41bis: altro che “privilegiati”… sono esclusi da tutti i benefici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 luglio 2018 È concesso solo il “permesso di necessità” nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare. A piede libero, godono dei privilegi rispetto ai detenuti comuni, eludono la sorveglianza, possono uscire quando gli pare per andare a trovare i famigliari. È questa la situazione idilliaca di chi vive in 41bis secondo un articolo de L’Espresso, nel quale si sottolinea che sempre più spesso i boss reclusi al carcere duro tornano a casa. Ma è vero - come dice l’Espresso - che ai detenuti reclusi al 41bis viene concesso facilmente un permesso? Assolutamente no. Il regime del carcere duro esclude a priori qualsiasi tipo di beneficio che è invece appannaggio dei carcerati “classici”, tipo la possibilità di accedere agli arresti domiciliari, semilibertà, permessi o possibilità di lavorare all’esterno del carcere. L’unico permesso concesso - non in automatico - dal magistrato di sorveglianza è speciale. Si tratta del “permesso di necessità” ed è contemplato dall’articolo 30 dell’ordinamento penitenziario, il quale recita che “nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo”. Permessi che vengono eseguiti con tanto di capillare controllo e scorta da parte della polizia penitenziaria. Inoltre tali permessi non vengono concessi in automatico e sono innumerevoli i casi di richieste respinte. L’articolo in questione parla anche di alcuni tentativi di eludere il controllo. Cita un esempio: una sim cucita all’interno dell’elastico dei boxer, il micro telefono nascosto all’interno di un pacchetto (sigillato) di sigarette e il carica batterie in un doppio fondo della bomboletta, sotto la schiuma da barba. Questo è stato il tentativo di elusione da parte di un boss. Ma, appunto, parliamo di un tentativo, perché era stato preventivamente perquisito. E questo grazie all’ottimo lavoro del Gruppo Operativo Mobile, un reparto speciale della polizia penitenziaria che ha esattamente questa funzione: evitare che i detenuti al 41bis possano eludere la sorveglianza. La realtà è che il 41bis non è mai stato alleggerito da quando fu istituito. Ma non solo. Inizialmente doveva avere, appunto, un’unica finalità: recidere i contatti esterni con le rispettive organizzazioni mafiose. Con il tempo è stato modificato imponendo altre misure restrittive e criticate per la loro eccessiva durezza non solo dalla scorsa Commissione dei diritti umani presieduta da Luigi Manconi, ma anche da organismi internazionali come il Comitato Onu contro la tortura. È recente la sua critica per quanto riguarda il nostro sistema detentivo, in particolare l’applicazione del carcere duro. Ha sollevato dubbi, ad esempio, sul fatto che un detenuto possa essere sottoposto al 41bis anche per vent’anni, nonché sull’eccessivo isolamento in cui vengono posti. D’altronde esistono casi di ultranovantenni al carcere duro. All’istituto penitenziario di Parma ce ne sono diversi, pur soffrendo di gravi patologie legate alla loro età come l’Alzheimer. C’è perfino un super 41bis, ovvero l’area riservata dove la pena si raddoppia e ci rimette anche il compagno d’ora d’aria non raggiunto da un ulteriore inasprimento. Il 41bis è già duro, se si vuole raggiungere la sicurezza al cento per cento, dovrebbero sigillare la cella e togliere tutto, compreso le visite. A quel punto interverrebbe la Corte europea per la violazione dei diritti umani. In aumento i detenuti e anche i bambini in cella Il Dubbio, 5 luglio 2018 Al 30 giugno del 2018 ce ne sono 8.127 in più rispetto ai posti disponibili e i piccoli sono 68. Avanza inesorabilmente il sovraffollamento e anche il numero dei bimbi dietro le sbarre. Al 30 giugno del 2018, secondo i dati messi a disposizione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, siamo giunti a 58.759 detenuti su un totale di 50.632 posti ufficialmente disponibili. Questo vuol dire che risultano 8.127 detenuti in più. Basti pensare che il mese di maggio, invece, risultavano 7.954 reclusi in più: ciò vuol dire che a giugno c’è stato un aumento di 173 detenuti. I numeri del sovraffollamento risulterebbero addirittura maggiori se venissero prese in considerazione l’esistenza di celle ancora inagibili, le quali sono stimate intorno alle 5.000. Il sovraffollamento quindi non è destinato a diminuire nonostante che nel passato, grazie a diverse misure adottate dopo la sentenza Torreggiani, si sia ridimensionato. A tal proposito bisogna andare a vedere cosa dice l’ultima relazione del Garante nazionale delle persone private delle libertà Mauro Palma. Il Garante non ha potuto non fare riferimento alla riforma dell’ordinamento penitenziario - non più portata a termine da governo precedente - le cui radici culturali e giuridiche si posano sugli obblighi a cui la Corte di Strasburgo ha richiamato l’Italia, nel tempo, dalla sentenza Sulejmanovic c. Italia del 2009 fino a quella “pilota” Torreggiani e altri contro Italia dell’ 8 gennaio 2013: obblighi che imponevano al nostro Paese non soltanto di superare il problema del sovraffollamento degli Istituti penitenziari, ma anche di rimodulare l’esecuzione della pena in carcere in termini congruenti a tutti i parametri che integrano l’osservanza dell’articolo 3 della Convenzione, nonché di prevedere forme di rimedi interni, preventivo e compensativo. Si sottolinea che il Consiglio d’Europa aveva riconosciuto il lavoro fatto dal Paese per rispondere adeguatamente a tali richieste e ha conseguentemente chiuso il caso l’ 8 marzo 2016. Da qui però la necessità di superare le criticità adeguando l’ordinamento penitenziario al dettato costituzionale e alla convenzione europea. Con i provvedimenti adottati in conseguenza di quella sentenza “pilota” i numeri sono consistentemente calati, fino a giungere a 52.434 in ottobre 2015, per poi però riprendere la via dell’aumento, più lento, ma apparentemente inesorabile e del tutto non connesso ai numeri che indicano una riduzione dei reati denunciati. Aumentano anche i bambini dietro le sbarre. Al 30 giugno, sempre secondo i dati del Dap, siamo giunti a 68 bimbi al seguito. Il mese di maggio ce ne erano 67, ma ad aprile ne risultavano 66 bambini. Il trend risulta in crescita: basti pensare che a dicembre ce ne erano 56, mentre a novembre erano 58. Non mancano quindi i casi limite come ha recentemente denunciato l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini: nel carcere siciliano di Agrigento c’è una bimba di un anno che vive in un ambiente fatiscente, acqua fredda per lavarla e continue punture di zanzare. Sui numeri dei bimbi dietro le sbarre va comunque fatta una precisazione che viene ben spiegata sempre dalla relazione del Garante nazionale. Sul numero totale dei bimbi, va detto che - ci riferiamo ai dati di aprile - i bambini sotto i tre anni ristretti all’interno di