Gli agenti penitenziari chiedono di utilizzare le pistole Taser di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 luglio 2018 Dopo il decreto del Ministero degli Interni che dà il via alla sperimentazione per le forze dell’ordine. Negli Stati Uniti, secondo un’inchiesta della Reuters, si sarebbero verificati 104 morti che coinvolgerebbero l’utilizzo dell’arma in carcere. Al via la sperimentazione del Taser e i sindacati di Polizia penitenziaria chiedono che sia data in dotazione anche per il servizio presso le carceri. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha firmato il decreto che dà il via alla sperimentazione della pistola elettrica per le Forze dell’ordine. Lo rende noto il ministero dell’Interno, annunciando che il Taser sarà usato inizialmente in 11 città: Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia e Brindisi. La sperimentazione sarà affidata alla Polizia di Stato, all’Arma dei carabinieri e alla Guardia di finanza. Per ora sono 30 i dispositivi da acquistare. “La fase sperimentale scrive il Viminale - seguirà un disciplinare che un apposito gruppo interforze sta mettendo a punto e sulla base del quale saranno formati le donne e gli uomini delle forze dell’ordine coinvolti nella prima fase di utilizzo”. Il Taser è “un’arma di dissuasione non letale - dichiara il ministro Matteo Salvini - e il suo utilizzo è un importante deterrente soprattutto per gli operatori della sicurezza che pattugliano le strade e possono trovarsi in situazioni border line laddove una misura di deterrenza può risultare più efficace e soprattutto può ridurre i rischi per l’incolumità personale degli agenti”. Aggiunge Salvini: “Credo che la pistola elettrica sia un valido supporto, come dimostra l’esperienza di molti paesi avanzati, tra cui gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e la Svizzera”. Il Sappe, sindacato autonomo degli agenti penitenziari, nei giorni scorsi aveva chiesto un incontro con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per “esaminare e trovare una rapida soluzione alle criticità, costanti, del sistema penitenziario”. Il Sappe si è rivolto anche al ministro dell’Interno Matteo Salvini al quale chiede la dotazione delle pistole Taser anche per gli agenti penitenziari. Una richiesta che arriva dopo i fatti accaduti nelle carceri di Foggia - denunciati dallo stesso sindacato con la maxirissa di 100 detenuti, di Pavia, con il carcere messo a ferro e fuoco da tre ristretti tunisini, e Sulmona e dove un poliziotto penitenziario è stato ferito gravemente dall’olio bollente lanciatogli contro da un detenuto. Eppure l’utilizzo del Taser è stato molto criticato da varie organizzazioni internazionali, tra i quali l’Onu, proprio per l’utilizzo nei penitenziari. Recente un’inchiesta dell’agenzia giornalistica Reuters ha denunciato 104 casi nelle prigioni americane la cui morte sarebbe da collegare all’utilizzo dell’arma. L’inchiesta esordisce con un caso del 2009. Martini Smith aveva 20 anni, era incinta e spogliata quasi nuda in una cella della prigione americana di Franklin County a Columbus, nell’Ohio. Era stata detenuta con l’accusa di aver pugnalato un ragazzo che lei aveva accusato di picchiarla. Due agenti le avevano ordinato di spogliarsi, togliersi tutti i gioielli e indossare una camicia da notte. Lo fece, ma non era stata in grado di obbedire al comando di togliere dalla lingua un piercing d’argento. “Tira fuori la lingua”, le aveva ordinato l’agente. Smith provò, invano, inserendo le dita di entrambe le mani nella sua bocca per togliere l’anello. Le sue dita però erano intorpidite, perché era stata ammanettata per sei ore con le mani dietro la schiena. L’anello era scivoloso, disse Smith, chiedendo un tovagliolo di carta. Gli agenti però rifiutarono. “Voglio solo andare a dormire”, gridò Smith. L’agente l’avvertì di nuovo, poi sparò: i dardi elettrificati del Taser colpirono il petto della Smith: crollò contro il muro di cemento e scivolò sul pavimento, ansimando, con le braccia sul petto. “Perché mi hai fatto questo? - disse gemendo dal dolore -. Non sto danneggiando nessuno. Non posso tirarlo fuori!”. Cinque giorni dopo, Smith ha avuto un aborto spontaneo. Parliamo di uno dei centinaia di casi documentati dall’agenzia giornalistica Reuters in cui i Taser sono stati utilizzati in modo improprio o collegati ad accuse di tortura o punizioni corporali nelle prigioni degli Stati Uniti. La Reuters ha identificato 104 morti che coinvolgerebbero l’utilizzo dei Taser dietro le sbarre. Alcune delle morti in custodia sono state ritenute “multi- fattoriali”, senza una causa distinta, e alcune sono state attribuite a problemi di salute preesistenti. Ma il Taser è stato elencato come causa o fattore che ha contribuito a oltre un quarto delle 84 morti nei detenuti in cui l’agenzia di stampa ha ottenuto i risultati dell’autopsia. Dei 104 detenuti che morirono, solo due erano armati. Un terzo era in manette o altre restrizioni quando era stato usato lo stordimento. In oltre due terzi dei 70 casi in cui Reuters era in grado di raccogliere tutti i dettagli, il detenuto era già immobilizzato tramite manette dagli agenti penitenziari e quindi non pericoloso. I casi elencati dimostrano l’utilizzo improprio dei Taser nei contesti detentivi: le armi, progettate per controllare i sospetti violenti o minacciosi per strada, dimostrano come sono ancora meno legittimi dietro le sbarre, dove i prigionieri sono generalmente confinati in una cella, spesso trattenuti e quasi mai armati. Mentre i Taser possono essere un modo efficace per fermare un assalto a una guardia o ad un altro detenuto, ex agenti penitenziari hanno raccontato ai giornalisti di Reuters che le armi vengono usate troppo spesso su persone che non rappresentano una minaccia fisica imminente. Steve Martin, ex consulente del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti denunciò che i Taser hanno “un alto potenziale di abuso dietro le sbarre”. Martin disse anche che “quando infliggi dolore, dolore serio, per il solo scopo di infliggere una punizione corporale, quella si chiama tortura”. Ma che cosa sono i Taser e come funzionano? Siamo abituati a vederli soprattutto nei film d’azione provenienti dagli Stati Uniti. Il primo a teorizzare e realizzare un dissuasore elettrico è stato il ricercatore e scienziato della Nasa Jack Cover che, nel 1969, inizia a progettare e sviluppare il prototipo iniziale della pistola elettrica. Dopo cinque anni di studi e ricerche Cover termina il suo lavoro: il primo esemplare di Taser funzionante è presentato alla stampa. Jack Cover decide di “dedicare” questa arma futuristica al suo eroe d’infanzia Tom Swift: Taser, infatti, altro non è che l’acronimo di “Thomas A. Swift’s electronic rifle” (“fucile elettronico di Thomas A. Swift” in italiano). Inizialmente, la pistola elettrica utilizza una piccola carica di polvere da sparo per rilasciare gli elettrodi, tanto da essere classificata dal Bureau of Alcohol, Tobacco and Firearms come arma da fuoco. I successivi sviluppi tecnologici permettono di sostituire la polvere da sparo con un detonatore a sua volta elettrico. Il Taser, che ricorda una pistola per forma e grandezza, si compone di due elettrodi capaci di colpire un obiettivo con un flusso di corrente elettrica ad alto voltaggio, ma basso amperaggio. L’elettricità che scorre nei due cavi del Taser altro non è che un flusso di energia - sotto forma di carica elettrica - che scorre attraverso un materiale conduttore (che può essere un cavo di metallo o un corpo umano). Per analogia, si potrebbe dire che la corrente elettrica scorre in un cavo di metallo allo stesso modo in cui un flusso d’acqua scorre all’interno di un tubo. Proseguendo con questa analogia, è possibile descrivere il Taser come una pistola ad acqua che spara a grande pressione (alto voltaggio), ma a bassa velocità (basso amperaggio). Il voltaggio, infatti, misura la “pressione” (la forza o differenza di potenziale) effettivamente esercitata per far “scorrere” la carica elettrica all’interno del conduttore; l’amperaggio il “flusso” attuale di elettroni (più o meno il numero di elettroni che passa nella sezione di cavo nell’unità di tempo) che passa nel conduttore. Proprio per questo motivo, il dissuasore elettrico è in grado di stordire la persona colpita - sino a immobilizzarlo per alcuni secondi - senza provocare, al livello solo teorico, danni letali. Un governo culturalmente incostituzionale? di Davide Galliani* lacostituzione.info, 6 luglio 2018 1. I botti iniziali, riguardanti la formazione dell’esecutivo, hanno lasciato il passo alla rassegnazione? Forse sì. Vero che di leggi se ne sono viste poche, al contrario delle tante parole e di qualche rilevantissimo fatto. Vero che le caselle dei più importanti uffici ministeriali sono state riempite da poco. Eppure, se valutiamo parole e fatti, siamo già alle prese con un governo che dovrebbe catalizzare le attenzioni dei più. Quanto meno preoccupare i più. Non è solo una questione di linguaggio utilizzato. No, il problema è sostanziale, non solo come parlano, ma soprattutto cosa dicono. Chi se non i costituzionalisti dovrebbero essere i primi a preoccuparsi? Non è in gioco solo il diritto penale, quello internazionale, quello famigliare, quello tributario e via dicendo. No, il problema è di fondo, il problema è costituzionale. È il famoso tronco dell’albero che inizia a mostrare crepe preoccupanti. I rami, se il tronco vacilla, sono destinati a insecchirsi. Ma, appunto, il problema vero non sono i rami, ma il tronco, come le sue radici assorbono la linfa per sopravvivere. 2. Lasciamo Santi Romano e prendiamo qualche fatto. La chiusura dei porti, ad esempio. È molto probabile che, mentre scrivo questo post, il nostro paese stia violando la legalità internazionale, che non è fatta solo di trattati, convenzioni, accordi, ma anche di giurisprudenze che da tempo quei testi interpretano. Ho provato quindi a capire di più. Mi sono ascoltato su radio radicale tutto l’intervento del Ministro degli Interni al raduno di Pontida di qualche giorno fa. Il raduno aveva questo titolo: “Il buonsenso al Governo”. Niente da fare, quella dei porti chiusi sarà la linea del governo, altrimenti non ci sarà più un governo. Chi avrà diritto di venire nel nostro paese arriverà in aereo, dice il Ministro, gli altri arrivederci (il gesto con la mano, di una ferocia atroce, indicava un’altra strada da percorrere…). Un altro esempio. Sempre il Vice-Presidente del Consiglio ha sostenuto, in quel raduno, che il solo pensare alla maternità surrogata “mi fa schifo”. Ometto ogni commento. Sarebbe superfluo. Ma nessuno mi nega il forte abbraccio che darò, appena li vedrò, ai papà dei due gemellini che frequentano la scuola materna con mio figlio. Come ai migranti, anche a loro la mano del Ministro probabilmente indicherebbe un altro paese nel quale andare a vivere. Anche se sono italiani? Certo, perché il “prima gli italiani”, in realtà, significa “prima me stesso” o meglio “prima quello che a me non fa schifo”. Anche alcuni passaggi sul penale sono incredibili: “nessuna pietà” per assassini e stupratori. È tanto che non sentivo un politico esprimersi in questo modo, peraltro un politico che ha finito il raduno con il crocefisso in mano. Ha fatto bene in fondo a dire quelle cose, così mi ha fatto tornare su questo mondo, che poi è il mondo della manina che indica una certa direzione. Il carcere, nell’ultimo caso, con l’aggiunta che non si capisce come si possano rieducare assassini e stupratori. Il penale sarà quasi sicuramente il campo di battaglia ove uno a uno cadranno, se non prontamente difesi (a proposito, concretamente, da chi, se non soprattutto dai giudici?), i principi dei Lumi, ma direi più che altro quelli costituzionali. Faccio questa scommessa, anche se voglio perderla a tutti i costi: a quando un bel dibattito sulla necessità, per carità, a volte, di reintrodurre la pena capitale? È sempre la manina del Ministro che ci ricorda la strada che dovrebbero prendere gli stupratori e gli assassini. E chiedo al Ministro: ma se pensa che la rieducazione non possa riguardare tutti, cosa vuole fare di stupratori e assassini? Dai Ministro, facciamolo questo dibattito, voglio veramente capire cosa pensa della pena di morte. Ho una mezza idea di cosa pensano a proposito molti italiani, ai quali sarà facile appellarsi. Finalmente, a quel punto, si capirà il senso vero e profondo del costituzionalismo, che è quello di non poter fare tutto ciò che passa per la mente, nemmeno se invocato a grande voce dal cosiddetto popolo sovrano. Almeno il fascismo, quando decise di reintrodurre la pena capitale, fece un giro di opinioni presso i giudici e le Università italiane. Lascio immaginare le risposte, ma almeno si chiese l’opinione dei giuristi. Oggi sembra di stare in un mondo irreale: prima almeno ci sputavano addosso, intendo nell’epopea berlusconiana, ora è come se non esistessimo. Diamo a Cesare quel che è di Cesare: se la sinistra una cosa buona l’ha fatta, è il metodo con il quale ha cercato di portare avanti le riforme, appunto un metodo che considerava il sapere universitario una ricchezza. 3. A proposito di ricchezze e saldezze costituzionali, mi ha fatto impressione anche il Ministro della Giustizia. Qui le parole, per ora, superano i fatti. Ma sono parole pesanti come pietre. Sono parole che denotano, anche in questo caso, una cultura incostituzionale. Ad esempio, la questione della certezza della pena. Che bello sarebbe poter discutere serenamente con il Ministro della Giustizia. Intanto, gli ricorderei che la Costituzione è nata anche nelle carceri. Per davvero, non per scherzo. Un po’ di storia, senza quella il diritto è morto: lo sanno anche i bambini che i due Presidenti dell’Assemblea Costituente il carcere lo conoscevano bene. Il Ministro, sono certo, queste cose le conosce bene. E poi si potrebbe rispondere: nulla hanno a che fare con la certezza della pena. 4. Proviamo allora a scendere un poco più in profondità. Quando il Ministro parla di certezza della pena vuole dire questo: se ti prendi sette anni devi stare in carcere dal primo all’ultimo giorno. Sono 2.550 giorni: entri il primo, esci l’ultimo. Questa è la ministeriale certezza della pena. Ebbene, ditemi voi se esiste un ragionamento più incostituzionale di questo, se esiste un modo di pensare più contrario alla Costituzione di questo. Abbiamo davvero a che fare con una cultura incostituzionale, non trovo altro termine. Il presupposto di questo ragionamento è davvero fuori della Costituzione, per la quale le chiavi di una cella non si buttano via per nessuno. Mi piacerebbe sapere dal Ministro cosa pensa se, al posto di sette anni, una persona prende l’ergastolo. Mi sbilancio e presumo che, anche in questo caso, la certezza della pena debba significare che quella persona uscirà dal carcere con i piedi in avanti e non per terra. Mettiamo che il reato sia compiuto a venti anni. Prendiamo come aspettativa media di vita ottanta anni. Come la metterebbe il Ministro con la certezza della pena? La persona dovrebbe scontare in carcere una cosa come 21.900 giorni, uscendone solo il giorno della propria morte, proprio con i piedi in avanti e non per terra? Ma lasciamo stare i presupposti dei ragionamenti: quelle sono cose che interessano solo a noi studiosi. Del resto, l’inumano slogan del buttare via le chiavi non è certo un conio del solo Ministro in carica. Chiedere a sinistra per avere qualche conferma. Scansata la riflessione sui presupposti, il costituzionalista non può però rassegnarsi, altrimenti ha sbagliato mestiere. Anche se i presupposti non coincidono, dobbiamo andare avanti a fare il