti sbattono dentro e non sai perché. Accade ogni giorno in un centro come Gaziantep? Esattamente. Dopo due notti passate in prigione, il giudice ha emesso il decreto di espulsione e mi hanno portato in quel centro. Senza le pressioni di cui ora vengo a conoscenza, mi avrebbero tenuto lì per mesi, avrebbero messo la mia pratica in fondo alla pila e sarei stata dimenticata. C’è chi si trova lì da molto più tempo dei sei mesi previsti per legge. A cosa serve tenere lì le persone? O le arresti o le rilasci. Ma loro vogliono una terza cosa: distruggerli psicologicamente prima di espellerli. Guinea Equatoriale. Il regime fa finta di aprire, intanto uccide gli oppositori di Andrea Spinelli Barrile africa-express.info, 7 luglio 2018 Mercoledì 4 luglio il Presidente della Repubblica della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo ha approvato un provvedimento di amnistia generale in favore di tutti i prigionieri politici e di tutti gli oppositori del regime, la dittatura più longeva d’Africa. La notizia è stata diffusa tramite la televisione nazionale equato-guineana ed ha rapidamente fatto il giro delle agenzie stampa internazionali: l’amnistia si rivolge ad ogni persona “privata della libertà personale o impedita nell’esercizio dei suoi diritti politici del Paese” e suona, alle orecchie di chi non vive in Guinea, come una vera e propria ammissione di colpa da parte della presidenza. L’obiettivo manifesto del Presidente è garantire ampia partecipazione al dialogo nazionale che a luglio vedrà governo e opposizione fronteggiarsi attorno a un tavolo. Se l’opposizione, defenestrata dal Parlamento per decreto presidenziale pochi mesi fa, chiede un percorso chiaro e democratico che conduca il Paese a nuove elezioni per chiudere per sempre il capitolo dittatoriale che va avanti dal 1976 con Macias e dal 1979 con suo nipote, Teodoro Obiang (obiettivo molto ambizioso quello dell’opposizione), non sono ancora chiari gli intenti del governo a questo tavolo di trattative. L’impressione è che si tratti della solita foglia di fico mal comunicata dai media di tutto il mondo: il dialogo politico infatti riguarderà “il governo e i partiti legalizzati” che è solo uno, il Partido Democratico de Guinea Ecuatorial fondato da Teodoro Obiang Nguema Mbasogo e controllato dalla sua famiglia, tra “gli attori politici dell’interno e la diaspora”. Diaspora che rappresenta un terzo del totale dei cittadini guineani e che è nella quasi totalità in opposizione al regime di Obiang. L’amnistia serve a coprire quella che è la vera notizia degli ultimi giorni proveniente dalla Guinea Equatoriale: secondo l’Agence France-Presse Juan Obama Edu, membro di Ciudadanos por la Inovacion (CI, principale partito di opposizione messo fuorilegge dal regime) e prigioniero nelle carceri della città guineana di Evinayong, è morto lunedì scorso in seguito alle torture inflittegli nel commissariato di Aconibe. La notizia è stata resa pubblica martedì sera, 3 luglio, con un comunicato di CI: le autorità militari del carcere avrebbero rifiutato al detenuto di ricevere cure in seguito a un pestaggio subito e che lo ha portato alla morte nel giro di qualche ora. Obama Edu era stato arrestato nel novembre 2017 ad Aconibe con altri 30 attivisti del partito CI ed era stato condannato per sedizione, disordine pubblico e lesioni gravi ad autorità militare. Avrebbe dovuto scontare 30 anni di carcere. Non è il primo oppositore di primo piano a morire, nel 2018, in un carcere guineano: nel marzo scorso CI aveva reso nota la dipartita di Santiago Ebee Ela, torturato fino alla morte in un commissariato di Malabo, e il leader del partito Gabriel Nse Obiang nel maggio scorso aveva denunciato “l’assassinio di Stato” di un suo parente, Evaristo Oyague Sima, detenuto nella prigione di Black Beach a Malabo. L’11 giugno scorso gli avvocati di CI hanno presentato una denuncia per torture contro il ministro della sicurezza, Nicolas Obama Nchama, e contro la polizia di Malabo, Bata e Aconibe. In questo clima il governo di Malabo pretende di raccordare tutti gli attori politici del Paese attorno a un tavolo ma non certo per attivare un processo democratico. Piuttosto per rafforzare il suo potere assoluto distribuendo qualche briciola ai suoi oppositori.