Istituti di pena - in aree denominate “sezioni nido” - sono 27 (con 24 mamme); i bimbi possono restare con le madri fino all’età di 3 anni. Nei cinque Icam (degli istituti a custodia attenuata per le mamme detenute) attivi ve ne sono 39 (con 32 mamme); qui si può restare fino ai 6 anni. I cinque Icam sono a Torino, Milano, Venezia, Cagliari e Lauro (Avellino). Rimangono comunque degli istituti di detenzione, mentre viene auspicato il ricorso alle case famiglia, come quella recentemente aperta a Roma. Resta il fatto che la presenza di infanti che trascorrono i primi mesi se non anni della propria vita, proprio i più decisivi per la formazione, in un contesto come quello del carcere rappresenta un grave problema ancora irrisolto. Un robot al posto del giudice? In Italia un clic potrebbe risolvere milioni di processi di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 5 luglio 2018 Ma l’errore dell’automa è meno accettabile di quello umano. La rivoluzione robotica supera la frontiera delle attività intellettuali, a torto considerata inespugnabile, e irrompe nelle funzioni vitali della democrazia. I robot possono pronunciare sentenze sulle controversie tra uomini, come, se non meglio, di giudici professionali? Tecnicamente, sì. Grazie alla prevedibilità dei comportamenti umani, alla serialità della casistica giudiziaria e alla combinazione algoritmica dei precedenti. Filosoficamente, la questione è controversa. Non a caso l’annuale convegno promosso dal giurista Natalino Irti e ospitato oggi dall’Accademia dei lincei ha un titolo in chiaroscuro: “La decisione robotica: premesse, potenzialità, incognite”. Nell’Italia malata di denegata giustizia la suggestione è forte: milioni di processi arretrati risolti con un clic. Non è chiaro a che prezzo. I cittadini si sentirebbero più garantiti dai robot o da certi pm? Chi governerebbe database e algoritmi? Chi si assumerebbe la responsabilità delle sentenze? Il robot sarebbe conservatore o asseconderebbe l’evoluzione della società? Tutelerebbe i diritti dei più forti o dei più deboli? Dubbi accresciuti dal capitalismo delle piattaforme che “per la prima volta nella storia - sostengono i giuristi Ugo Mattei e Alessandra Quarta in “Punto di svolta” (Aboca) - è riuscito a reperire un’altra classe di professionisti, tecnologi e codificatori, in grado di sostituire i giuristi (...) in settori in cui l’innovazione tecnologica può produrre disuguaglianze nuove e inattese”. L’uso dell’intelligenza artificiale in campo giuridico conosce già esperimenti. Il sito www.wevorce.com promette risparmio di tempo e denaro alle coppie in crisi: compili un modulo, al resto ci pensa il computer. Un algoritmo prevede l’esito del divorzio, stabilisce la soluzione ottimale per i figli, pianifica l’assetto patrimoniale e prepara i documenti. Tutto per 949 dollari, almeno dieci volte meno del costo della procedura tradizionale. La Ibm ha lanciato il progetto Watson, con l’obiettivo di creare un “sistema cognitivo computerizzato “ anche per le controversie giudiziarie. Nei prossimi dieci anni l’attività di ricerca per istruire un processo sarà semplificata. E il libero convincimento del giudice, il sottile equilibrio tra rigore formale ed equità sostanziale? “Certamente Watson ci renderà giuristi più informati, ma non necessariamente migliori “, ha detto Jordan Furlong in un dibattito pubblicato sulla rivista della facoltà di Legge della Queen’s University di Kingston, Canada. In New Jersey la decisione sulla libertà su cauzione è affidata a un algoritmo che prevede il comportamento dell’imputato, se scarcerato. I critici rilevano che l’algoritmo incorpora i pregiudizi razziali. Non meno dei giudici umani, obiettano i sostenitori dell’esperimento. Ironie e sollievo hanno salutato gli incidenti in cui sono incorse le prime auto senza guidatore. L’errore robotico è meno accettabile di quello umano, peraltro emendabile da un superiore tribunale. Un robot avrebbe condannato o assolto Enzo Tortora? E se il robot sbaglia sentenza che si fa: si cambia algoritmo? Domande che interrogano le più diverse discipline. E tutti noi, prima o poi. Solo il dialogo corretto tra giornalisti e giudici produce buona informazione senza teatralità di Giuseppe Legato La Stampa, 5 luglio 2018 Il Csm emetterà una risoluzione sul rapporto tra media e giustizia. Come cercare un corretto rapporto tra giustizia e informazione? Come trovare un punto di equilibrio tra istanze diverse eppure legittime? Se n’è discusso per quasi due ore ieri, nell’aula 6 di Palazzo di Giustizia tra il procuratore Armando Spataro, il direttore della Stampa Maurizio Molinari e la presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati Michela Malerba. L’uditorio era composto in larga parte da giovani tirocinanti di magistratura. Il Csm Un tema talmente centrale “che - ha spiegato Spataro - il Csm lo ha messo a fuoco e ne ha recentemente discusso. Ed è probabile che a breve esca una risoluzione sul rapporto tra le procure e il mondo dell’informazione”. Parole d’ordine? “Rispetto e dialogo”. Con paletti precisi e con la prudenza di evitare quelli che Molinari ha definito pericolosi “cortocircuiti”. Quale soluzione? “Indipendentemente da quello che scriverà il Csm - ha detto il procuratore - sono abbastanza convinto che abbiamo possibilità di interventi per venire incontro alle attese dei giornalisti. Perché ad esempio un articolo del codice di procedura penale, in un’interpretazione ampia, autorizza chiunque abbia interesse a chiedere al pm che procede o al giudice che ha emesso la sentenza la copia degli atti che sono ormai ostensibili”. C’è un problema sulla velocità di acquisizione che non si sposa affatto con le tempistiche dei quotidiani “ma questo - ha aggiunto Spataro - consentirebbe al giornalista di accedere alla fonte reale”. I comunicati stampa La procura di Torino ha varato il sistema del comunicato stampa: “garantisce sobrietà e assenza di teatralità”. “È utile - ha sottolineato Molinari - perché consente alla catena di comando di un giornale di capire se la navigazione intrapresa è corretta”. Utile “ma che diventa ostacolo se è unica fonte”. E se Spataro - come ha detto in più occasioni - non accetta la progressiva convinzione di alcuni magistrati di essere storici e moralizzatori, perché “È uno stravolgimento del nostro ruolo”, resta salda e condivisa dai relatori la necessità di un rispetto reciproco tra i due mondi. “L’obiettivo del giornalista - afferma Molinari - è avere un dialogo con un magistrato. È un interesse oggettivo avere un rapporto fondato sul rispetto che si deve basare sulla conoscenza reciproca del lavoro di entrambi e delle chiavi di lettura e delle priorità di cui ognuno è portatore”. “Nessuno - ha aggiunto Molinari rivolgendosi ai tirocinanti - è obbligato ad avere a che fare con un giornalista, ma c’è un’altra strada. E cioè pensare che è importante