nostro mestiere. Torniamo quindi alla certezza di quei 2.550 giorni da scontare dal primo all’ultimo in carcere. Se il carcere è rieducazione (diciamolo, che è meglio: il “tendere” significa che non la puoi imporre), la persona che vi fa ingresso tutti vorremmo che tornasse libera diciamo così migliore di prima. Migliore non è un bel termine, ma il significato è chiaro: significa avendo compreso gli errori. E quindi: il Ministro pensa che passare 2.550 giorni dentro un carcere, magari in regime di celle chiuse e non aperte (qui però si deve ancora esprimere…), possa per magia restituirci una persona migliore? Ecco però che arriva la parola magica, usata quando le persone parlano di carcere senza aver mai visto un carcere: il lavoro. La tesi è anche affascinante: stai in carcere, lavori, ti rendi utile alla collettività, quando arriva il tuo turno torni libero. A mio avviso è un misto di cultura che richiama i campi di prigionia degli schiavi e i campi di lavoro nazisti. Non so perché, ma nella mia mente scorrono le immagini in bianco e nero dei detenuti che, con la divisa bianca e nera a righe, spaccavano le pietre nel Sud Africa dell’Apartheid o che zappavano i campi nel democratico sud degli Stati Uniti. Devo però tornare razionale e ricordarmi che quelle immagini esistono anche a colori, sono immagini anche dei nostri tempi 5. Il lavoro in carcere, caro Ministro, è importante, nessuno lo nega. Ma in uno Stato come il nostro, che ha una Costituzione come la nostra, nessuno può imporre a nessuno di lavorare, altrimenti si chiamerebbe schiavitù, non più galera. Non sono dei birilli, i detenuti. Non sono degli oggetti che si possono disporre a piacimento per produrre questa cosa piuttosto che quest’altra. Se lo ricordi, caro Ministro: in carcere entrano uomini e donne, non oggetti e cose. Uomini e donne che, se riescono a superare il trauma iniziale (da dieci anni abbiamo un suicidio in carcere ogni settimana), non vedono l’ora di fare qualcosa di diverso rispetto al puro ozio, ma pur sempre uomini e donne che in nulla differiscono da noi, se non per il fatto che la loro libertà personale è (momentaneamente) ristretta. Ho visto persone in carcere che reclamavano il lavoro, non vi è dubbio. Erano stanche di stare a fare niente da mesi e anni. Pensate un po’, volevano davvero rendersi utili. Ma ho anche visto persone che si lamentavano di essere trattati come dei burattini, che facevano lavori ripetitivi, monotoni, consequenziali. Lavori da bambini, non da adulti. So cosa risponderebbe, il Ministro: ma anche fuori esistono lavori di questo genere, cosa vogliono un lavoro tagliato su misura? Ecco, finalmente una cosa sensata! Sono le eguali condizioni di partenza quelle che servono davvero in carcere, l’idea di essere trattati come ogni altra persona, nulla contando lo sbaglio che si è commesso, perché per quello si sta già pagando con la restrizione della libertà. Noi “buonisti” diciamo spesso che in carcere non entra il reato ma la persona. E se si condivide questo, allora deve valere l’eguaglianza sostanziale: cosa sai fare, cosa ti piacerebbe imparare, in quali attività sei più portato? Magari è questo esattamente che il Ministro pensa: staremo a vedere, se sarà così avrà il mio plauso. 6. Ma, aggiungo: sapete per caso quanti problemi esistono oggi in carcere per poter leggere un libro, comprare un testo obbligatorio per un esame universitario, entrare in possesso delle slides che noi carichiamo sui nostri siti internet, ascoltare le lezioni che mettiamo on line? Non dovremmo fare affogare le nostre patrie galere in una marea di libri? Quando un detenuto legge un libro è come se non fosse più detenuto, è come se stesse pregustandosi il ritorno in libertà. In una parola, è come se si stesse rieducando ogni pagina che scorre. Conosco persone detenute che in una settimana sono capaci di leggere non centinaia, ma migliaia di pagine. Ma anche qui, in effetti, esiste un limite: leggere è importante, come lavorare, ma nessuno può obbligarti a farlo. E così torno finalmente ai nostri 2.550 giorni. Non posso obbligarti a lavorare e nemmeno posso obbligarti a leggere. Tuttavia, se esiste una cosa che ti devo offrire e che sono praticamente certo che tu accetterai è la luce genuina del sole che ti illumina il viso, gli spazi ampi e aperti che si dischiudono sotto un cielo azzurro, il vento leggero che durante l’estate porta conforto. Quello che bisogna fare è rendere il più possibile simile la detenzione alla vita che trascorrevi prima. Gli sguardi e i gesti di tua moglie, di tua figlia, della tua convivente: queste sono davvero le cose che per un detenuto fanno la differenza, semplicemente perché hanno il potere di far capire cosa si è lasciato. In carcere, le briciole di pane contano come i diamanti. Lo ripeto, perché è la verità: un po’ di luce del sole, un soffio di aria, un orizzonte visivo più lungo di tre metri, la sicurezza che prima di tutto chi ti vuole bene è pronto a riaccoglierti. 7. Come sempre, arriva la domanda: perché non le può vedere in carcere queste persone così importanti? Si capisce bene, ancora una volta, che chi pone questa domanda in carcere davvero non vi è mai stato. Non ha mai visto cosa sono le fila delle persone che attendono per fare i colloqui. Avete presente una moglie, che di solito è abbastanza giovane, in fila con tante altre che aspettano l’apertura di un cancello, di una porta, anzi di decine di cancelli e decine di porte? Sempre scortate, riescono finalmente ad arrivare nella sala colloqui. Una processione che lascia senza parole. Avete presente le bambine e i bambini che popolano queste file? È una umanità impressionante. Penso che una delle cose più devastanti che abbia mai visto è il volto di questi bambini che stanno in fila per andare dentro ad abbracciare il papà. La galera la fanno anche loro, altro che colloqui in carcere! Poi non nego che esistano delle oasi felici, come ad esempio quando grazie a skype il padre riesce a parlare con la maestra della figlia per sapere come va a scuola. Ma sono oasi, in un deserto senza senso e senza umanità. Voglio usare il cuore più che la testa, anche perché tutti sappiamo benissimo che, nei paesi dove la pena si sconta meno in carcere e più fuori dal carcere, il tasso di recidiva è bassissimo, mentre, al contrario, è altissimo proprio laddove si parla di certezza della pena, di 2.550 giorni dal primo all’ultimo in carcere. Avessimo salette colloqui decenti, non pure quelle sovraffollate. Avessimo spazi riservati e chiusi, lontani dagli occhi altrui, come esistono in molti paesi civili. Niente, non abbiamo niente di tutto questo. E quando il politico di turno salta fuori dicendo che bisogna costruire nuove e più moderne carceri, ecco allora è arrivato il momento di organizzare la resistenza costituzionale, la difesa della cultura costituzionale. Lo ha scritto l’ex Procuratore Nazionale Antimafia in un suo libro recente: per combattere terrorismo e criminalità organizzata serve il carcere, ma servono anche le palestre. Serve, in altri termini, ricostruire il tessuto sociale, grazie ad una presenza massiccia e imponente dello Stato, del suo welfare, delle sue scuole, delle sue palestre. 8. A proposito. Sempre il Ministro della Giustizia, a dire il vero prima di diventare Ministro, ha sostenuto che il carcere non può diventare definitivamente l’extrema ratio. Anche per questo si era già espresso sul Blog dei Cinque Stelle per affossare la riforma dell’ordinamento penitenziario, che certo il Governo precedente ha fatto di tutto per non approvare, mostrando zero coraggio politico e anche poca dimestichezza con il funzionamento della delega legislativa. Lo riscrivo perché potrebbe sembrare un mio refuso: il Ministro ha davvero sostenuto che il carcere non può definitivamente diventare l’extrema ratio. Torna la domanda iniziale: cosa fare, rassegnarci o continuare a lottare per un mondo migliore? La cosa stupefacente è che, nella riforma penitenziaria oramai defunta, vi erano alcune disposizioni che si limitavano a recepire alcune recenti pronunce della Corte costituzionale. Ecco, la Corte costituzionale. A proposito, che bella idea l’iniziativa di andare nelle carceri italiane. Dopo le scuole, i giudici costituzionali porteranno la Costituzione nelle patrie galere. Piero Calamandrei sarebbe entusiasta, così come Sandro Margara, ma prima ancora Giuseppe Saragat e Umberto Terracini. Ma direi che ogni costituzionalista dovrebbe gioire. 9. Concludo. Ho discusso, di getto e in modo confuso (e me ne scuso), di alcune iniziative del Ministro degli Interni e di quello della Giustizia. Con una battuta, tiro le fila in questo modo: la vedo nera, molto nera. All’orizzonte intravedo un gigantesco scontro tra la politica e i giudici. Non i giudici rossi, ma i giudici che vanno contro il popolo! Giudici di casa nostra, ma anche giudici con la residenza a Strasburgo. Un secondo dopo una recente pronuncia della Corte europea dei diritti umani, che qualcosina ha detto sull’italianissima confisca automatica senza condanna, il Vice-Presidente del Consiglio, quello di cui sopra, il Ministro degli Interni per intenderci, ha sostenuto che si tratta dell’ennesima prova che certe istituzioni vanno chiuse. Non ha detto, il Ministro, parliamone e capiamo. No, ha detto altro: come i porti, anche Strasburgo va chiusa. Attenzione, però: se alcuni in fondo in fondo concordano, allora siamo veramente al game over. *Professore associato di diritto pubblico Università degli Studi di Milano, Jean Monnet Professor of Fundamental Rights “Il Ministro ascolta”: porte aperte alle associazioni in via Arenula giustizia.it, 6 luglio 2018 Uno spazio di ascolto che avvicina il cittadino alle istituzioni. Nasce l’iniziativa “Il Ministro ascolta”, fortemente voluta dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede, che ha deciso di dedicare almeno un giorno a settimana alle associazioni di cittadini che gravitano intorno al mondo della giustizia. Una serie di incontri che apriranno le porte del ministero a coloro che vorranno segnalare criticità e partecipare attivamente con le loro proposte a una nuova fase dell’amministrazione della giustizia. Tutte le associazioni su base nazionale che abbiano interesse a interloquire con il Guardasigilli, potranno scrivere all’indirizzo ilministroascolta@giustizia.it indicando nell’oggetto la dicitura “Il Ministro ascolta” seguita dall’indicazione del settore specifico in cui l’associazione opera. La protesta delle toghe: “Al Csm i giochi sono già decisi” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 6 luglio 2018 Per Palazzo dei Marescialli sono in lizza solo 21 concorrenti per 16 posti. Weekend elettorale per i magistrati italiani, chiamati ad eleggere, l’ 8 e 9 luglio, i nuovi membri togati del Consiglio superiore della magistratura. La competizione, però, non dovrebbe riservare grandi sorprese, visto il numero esiguo di concorrenti: solo 21 candidati per 16 posti. “In pratica, elezioni inutili”, denuncia un gruppo di magistrati, firmatari di un documento in cui invitano i colleghi disertare le urne contro la spartizione “correntizia” delle poltrone. “Mai così pochi nella storia delle elezioni del Csm, nonostante il numero delle correnti in campo sia aumentato, passando da 3 a 4”, scrivono i sostenitori del “non voto”, tra cui figura Andrea Mirenda, ex presidente di sezione presso il Tribunale di Verona, finito lo scorso anno agli onori delle cronache per aver rinunciato a un incarico semi-direttivo in polemica col “carrierismo” regolato dalle correnti togate. Nel mirino dei magistrati “ribelli” finiscono ancora le logiche spartitorie con cui verranno selezionati i componenti del futuro Csm. “In due categorie (legittimità e requirenti di merito) un candidato per ciascuno dei gruppi esistenti”, recita il documento. Per trovare i magistrati requirenti di merito, le elezioni saranno addirittura un rituale superfluo: solo quattro candidati per quattro posti, praticamente tutti già assegnati. L’unica categoria in cui i giochi sembrano totalmente aperti è quella dei “magistrati che esercitano funzioni di legittimità presso la Corte di Cassazione e la Procura Generale”, due posti disponibili per quattro pretendenti. Tra loro, Piercamillo Davigo, forse la toga più “mediatica” in circolazione, che dovrà lottare per diventare consigliere. “Lì dove esiste un minimo di competizione, assistiamo solo a giochi di forza”, ci spiega Andrea Reale, Gup presso il Tribunale di Ragusa, tra i firmatari del documento. “Sarà una sfida per vedere chi alla fine riuscirà a spostare più in alto l’asticella del consenso”. Per il resto, il destino del Csm sembra già scritto. “A che serve, allora, votare?”, si chiedono le toghe astensioniste, prima di lanciare un pesante atto d’accusa nei confronti delle correnti. “Mai l’Autogoverno dei magistrati designato dalla Costituzione è stato così annullato dall’Eterogoverno di associazioni private il cui scopo principale, al di là delle declamazioni di principio, sempre più si esaurisce nel soddisfare gli interessi dei rispettivi dirigenti, soci formali e sodali di fatto”. Parole che si trasformano in macigni, scagliati da magistrati estranei ai “gruppi sindacali” contro quelle che ritengono distorsioni di un potere chiuso. “Parliamo di eterogoverno perché di fatto il Csm è in mano ad associazioni private, seppur composte da magistrati, quali sono le correnti”, dice Reale. “Noi crediamo invece che il Consiglio, come organo di garanzia, debba avere una connotazione diversa”. Di conseguenza, “in queste condizioni, votare significa alimentare la logica che sta inquinando sempre più gravemente il sistema dell’autogoverno dei magistrati e rischia sempre più di compromettere lo stesso esercizio indipendente e imparziale della giurisdizione”, spiegano le toghe disobbedienti nel loro “manifesto”. “Non possiamo e non vogliamo più concorre. Ci asteniamo, quindi, dal votare”, è l’annuncio dei magistrati “rivoltosi”. L’unico modo per arginare lo strapotere delle correnti sarebbe “riformare la legge elettorale del Csm”, dice ancora Andrea Reale, “consentendo anche a persone sganciate dalle correnti di poter accedere all’Autogoverno. Oggi è impossibile”. Eppure i modi per scardinare il sistema senza metter mano alla Costituzione ci sono. “Sarebbe possibile, ad esempio, pensare a un sistema misto: sorteggio dei candidati e poi elezioni”, argomenta reale. “Oppure si potrebbero creare collegi uninominali su base territoriale”. Solo una cosa non potrà mai accadere: “Che la magistratura si autoriformi”, “sentenzia” il giudice Andrea Reale. “L’unico intervento riformatore potrà arrivare dalla politica”. E non a caso, i sostenitori dell’astensionismo citano le parole contenute nel contratto di governo giallo- verde in materia di indipendenza della magistratura. Non è una scelta di campo, ma “in qualche modo è un invito alla politica a intervenire e ad agire di conseguenza”. Che le operazioni di voto abbiano inizio. Forze dell’ordine dotate di Taser, parte la sperimentazione in 11 città La Stampa, 6 luglio 2018 Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia e Brindisi sono quelle scelte per la prova della pistola elettrica. Entra anche il Taser, la pistola elettrica, nell’arsenale a disposizione delle forze dell’ordine. Dopo un iter partito nel 2014, è stato firmato il decreto che dà il via alla sperimentazione dell’arma. Si parte inizialmente in 11 città: Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia e Brindisi. Si tratta, ha commentato il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, di un “importante deterrente”. La sperimentazione sarà affidata alla Polizia di Stato, all’Arma dei carabinieri e alla Guardia di finanza. Trenta i dispositivi da acquistare, per ora. La fase sperimentale seguirà un disciplinare che un apposito gruppo interforze sta mettendo a punto e sulla base del quale saranno formati le donne e gli uomini delle forze dell’ordine coinvolti nella prima fase di utilizzo. Le linee guida emesse dal Dipartimento della Pubblica sicurezza definiscono il Taser “un’arma propria”, che fa uso di impulsi elettrici per inibire i movimenti del soggetto colpito. La distanza consigliabile per un tiro efficace è dai 3 ai 7 metri. Il Taser “va mostrato senza esser impugnato per far desistere il soggetto dalla condotta in atto”. Se il tentativo fallisce si spara il colpo, ma occorre “considerare per quanto possibile il contesto dell’intervento ed i rischi associati con la caduta della persona dopo che la stessa è stata attinta”. Bisogna inoltre tener conto della “visibile condizione di vulnerabilità” del soggetto (ad esempio una donna incinta) e fare attenzione all’ambiente circostante per il rischio di incendi, esplosioni, scosse elettriche. “Il Taser - ha sottolineato Salvini - è un’arma di dissuasione non letale ed il suo utilizzo è un importante deterrente soprattutto per gli operatori della sicurezza che pattugliano le strade e possono trovarsi in situazioni border line laddove una misura di deterrenza può risultare più efficace e soprattutto può ridurre i rischi per l’incolumità personale degli agenti. Credo che la pistola elettrica - ha aggiunto - sia un valido supporto, come dimostra l’esperienza di molti paesi avanzati, tra cui gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e la Svizzera”. L’Arma, informa il Viminale, è in dotazione alle forze di polizia di circa 107 paesi, tra cui Canada, Brasile, Australia, Nuova Zelanda, Kenya e in Europa in Finlandia, Francia, Germania, Repubblica Ceca, Grecia e Regno Unito. No al risarcimento per Passamani di Andrea Giambartolomei Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2018 Negata l’ingiusta detenzione all’anarchico arrestato e poi assolto. La Corte d’appello di Trento prima e poi la Cassazione hanno respinto la domanda di Massimo Passamani, esponente di spicco dell’anarco-insurrezionalismo italiano. Il 27 agosto 2012 Passamani e altri sette anarchici di Rovereto erano stati arrestati. La procura di Trento, nell’inchiesta denominata “Ixodidae “ (nome latino della zecca), li accusava di associazione eversiva. Dopo un periodo in carcere e uno ai domiciliari, il 27 febbraio 2013 tutti gli imputati venivano assolti (perché il fatto non sussiste) e liberati. Diventata definitiva l’assoluzione, Passamani ha chiesto l’indennizzo e la Cassazione, prima a novembre e poi a marzo, ha confermato il “No” dei giudici di Trento: d’altronde - ricorda - a Passamani sono stati sequestrati “proclami, materiale propagandistico e manualistico; le sue pubblicazioni propugnanti un metodo di lotta tutt’altro che pacifico, contenenti anche precise istruzioni per atti di sabotaggio, di guerriglia urbana e per confezionare ordigni incendiari” e i 28 “episodi” contestati erano “riferibili al gruppo anarchico trentino cui appartiene il Passamani”. La sua presenza “emerge con adeguato grado di certezza in ordine ad alcuni episodi di violenza” come “attentati incendiari a mezzi dell’esercito e ai danni di un ripetitore telefonico” e le “partecipazione alle violente proteste No Tav in Val di Susa dell’estate 2011”. Si tratta di “condotte illecite o ai limiti della legalità, che il ricorrente non risulta aver mai smentito o negato, fortemente emblematiche della volontà di contrasto nei confronti del potere costituito e che hanno contribuito in maniera determinante ad orientare il gip nell’emissione della misura cautelare”. Come dire: l’arresto era motivato, nessuna ingiusta detenzione. La sindaca anti-clan che ora non può più candidarsi di Attilio Bolzoni La Repubblica, 6 luglio 2018 Arrestata per una intercettazione fraintesa, nonostante l’assoluzione resta esclusa dal voto. Per tutta una vita contro la ‘ndrangheta, la ‘ndrangheta l’ha trascinata in un incubo che non ha fine. Per tutta una vita contro gli Arena, gli Arena se li è ritrovati al fianco come complici. Una vita che in realtà non c’è più per lei, assolta ma sempre imputata, sotto sospetto permanente, odiata dai boss e al tempo stesso bersaglio di indagini antimafia, sprofondata in quel territorio di confine dove sopravvivere è azzardo. Una volta Carolina Girasole era una di quelle sindache calabresi bandiera della voglia di cambiamento di una regione che sembrava irredimibile, prima cittadina di Isola di Capo Rizzuto, provincia di Crotone, reame di quegli Arena padroni di tutto e di tutti, villaggi turistici, campi, aree edificabili, consigli comunali. Ma lei lì - terra d’esilio della ninfa Calypso nei racconti omerici - non ha fatto solo e soltanto la sindaca di una giunta di centrosinistra dal 2008 e per cinque anni, è andata oltre, ha provato a mettere le mani dove nessuno le aveva messe mai. Poi nel 2013 l’inferno: arrestata per avere preso voti sporchi. E proprio dagli Arena. Il processo ribalta la sofferenza di 685 giorni “chiusa a casa”. Assolta con formula piena nel 2015 ma mai scagionata, sempre nel mirino. Una commissione prefettizia l’ha appena dichiarata incandidabile. È scivolata un’altra volta nel gorgo. Carolina Girasole non ci sta, rompe il silenzio sulla sua storia, si ribella: “Basta, è una persecuzione, non accetto, qualcuno mi vuole rovinare per sempre”. Vicenda calabrese di mafia e di antimafia dove si mescola un po’ tutto. Antichi risentimenti, indagini che in alcuni passaggi mostrano approssimazione, sentenze sorprendenti, vendette incrociate, parentele ambigue usate alla bisogna. E un bene confiscato che è al centro dell’intrigo, una preziosa e sterminata estensione di finocchi. La sindaca si era affidata a Libera per seguire un percorso virtuoso e strappare la “roba” agli Arena, contro ha avuto il potere delle Misericordie d’Italia (in carcere per mafia l’ex vicegovernatore nazionale Leonardo Sacco e l’ex prete di Isola Capo Rizzuto Edoardo Scordio) che gestivano un grande centro di accoglienza, ha avuto contro anche un blocco mafioso e para-mafioso fino a quando - appena non più sindaco e dopo avere subito un attentato - una notte è stata arrestata su ordine della procura della repubblica di Catanzaro. Turbativa d’asta e scambio di voti. Pilastro dell’impianto accusatorio due intercettazioni, le voci degli Arena. In una trascrizione uno di loro diceva che a Girasole avevano dato “mille voti” ma in realtà si chiarirà durante il processo che aveva detto “una vota” (una volta), la seconda trascrizione racconta di “trecento voti” ma si scoprirà che erano andati a un altro candidato - e di sesso maschile - avversario della stessa Girasole. Telefonate mal interpretate, brogliacci tarocchi. Il processo si chiude, il Tribunale di Crotone l’assolve “perché il fatto non sussiste” anche per quel bando sui terreni confiscati agli Arena: “Il fatto si è rivelato del tutto infondato, in quanto campato su elementi inconsistenti se non addirittura contrari all’ipotesi accusatoria”. In sostanza i giudici dicono che Carolina Girasole non solo non aveva favorito gli Arena ma - come tutti ben sapevano - li aveva ostacolati in tutti i modi. Riconquistato l’onore la vicenda, seppur scabrosa, sembrava finita lì. Ma la procura di Catanzaro è tornata all’attacco (il magistrato che segue l’inchiesta e che si è fatto applicare al processo d’appello si chiama Salvatore Curcio, gode di ottima reputazione e da poco più di un anno è procuratore capo a Lamezia Terme) contestando ai giudici di primo grado di non avere bene valutato certi elementi (“Una pigra lettura degli atti cautelari del procedimento”), difesa e accusa parlano di documenti spariti, ogni tanto ritorna la vicenda del marito di Girasole che ha una nipote (“Che non vedo da 20 anni”) parente degli Arena. Processo senza uno straccio di prova o giudici troppo distratti? Macchinazione messa in atto dagli stessi Arena per azzoppare una sindaca nemica o che altro? Il caso è assai complicato e il giudizio di appello - che è in corso - forse darà qualche risposta. Di sicuro Carolina Girasole è stata devastata dall’indagine. Si è difesa sempre con molto garbo, però nelle ultime settimane è “esplosa”. Dopo l’ennesimo scioglimento del Comune, figura anche lei come incandidabile nonostante non sia più sindaco da oltre quattro anni e non è più nemmeno consigliere. Dice: “Sono stati troppi gli atti di ingiustizia subiti e ho ritenuto opportuno, a questo punto, di querelare la commissione, perché all’interno di quella relazione sono scritte una serie di cose infamanti sulla mia persona”. Si batte, si batte sempre Carolina Girasole per non passare amica di “quelli” ma donna dalla schiena dritta. Ammonito il giudice che non fa scarcerare l’imputato a scadenza dei termini di custodia expartecreditoris.it, 6 luglio 2018 Cassazione civile, Sezioni Unite, 25.01.2013, n. 1767. Compito del magistrato vigilare sulla persistenza delle condizioni cui la legge subordina la privazione della libertà personale. È compito precipuo del magistrato, nei procedimenti di cui è investito, diuturnamente vigilare circa la persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale di chi è sottoposto alle indagini o imputato. Nel caso di specie un magistrato viene sanzionato, con l’ammonimento, perché l’imputato è liberato quasi un mese dopo la scadenza dei termini di custodia cautelare, e ciò anche se l’errore è della segreteria del sostituto procuratore, che non trasmette in tempo il fascicolo al gip, anche lui colpito dallo stesso provvedimento disciplinare. Così la Corte di Cassazione, con sentenza n. 1767 del 25/01/2013, conferma quanto statuito nei precedenti gradi di giudizio. Invero, il ricorso avverso le decisioni della Sezione disciplinare del C.S.M. non può essere rivolto ad un riesame dei fatti che hanno formato oggetto di accertamento e di apprezzamento da parte della sezione stessa, ma la Corte di Cassazione deve limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, adeguatezza e logicità della motivazione che sorregge la decisione (v., tra le altre, da ultimo, Cass., Sez. Un., sent. n. 27172 del 2012). Spetta alla Corte, il solo potere di controllare la congruità del percorso argomentativo svolto dallo stesso. Nella specie, la sentenza impugnata, dopo aver dato conto delle circostanze dedotte dalla incolpata, ha correttamente e adeguatamente motivato in ordine alla valenza da attribuire alle stesse ai fini di una attenuazione della sua responsabilità nella vicenda in esame, e, quindi, della scelta della sanzione da irrogare, escludendo, peraltro, che esse potessero valere da causa di giustificazione di una condotta, che, attenendo, come già rilevato, alla libertà personale, avrebbe dovuto essere improntata alla massima attenzione e diligenza. È il magistrato ad avere la responsabilità degli adempimenti rimessi alla segreteria. E la sanzione comminata dal Csm risulta proporzionata agli addebiti. La contestazione della nuova aggravante non blocca la messa alla prova di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2018 Corte costituzionale - Sentenza 4 luglio 2018 n. 141. L’imputato può chiedere la messa alla prova anche se nel corso del dibattimento il pubblico ministero gli contesta un’aggravante già presente negli atti di indagine. La Corte costituzionale (sentenza 141) bolla come illegittimo l’articolo 517 del Codice di procedura penale, per la parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova. La questione era stata sollevata dal Tribunale ordinario di Salerno, che riteneva la norma del Codice di rito in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Carta sulla parità di trattamento e sul diritto di difesa. Per i giudici delle leggi, la tesi del Tribunale è fondata, come dimostrato dalla stessa evoluzione delle sentenze della Consulta sia in tema di giudizio abbreviato (sentenza 237/2012) sia di patteggiamento (sentenza 273/2014). In quelle occasioni la Corte ha dichiarato il diritto dell’imputato ad esprimere la sua opzione per i riti alternativi, sia quando all’accusa originaria ne viene aggiunta una connessa sia quando l’accusa è modifica nei suoi aspetti essenziali. Una facoltà che ha il suo fondamento nel diritto di difesa, anche tenendo conto dell’aspetto premiale dell’istituto della messa alla prova, “perché - si legge nella sentenza - se la richiesta di riti alternativi costituisce una delle modalità più qualificanti, di esercizio di tale diritto, occorre allora che la relativa facoltà sia collegata anche all’imputazione che, per effetto della contestazione suppletiva, deve effettivamente formare oggetto del giudizio”. Una diversa conclusione sarebbe anche in contrasto con il divieto di disparità di trattamento rispetto a chi, in caso di contestazione suppletiva determinata da una sopravvenienza dibattimentale, può chiedere un rito speciale. Conducenti “a rischio elevato”: sì alla sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2018 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 26 giugno 2018 n. 29374. I giudici della IV sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 29374 del 26 giugno 2018 hanno ritenuto applicabile la pena sostitutiva dei lavori di pubblica utilità in caso di guida sotto l’influenza di alcool. Il fatto - Il Procuratore della Repubblica di Asti ricorre avverso la sentenza di applicazione di pena ex articolo 444 del codice di procedura penale, emessa dal Tribunale di Asti, con la quale nei confronti di un conducente infliggeva la pena patteggiata in relazione al reato previsto e punito dall’articolo 186-bis,sesto comma, in relazione all’articolo 186, settimo comma del codice della strada, pena sostituita dal lavoro di pubblica utilità. Il Procuratore deduceva, quale unico motivo di ricorso violazione di legge, in quanto i giudici del Tribunale avevano disposto la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità in ipotesi nella quale tale sostituzione non è consentita in quanto l’articolo 186-bis, sesto comma, non rinvia al comma 9-bis dell’articolo 186 del citato codice che prevede che la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell’imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste. Ovvero la prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze. Inoltre secondo il Pm non possono trovare applicazione i dettami della sentenza della Corte Costituzionale n. 167/2012, in quanto l’articolo 186-bis costituisce ipotesi autonoma di reato. La decisione - Gli Ermellini rigettano il ricorso, richiamando una sentenza della Corte Costituzionale la n. n. 167/2012 e chiariscono che anche ai conducenti definiti “a rischio elevato”, nel caso di guida sotto l’influenza di alcool, è applicabile la pena sostitutiva dei lavori di pubblica utilità. La Suprema Corte faceva discendere la piena applicabilità della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità anche ai reati di guida in stato d’ebbrezza commessi da conducenti a rischio elevato, ossia per coloro che hanno un’età inferiore ai ventuno anni, per i neo-patentati e per coloro che trasportano per professione persone o cose. La Cassazione ritiene che quanto affermato dalla Consulta trova un’indiretta conferma nell’articolo 187 del codice della strada, il quale prende espressamente in considerazione che il reato di guida sotto l’effetto di stupefacenti possa essere commesso anche da conducenti appartenenti alle categorie di cui all’articolo 186-bis, primo comma e, pertanto, anche per costoro trovi applicazione l’articolo 187, comma 8-bis, che