che vengano divulgate notizie fondate perché questo rientra nel novero dell’utilità collettiva. A quel punto però bisogna essere umili e spiegare le cose. Un giornalista allora vi ascolterà”. Segreto investigativo Il tema delicato è tutto sulla violazione del segreto investigativo su cui a Torino, negli ultimi mesi, si è dibattuto a lungo. Inaccettabile “se pregiudica le indagini” per Spataro. Una violazione grave anche per Molinari “se volontaria e fatta con la consapevolezza del danno”. Il procuratore ha richiamato la necessità che siano gli stessi giornalisti, “ai quali nessuno può imporre cosa scrivere”, a interrogarsi “come è avvenuto in passato nella mia esperienza a Milano - ha detto - quando alcuni giornalisti furono i primi a chiedersi se la notizia andasse data o no”. “Se il pm non può appellare, il danno è per le vittime” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2018 Il procuratore Menditto “La riforma prevede che in caso di condanna l’accusa non possa ricorrere. Così si impedisce un riesame complessivo”. C’è una riforma, entrata in vigore il 6 marzo 2018, che piace moltissimo agli avvocati ma che sta facendo infuriare le Procure d’Italia. Riguarda il divieto per i pubblici ministeri di proporre appello, per ottenere una pena più severa, se un imputato viene condannato in primo grado. Divieto che vale anche se c’è un’impugnazione del verdetto da parte dell’imputato, che così non rischia proprio nulla a rivolgersi alla Corte d’appello, anzi: male che vada la pena resta identica, bene che vada ottiene uno sconto oppure riesce a guadagnare (spesso) la salvifica prescrizione. L’Anm, insieme alla riforma della prescrizione e delle intercettazioni, l’ha messa nel “paniere” delle richieste di modifica quando il presidente Francesco Minisci ha incontrato ufficialmente il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Ha colpito un comunicato stampa recente del procuratore di Tivoli (Roma) Francesco Menditto, che rende l’idea di come questa riforma penda a favore unicamente della difesa, senza, per esempio, pensare alle vittime. L’11 giugno, Menditto faceva sapere che la Cassazione, tre giorni prima, aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto da due imputati che erano stati condannati all’ergastolo dalla Corte d’appello di Roma per l’omicidio del dottor Lucio Giacomini, nel 2015, ed era stata riconosciuta l’aggravante della crudeltà, così come chiesto dalla Procura di Tivoli. In primo grado, erano stati inflitti 30 e 25 anni di pena. Un comunicato per evidenziare implicitamente che se la sentenza di condanna di primo grado fosse intervenuta dopo la riforma Orlando non sarebbe stata consentita l’impugnazione della procura e la sentenza di primo grado non sarebbe stata modificabile per legge. Il procuratore Menditto da pm pone l’accento sulle conseguenze di questa riforma: “La riforma delle impugnazioni spunta le armi al pubblico ministero. Mi spiego: se il tribunale condanna un imputato, il pm non può più appellare la sentenza, neanche se ritiene la pena troppo bassa o se sono state concesse attenuanti che fanno ridurre considerevolmente la pena; l’appello è consentito in casi residuali. La nostra esperienza, e quella di tante procure, dimostra che l’appello del pm consente di ottenere una pena maggiore di quella inflitta nel processo di primo grado, perciò considerata dai giudici d’appello giusta. Ancora, se l’imputato è condannato ma il Tribunale non confisca i beni, magari del valore di milioni di euro, il pm non può appellare, e sappiamo che spesso la confisca è più temuta della condanna”. Ma anche prima, senza il cosiddetto appello incidentale del pm, c’era il divieto di aumentare la pena in appello (divieto di reformatio in peius), che non c’è in altri Paesi… È vero, ma personalmente per me può anche tornare in vigore il divieto di reformatio in peius nei termini descritti, ma solo se il pm può presentare il ricorso incidentale. In caso di condanna in primo grado ora cosa può fare il pm? Con la riforma, ormai, in caso di condanna può appellare solo l’imputato, che conseguentemente, può ottenere esclusivamente uno sconto di pena. Il pm può presentare ricorso per Cassazione per motivi limitati (violazione di legge, difetto di motivazione), ma è impedito un riesame complessivo del caso. Qualcuno può obiettare che è una riforma giustamente garantista. In fondo si tratta di un divieto per il pm ma solo se l’imputato è condannato… Le garanzie sono un bene primario che appartengono a tutti e vanno rispettate e incrementate se necessario, ma non si può guardare solo alle garanzie dell’imputato, hanno pari dignità quelle delle persone offese, di cui non si parla molto, e occorre un’effettiva parità delle armi nel processo. Si deve consentire al pm di svolgere fino in fondo il proprio ruolo. In che senso? L’appello del pm, come avveniva prima della riforma, consentiva semplicemente il riesame integrale del caso innanzi a un altro giudice, la Corte d’appello, che stabiliva, nel caso di condanna, la pena giusta. Ci tengo a dire che non è in discussione il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, ma questo viene dopo la condanna. Prima bisogna stabilire quale sia la pena giusta, nel caso di una condanna, ma questa riforma crea degli ostacoli che prima non c’erano. Incentiva ancora di più gli appelli pretestuosi, solo per arrivare alla prescrizione? Non mi piace parlare di appelli pretestuosi, ma certamente uno dei punti di sofferenza più profondi del processo penale è la prescrizione che interrompe il processo evitando una decisione sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato. Una sentenza nel merito è un valore per uno stato di diritto perché un giudice decide senza ambiguità se l’imputato deve essere condannato o assolto. I crimini di Occhipinti e il senso della giusta pena di Alessandro Moscatelli* Corriere di Bologna, 5 luglio 2018 Si scrive e si discute sul fatto che in casi come quello di Marino Occhipinti lo Stato abbia perso: “Deve scontare la pena sino alla fine dei suoi giorni”, “Non vi è possibilità d’uscita dal carcere per chi ha commesso reati brutali ed odiosi”. L’imbarbarimento dei commenti travolge ormai da anni anche la giustizia. Sulla base di quanto si apprende da fonti giornalistiche, l’ordinanza con la quale il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ha rimesso in libertà il condannato Marino Occhipinti, rispecchia invece pienamente la funzione poliedrica che la pena riveste nel nostro ordinamento giuridico. Non si dimentichi mai che, come stabilisce la stessa Costituzione, la pena non dovrebbe costituire una semplice reazione sanzionatoria di carattere retributivo e con efficacia deterrente, ma dovrebbe tendere alla rieducazione del condannato. Dopo il comportamento deviante, il cittadino deve e sottolineo deve, essere messo nelle condizioni di rielaborare in chiave critica il proprio vissuto criminoso e di intraprendere un percorso di risocializzazione che potrebbe anche concludersi, come in questo caso, con l’abbandono definitivo del carcere. Questo significa rieducare il condannato. Se lo Stato, come nel caso di Occhipinti che ha scontato ventuno anni di carcere, riesce in questo disegno, allora significa che la pena ha pienamente raggiunto il suo scopo e che lo Stato ha ben operato. Un principio quello rieducativo che è stato il frutto, dopo il ventennio fascista, di un faticoso cammino all’interno dell’Assemblea Costituente. La mera detenzione, svincolata da un serio percorso di autentica rieducazione, rappresenta invece la vera sconfitta per la giustizia penale, come dimostra il grave tasso di recidiva dei soggetti che tornano in libertà dopo aver scontato la pena. A destare grande preoccupazione e allarme sociale, allora, dovrebbe essere non tanto la liberazione di un condannato che ha concluso positivamente un lungo percorso di rieducazione, bensì il fine pena e la rimessione in libertà di quei soggetti che invece questo percorso non l’hanno neppure intrapreso e che quindi ricadranno, purtroppo con una certa probabilità statistica, nell’illecito penale. Esiste poi il tema delicatissimo e spinoso del perdono che riguarda la sfera etica e personale diversa dall’ambito giuridico e giudiziario. Chiedere ai congiunti delle vittime di reati odiosi ed efferati come quelli commessi da Occhipinti la condivisione di decisioni come quelle del Tribunale di Venezia non ha senso, il perdono fa parte di un ambito umano, personalissimo, interiore e per chi crede anche religioso. Sentir dire che in un caso come quello di Occhipinti lo Stato ha perso, è il segno dei tempi. Tempi nei quali è lo stomaco a governare i commenti sulla giustizia. Lo Stato in questo caso ha vinto e va scritto. *Avvocato L’ex Uno Bianca e la sua “guida”: comprendiamo i familiari di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 5 luglio 2018 “Rispondere al male con altro male non serve a nulla”. Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti del carcere di Padova, cita la parole dell’ex magistrato Gherardo Colombo per parlare di Marino Occhipinti e della sua riabilitazione che gli ha permesso di tornare libero dopo 24 anni di carcere. Favero è una delle persone che più hanno seguito da vicino il percorso di ravvedimento dell’ex killer in divisa della Uno Bianca in questi anni dietro le sbarre. “Comprendo la protesta dei familiari delle vittime - spiega, ma bisogna dare una valutazione obiettiva di cosa significhino 20 o 25 anni di carcere. Dico sempre ai ragazzi nelle scuole “prendete il giorno più brutto della vostra vita e moltiplicatelo per 25 anni”. Non è come se fossero 25 anni della nostra vita fuori, piena di cose che possono succedere. In carcere no, tutto diventa un’eternità, sai già cosa ti succederà tra dieci o venti anni”. Per questo, spiega, un magistrato come Gherardo Colombo, “che ha fatto condannare persone a migliaia di anni di carcere oggi ha scritto un libro (Il perdono responsabile, ndr) in cui riflette sul fatto che forse il carcere com’è oggi non serve a nulla”. Eppure in molti, a partire dai familiari delle vittime della banda della Uno Bianca, continuano a non credere che quello di Occhipinti sia un vero pentimento. “Ci sono detenuti - prosegue Favero - che si avvicinano alla redazione in maniera strumentale, perché aspirano alla libertà, ma sarebbe disumano se non fosse così. Lo diceva anche Aldo Moro che l’essenza dell’uomo è la libertà. Ma a me non interessa, anche se per Occhipinti all’inizio fosse stato così, perché frequentando la redazione si entra in contatto con tantissime vittime di reati e anche per Marino è stato sconvolgente, una presa di coscienza difficile, vedere il male che hai fatto ti costringe a una riflessione. Marino è stato una colonna portante, sempre attento agli altri e mai prepotente”. Come Occhipinti anche Alberto, il più giovane dei fratelli Savi, ha iniziato un percorso di ravvedimento nel carcere di Padova e ha già ottenuto permessi, presto potrebbe chiedere di accedere alla semilibertà. Roberto, invece, il maggiore dei Savi, è l’unico a non aver mai fatto istanza per permessi e benefici, “pur avendo maturato gli anni di pena necessari - spiega il suo legale Donatella De Girolamo. Ma non me l’ha mai chiesto, non so se per una scelta personale o di rispetto per le vittime”. Così le interdittive diventano armi di distruzione di massa di Simona Musco Il Dubbio, 5 luglio 2018 La lettera di un imprenditore calabrese fermato per presunte “amicizie pericolose”. “La mia è una guerra contro chi queste cose le fa più per mestiere che per giustizia”. A parlare è Alfonso Pancanno, titolare della Panges, azienda di prefabbricati attiva in Calabria dal 1978 e ora al collasso dopo due interdittive antimafia. “Queste cose”, appunto, delle quali l’imprenditore ha parlato in una lettera indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e che nel nome della sacrosanta lotta alla criminalità organizzata rischiano di trascinare nel fango anche le imprese sane. “Quotidianamente, decine di imprese ed aziende cadono sotto la falce delle interdittive antimafia - scrive Pancanno, strumento valido ed eccezionale, se usato con doverosa cura, ma che, invece, se utilizzato con poca attenzione, in via generalista, sortisce l’effetto opposto, al pari di un’arma di distruzione di massa, che sta distruggendo un intero tessuto aziendale”. La situazione della Panges è oggi difficilissima, al punto che il titolare dell’azienda ha chiesto allo Stato, per evitare di mandare a casa i propri dipendenti, l’applicazione di un controllo giudiziario. “Avevo 20 operai, ora ne ho otto e sono passato da un fatturato di 8 milioni a 500mila euro - spiega -. Ho chiesto più volte di essere ricevuto dalla Prefettura per rivalutare le circostanze alla base dell’interdittiva, visto che la Finanza non ha rilevato situazioni anomale. Ma non mi hanno mai risposto. Roba da suicidio”. L’ultimo capitolo di questa storia è la revoca di un finanziamento di circa 880mila euro concesso dal Mise nel 2015 per la realizzazione di una centrale di betonaggio con impianto fotovoltaico, opera realizzata e ispezionata da funzionari del ministero, che aveva precedentemente chiesto alla Prefettura di Reggio Calabria le certificazioni antimafia necessarie. Ma la Prefettura, che avrebbe dovuto rispondere entro 15 giorni, ha emesso l’interdittiva soltanto un anno dopo la richiesta. Un tempo lunghissimo, che però non ha impedito al ministero di chiedere indietro tutto il malloppo - che Pancanno aveva in parte già restituito, maggiorato però di interessi e mora. Illegittimamente, secondo l’imprenditore. “Se così non fosse - aggiunge -, si lascerebbe al ministero la facoltà di revocare le agevolazioni, in qualsivoglia momento, anche a