introduce la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, esclusi i casi in cui sussiste l’aggravante di aver provocato un incidente. È di tutta evidenza che sarebbe giuridicamente e costituzionalmente insostenibile una disciplina che prevedesse l’applicabilità della sanzione sostitutiva in parola ai conducenti “qualificati” di cui al primo comma dell’articolo 186-bis limitatamente alle sole ipotesi di cui all’articolo 187, comma 8-bis, e la escludesse con riferimento alle ipotesi di cui all’articolo 186, comma 9-bis. Concussione e induzione indebita, tra danno ingiusto e vantaggio indebito di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 5 luglio 2018 n. 30436. Dopo quasi sei anni dall’entrata in vigore della legge anticorruzione (legge 190/2012) “la giurisprudenza della Corte di cassazione continua ad essere impegnata nella elaborazione conseguente allo “spacchettamento” legislativo” del previgente articolo 317 del codice penale nelle due fattispecie di concussione (per costrizione) e induzione indebita a dare o promettere utilità, rispettivamente previste dall’attuale articolo 317 c.p. e dall’articolo 319-quater c.p. Questo è quanto afferma la Corte di cassazione nella sentenza 30346, depositata ieri, relativa ad un caso di richiesta di “mazzette” per evitare la sanzione fiscale, con la quale i giudici di legittimità cercano di fornire all’interprete gli strumenti per capire quando si configura l’una o l’altra fattispecie nei casi ambigui, ovvero i casi in cui il criterio del danno ingiusto per la concussione e indebito vantaggio per l’ induzione indebita non sia dirimente. La vicenda - Il caso coinvolge un funzionario dell’Agenzia delle Entrate, accusato, assieme ad un collega giudicato separatamente, di quattro distinti fatti di presunta concussione. In particolare, dalle denunce che hanno dato il via alle indagini penali emergeva che i titolari degli esercizi commerciali, sottoposti a controlli per studi di settore, venivano incoraggiati a corrispondere delle somme di denaro per evitare esiti negativi degli accertamenti. In sostanza, agli esercenti venivano chieste “mazzette” per evitare sanzioni all’esito dei controlli fiscali. In seguito, nel processo si accertava che gli agenti del Fisco prospettavano conseguenze economiche negative per i contribuenti sia in caso di irregolarità effettivamente riscontrate, sia in caso di presunte ma non sussistenti irregolarità contabili, ottenendo in tutti i casi delle somme di denaro dai titolari degli esercizi commerciali. Sia il Tribunale che la Corte d’appello ritenevano poi sussistente il reato di concussione e condannavano il funzionario a più di cinque anni di carcere. La decisione - La questione arriva a questo punto in Cassazione, dove il funzionario con un lungo ricorso cerca di far cambiare il verdetto dai giudici di legittimità, puntando sulla distinzione tra il reato di concussione ex articolo 317 c.p. e il nuovo reato di induzione indebita a dare e promettere utilità ex articolo 319-quater c.p., fondata sostanzialmente sul concetto di danno ingiusto da evitare o indebito vantaggio da ottenere; distinzione che non era stata presa adeguatamente in considerazione dai giudici di merito. Tale tentativo coglie nel segno e porta la Suprema corte ad annullare con rinvio la decisione di merito, non avendo affatto la corte territoriale indagato sufficientemente su quegli elementi della vicenda che avrebbero consentito di escludere la configurabilità di uno dei due reati a scapito dell’altro. La distinzione tra concussione e induzione indebita - I giudici di legittimità prendono atto della complessità giuridica della questione, che non trova una soluzione condivisa a sei anni di distanza dall’introduzione della legge anticorruzione che ha spacchettato la vecchia fattispecie di concussione nelle due nuove fattispecie, e nonostante un intervento a Sezioni unite (sentenza “Maldera”). Per la Corte, ad ogni modo, occorre partire da tale decisione di legittimità che ha sostanzialmente ritenuto che la concussione scatta in caso di condotta di violenza o minaccia, con l’intervento della persona offesa diretto a scongiurare un danno ingiusto; mentre l’induzione indebita si configura a fronte di una condotta perlopiù di matrice corruttiva, con l’intervento della persona offesa diretto ad ottenere un indebito vantaggio. La necessità di una approfondita valutazione dei fatti - Ciò posto, sostiene il Collegio, nei casi in cui è difficile trovare un criterio distintivo, ovvero nei casi “misti” di minaccia-offerta o minaccia-promessa, occorre procedere ad una gradazione del requisito del danno ingiusto e di quello del vantaggio indebito, oltre che ricorrere ai criteri sussidiari del bilanciamento dei beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale, della presenza dell’uso di un potere discrezionale, o ancora della presenza di un abuso di qualità. Resta, in ogni caso, difficile stabilire quale reato si configuri nell’ipotesi in cui la parte offesa del delitto, pagando, consegua anche un indebito vantaggio, dovendosi qui verificare che il vantaggio non dovuto sia prevalso o meno sull’aspetto intimidatorio. In tali ipotesi, puntualizza la Corte, ovvero “nei casi c.d. ambigui, quelli cioè che possono collocarsi al confine tra la concussione e l’induzione indebita i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio indebito, che rispettivamente contraddistinguono i detti illeciti, debbano essere utilizzati nella loro operatività dinamica all’interno della vicenda concreta, individuando, all’esito di una approfondita ed equilibrata valutazione complessiva del fatto, i dati più qualificanti”. E nella fattispecie, invece, venendo in rilievo proprio una ipotesi di caso misto o ambiguo, i giudici di merito non hanno verificato in maniera adeguata se vi sia stata una condotta abusiva del pubblico ufficiale; se fosse ravvisabile un indebito vantaggio per la persona offesa; o se ancora i fatti contestati fossero riconducibili in fattispecie corruttive. Rito tributario: l’assoluzione dal reato può essere una prova di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione tributaria - Sentenza 5 luglio 2018 n. 17619. Nel giudizio tributario il contenuto della sentenza di assoluzione penale va valutato dal giudice poiché costituisce una prova al pari di altre sulla quale può fondare il proprio convincimento. A fornire questo importante principio è la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 17619 depositata ieri. Una società impugnava degli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia contestava l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. La contribuente si difendeva provando l’effettività dei rapporti commerciali intercorsi e a sostegno della propria tesi produceva anche la sentenza del giudizio penale, che aveva assolto il legale rappresentante. Entrambi i giudici di merito, confermavano però la legittimità degli accertamenti ed in particolare la Ctr rilevava che le decisioni di proscioglimento o di assoluzione in sede penale non possono avere pregio nel processo tributario. La società ricorreva così in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, anche un’omessa valutazione delle tante prove prodotte. I giudici di legittimità hanno innanzitutto ribadito che la fattura costituisce il titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’Iva e alla deducibilità dei costi. È poi l’ufficio che deve dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto, anche attraverso presunzioni semplici che vanno valutate dal giudice di merito. In tale contesto, il collegio di appello aveva omesso di valutare numerosi elementi prodotti dalla contribuente in contrasto alla prova presuntiva fornita dall’Ufficio e tra questi la Ctr aveva escluso qualunque valenza alle sentenze penali di proscioglimento. La Suprema corte sul punto ha evidenziato che sebbene non esista alcuna efficacia vincolante del giudicato penale per il giudizio tributario, il giudice è tenuto nell’esercizio dei propri poteri ad una valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti. Deve pertanto procedere ad un apprezzamento anche del contenuto della decisione penale, ponendola a confronto con altri elementi di prova acquisiti. Da qui l’accoglimento del ricorso. Immigrazione, no rinvio alla Consulta per decreto Minniti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 5 luglio 2018 n. 17717. La Prima Sezione civile della Cassazione, sentenza n. 17717 del 5 luglio 2018 (presidente Genovese), ha bocciato la richiesta di rinviare il decreto Minniti (il n. 13/2017, “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”) davanti alla Corte costituzionale. I giudici di legittimità hanno bocciato tutti e quattro i motivi di ricorso presentati da un extracomunitario del Mali (difeso dagli avvocati dell’Asgi, Associazione studi giuridici sull’immigrazione) dopo che il Tribunale di Napoli, nel 2017, aveva respinto la sua richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, ritenendolo inattendibile, e concedendogli il diritto alla “protezione umanitaria”. Per la Suprema corte, dunque, la previsione di un termine di 180 gg per l’entrata in vigore del nuovo rito in materia di protezione internazionale “non esclude il requisito dell’urgenza” previsto per l’adozione di un decreto legge. Quanto alla seconda questione, prosegue la Corte, “non v’è alcun dubbio che il procedimento camerale, da sempre impiegato anche per la trattazione di controversie su diritti e status, sia idoneo a garantire l’adeguato dispiegarsi del contraddittorio con riguardo al riconoscimento della protezione internazionale”. Riguardo al terzo motivo, poi, la previsione del termine di 30 giorni per il ricorso per Cassazione, a far data dalla comunicazione del decreto, “rientra senza dubbio nell’ambito della discrezionalità del legislatore, e trova giustificazione in esigenze di urgenza” già previste per altre fattispecie. Infine, con riferimento alla quarta questione, mossa “sull’assunto della disparità di trattamento tra il privato e il Ministero dell’interno, che non deve rilasciare procura, la previsione normativa si pone in armonia con il requisito di specialità della procura necessaria per il ricorso per cassazione”. La Cassazione invece ha accolto, con rinvio al Tribunale di Napoli, il diverso motivo che deduceva una violazione di legge per non aver fissato l’udienza di comparizione, come richiesto, ritenendo sufficiente la semplice “verbalizzazione” delle dichiarazioni alla Commissione territoriale anche in assenza della prescritta videoregistrazione. Sarebbe bastato, scrive la Cassazione, che “il Tribunale, dopo aver letto il decimo comma della nuova norma, che sembra essere posto a base della decisione adottata, si soffermasse anche sull’undicesimo, e si avvedesse che, non essendo nel caso di specie disponibile la videoregistrazione, l’udienza andava senza meno disposta”. Da qui l’affermazione del principio di diritto per cui: “in materia di protezione internazionale (ai sensi dell’articolo 35-bis del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, come inserito dal decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13, convertito con modificazioni dalla legge 13 aprile 2017, n. 46), ove non sia disponibile la videoregistrazione con mezzi audiovisivi dell’audizione del richiedente la protezione dinanzi alla Commissione territoriale, il Tribunale, chiamato a decidere del ricorso avverso la decisione adottata dalla Commissione, è tenuto a fissare l’udienza di comparizione delle parti a pena di nullità del suo provvedimento decisorio, salvo il caso dell’accoglimento dell’istanza del richiedente asilo di non avvalersi del supporto contenente la registrazione del colloquio”. Auto-riciclaggio escluso solo in caso di utilizzo personale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2018 Corte di cassazione, sentenza 5 luglio 2018 n. 30399. Responsabilità da auto-riciclaggio esclusa solo in caso di utilizzo diretto dei proventi del reato presupposto. E senza che vengano posti in essere comportamenti indirizzati a nasconderne la provenienza illecita. E poi: il prodotto, profitto o prezzo dell’auto-riciclaggio è del tutto autonomo da quello del reato presupposto e consiste nei proventi ottenuti dall’impiego del prodotto, profitto o prezzo del reato presupposto in altre attività (finanziarie, economiche, imprenditoriali, speculative). Sono queste le conclusioni cui approda la Corte di cassazione con due importanti sentenze della Seconda Sezione penale depositate ieri. La prima, la n. 30399, circostanzia la clausola di esclusione prevista dal quarto comma dell’articolo 648 ter 1 del Codice penale. Una disposizione in base alla quale, osserva la Corte, il legislatore, dopo avere superato il dogma della non punibilità dell’auto-riciclatore, ha però conservato “una ristretta area di “privilegio”, limitandola appunto ai due tassativi casi di cui al quarto comma: mera utilizzazione e godimento personale dei beni provento del delitto presupposto”. La clausola allora, letta in questo modo, è coerente con l’obiettivo del nuovo reato e cioè quello di sterilizzare il profitto ottenuto con il reato presupposto, impedendo al colpevole sia di reinvestire nell’economia legale sia di inquinare il libero mercato compromettendo l’ordine economico con l’utilizzo di risorse frutto di delitti. L’essenza dell’auto-riciclaggio sta dunque nel divieto di condotte indirizzate a non rendere tracciabili i proventi del reato presupposto, proprio perché la tracciabilità, invece, impedisce il contagio dell’economia sana. Quanto alla definizione del perimetro del prodotto, profitto o prezzo dell’auto-riciclaggio, la sentenza n. 30401chiarisce che non può coincidere con quello del delitto presupposto, visto che di questo profitto l’agente ha già goduto. Pertanto deve essere qualcosa d’altro e, in particolare, anche ai fini della confisca, deve consistere in quelle utilità economiche conseguite per effetto dell’impiego, sostituzione, trasferimento in altre attività dei beni che provengono dalla commissione del reato presupposto. In caso contrario, si presterebbe il fianco alla contestazione anche di una doppia confisca. E allora la sentenza annulla l’ordinanza del tribunale che aveva proceduto a un raddoppio dell’importo sottoposto a misura cautelare per il reato presupposto rappresentato dall’emissione di false fatture. Il tribunale aveva infatti correttamente identificato il profitto nell’importo dell’imposta evasa, ma poi aveva raddoppiato la cifra soggetta a confisca, evitando oltretutto di considerare che per l’auto-riciclaggio non è sufficiente una condotta di ostacolo all’identificazione delle utilità del reato presupposto, ma serve anche il loro reimpiego. Lombardia: basta un gelato per “tornare a vivere” di Silvia Armati informacibo.it, 6 luglio 2018 Nelle carceri di Milano, Mantova e Vigevano i primi corsi professionali di gelateria dedicati a donne detenute realizzati con il sostegno di Fabbri 1905. Alcune volte basta anche un gelato per “tornare a vivere”, se alla base vi è un progetto di responsabilità sociale finalizzato al lavoro. Si è conclusa infatti con successo la prima fase lombarda del grande progetto di responsabilità sociale frutto della firma di un protocollo tra il Ministero della Giustizia e l’associazione Soroptimist International, realizzato con il sostegno di Fabbri 1905. Dopo il primo corso di gelateria artigianale tenuto nel novembre 2017 per le detenute del carcere di Bollate, in provincia di Milano, si sono da poco chiusi i corsi per madri detenute in altre tre strutture della regione: l’Istituto a Custodia Attenuata per