distanza di vent’anni rendendo, così, la clausola di risoluzione del contratto assolutamente aleatoria”. Ma anche tutte le imprese con cui la Panges aveva rapporti contrattuali hanno presentato richiesta di risoluzione contrattuale e applicazione della penale del 10 per cento. L’interdittiva ha quindi portato Pancanno al fallimento: pur non avendo rapporti diretti con la pubblica amministrazione e producendo beni di uso comune, gli stessi sono utilizzabili soltanto per le grandi opere. E chiuse le porte del pubblico, l’unica alternativa è mollare tutto. Ma torniamo alle interdittive. Perché quella del 2015, in realtà, altro non è se non una riedizione di un’altra informativa risalente al 2009, annullata poi definitivamente dai giudici amministrativi. La Prefettura contestava, in sostanza, frequentazioni “con qualificati esponenti della criminalità organizzata”, portando Pancanno alla perdita di tutte le commesse e al pagamento di penali che lo avevano già spinto sull’orlo del fallimento. Ma quelle frequentazioni sono state derubricate dal Tar a “normali rapporti d’affari tra un venditore e il suo cliente”. Insomma: l’imprenditore vendeva materiale a chi lo richiedeva, non potendo dunque fare discriminazioni tra un acquirente e l’altro. “Per essere rilevanti - si legge nella sentenza -, le frequentazioni devono essere reiterate, o comunque ripetute, costanti, non meramente occasionali, e dunque significative di una affettività ed una comunanza di interessi che le renda veicolo o manifestazione della sussistenza di un effettivo legame interpersonale”. E devono, in ogni caso, avere connotati illeciti. Circostanze che, si legge nella decisione, non sussistevano nel caso di Pancanno. Ma ciò non è bastato: nonostante la seconda interdittiva sia identica alla prima, sia il Tar sia il Consiglio di Stato hanno respinto il ricorso. Quest’ultimo contraddicendo le sue stesse affermazioni, quando in sede cautelare aveva confermato che dalla nuova istruttoria della Prefettura non erano emersi “nuovi indizi precisi e concordanti” a sostegno del pericolo di infiltrazione mafiosa. Insomma, l’interdittiva, nel caso di Pancanno, “ha avuto un carattere definitivo e non temporaneo”. Da qui l’appello di Pancanno a Conte per salvare il “fragile tessuto imprenditoriale” calabrese, costretto a lottare non solo contro la malavita, ma anche contro lo Stato che, mentre combatte la criminalità, applica “indiscriminatamente i validi strumenti di legge contro tutte le imprese che hanno la sola “colpa” di essere accomunate da un unico fattore: “la meridionalità”“. Considerata, dunque, “sinonimo di delinquenza”. Al via la sperimentazione del Taser: in dotazione alle forze dell’ordine di 11 città italiane Corriere della Sera, 5 luglio 2018 “È un’arma di dissuasione non letale - ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini - ed il suo utilizzo è un importante deterrente”. È stato firmato oggi il decreto che dà il via alla sperimentazione del Taser, la pistola elettrica che sarà data in dotazione alle forze dell’ordine. Sarà usato inizialmente in 11 città: Milano, Napoli, Torino, Bologna, Firenze, Palermo, Catania, Padova, Caserta, Reggio Emilia e Brindisi. “È un’arma di dissuasione non letale - ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini - ed il suo utilizzo è un importante deterrente soprattutto per gli operatori della sicurezza che pattugliano le strade e possono trovarsi in situazioni border line”. La fase di test - La sperimentazione sarà affidata alla Polizia di Stato, all’Arma dei carabinieri e alla Guardia di finanza. I dispositivi da acquistare per ora sono trenta. La fase sperimentale seguirà un disciplinare che un apposito gruppo interforze sta mettendo a punto e sulla base del quale saranno formati le donne e gli uomini delle forze dell’ordine coinvolti nella prima fase di utilizzo. Salvini: “Un valido supporto” - È una misura di deterrenza, ha spiegato Salvini, che “può risultare più efficace e soprattutto può ridurre i rischi per l’incolumità personale degli agenti. Credo che la pistola elettrica sia un valido supporto, come dimostra l’esperienza di molti paesi avanzati, tra cui gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e la Svizzera”. I precedenti - Il Taser è in dotazione alle forze di polizia di circa 107 Paesi, tra cui Canada, Brasile, Australia, Nuova Zelanda, Kenya e in Europa in Finlandia, Francia, Germania, Repubblica Ceca, Grecia e Regno Unito. Legittimo l’illecito disciplinare alle toghe impegnate nella vita dei partiti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2018 Corte costituzionale, comunicato 4 luglio 2018. Regge al test di costituzionalità l’illecito disciplinare per i magistrati che si iscrivono o partecipano in maniera sistematica e continuativa alla vita dei partiti. La Corte costituzionale, con un comunicato diffuso ieri, ha preannunciato, in attesa delle motivazioni che saranno note solo tra qualche tempo, che sono state giudicate infondate le questioni di legittimità sollevate dalla sezione disciplinare del Csm, chiamata a sua volta a valutare la posizione del governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano, Pm da tempo “prestato” all’attività politica e, nel recente passato, candidato anche alle primarie del Pd. Nel momento in cui, più volte, il neoministro della Giustizia Alfonso Bonafede (da ultimo al plenum della settimana scorsa) ha annunciato la volontà di porre fine per legge alla possibilità di reingresso in magistratura per le toghe impegnate in politica, dalla Consulta arriva un chiarimento sulla disciplina attuale. A dubitare della legittimità di quest’ultima era stato peraltro quello stesso Csm che, a sua volta, ha chiesto norme più rigide sui rientri in magistratura. La sezione disciplinare infatti aveva messo in luce come sia a livello costituzionale Corte sia a livello legislativo è consentita la partecipazione dei magistrati alla vita politico-amministrativa attraverso la candidatura alle elezioni nazionali, regionali e degli enti locali oppure con la loro nomina come assessori dei rispettivi organi esecutivi (nel rispetto dei requisiti di eleggibilità previsti per ciascuna fattispecie). Se, quindi, sottolineava la sezione disciplinare, al magistrato la normativa consente, a certe condizioni, lo svolgimento di un compito che non può non essere collegato alle dinamiche politico-partitiche, tutto questo dovrebbe poi avere un riflesso sull’interpretazione da dare all’articolo 3, lettera h) del decreto legislativo n. 109 del 2006 che porterebbe ad escludere la rilevanza disciplinare in tutti quei casi in cui la partecipazione del magistrato ad aspetti e momenti della vita politico-partitica è collegata alle caratteristiche della funzione legittimamente ricoperta dal magistrato fuori ruolo “sembrando irrazionale e contraddittorio consentire, da una parte, l’assunzione di tali