Detenute Madri di Milano, la Casa Circondariale di Mantova e la Casa Circondariale di Vigevano. Tre corsi di gelateria per madri detenute in tre carceri della regione Lombardia - I tre corsi (cinque giorni a Milano, quattro a Mantova e quattro a Vigevano) hanno voluto fornire un training completo per un futuro inserimento professionale nel settore della gelateria, grazie all’esperienza di una delle scuole più note in Italia: la Fabbri Master Class, che da oltre vent’anni forma e aggiorna maestri gelatieri e pasticceri in Italia e all’estero. Alla guida dei corsi, una donna: Rosa Pinasco, maestro gelatiere e docente della Fabbri Master Class. Per le detenute, Rosa ha studiato corsi su misura che hanno illustrato e fatto scoprire le tecniche dei professionisti della gelateria, settore che ancora oggi è uno dei più solidi dell’enogastronomia italiana. Una prima fase teorica, presentata all’inizio di ogni giornata, è stata dedicata al corretto mantenimento del gelato, all’utilizzo degli ingredienti e dei macchinari, all’organizzazione dell’ambiente di lavoro. Una seconda fase pratica ha invece visto le detenute lavorare in coppia mettendo in pratica quanto appreso. “Quello che vogliamo lanciare è un messaggio di speranza per tutte quelle donne che hanno un forte desiderio di riscatto e di costruirsi un futuro” affermano dalla Fabbri Master Class. “Contribuire al meccanismo del reinserimento sociale è un obbligo morale per ogni azienda italiana: siamo felici di aver accolto ancora una volta l’invito di Soroptimist International a sostenere concretamente una nuova tappa di questa iniziativa”. Il progetto continuerà dopo l’estate in altre case di reclusione, a cominciare dalla città di Bologna, all’inizio dell’autunno. Udine: il Garante Corleone “troppi detenuti, carcere fuorilegge” di Lisa Zancaner Il Gazzettino, 6 luglio 2018 Celle sovraffollate, poco personale, solo due educatori e totalmente assente un mediatore culturale, in poche parole, un “carcere fuorilegge”. A sostenerlo, senza lesinare parole forti, è Franco Corleone, coordinatore dei Garanti territoriali per i diritti dei detenuti che ieri mattina ha visitato il carcere di via Spalato con il provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria Enrico Sbriglia e il presidente territoriale della Camera penale Raffaele Conte. “Ci sono 60 detenuti in più precisa Corleone snocciolando i numeri, ovvero i 158 detenuti effettivi a fronte dei 97 previsti come posti regolamentari. Mancano spazi verdi e quelli interni per le attività sono residuali. Una parte è stata ristrutturata ormai 15 anni fa, mentre la parte dell’ex sezione femminile è ferma, ricoperta da guano di piccione. Se fosse ristrutturata, si eviterebbe il problema del sovraffollamento”. Su questo punto il provveditore stralcerà dei fondi per evitare il degrado in corso. “Così il carcere è fuorilegge, non è accettabile dice senza giri di parole, alcune celle ospitano 8 detenuti con un solo bagno all’interno”. Una situazione difficile, dunque, confermata anche dai 170 casi di eventi critici registrati nel primo semestre del 2018, per lo più casi di autolesionismo, ma non sono mancate proteste e colluttazioni, anche per la difficile convivenza con i detenuti stranieri che rappresentano a Udine il 50% della popolazione carceraria e di diverse nazionalità tra afghani, pakistani, rumeni e albanesi. Eppure quello udinese “non è un carcere tra i peggiori - commenta Conte - Gorizia e Pordenone sono ben più fatiscenti e difficili” anche se, va precisato, a Gorizia sono in corso i lavori per il secondo lotto che farà del carcere un luogo più che dignitoso. “Il vero problema sottolinea Conte è la mancanza di personale che ha portato a un peggioramento della situazione carceraria e la riforma dell’ordinamento penitenziario dell’ex governo che prevedeva misure alternative - non entrerà in vigore, manca la volontà politica di farlo. Eppure conclude stando alle statistiche ministeriali, con le misure alternative si verifica solo l’11% di recidive a fronte dei 70% senza misure”. A riempire le carceri sono ingressi di detenuti che finiscono dietro le sbarre per detenzione o piccolo spaccio: quasi il 30%. Udine non fa eccezione con una cinquantina di detenuti che scontano una pena per questi reati e buona parte di questi tossicodipendenti, “persone che dovrebbero essere ospitate in strutture idonee”, aggiunge la nuova garante del Comune di Udine, l’avvocato Natascia Marzinotto. Da qui l’auspicio di Corleone in una lettera inviata ai ministri della Giustizia e della Salute per mantenere le misure alternative e l’articolo 148 che prevede l’estensione della facoltà di sospendere la pena anche ai detenuti con gravi infermità psichiche. Intanto, a risolvere il problema del sovraffollamento in Friuli sarà il nuovo istituto che nascerà a San Vito, con una capienza di 300 detenuti. I lavori, che partiranno a settembre, dureranno circa 18 mesi con tanto di piccoli capannoni per avviare i detenuti al lavoro, “per rispondere a un’esigenza sentita in regione dove gli istituti sono troppo compressi”, sostiene Sbriglia. Napoli: progetto IV Piano, c’è un “giardino” dentro Poggioreale di Luca Marconi Corriere del Mezzogiorno, 6 luglio 2018 Il carcere e l’Asl realizzano laboratori, sportelli d’orientamento e aree verdi per i detenuti tossicodipendenti. Al carcere di Poggioreale sorgono un’area verde e un “Sert” interni con laboratori e sportello di consulenza per i detenuti in trattamento per dipendenze, Padiglione Roma: è il progetto “IV Piano”. L’Unità operativa complessa Coordinamento Dipendenze della Asl Napoli Centro e la direttrice della casa circondariale hanno voluto riunire gli operatori socio-sanitari e i detenuti coinvolti, ieri, nel cortile del Padiglione in un “saggio” delle attività. Il progetto “è la prima esperienza italiana di struttura per attività socio-riabilitative per i detenuti tossicodipendenti all’interno di un istituto di pena” spiega Stefano Vecchio, direttore del Coordinamento Dipendenze e, al terzo anno di attività, “completa l’impegno dell’Asl nell’attuazione della legge nazionale che garantisce ai detenuti la stessa assistenza socio-sanitaria offerta ai cittadini liberi”. Dopo l’istituzione, nel 2003, dell’Unità Operativa Serd d’area penale per le carceri napoletane, il progetto IV Piano “realizza anche le attività intermedie tipiche dei centri cittadini diurni per i tossicodipendenti” sempre insieme agli operatori della coop Era o del Pioppo e coinvolge cento detenuti nelle attività di cinque laboratori (Tam Tam Tamburi, Fiumi di Parole, Teatro-Buona Arte Non Mente, Fabbrica Idee, Attività Fisiche e Buone Parole per l’alfabetizzazione degli stranieri) mentre lo sportello di orientamento alle misure alternative ha già inviato diecine di detenuti alle comunità terapeutiche. “Possiamo dire che si è conclusa la sperimentazione e si è istituito un Sert nel carcere - spiega ancora Vecchio che garantisce le stesse prestazioni dei quattro centri esterni e siamo a pieno regime con uno sportello orientamento attivo, perché la dipendenza è soprattutto uno stile di vita che va cambiato”. Nell’occasione è stato presentato anche il progetto “Il Giardino Dentro” per la trasformazione del cortile del Padiglione Roma. “Uno spazio dove curare il verde e lo spirito” offerto dall’associazione Oltre il Giardino e progettato dall’architetto Valeria Ferrara, spiega la coordinatrice di “IV Piano” Marinella Scala, introducendo la direttrice Maria Luisa Palma e del Padiglione, Anna Laura De Fusco e il presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia, il provveditore Martone, il direttore Asl1 Forlenza e il presidente del Pioppo, Roldano De Bartolo. L’evento ha rappresentato un momento di festa per i detenuti, gli operatori, gli educatori ed anche gli agenti penitenziari coinvolti nelle attività (già diverse iniziative ad esempio teatrali hanno riunito familiari dei detenuti con quelli del personale dipendente). E detenuti, pubblico e operatori tutti insieme si confondono a partire dal “palcoscenico”, dove Liberato Abate legge Erri De Luca (“..considero valore ogni forma di vita..”) e seguono testi di De Filippo, poi De Simone, la “Intifada” o “Cantata per Masaniello” che il Maestro scrisse negli anni 70 per gli Inti Illimani appena esiliati, spiega per tutti Fabio Fiorillo, volto noto del teatro (lavorò con De Simone e oggi con Peppe Barra) coordinatore del laboratorio assieme ad un altro professionista, il cantante Lello Russo. E infatti i testi sono della tradizione alta. Dopo Masaniello (che in scena sfotte guardie e “viceré” implorando tasse e mazzate) interpretato da Ludovico Salvatore, detenuto diventato attore in carcere (ha debuttato al Mercadante) è il turno di Viviani, “Il Testamento”: “I saccio che songh’io, ca sò campato, cu tutt’ ‘o buono e tutt’ ‘o mmalamente, ca, doppo, pure si nun songo niente, saraggio sempe ‘n ‘ommo ca sò nato”. Al sole del futuro giardino cinto dalle mura del carcere legge anche Garibè, detto affettuosamente “Garibaldi”, è una lettera piena di affetto e di riconoscenza di un detenuto africano. Qui dentro sono tutti uguali. Salerno: patto legalità, lavoro per i minori con guai giudiziari Il Mattino, 6 luglio 2018 Un protocollo d’intesa per agevolare l’attuazione di iniziative relative alle tematiche di inclusione socio-lavorativa di minori e di giovani in area penale. È questo il contenuto del protocollo d’intesa firmato ieri mattina da Confindustria Salerno, tribunale per i Minorenni di Salerno, la procura dei Minorenni e direzione del Centro per la giustizia minorile per la Campania. Nel documento Confindustria Salerno conferma il suo impegno a promuovere presso le aziende associate le finalità dell’accordo verificando la disponibilità delle imprese ad ospitare minori e giovani in area penale consentendogli di maturare esperienze utili all’inserimento nel mondo del lavoro. Il Centro giustizia minorile di Napoli (Ufficio servizio sociale minorenni di Salerno) individuerà i minori e i giovani coinvolti in vicende penali, motivati ad intraprendere un percorso formativo e socio-lavorativo, svolgendo, con i suoi operatori, un servizio di accompagnamento e sostegno nell’ambito delle attività svolte in collegamento costante con i referenti individuati dalle diverse aziende ospitanti. “Con questa intesa - afferma il presidente di Confindustria Andrea Prete - confermiamo l’impegno delle imprese salernitane sul versante della legalità, già avviato con il protocollo sottoscritto con la procura di Salerno. L’inserimento dei giovani dell’area penale è una sfida importante e al tempo delicata, che richiede uno sforzo corale, ma è anche un grande segno di civiltà che ci proietterà tra i territori più virtuosi in tema di legalità”. “Come giudici dei minori - dichiara il presidente del tribunale per i Minorenni, Pasquale Andria - avvertiamo sempre di più l’esigenza di contenuti e di progetti che possano costituire per quei ragazzi, che entrano nel circuito penale, possibilità concrete di inserimento e di integrazione. Com’è noto il processo penale minorile prevede la possibilità per il giudice di sospendere il processo e di realizzare, per il tempo della sospensione, su progetto predisposto dal Servizio sociale minorenni, un’occasione di recupero del ragazzo. Tali progetti devono essere significativi e prevedere delle attività “positive”. “Investire nei giovani è investire nel futuro di questa società - sottolinea Patrizia Imperato procuratore per i Minorenni - È questa la molla che ha spinto tutti a realizzare questo progetto che consentirà ai minori ed ai giovani adulti, che si sono resi responsabili di reati, di potersi appropriare di un ruolo all’interno della società attraverso l’impegno lavorativo”. “Si ringraziano tutte le parti firmatarie di questo Protocollo, rinnovato per il terzo anno con la Confindustria Salerno, dopo l’esperienza positiva avviata nel 2013 - rinnovata nel 2014 e nel 2015 - afferma Teresa Sorrentino direttore Ufficio servizio sociale per i minorenni di Salerno delegata alla firma per il dirigente del Centro Giustizia Minorile per la Campania. La finalità di questo protocollo, di durata triennale, è di sviluppare legami tra le istituzioni, le imprese ed i giovani in area penale, destinatari delle attività. Ciò al fine di promuovere un ciclo virtuoso per realizzare progetti educativi ed attuare iniziative afferenti il pieno reinserimento nell’ambito sociale e produttivo dei minori e giovani adulti dell’area penale”. Torino: la preoccupazione del Garante per i detenuti in attesa di braccialetto elettronico ilnazionale.it, 6 luglio 2018 Dopo il caso di Nicolò Mirandola, il ragazzo per il quale sono stati previsti gli arresti domiciliari da scontare con braccialetto elettronico (situazione che si è risolta questa mattina), Monica Cristina Gallo, garante per i diritti delle persone private della libertà, esprime grande preoccupazione in relazione anche agli altri detenuti nella Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”, in attesa di braccialetto. “È inutile che il Gip conceda questa misura alternativa al carcere, se poi non ci sono le condizioni per applicarla”, afferma la Garante. “A Torino, aggiunge, sono 5 le persone in attesa di braccialetto elettronico, una da un tempo ancora più lungo di Nicolò, il cui caso, grazie ad una rete esterna di sostegno, è venuto giustamente alla ribalta. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, problemi simili passano sotto silenzio”. “È un problema di costi la gestione del braccialetto elettronico?”, si interroga ancora Gallo. “Perché in Italia costa 115 euro al giorno mentre in Germania 7 e negli Stati Uniti 5? Non si può giocare con le aspettative delle persone”, sostiene Gallo, evidenziando come attualmente i detenuti debbano attendere, per un tempo indefinito, l’attribuzione di un braccialetto, lasciato libero da una persona al termine della pena. “A questo va aggiunto che le indagini che vengono poste in essere rispetto al contesto sociale tra cui il domicilio, avvengono successivamente all’attribuzione della pena domiciliare con braccialetto elettronico. In caso di controindicazioni, conclude, per il detenuto si presenta un ulteriore elemento di frustrazione e di disagio per un’aspettativa mancata”. “È importante, come in questo caso in cui l’intervento dell’Ufficio garante di Torino ha coinvolto fin da subito il Garante nazionale e il garante regionale, rafforzare un dialogo con il Ministero di Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria perché un istituto che io ritengo condivisibile, possa però essere rivisto nell’ambito dei costi e delle procedure di attribuzione”. Ascoli: la Cri con Antigone, concluso con successo il corso “Dignità e Diritti” di Maria Rita Bartolomei ancoraonline.it, 6 luglio 2018 Il 22 giugno 2018, con la consegna degli attestati di partecipazione ai detenuti ospiti della Casa Circondariale di Ascoli Piceno, si è concluso con successo il Corso “Dignità e Diritti”. Il Corso, iniziato lo scorso 5 febbraio, mira a diffondere la conoscenza di norme, di principi e di valori fondamentali della Costituzione e del sistema giuridico italiano in generale; un approfondimento particolare è stato dedicato ai diritti umani e al ruolo di Antigone. Esso realizza la prima parte di un più ampio Progetto titolato “La Cri con Antigone”, che si sviluppa attraverso tre micro progetti, i quali affrontano tematiche affatto diverse e coinvolgono alcuni volontari di Croce Rossa Italiana iscritti ai Comitati Locali di Ascoli Piceno e di San Benedetto del Tronto. Si tratta di un progetto assolutamente innovativo e lungimirante, sia per l’inedita collaborazione tra le Associazioni di Croce Rossa Marche e di Antigone Marche, sia per le modalità di svolgimento, sia anche per i contenuti proposti. La Dott.ssa Lucia Di Feliciantonio, Dirigente della Casa Circondariale, ha espresso apprezzamento per gli esiti decisamente positivi di questa esperienza, la quale ha contribuito a rendere lo “spazio della pena” un tempo impiegato in modo proficuo, utile alla crescita personale e al recupero sociale del detenuto. Anche il personale di Polizia Penitenziaria ha ritenuto istruttivi e appropriati gli argomenti trattati. Le lezioni sono state tenute dall’Ispettrice II.VV. Rossella Ascani, dalla referente regionale del progetto Maria Rita Bartolomei, dalla Consigliera Regionale CRI Cristina Perozzi; hanno poi contribuito a rendere gli incontri più utili e coinvolgenti, i volontari Orenzo e Serena Agostini, Carmela Circo e Roberta Verrocchio, i quali hanno anche collaborato alla redazione e alla somministrazione ai detenuti di alcuni questionari volti a cogliere le loro opinioni su aspetti giuridici e questioni esistenziali. Indispensabile il lavoro grafico di Rocco Palumbi e il ruolo svolto dalla Presidente del Comitato locale di Ascoli Piceno, Cristiana Biancucci, nel seguire l’organizzazione generale delle attività e nel motivare i volontari a lavorare per la buona riuscita del progetto. Il Presidente del Comitato Regionale CRI, Fabio Cecconi, si dichiara soddisfatto del lavoro svolto finora e - ancor più in considerazione dei risultati raggiunti - auspica che il suddetto “progetto-pilota” possa essere presto adottato anche da altri Comitati locali. Giulia Torbidoni, Presidente di Antigone Marche, nel ringraziare tutti i volontari, rinnova l’invito a continuare questa fruttuosa collaborazione e ad estenderla a diversi istituti di pena. Maria Rita Bartolomei, referente del Progetto sia per la Croce Rossa Regionale che per Antigone Marche, ribadisce l’importanza della cooperazione tra carcere e società civile, di certo funzionale ad abbattere i tassi di recidiva. Dai feedback ottenuti sia dai volontari che dai corsisti possiamo concludere che le attività svolte si sono dimostrate altamente educative e socio-culturali, e che l’intento iniziale di “rompere le barriere materiali e simboliche che separano gli uni dagli altri” e di fornire “un’opportunità di crescita e di cambiamento per entrambi”, sia stato raggiunto. Trento: “Biblioteca Vivente”, un’esperienza di confronto per conoscere il carcere provincia.tn.it, 6 luglio 2018 Per la prima volte in Trentino arrivano gli eventi di “Biblioteca Vivente”, un dispositivo culturale riconosciuto dal Consiglio d’Europa come metodo innovativo di dialogo e strumento di promozione di coesione sociale. Organizzati nell’ambito del progetto sul carcere “Liberi Da Dentro”, l’ultimo appuntamento del ciclo di eventi si svolgerà sabato 7 luglio nel centro storico di Lavis, dalle ore 19.00 alle ore 22.00, nell’ambito della festa Porteghi e Spiazi. Come in una biblioteca tradizionale, nella Biblioteca Vivente si può scegliere di consultare un libro tra quelli proposti in un catalogo. Alcune persone, detenuti o ex detenuti, diventate per l’occasione “libri umani”, attraverso un percorso di formazione mettono a disposizione dei lettori un pezzo della propria autobiografia. Ogni lettore in mezz’ora di tempo potrà consultare il libro individuato, probabilmente una persona che non avrebbe avuto occasione di incontrare altrimenti. In questo caso le storie delle persone che compongono la “Biblioteca Vivente”, sviluppata secondo il modello della cooperativa ABCittà di Milano, permettono di entrare nel mondo del carcere e di oltrepassarne i pensieri più diffusi. I lettori potranno così leggere alcuni “libri umani”, detenuti o ex detenuti, confrontandosi con le storie, ad esempio, di Angela, Stefan e Imad. “L’ufficio del direttore” è il titolo del racconto di Angela che narra come l’inizio dei suoi lavori è sempre associato agli sguardi puntati addosso. Quelli delle concelline dentro, degli impiegati nei corridoi, dei passanti per la strada. Forse sono un’invenzione, forse sono reali, comunque pesano. Chissà se il lavoro renderà liberi … oppure Stefan ne “Il lungo abbraccio” racconta di una lunga storia di amicizia nata accanto ai trampolini per i salti con gli sci. Un’amicizia capace di salvare nel momento più buio della vita. Un’amicizia che diventa àncora di salvezza e di cambiamento. E “la prima volta” di Imad rivela come nel suo zainetto verde ci siano poche cose, che servono per una giornata al lago con la ragazza. Improvvisamente diventa il compagno di un viaggio dietro le sbarre che a tratti ricorda le scene di un film. Ma è tutto vero, millimetro per millimetro, attraversando tantissime porte. “Emozionante, coinvolgente, affascinante...è stato come percorrere quei corridoi con te, attraversare le infinite porte e cancelli e le interminabili attese”; e ancora “racconti che lasciano il segno e fanno pensare”: queste sono alcune delle impressioni raccolte dai lettori, che hanno partecipato alla Biblioteca Vivente svoltasi il 16 giugno a Riva del Garda e il 21 giugno a Trento. “Quando il carcere toglie la libertà - riporta un’altra riflessione - può togliere anche i pregiudizi divenendo un’occasione di vita; quando invece il carcere toglie la vita sociale, diventa un luogo da condannare tanto quanto i condannati”. “Biblioteca Vivente” si svolge in collaborazione con tutti i partner del progetto “Liberi Da Dentro”, un’iniziativa finalizzata a diffondere sul territorio una conoscenza reale del mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone. Attraverso la proposta di eventi e incontri pubblici, conferenze, iniziative nelle scuole, spettacoli e film e con il coinvolgimento della cittadinanza nel processo di accoglienza nel tessuto sociale delle persone sottoposte a condanne penali, si vuole puntare alla promozione di una cultura capace di sviluppare una visione di tipo riparativo e di alimentare il senso di una responsabilità sociale collettiva. Il progetto ha come promotori: Scuola di Preparazione Sociale, Fondazione Franco Demarchi, Associazione “Dalla Viva Voce”, Associazione Quadrivium, Comune di Trento, Comune di Lavis, Comune di Riva del Garda, Rivista UnderTrenta, Sistema Bibliotecario Trentino, Museo Diocesano, Cooperativa ABCittà, Cinformi, Apas, Atas, Conferenza regionale volontariato carcere Trentino Alto Adige, con il patrocinio della Provincia autonoma di Trento. Volterra (Pi): si diplomano insieme detenuti e ragazzi dell’Istituto Alberghiero di Michelangelo Betti Il Tirreno, 6 luglio 2018 Ai reclusi affiancati giovani che avevano lasciato gli studi. Un carcerato è riuscito a conquistare il massimo dei voti. Un esame di stato particolare per Volterra. Nella città dell’alabastro si è conclusa la prima “maturità” dell’indirizzo Alberghiero che per cinque anni ha visto in classe insieme detenuti e ragazzi che avevano abbandonato il corso regolare di studi. Al termine del quinquennio di studi sono stati dieci gli ammessi all’esame finale. Tutti promossi e con un candidato (un detenuto) che ha anche raggiunto il 100. “Abbiamo raggiunto un traguardo importante - spiega il professor Alessandro Togoli, vicepreside dell’Istituto Ferruccio Niccolini e responsabile della sezione scolastica distaccata in carcere. Si tratta di un percorso formativo partito su proposta della direttrice del carcere, Maria Grazia Giampiccolo, che, ormai alcuni anni fa, trovò l’adesione della dirigente scolastica Ester Balducci e dell’assessore provinciale Miriam Celoni”. Le richieste di iscrizione, estese a tutta Italia, superarono i posti disponibili e la classe è stata poi formata selezionando le domande. L’idea nuova è stata però quella di affiancare ai reclusi degli studenti che avevano abbandonato la scuola. “Questo criterio - prosegue Togoli - ha reso possibile una crescita complessiva. Da un lato i ragazzi sono stati portati a dover rispettare una serie maggiore di regole rispetto a quelle scolastiche, dall’altro i detenuti hanno avuto un contatto con l’esterno. Un passo importante per formare competenze culturali, riavvicinare alla società e a una futura vita all’esterno del carcere”. Tra i circa 170 reclusi del carcere di Volterra ben 130 sono in formazione. Oltre cento gli iscritti ai corsi Alberghiero e Geometri, partito alcuni anni prima. Gli studenti sono stati coinvolti anche nell’organizzazione delle “Cene galeotte”, ospitate in carcere, e nel corso del loro esame finale, a fianco delle prove scritte e dell’orale, gli studenti hanno presentato una prova pratica di cucina. Un piatto talvolta scelto per le radici culturali, talvolta legato a esperienze di vita. Sulla cattedra, anziché su un tavolo da ristorante, è passato un vero e proprio menù, che è andato a comprendere piatti come pici al cacio e pepe, sushi, vari tipi di cous cous, cannoli siciliani e semifreddo ai frutti rossi. Senza escludere i più tradizionali e locali crostini ai fegatini. L’esperienza della sezione distaccata ha anche preceduto l’attivazione dell’Alberghiero dell’Istituto Niccolini. “A scuola il quarto anno partirà a settembre - spiega Togoli. Abbiamo già oltre 150 studenti, a cui si aggiungeranno una quarantina di studenti iscritti alla prima”. Un ottimo risultato per un indirizzo di studio che nella Toscana costiera è attivo a Pisa, Massa e Rosignano Marittimo. Monza: “Oltre i confini”, il giornale che dà voce ai detenuti di Claudio Colombo* ilcittadinomb.it, 6 luglio 2018 Da giovedì 12 luglio (e poi anche sabato) il Cittadino porta in edicola una iniziativa speciale e unica: “Oltre i confini - Beyond borders”, un inserto interamente scritto dai detenuti del carcere monzese di via Sanquirico. La presentazione del direttore Claudio Colombo. Da giovedì 12 luglio (e anche nelle edizioni del sabato) i lettori troveranno sulle pagine de “il Cittadino” qualcosa di diverso e di speciale. Si tratta di un inserto interamente scritto dai detenuti del carcere monzese di via Sanquirico. In pratica, il “loro” giornale. Loro in tutto: dalla scelta del nome della testata (“Oltre i confini-Beyond borders”) a quella degli argomenti da affrontare e da trasformare in notizie, storie e approfondimenti. Noi de “il Cittadino” ci occuperemo tecnicamente delle pagine: correggeremo gli articoli e li titoleremo, li correderemo con fotografie e grafici, insomma completeremo con il lavoro di “cucina” redazionale i frutti di un impegno che, ora possiamo dirlo, si è rivelato encomiabile e avvincente. L’idea è nata in primavera, quando in redazione è venuta a trovarci Antonetta Carrabs, che nel carcere di Monza dirige e coordina un laboratorio di narrazione. Con sé aveva alcuni lavori dei detenuti: racconti, poesie, riflessioni, persino ricette di cucina. Li abbiamo letti con grande attenzione e, piano piano, si è fatto strada il pensiero di farli conoscere anche all’esterno della struttura carceraria. Il passo nel concepire un vero e proprio “giornale” è stato un tema che abbiamo discusso al nostro interno, affinandolo poi con i contributi di Antonetta e della direzione della casa circondariale. Da qui è partita la fase di progettazione, ora arrivata a conclusione con questa proposta che sottoponiamo ai lettori. L’inserto, nel nostro intento, avrà una cadenza periodica, perché l’idea è proprio quella di creare un ponte ideale e continuativo tra l’ambiente carcerario e quello, ben più vasto, che lo circonda. Molto dipenderà, naturalmente, dalla redazione di via Sanquirico, dalla volontà dei detenuti di svelarsi e di raccontare una realtà complessa fatta di privazioni e di sofferenza, di narrare senza filtri i problemi di quel mondo parallelo che la maggioranza di noi non conosce ma che esiste, respira, vive, sogna. Va detto che l’impatto con i nostri nuovi “colleghi” è stato entusiasmante: nel corso di alcune visite di preparazione all’interno del carcere abbiamo trovato persone motivate e preparate, desiderose di aprire cuore e pensiero all’esterno, di esprimere attraverso la scrittura piccole e grandi esperienze di vita quotidiana spesso complicate. Il nucleo della redazione è formato da otto persone: Andrea, Alberto, Gianni, Fabio, Erminio, Paolo, Farid e Dino. Siamo certi che altri amici si aggiungeranno per rendere ancor più completa questa esperienza. Siamo anche certi di assolvere, con questa iniziativa, alla missione che il giornale storico di Monza si è dato all’atto della sua fondazione: raccontare ciò che rappresenta il nostro territorio nelle sue diverse sfaccettature, dare voce alla gente e tenere vigile lo sguardo sui temi sociali che riguardano le fasce deboli della popolazione. “Oltre i confini” è anche un unicum nel panorama editoriale italiano. È un motivo in più per essere orgogliosi del nostro lavoro. “Oltre i confini, beyond borders” si troverà all’interno del Cittadino Più, al centro del giornale: realizzato in modo tale da poter essere estratto e diventare così un giornale indipendente dal resto del settimanale. *Direttore de il Cittadino L’incrocio pericoloso tra armi e corruzione di Luca Manes Il Manifesto, 6 luglio 2018 “Anglo-Italian Job”. La pubblicazione di un report si concentra su contratti per centinaia di milioni siglati dal gigante italiano degli armamenti, fino al gennaio 2016 denominato Finmeccanica, in Corea del Sud, India e Panama. “Anglo-Italian Job” è il titolo del rapporto pubblicato dalla Ong inglese Corruption Watch, e rilanciato nel nostro Paese dalla Rete Italiana per il Disarmo e da Re: Common, su vari possibili casi di corruzione che coinvolgono Leonardo. La pubblicazione si concentra su contratti per centinaia di milioni siglati dal gigante italiano degli armamenti, fino al gennaio 2016 denominato Finmeccanica, in Corea del Sud, India e Panama. Per la vendita di elicotteri Wildcat alle forze armate di Seul Agusta Westland (controllata di Leonardo, ora inserita integralmente nella divisione Elicotteri) avrebbe versato somme di denaro a favore di persone collegate all’establishment militare sudcoreano al fine di garantire l’accordo. I due processi in corso in Corea del Sud hanno comportato la condanna dell’ex ministro dei Veterani Yang Kim per aver svolto un’attività di lobbying retribuita, illegale nel Paese asiatico. L’operato di Kim, hanno rivelato le carte processuali, era stato “diretto” da due alti dirigenti di AgustaWestland, Giacomo Saponaro e Geoff Hoon, già Segretario alla Difesa britannico nel mandato di Tony Blair e, dal 2011 al 2016, International Business Manager di Agusta Westland con sede nel Regno Unito. Il secondo caso riguarda invece la discussa vendita di Elicotteri VVIP all’India, nel cui contratto sarebbe compreso anche il pagamento di oltre 60 milioni di euro ad agenti e intermediari. Agusta Westland avrebbe inoltre effettuato dei versamenti ad uno di questi agenti per ottenere altri appalti in India. Le autorità indiane hanno dichiarato che, riguardo a tali lavori aggiuntivi, non è stata svolta alcuna operazione legittima, cosa che l’agente nega. Le indagini penali in Italia e in India hanno rivelato che per l’operazione sono stati versati oltre 50 milioni di euro ad agenti e intermediari. In Italia, Giuseppe Orsi (presidente di Finmeccanica) e Bruno Spagnolini (capo di Agusta Westland) sono stati accusati di corruzione per il ruolo svolto nello scandalo. Sono stati assolti dalle accuse nel gennaio 2018. Questa decisione, tuttavia, è quanto mai controversa perché uno dei principali intermediari dell’accordo, Guido Haschke, ha ammesso dinanzi ai magistrati italiani di aver partecipato a una cospirazione che avrebbe coinvolto Orsi, Spagnolini e altri due funzionari militari indiani