ruoli e dall’altra sostanzialmente vietare - ed anzi sanzionare disciplinarmente - alcune manifestazioni e situazioni, ritenute sintomo di organico schieramento partitico”. Di diverso avviso era stata la Procura generale della Cassazione che, nell’atto di incolpazione di Emiliano, aveva valorizzato il fatto che l’ex pm avesse ricoperto una serie di incarichi di vertice nel Partito democratico segretario regionale del Pd e presidente del Pd Puglia) che, da una parte, hanno come presupposto per statuto l’iscrizione al partito politico di riferimento e, dall’altra, non sono strettamente inerenti allo svolgimento dei mandati amministrativi di sindaco di Bari prima e di governatore poi. Società commerciali, sequestrabili i computer privi di licenze d’uso dei programmi di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 4 luglio 2018 n. 30047. Se mancano le licenze d’uso dei programmi, possono essere sequestrati gli hard disk dei computer di una società di progettazione per verificare le eventuali violazioni del diritto d’autore. Il reato infatti è stato escluso per i soli studi professionali la cui attività non rientra tra quelle strettamente “commerciali” o “imprenditoriali” come previsto dalla fattispecie incriminatrice. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 30047 del 4 luglio 2018, respingendo il ricorso contro la misura cautelare disposta nei confronti di 13 computer “contenenti software illecitamente detenuti e duplicati” di una società di progettazione meccanica ed elettronica nel settore auto motive. Per la Suprema corte, infatti, “opportunamente il Tribunale del riesame ha rilevato l’esigenza di accertamenti, per la verifica della effettiva duplicazione dei software, ed a chi sia riconducibile la duplicazione”. Invece, la dedotta assenza nella sede della società di strumenti per la duplicazione “riguarda un problema di prova della commissione del reato, non sindacabile in sede di legittimità”. In definitiva per la Cassazione può esser affermato il principio di diritto per cui: “mentre non integra il reato di cui all’art. 171 bis, comma primo, legge 27 aprile 1941, n. 633, la detenzione ed utilizzazione, nell’ambito di un’attività libero professionale, di programmi per elaboratore privi di contrassegno Siae, non rientrando tale attività in quella “commerciale o imprenditoriale” contemplata dalla fattispecie incriminatrice (l’estensione analogica non sarebbe possibile in quanto vietata ex art. 14 preleggi risolvendosi in un’applicazione “‘in malam partem”), la stessa detenzione ed utilizzazione di programmi software (nella specie Windows, e programmi di grafica, Autocad o Catia) nel campo commerciale o industriale (nella specie, esercente attività di progettazione meccanica ed elettronica nel settore auto motive) integra il reato in oggetto, con la possibilità del sequestro per l’accertamento della duplicazione”. Incidente stradale: nell’omissione di soccorso elemento soggettivo anche con dolo eventuale Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2018 Comportamento alla guida - Sinistro stradale - Breve sosta del conducente che ha provocato l’incidente - Violazione dell’obbligo di fermarsi e di prestare assistenza - Ex articolo 189, comma 6 e 7, c.d.s.- Sussiste. Il dovere di fermarsi sul posto dell’incidente previsto deve durare per tutto il tempo necessario ai fini della identificazione del conducente stesso e del veicolo condotto nonché dello svolgimento degli accertamenti sulle modalità dell’incidente e sulla responsabilità nella causazione del medesimo: l’elemento soggettivo che è alla base dell’inosservanza dell’obbligo si prestare soccorso in caso di incidente può essere integrato anche dal dolo eventuale, ossia dalla consapevolezza che la persona coinvolta nell’incidente abbia bisogno di soccorso che può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso l’esistenza. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 25 giugno 2018 n. 29114. Circolazione stradale - Mancato rispetto della distanza di sicurezza - Tamponamento - Lesioni personali colpose - Omissione di soccorso - Reato di fuga - Reati ex articolo 189 commi 6 e 7 cds - Elemento soggettivo del reato - Integrazione. Nel reato di fuga previsto dall’articolo 189 c.d.s., comma 6, il dolo deve investire l’inosservanza dell’obbligo di fermarsi in relazione all’evento dell’incidente stradale, riconducibile al comportamento dell’agente ed in concreto idoneo a produrre eventi lesivi e non anche la constatazione dell’esistenza di un danno effettivo alle persone che vi risultino coinvolte. Ciò anche perché il definitivo accertamento delle effettive conseguenze del sinistro è di norma possibile solo in un momento successivo. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 8 luglio 2016 n. 28553. Circolazione stradale - Incidente stradale - Reato “di fuga” - Reato omissivo - Dolo - Danno alle persone - Necessità di soccorso da parte della vittima dell’incidente - Omissione. Nel reato di fuga, previsto dall’articolo 189 c.d.s., commi 6 e 7, il dolo deve investire non solo l’evento dell’incidente, ma anche il danno alle persone e, conseguentemente, la necessità del soccorso, che non costituisce una condizione di punibilità; tuttavia, la consapevolezza che la persona coinvolta nell’incidente abbia bisogno di soccorso può sussistere anche sotto il profilo del dolo eventuale, che si configura normalmente in relazione all’elemento volitivo, ma che può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso l’esistenza. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 6 settembre 2007 n. 34134. Incidente - Danno alle persone - Conducente - Obblighi - Soccorso - Violazione. L’osservanza dell’obbligo di fermarsi in caso di incidente previsto dall’articolo 189 c.d.s., c.1,necessariamente implica una sosta sul luogo dell’incidente che non deve essere momentanea e breve. Occorre, infatti, che sia tale da consentire al conducente di rendersi conto delle condizioni fisiche di chi ha riportato danni alla persona e di prestare il soccorso necessario, ove altri soggetti presenti sul posto non vi provvedano, nonché di consentire la sua identificazione e quant’altro necessario ai fini della ricostruzione delle modalità dell’incidente. La fermata che si deve obbligatoriamente effettuare ha, quindi, una duplice finalità, delle quali l’una è strettamente collegata con l’altra. Pertanto, una fermata di pochi minuti, che non consenta lo scambio delle notizie specificate nel comma 4 dell’articolo 189 D.L.vo n. 285 del 1992, non può non integrare gli estremi del reato di cui ai commi 1 e 6. • Corte di Cassazione, sezione IV, sentenza 21 agosto 2003 n. 34621. Puglia: nelle carceri situazione grave, serve più personale medico-psichiatrico statoquotidiano.it, 5 luglio 2018 Posti letto nelle Rems insufficienti ed equipe sanitarie specializzate per l’assistenza dei detenuti con