corrotti. Nel 2012, Agusta Westland, su raccomandazione dei propri revisori, ha nominato un consulente legale esterno per esaminare i contratti della società con uno degli agenti chiave, Christian Michel. Michel ha ricevuto oltre 30 milioni di euro per il suo ruolo nell’accordo VVIP. L’esame giuridico esterno ha evidenziato l’esistenza di gravi casi di corruzione nei rapporti tra l’impresa e Michel. Ciononostante, nel gennaio 2013 Agusta ha stipulato un nuovo accordo di consulenza con Michel. Nuovi rinvii a giudizio in India, depositati nel settembre 2017, dimostrano inoltre che Michel era stato incaricato di lavorare su una serie di altri contratti in India per Agusta Westland. In totale, la polizia indiana stima che Michel abbia ricevuto 54 milioni di euro su cinque contratti di lavoro in India. Infine, “Anglo-Italian Job” racconta della vendita di varie attrezzature (tra cui quelle per la sorveglianza) al governo di Panama. Proprio la diffusione sulla stampa di accuse di tangenti all’ex presidente di Panama Ricardo Martinelli, gestite attraverso Valter Lavitola, l’imprenditore italiano che era strettamente legato all’entourage di Silvio Berlusconi, avrebbero poi fatto svanire il contratto. Panama ha revocato l’affare sulla base di un accordo negoziale con Leonardo che ha comportato l’annullamento dei procedimenti giudiziari nel Paese. Se le ombre del passato sono tante, non mancano le perplessità sul futuro. Stando alle ultime informazioni tratte da un’analisi sulla società recentemente pubblicata dal Comitato Etico norvegese, che ha il compito di valutare la compatibilità degli investimenti del Fondo Pensione Governativo Norvegese con le proprie linee guida etiche, si direbbe che Leonardo possa dare ancora motivi di dubitare sul rischio di corruzione. Tra le raccomandazioni elencate a fine rapporto c’è in particolare la richiesta a Leonardo di pubblicare un elenco completo degli agenti e degli intermediari attualmente e precedentemente utilizzati dalla società per ottenere commesse di vendita di apparecchiature e sistemi di difesa all’estero in nome della piena trasparenza e responsabilità. Corruption Watch UK si è rivolta a Leonardo chiedendo all’azienda di commentare il contenuto e le conclusioni del rapporto. La società ha risposto evidenziando la forza del proprio programma di conformità anticorruzione e ha sottolineato che non è stata condannata in nessuna giurisdizione in relazione ai procedimenti trattati. Migranti. La stretta del Viminale sull’asilo: “troppi permessi umanitari” di Grazia Longo La Stampa, 6 luglio 2018 Circolare del ministero ai prefetti contro le protezioni date agli stranieri in fuga. Se non è uno stop vero e proprio, poco ci manca. Un giro di vite sui permessi di soggiorno per motivi umanitari, è la nuova linea del ministro dell’Interno Matteo Salvini dettata ai prefetti, alla commissione per il diritto d’asilo e ai presidenti delle sezioni territoriali per il riconoscimento della protezione umanitaria. Non solo. Il ministro ha anche annunciato di aver spostato 42 milioni dall’accoglienza ai rimpatri volontari. A finire nel mirino del leader leghista soprattutto donne incinte, bambini e migranti che si affidano ai barconi della speranza. Ma lui respinge le accuse: “Io dico no ai finti rifugiati e all’arrivo dei barconi. Faccio presente da papà che non ce l’ho con bambini e donne incinte”. Le restrizioni imposte dalla nuova circolare del titolare del Viminale nascono dall’impennata dei permessi umanitari concessi rispetto a quelli per l’asilo inerenti alla condizione di rifugiato. Il rapporto è di 4 a 1: solo nell’ultimo anno si registra una percentuale del 28% di permessi contro quasi il 7% di status di asilo. “Sono attualmente in trattazione circa 136.000 richieste di protezione internazionale - scrive Salvini nella circolare firmata l’altro ieri - un numero significativo e con andamento crescente se si considera che lo scorso anno sono state presentate oltre 130.000 istanze di asilo, di gran lunga superiori ai 119.000 migranti sbarcati sulle nostre coste. La rilevante consistenza dei dati impone un’attenta azione riorganizzativa oltre ad una analisi prospettica della complessiva attività di valutazione delle domande di asilo”. Secondo il ministro “il permesso di soggiorno per motivi umanitari è stato concesso in una varia gamma di situazioni collegate, a titolo esemplificativo, allo stato di salute, alla maternità, alla minore età, al tragico vissuto personale, alle traversie affrontate nel viaggio verso l’Italia, alla permanenza prolungata in Libia, per arrivare ad essere uno strumento premiale dell’integrazione”. Urge quindi una svolta: “Tale prassi ha comportato la concessione di un titolo di soggiorno a un gran numero di persone che, anche in base alla normativa europea sul diritto d’asilo, non avevano al momento dell’ingresso del nostro Paese i requisiti per la protezione internazionale e che, ora, permangono sul territorio con difficoltà d’inserimento e con consequenziali problematiche sociali che, nel quotidiano, involgono anche motivi di sicurezza”. Nel corso del 2017 si è verificato un aumento degli status di rifugiato riconosciuti: 6578 nel 2017 (l’8,5% del totale) rispetto ai 4808 del 2016 (5% del totale). Per quanto concerne la protezione umanitaria, nel 2017 è stata concessa a 18.951 persone (il 24,4% delle domande esaminate). Cifre tutto sommato in linea con quelli degli anni precedenti. Nel 2016 i permessi di soggiorno per protezione umanitaria rilasciati erano stati infatti 18.979 (il 21% del totale). Le commissioni - E nella circolare Salvini si appella categoricamente ai numeri : “In merito al centrale aspetto degli esiti dell’attività` delle Commissioni, i dati dell’ultimo quinquennio evidenziano che la percentuale del riconoscimento dello status di rifugiato è` stata pari al 7%, quella della protezione sussidiaria al 15%; sono stati inoltre concessi permessi di soggiorno per motivi umanitari nella misura del 25%, aumentata al 28% nell’anno in corso”. Migranti, ecco chi sono i “richiedenti asilo” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 6 luglio 2018 L’anno scorso le richieste di asilo sono state maggiori degli sbarchi. E 139 mila sono tuttora pendenti, mentre i rimpatri si attestano sui 5mila circa ogni 12 mesi. No a rinnovi automatici e decisioni più veloci - La circolare del ministro dell’Interno, Matteo Salvini, invita prefetti e commissioni a valutare con criteri “seri e rigorosi” la tutela per motivi umanitari. Viene concessa per due anni con possibilità di rinnovo che però, lamenta, è spesso automatico. I permessi per motivi umanitari rappresentano il 25% del totale delle domande presentate nell’ultimo quinquennio (il 28% nel 2018, pari a 11.306 persone), contro il 15% di beneficiari di protezione sussidiaria ed il 7% di titolari d’asilo. L’anno scorso sono state presentate oltre 130.000 istanze di asilo, più dei 119.000 migranti sbarcati. Il ministro invita poi le commissioni a decidere più in fretta, lavorando 5 giorni su 7. In arrivo 250 funzionari amministrativi. Subito un documento, nove mesi per il responso - È lungo l’arretrato delle domande di tutela internazionale. Sono 139mila quelle pendenti. Chi la chiede ha diritto di essere accolto per il periodo della definizione della domanda. Si inizia compilando un modulo in questura e si ottiene un documento provvisorio che, dopo due mesi, dà diritto anche a un lavoro (se si trova). La decisione arriva in media dopo 7-9 mesi, sulla base delle regole stabilite dalla convenzione di Ginevra. Se c’è il rigetto si può fare ricorso al giudice ordinario. In genere passano 12-18 mesi. Se si viene respinti, si riceve il decreto di espulsione. I rimpatri sono circa 5mila l’anno. Salvo decreti del ministro per motivi di pericolo per lo Stato, avvengono solo verso Paesi con cui ci sono accordi come Tunisia, Nigeria, Marocco, Egitto. Dall’Africa proviene un immigrato su 5 (come dall’Asia) - Oltre la metà degli immigrati presenti nel nostro Paese, il 51,7%, non proviene da Africa ed Asia, ma dall’Europa. Secondo un dossier della fondazione Nenni sono 5.047.028 gli stranieri: l’8,3% della popolazione. Dall’Africa verso l’Italia arriva solo il 20,7%, mentre dall’Asia il 20,2%. Le prime cinque nazionalità dei residenti in Italia, al 2016 (ultimi dati disponibili), sono: la Romania (1.168.000), l’Albania (448.000), il Marocco (420.651), la Cina (281.972) e l’Ucraina (234.354). L’Italia, con i suoi 60 milioni di abitanti, 5 milioni di immigrati e 5 milioni di emigrati all’estero (senza contare gli oltre 60 milioni di discendenti), rappresenta lo 0,8% della popolazione mondiale e il 4% circa dei migranti nel mondo. Sbarchi: -79% rispetto ai primi sei mesi del 2017. Dall’inizio del 2018 sono stati 16.707 i migranti sbarcati in Italia, oltre il 79% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, quando ne arrivarono 79.154. Sono i dati aggiornati dal Viminale, dai quali arriva la conferma di un calo, a fronte di uno scontro politico che non è mai stato così forte. L’ultimo picco di sbarchi risale al giugno 2017, quando in un solo mese arrivarono via mare 23.526 persone. La politica sulle migrazioni deve essere collegiale di Stefano Passigli Corriere della Sera, 6 luglio 2018 I negoziati europei sul problema dell’accoglienza richiederanno una capacità decisionale che va ben al di là delle competenze del solo ministro dell’Interno. Il drastico cambiamento di politica nei confronti del fenomeno migratorio voluto dal ministro Salvini pone, oltre ad evidenti problemi di merito, una significativa questione istituzionale circa il ruolo del Premier e del Consiglio dei Ministri. Quanto ai primi, è facile prevedere che l’Italia rimarrà a lungo il principale paese verso cui si indirizzeranno i flussi migratori. L’odissea dell’Aquarius si è conclusa grazie ad un gesto umanitario del nuovo governo spagnolo, che non si può tuttavia ipotizzare debba necessariamente ripetersi. È perciò lecito dubitare che la politica di respingimento varata nei confronti dell’Aquarius possa continuare in assenza di nuovi e diversi accordi internazionali, ed è altrettanto lecito dubitare che il nostro governo possa avere la forza politica per imporre un significativo cambiamento degli attuali trattati e delle loro modalità di attuazione, come dimostra il mancato rispetto da parte degli stati del gruppo di Visegrád, ma anche di Francia e Spagna, delle quote di riallocazione di migranti loro assegnate. Una soddisfacente soluzione del problema richiederà una riforma strutturale delle politiche europee nei confronti del fenomeno migratorio che superi la logica delle singole sovranità territoriali degli stati e dei conseguenti accordi intergovernativi, e riconosca che la dimensione del fenomeno migratorio necessita la creazione di organismi sopranazionali dotati di adeguati poteri sull’intero territorio europeo. Lo si è fatto per la moneta unica e lo si sta estendendo a banche e mercati finanziari. Come non farlo per un fenomeno biblico come le attuali migrazioni? Il nostro governo, e in particolare Salvini e la Lega, appaiono tuttavia ben lontani da una simile cessione di sovranità. Inoltre, affermare che “chi arriva in Italia, arriva in Europa” apre la via a riconoscere il superamento dei tradizionali confini territoriali come elemento distintivo della sovranità nazionale, e consegna il fenomeno migratorio a decisioni sovranazionali, oggi intergovernative ma in futuro forse sempre più comunitarie. Paradossalmente, lungi dal riaffermare la sovranità nazionale la politica di Salvini rischia così di tradursi nel suo opposto. Il superamento delle sovranità nazionali sarà lungo e difficile, e potrà portare molti a dubitare che l’unità politica dell’Europa sia raggiungibile. Ma il processo verso una maggiore integrazione politica ed un’ulteriore rinuncia a elementi di sovranità nazionale è la sola risposta possibile nei confronti di un fenomeno che trova le sue basi in un andamento demografico che ha visto la popolazione africana passare da 227 milioni nel 1950 agli attuali 1.300 milioni circa, ai 2.500 milioni previsti per il 2050. Non sarà certo il “sovranismo” e la chiusura degli stati nazionali nei confronti di una logica comunitaria a portare soluzione ad un fenomeno di una tale magnitudine. L’adozione di una risposta europea che superi le logiche nazionali pone al nostro paese una seria questione istituzionale. I futuri negoziati richiederanno infatti una capacità decisionale che va ben al di là delle competenze del solo ministro dell’Interno. Occorre insomma che la politica del governo sia il risultato della collegialità del Consiglio dei Ministri e frutto di un ampio confronto parlamentare. Il ministro dell’Interno è il massimo responsabile della sicurezza interna, ma la politica del governo nei confronti del fenomeno migratorio chiama in causa la nostra visione dell’Europa e del futuro dei rapporti internazionali dell’Italia, e va ben al di là del solo problema della sicurezza. Non è dunque questione che può essere lasciata al solo Salvini. È questione che il Presidente del Consiglio - che a norma dell’art. 95 della Costituzione “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile”, mantenendo “l’unità di indirizzo politico e amministrativo” e “coordinando le attività dei ministri” - deve prendere nelle sue mani lasciando a Salvini il ruolo di esecutore di politiche collegiali proposte dal governo e approvate dal Parlamento. A tutt’oggi Conte non lo ha fatto, non bastando certo ad affermare il suo ruolo costituzionale due affrettate visite a Parigi e Berlino, e la sua presenza ai vertici internazionali. In previsione dei prossimi appuntamenti europei è necessario che Conte convochi sempre il Consiglio dei Ministri, con un ordine del giorno ad hoc, come da prassi comunicato e discusso con il Presidente della Repubblica. A meno che non si sia al tempo stesso così arroganti ed ingenui da considerare il fenomeno migratorio come un semplice problema di sicurezza. A meno che il M5S non si rassegni a non avere voce e ruolo nell’affrontare il problema più rilevante dei prossimi decenni. A meno di non voler snaturare la nostra Costituzione che impone che un simile problema - che coinvolge il rispetto dei trattati internazionali e i futuri limiti della nostra stessa sovranità, e che minaccia la coesione sociale e la tenuta democratica del nostro paese - sia affrontato dal governo in termini collegiali e portato al confronto con le opposizioni in Parlamento. Immigrazione, costi e benefici: ecco il bilancio degli stranieri che vivono in Italia di Marco Maroni Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2018 Dal conto della gestione migranti alla spesa per i reclusi. Il saldo contabile è in pareggio, il 9% del Pil è prodotto dagli immigrati. 