patologia psichiatrica-psicologica carenti. Spazi inadeguati alle esigenze terapeutiche. Non solo. Assenza di un piano aggiornato dei rischi suicidari in carcere. E osservatorio regionale sulla sanità penitenziaria che non si riunisce da anni. È la situazione emersa dalla audizione sull’emergenza sanitaria relativa ai detenuti con problemi psichiatrici, oggi in III Commissione, chiesta da Francesca Franzoso, consigliere regionale di Forza Italia. Sono stati ascoltati i direttori del carcere di Taranto, Lecce, Bari e i responsabili delle due Rems di Spinazzola e Carovigno. “Nelle strutture penitenziari pugliesi - dichiara Franzoso - il diritto alla salute, materia di competenza regionale, non è garantito e le condizioni dei detenuti psichiatrici ha raggiunto ormai livelli di emergenza. C’è necessità di dotare le strutture di personale medico specializzato, reclutandolo, previa ricognizione nei penitenziari, attraverso un bando apposito. L’amministrazione regionale - prosegue Franzoso - ha il dovere garantire il diritto alla salute dei detenuti, in particolare dei soggetti interessati da patologie psichiatriche. Una categoria con percentuali in continuo aumento e che, in istituti penitenziari come quello di Bari, ha raggiunto picchi del 50 per cento, (299 su 445 detenuti), del 38% a Lecce (su 998 ospiti); mentre 291 su 567 sono i detenuti a doppia diagnosi (tossicodipendenti psichiatrici) nel carcere di Taranto. In queste strutture l’offerta professionale dedicata equivale ad un solo psichiatra ad appena 38 ore settimanali. Infine: sono in tutto 38 i posti letto complessivi disponibili nelle Rems di Spinazzola e Carovigno, il tempo medio delle liste d’attesa è di dieci mesi”. Da qui la proposta “La Puglia - conclude Franzoso - deve occuparsi del problema. Le Asl, di concerto con i direttori dei Dipartimenti di Salute mentale, devono stabilire il numero di ore di specialistica ambulatoriale, psichiatrica e psicologica, necessario per il servizio nelle carceri e provvedere a pubblicare dei bandi ad hoc per la copertura del servizio negli istituti”. Firenze: Sollicciano, in arrivo 300 ventilatori e molti provvedimenti per la vita dei detenuti gonews.it, 5 luglio 2018 “Lunedì il consiglio comunale di Firenze ha approvato una mozione importante sul carcere fiorentino di Sollicciano. Un documento a cui l’associazione “Andrea Tamburi” ha fattivamente collaborato con il gruppo consiliare “Firenze riparte a Sinistra” nella parte della preparazione, con due visite ispettive nell’istituto penitenziario, e anche in quella della redazione. Dopo il consiglio aperto in carcere di alcuni mesi fa, adesso la città è più vicina alle problematiche di Sollicciano: riorganizzazione del TPL per facilitare i collegamenti con l’istituto, un edificio per i semiliberi, il premio Zuppa per detenute e detenuti meritevoli, e altri impegni per l’inserimento lavorativo e per migliorare l’affettività e le modalità di relazione in vista del reinserimento sociale; sono impegni che il Comune si è assunto sulla spinta di un movimento che vuole creare un vero e solido ponte tra carcere e città. L’altra buona notizia è la consegna di trecento ventilatori in carcere. Ormai l’estate è entrata nella fase più afosa, ma, grazie alla tenacia del cappellano di Sollicciano, Don Vincenzo Russo, e allo sforzo economico dell’Opera della Madonnina del Grappa, della Caritas regionale e della Misericordia, quest’anno le celle saranno dotate dei ventilatori. Un atto che anche in questo caso assume il significato di non voler lasciare l’istituto fiorentino solo di fronte ai suoi mille problemi. Sono segnali importanti e siamo soddisfatti dell’esito positivo di iniziative concrete cui abbiamo contribuito, insieme a Rita Bernardini della presidenza de Siena: “Spirito in libertà”, il blog dei detenuti Redattore Sociale, 5 luglio 2018 È on line il magazine che racconta la vita dei reclusi e gli eventi sociali e culturali che ruotano attorno alla rieducazione all’interno della casa circondariale. Il direttore La Montagna: “L’obiettivo è raccontare all’esterno l’universo carcere”. Si chiama “Spirito in libertà” ed è il blog on line della casa circondariale di Siena, dove vengono pubblicati articoli dei detenuti e sul mondo del carcere, sugli eventi sociali e culturali che ruotano attorno alla rieducazione dei reclusi. Mostre di pittura, eventi musicali, lettura di libri, incontri a tema. Tantissimi i momenti culturali a cui i reclusi partecipano e di cui viene scritto sul blog. Scopo primario del blog, visitabile alla pagina http://spiritoinliberta.blogspot.com/, è la diffusione in versione digitale di “Spirito in libertà”, il foglio d’informazione gratuito redatto dai detenuti della Casa Circondariale, pubblicato anche in versione cartacea grazie al contributo di privati e distribuito presso scuole, biblioteche, archivi ed altri luoghi di cultura. Il blog, curato dal responsabile dell’area pedagogica della Casa Circondariale, vuole anche costituire una vetrina d’informazione di come viene vissuta la detenzione: in esso sono infatti reperibili notizie, approfondimenti, immagini della vita in carcere. L’obiettivo, ha spiegato il direttore del carcere Sergio La Montagna, “è quello di raccontare all’esterno l’universo carcere attraverso la narrazione che ne fanno le persone recluse e le testimonianze di chi vi opera”. “La detenzione - ha raccontato uno degli educatori nel blog - può essere vista come un percorso verso una seconda opportunità, una volta ottenuta la libertà, a tal fine si rivela di fondamentale importanza il valore dell’operato dei tanti che si adoperano affinché ciò sia concreto e reale. Concretezza e realtà che possono essere raggiunte se quella separazione, tra la società e chi è detenuto, tra dentro e fuori, diminuisce fino ad annullarsi per far sì che a un “noi e loro” si sostituisca un “siamo”, collettivo e plurale, fondato sulla consapevolezza che la distanza ferisce e la vicinanza crea speranza, futuro, opportunità”. Napoli: “Pena e società oggi”, ciclo di incontri tra studenti e detenuti vocedinapoli.it, 5 luglio 2018 L’iniziativa dell’università Federico II di Napoli ha aperto le porte del carcere di Poggioreale agli studenti di giurisprudenza e scienze politiche. Una riflessione sulla società di oggi che promette consumi di massa ma che fornisce i mezzi solo a pochissimi: questo l’obiettivo del ciclo di incontri “Pena e società oggi” per i detenuti che ha aperto le porte della casa circondariale napoletana di Poggioreale agli studenti di giurisprudenza e scienze politiche dell’Università Federico II di Napoli. Il progetto, nato la metà dello scorso maggio e realizzato su iniziativa del professore Francesco Marco De Martino, troverà il suo epilogo nella visita in programma il prossimo 3 luglio alla quale parteciperà anche il docente di storia delle mafie dell’Unisob Isaia Sales con un discorso che concluderà un percorso durato circa due mesi. Spesso sono loro, i detenuti, a fare domande agli studenti, tra il serio e il faceto: “Cosa si prova ad essere qui?”, oppure, “Ma parlando di cose serie, il mare c’è ancora a Napoli?”