600mila gli imprenditori immigrati. E sulla necessità di stranieri per pagare le pensioni agli italiani, l’ufficio parlamentare di bilancio conferma la stima dell’Inps. Per il ministero dell’Economia nel 2018 la gestione dei migranti ci costerà 4,6 miliardi, l’Europa ne mette 80 milioni, ma ci “permette” di non contabilizzare le cifre nel deficit. Servono per i soccorsi in mare, accoglienza (compresi i 35 euro al giorno per i profughi), sanità, istruzione. Gli immigrati sono però anche una risorsa, lavorano, contribuiscono al reddito nazionale, pagano tasse e contributi. Se il saldo economico sia o no positivo, se i 5,5 milioni di stranieri facciano crescere l’economia o sottraggano lavoro agli italiani è il tema al centro del dibattito. Valore aggiunto. Dai circa 2,4 milioni di occupati stranieri, la fondazione Leone Moressa stima un apporto al Pil nel 2015 (ultimi dati disponibili) di 130 miliardi, quasi il 9%; per Confindustria sono 120. Mentre 5,5 miliardi sono le rimesse che mandano in contanti nei paesi d’origine, denaro quindi non speso in Italia. Oltre ai salariati ci sono gli imprenditori. Secondo Unioncamere sono 600mila e rappresentano il 42% dell’aumento delle imprese registrato in Italia nel 2017. Immigrati regolari, che pagano contributi e tasse: 7,2 miliardi solo di Irpef nel 2016. Gli irregolari, circa 500 mila (ammesso che non abbiano varcato le frontiere), sono per lo più un costo. Unico ricavo per lo Stato: le imposte indirette sui consumi. Salari e lavoro. Tre quarti di colf e badanti nelle case italiane sono stranieri: filippini, ucraini, peruviani. Per lo più regolari grazie alle sanatorie del 2008 e 2012. Non hanno portato via lavoro agli italiani, perché nonostante l’11% di disoccupazione (il 33% tra i giovani) sono posizioni poco richieste. Come non lo portano via gli stagionali semi-schiavi, in gran parte africani irregolari, che raccolgono pomodori nel Salento o nella Piana di Gioia Tauro, dove la disoccupazione giovanile supera il 50%. Che gli immigrati facciano “lavori che gli italiani non vogliono più fare”, o meglio che nessuno dovrebbe fare in quelle condizioni, è una realtà. “In Italia c’è il maggior numero di giovani Europei che non studia né lavora - spiega Felice Roberto Pizzuti, ordinario di Economia alla Sapienza - Il nostro sistema produttivo ha poca necessità di persone qualificate e così molti disoccupati, non trovando un lavoro all’altezza delle aspettative, non lo cercano più. Così abbiamo un tasso di attività di 10 punti più basso rispetto ai principali Paesi Ue. Con l’invecchiamento della popolazione gli immigrati sono necessari, ma causano un calmieramento dei salari, che è l’altra faccia della globalizzazione”. Pensioni. Ad avvertire che nei prossimi anni si avranno livelli più alti di spesa pensionistica sul Pil, causati dai previsti minori flussi migratori, è stato l’Ufficio parlamentare di bilancio, confermando quello che all’Inps dicono da tempo. Gli immigrati versano 8 miliardi di contributi annui e ne ricevono 3 in prestazioni: un saldo positivo di 5 miliardi. Per compensare il calo delle nascite, “la minaccia più grave al nostro sistema pensionistico”, per Inps servono i contributi di 140 mila immigrati in più ogni anno. O dovrebbero emigrare meno gli italiani: nel 2016 se ne sono andati in 115 mila. Il problema è che gli arrivi di stranieri sono in forte calo: 16mila sbarcati nel primo semestre 2018, contro i 76mila del primo semestre 2017, mentre il trend di emigrazione italiana non diminuisce. Se dovessero azzerarsi gli arrivi dall’estero, l’Inps calcola che nei prossimi 22 anni tra i 73 miliardi in meno di entrate e i 35 in meno di prestazioni, mancherebbero 38 miliardi. Col tempo i vantaggi tendono ad annullarsi: chi versa contributi oggi maturerà il diritto alla pensione, in buona parte dal 2060. E molti immigrati lasciano il Paese senza averlo maturato, regalando all’Inps 300 milioni all’anno. Carceri. Per il ministro Salvini ha poco senso “tenerli qua, pagandoli 300 euro al giorno”; propone di far scontare loro la pena nei Paesi d’origine. Al 31/05/2018, secondo il ministero della Giustizia, nelle carceri italiane ci sono 19.929 stranieri, il 34% dei detenuti. L’Associazione Antigone calcola un costo giornaliero di 137 euro pro capite, un miliardo l’anno, ma la spesa per l’80% è destinata ai costi del personale. Secondo il ministero (dati del 2013) lo Stato spende 9,26 euro al giorno per il mantenimento in senso stretto di ogni detenuto: fa 67,5 milioni l’anno per gli stranieri. Sanità. È la voce che fa la differenza. Uno studio di Itinerari Previdenziali la stima in 11 miliardi l’anno, cifra che da sola farebbe virare i conti al passivo. È ottenuta ripartendo il costo della sanità pubblica, 112 miliardi annui, su una quota stimata in 6 milioni di stranieri. Stime più accurate, comprese quelle dell’Istituto superiore di Sanità, dicono però che la percentuale di ricoveri e cure tra gli stranieri è circa la metà rispetto agli italiani. Dato confermato dal centro studi Eupolis della Regione Lombardia, che ha il maggior numero di immigrati. “A fronte di una spesa sanitaria regionale pro capite pari a 1.807 euro l’anno, quella per gli immigrati risulta essere quasi la metà”. A conti fatti, il saldo meramente economico dell’immigrazione può considerarsi in pareggio, compresi i costi dell’emergenza, a patto che immigrati continuino ad arrivarne. Quello che la contabilità fa più fatica a stimare è l’apporto in termini di forze di lavoro, la nuova imprenditorialità, valore aggiunto, senza la quale l’economia italiana sarebbe in una situazione peggiore. Come il solo pensare ai migranti incattivisce la gente: il solco tra realtà e percezioni di Gianluca Mercuri Corriere della Sera, 6 luglio 2018 Uno studio condotto ad Harvard ha intervistato 22.500 persone da sei Paesi, inclusa l’Italia: tutti sopravvalutano il numero di migranti, e credono che siano più poveri e meno istruiti di quanto sono in realtà. Realtà e percezione. Il dibattito sull’immigrazione ruota ovunque attorno a queste due parole, e alle domande che si portano dietro: quanti sono davvero i migranti? E chi sono? La centralità del tema è confermata da uno studio condotto per la Harvard University da ricercatori del livello di Alberto Alesina, Armando Miano e Stefanie Stantcheva, su un campione di 22.500 persone provenienti da Francia, Germania, Italia, Svezia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Ne risulta che gli interpellati percepiscono una presenza di migranti nettamente superiore alla realtà (come ha confermato il presidente dell’Inps Boeri nella sua polemica con il ministro Salvini); con l’eccezione dei francesi, sopravvalutano la percentuale di musulmani e sottovalutano quella di cristiani; tendono a considerare i migranti più poveri, meno istruiti e più dipendenti dall’assistenza sociale di quanto lo siano davvero. Non solo: quando le domande riguardano l’immigrazione, gli intervistati assumono immediatamente un atteggiamento “più ostile alla redistribuzione, danno meno peso al problema dell’ineguaglianza e fanno meno donazioni benefiche”. L’immigrazione, insomma, incattivisce la gente. Gli autori della ricerca ammoniscono che “i partiti contrari alla redistribuzione, anche quelli non ostili all’immigrazione, possono però usarla in funzione del loro primo obiettivo”. Per ora suona come un falso allarme: le destre populiste anti-migranti si piccano infatti di essere favorevoli alla redistribuzione (purché destinata ai nativi), mentre le destre tradizionali, contrarie alla redistribuzione, restano generalmente favorevoli all’immigrazione (se non altro perché fonte di manodopera a basso costo). Lo studio è dunque utile per come spiega l’intreccio di pregiudizi legati al tema migranti. La diffidenza atavica, millenaria, verso il diverso, è invece un aspetto altrettanto decisivo, da non sottovalutare mai: lo mettono in luce altri studi fondati su un approccio psico-sociologico. Stati Uniti. Alle minoranze pene più severe. Il (costoso) razzismo delle Corti federali di Emanuele Isonio valori.it, 6 luglio 2018 La retorica anti-immigrazione ha influito anche sulla giustizia Usa. A parità di reato, ispanici e neri ricevono condanne più dure. Un danno anche economico. “Equal Justice under law” è la frase che campeggia nel timpano della facciata della sede della Corte Suprema Usa. Ma un confronto tra la severità delle sentenze emesse contro i bianchi e contro le minoranze mette in serio dubbio l’esistenza di una “giustizia uguale in base alla legge” Sentenze sistematicamente più severe a parità di reato e di tipologia di autore del crimine, solo per l’appartenenza a un’etnia rispetto a un’altra. Un razzismo di Stato, che avviene nelle Corti federali statunitensi. Nel 21esimo secolo. E, almeno per il momento, le discriminazioni non sono legate alle politiche razziste di Donald Trump. Il fenomeno va avanti da ben più tempo. Decenni almeno. Ad acuire la disuguaglianza una data in particolare: l’11 settembre 2001. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, nelle Corti di giustizia federali statunitensi sono aumentate le condanne discriminatorie nei confronti delle minoranze, a partire da quelle comminate contro gli ispanici. Le sentenze contro queste categorie sono mediamente più elevate rispetto a quelle irrogate agli imputati di razza bianca. E poco importa evidentemente che gli ispanici nulla avessero a che fare con l’attentato della Grande Mela. Usa terra di carceri - A rivelare il fenomeno è una approfondita ricerca realizzata da Irman Rasul, professore di Economia all’University College di Londra e codirettore del Centro ESRC per le analisi microeconomiche delle politiche pubbliche presso l’Institute of Fiscal Studies. Gli Stati Uniti già brillano per il numero di cittadini finiti in carcere. Un quarto di tutti i detenuti del mondo è nelle galere a stelle e strisce (nonostante il Paese abbia appena il 5% della popolazione mondiale). Un numero impressionante se paragonato con altri Stati. 655 detenuti ogni 100mila abitanti. Il doppio del secondo in classifica (la Turchia) e del terzo (Israele). Sei volte più della Francia. Quasi 7 volte in più dell’Italia. Un gap di 5 mesi a parità di reato - Che, nella formazione di quel dato, alcune minoranze “contribuissero” di più è notizia sconcertante ma ormai nota. Un afroamericano su 9 fra i 20 e i 34 anni è attualmente in prigione. E uno su tre, nel corso della propria vita, finirà prima o poi in carcere. Gli ispanici hanno una probabilità di finire in carcere 4 volte maggiore rispetto ai bianchi. Inoltre, mediamente, gli statunitensi di razza bianca sono condannati a 41 mesi di carcere, gli ispanici a 42, i neri a 83 mesi. La novità dello studio dell’economista indiano è di aver paragonato reati simili commessi da imputati simili. “Abbiamo paragonato le sentenze emesse contro imputati simili per età, tipo di reati e storia penale” ha spiegato l’economista intervenendo al 13° Festival dell’Economia di Trento. “È emerso che subito dopo gli attentati aerei di New York nel 2001, il gap dei mesi di condanna tra ispanici e bianchi, che già era di 4 mesi, è salito a 5 mesi”. Razzismo giudiziario, quanto mi costi? - Il problema non ha solo risvolti di giustizia ed equità. A voler essere cinici e avidi, c’è anche un importante riflesso economico. La discriminazione ha un costo annuale enorme, se si calcola che la maggior parte della popolazione carceraria statunitense è composta da minoranze etniche. “Il costo per mantenere un detenuto in carcere è di 29mila dollari l’anno. Se considerate che il 40% degli imputati nelle corti federali è ispanico, l’aumento di spesa per il budget federale è decisamente rilevante”, osserva Rasul. C’è poi da considerare il danno al Pil globale dettato dal fatto che ciascun condannato, una volta terminato di scontare la propria pena, ha comunque difficoltà a reinserirsi nella società. E questo è un costo per la collettività che l’economista dell’UCL stima fra 36 e 42mila dollari. Corti federali, la créme della giustizia Usa - L’aspetto allarmante, secondo Rasul, è che la retorica politica, le campagne di violenza verbale e la prevenzione verso le minoranze hanno influenzato anche i giudici delle corti federali che rappresentano (o quantomeno dovrebbero rappresentare) l’eccellenza della giustizia statunitense: “Negli Usa ci sono appena 90 corti federali e 700 giudici che vengono nominati a vita su scelta del Presidente degli Stati Uniti dopo conferma del Congresso. Dovrebbero quindi essere immuni da queste influenze”. Eppure questo non accade. “Lo dimostra anche - ha concluso Rasul - il fatto che nelle corti dove ci sono più giudici non bianchi, il tasso di disparità e di maggiore severità delle pene per le minoranze si riduce. L’etnia quindi entra nel sistema giudiziario”. Cosa si può fare? Tre i suggerimenti proposti dall’economista: “Educare i giudici rendendoli consapevoli del fenomeno. Monitorare le loro sentenze, chiedendo che giustifichino in misura maggiore le loro decisioni. Cambiare i criteri di selezione, affinché si arrivino a includere di più esponenti delle minoranze”. Giappone. Impiccati i 7 componenti del gruppo che provocò una strage nella metropolitana Corriere della Sera, 6 luglio 2018 Tra questi Shoko Asahara, il fondatore del culto Aim Shinrikyo responsabile degli attacchi compiuti nella metropolitana di Tokyo nel 1995 col gas sarin. Shoko Asahara, fondatore e leader del cult Aim Shinrikyo, responsabile degli attacchi compiuti nella metropolitana di Tokyo nel 1995 col gas sarin, è stato giustiziato lo scorso venerdì, tramite impiccagione. Il 63enne Asahara, il cui vero nome era Chizuo Matsumoto, è il primo ad essere giustiziato di 13 persone, legate a una serie di crimini commessi dal culto della “Verità suprema” che idealizzava la fine del mondo. Con lui sono stati giustiziati altri sei responsabili dell’attacco. Lo riportano i media locali giapponesi. La vicenda - Asahara era stato arrestato nel maggio del 1995, due mesi dopo l’attacco del 20 marzo compiuto nella metropolitana di Tokyo, che aveva provocato 13 morti e coinvolto almeno 6.200 persone. Inizialmente Asahara aveva negato di aver architettato l’operazione, ma durante il processo del 2004 ha ammesso di meritare la condanna per aver pianificato l’esecuzione dell’attacco. La sua condanna a morte era stata decisa definitivamente nel 2006. Le udienze dei membri del culto Aum Shinrikyo sono andate avanti per oltre 20 anni nelle aule dei tribunali giapponesi, con quasi 200 incriminazioni e 12 condanne a morte. Etiopia. Scandalo torture in carcere: licenziati 5 funzionari di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 6 luglio 2018 Il governo dell’Etiopia ha rimosso dal loro incarico cinque alti funzionari responsabili degli istituti penitenziari dopo la pubblicazione di un rapporto di Human Rights Watch (Hrw) che accusa le forze di sicurezza di aver torturato e violentato diversi prigionieri sospettati di appartenere al Fronte di liberazione nazionale dell’Ogaden (Onlf), gruppo separatista ribelle attivo nell’est dell’Etiopia. La notizia è stata data dall’emittente televisiva “Fana”, secondo cui fra i funzionari rimossi dall’incarico c’è anche il direttore dell’amministrazione penitenziaria federale. Il rapporto di Human Rights Watch si basa su quasi 100 interviste. “Non possiamo descrivere in maniera abbastanza efficace il livello di torture e abusi commessi”, ha dichiarato il ricercatore di Hrw, Felix Horne, che ha chiesto al nuovo primo ministro etiope Abiy Ahmed, che si è insediato nel mese di aprile, di “mostrare la sua determinazione a porre fine alla tortura e all’impunità. Questa orribile situazione richiede immediatamente un’indagine trasparente sulle azioni del presidente regionale, quelle di altri funzionari della regione somala e della polizia”, ha detto Horne. I difensori dei diritti umani hanno per anni accusato le forze di sicurezza etiopi di abusi, principalmente contro i gruppi ribelli che combattono la coalizione di governo, il Fronte democratico rivoluzionario etiope (Eprdf). Non appena entrato in carica, Ahmed ha cercato di mettere fine alle insurrezioni dei gruppi separatisti e alle violazioni dei diritti fondamentali, disponendo il rilascio di migliaia di prigionieri politici, riconoscendo le pratiche di tortura eseguite nelle carceri del paese e annunciando l’intenzione di porvi fine. Il mese scorso, inoltre, le autorità etiopi hanno rilasciato il leader dell’Onlf, Abdikarim Muse, detenuto da circa un anno.