. Ragazzi poco più che maggiorenni e uomini di ogni età si appiccicano agli universitari alla ricerca di confronti, dialoghi, intese e anche scontri. “Sono loquaci, interattivi e spigliati”, dice Ilaria, studentessa al quarto anno di Giurisprudenza, “mi hanno chiesto cosa ci facessi qui. Ho risposto che volevo sentire cosa avessero da dirmi, volevo sapere cosa ci fosse oltre i libri che studio, volevo sapere come vivono i loro giorni e se ci fosse qualcosa di cui avessero bisogno”. A farsi avanti per raccontare meglio la sua storia è stato Raffaele Starace, ospite del padiglione Livorno. “Ho deluso i miei genitori imbattendomi in quella piaga sociale che è la droga…chiedo perdono alla mia famiglia, a chi ho arrecato danni e a chi, se ne avessi la possibilità, risarcirei pur convinto che abbia gettato nell’oblio le mie malefatte che sto ancora pagando con lunghe detenzioni”. Al suo ventisettesimo anno di reclusione, Raffaele sceglie di mettere nero su bianco parole dure, un grido di protesta contro una società che, a suo dire, è ingiusta. “Il magistrato di sorveglianza mi ha concesso la detenzione domiciliare con affidamento diurno al Sert di Casavatore dove ho trascorso diciotto mesi con ottime considerazioni da parte gli operatori del centro. Mi era stata proposta una possibilità lavorativa ma - ricorda il detenuto - una mattina, mentre a piedi mi recavo al centro, ho avuto un malore”. “Non avevo il telefono - dice ancora - e sono ritornato a casa per avvisare i responsabili e i funzionari pubblici. Ho subito un controllo delle forze dell’ordine che hanno verificato il mio stato di malessere fisico. Poi mi hanno portato nel posto di polizia di zona e contestato un’evasione. È stato un episodio di bullismo”. A causa di questo, dice ancora Starace, ora “sono un uomo confinato in una cella sei metri per quattro, con altre nove persone. Ogni giorno mi chiedo se ritornerò a delinquere o ne uscirò sano” perché “non sempre la giustizia è indulgente con chi ha deciso di cambiare la sua vita in positivo”. Avezzano (Aq): medici e psicologi in carcere per parlare con detenuti e studenti marsicalive.it, 5 luglio 2018 Detenuti, pazienti psichici e studenti delle superiori, seduti insieme gli uni accanto agli altri, all’interno della sala- conferenze del carcere di Avezzano, in un confronto sui temi dell’esistenza e della vita, in uno scambio osmotico tra mondi diversi, all’insegna dell’integrazione e della solidarietà. È un’iniziativa di cui non si conoscono precedenti quella messa in atto questa mattina ad Avezzano, all’interno del penitenziario marsicano, promossa dal dipartimento di salute mentale della Asl e coordinata dalla psicologa Stefania Ricciardi. Gli ospiti che scontano la pena, una rappresentanza di studenti dell’istituto Magistrale di Avezzano e alcuni pazienti con problemi psichici del centro diurno di Avezzano, gestito dalla Asl, si sono ritrovati a confrontarsi sui temi della vita, del dolore, delle difficoltà esistenziali e della religione, partendo dal concetto di felicità, un singolare spunto-discussione, scelto volutamente dai promotori del progetto Asl, tenendo conto che è stato trattato in una struttura penitenziaria. Ne sono scaturiti momenti di riflessione seri e scherzosi, leggeri e impegnativi che hanno aperto a tre realtà profondamente diverse orizzonti di pensiero e di analisi insospettabili. Quello di questa mattina è stato il quarto e ultimo incontro di un progetto, iniziato nei mesi scorsi, a cui erano presenti, tra gli altri, Angelo Gallese, direttore del centro salute mentale di Avezzano, il professor Franco Picini, responsabile della sezione buddista del Lazio e Marta Gallese, psicologa della Rems di Barete. Presenti, inoltre, rappresentanti dell’associazione Rindertimi e operatori Asl del centro diurno che assiste i pazienti psichici. Una cinquantina i detenuti coinvolti nel progetto della Asl che va nel segno del recupero e dell’integrazione col mondo esterno. Durante l’incontro, gestito dalla dr.ssa Ricciardi, si sono susseguite riflessioni sul senso della vita e della felicità, sviluppate tramite la chiave religiosa del buddismo, di cui ha parlato il prof. Picini in modo stimolante e con l’utilizzo di video tratti da film celebri con attori altrettanto famosi. Tra i brevi frammenti cinematografici sono stati proposti brani godibili di Woody Allen, maestro del paradosso, come spunto di conversazione sull’autostima. Nei giorni scorsi, in vista dell’incontro conclusivo di oggi, ai detenuti sono state distribuite domande sui temi trattati e le risposte sono state motivo di commento e dibattito. “L’iniziativa di oggi”, ha detto la dr.ssa Ricciardi, “è pressoché unica nel suo genere perché mette insieme giovani studenti con le sofferenze della malattia psichiatrica e dell’interno di un carcere. In questo senso Avezzano è stato oggi teatro di una sorta di laboratorio inedito che ha dato grandi soddisfazioni e arricchito tutti i presenti” Trieste: “al lavoro in carcere per debellare le cimici in modo radicale” Il Piccolo, 5 luglio 2018 “Le procedure per l’esecuzione della disinfestazione sono in corso, sono state ritardate dalla necessità, evidenziata dai tecnici esterni coinvolti, di far precedere alla disinfestazione dell’area interessata, per l’efficacia della stessa, un intervento propedeutico”. È questo - come precisa in prima persona Ottavio Casarano, il direttore del carcere “Ernesto Mari” di via Coroneo, in risposta ad Alessandra Devetag, referente dell’Osservatorio carcere della Camera penale - il motivo per il quale in questi giorni non era di fatto ancora stata effettivamente attivata la vera e propria bonifica dei due tratti del carcere del Coroneo che risultavano essere stati invasi dalle cosiddette “cimici dei letti”, fatto peraltro non nuovo nella storia recente della casa circondariale triestina. “L’intervento propedeutico, che sta per essere eseguito, consiste in una preventiva sostituzione integrale di una serie di componenti degli apparecchi di aspirazione dei bagni del reparto detentivo - aggiunge Casarano, sostituzione questa che richiede una serie di passaggi, come la programmazione del relativo Piano di sicurezza, l’acquisizione dei pezzi di ricambio non prontamente disponibili e il loro successivo posizionamento da parte degli operai della ditta affidataria del settore dell’impiantistica”. “Nel frattempo - aggiunge - sono in atto le ordinarie disinfestazioni con le macchine a vapore. Così stiamo approntando un intervento più strutturato rispetto ai precedenti, nell’intento di dare una soluzione duratura al problema”. Le cimici, è stato spiegato, si annidano nelle brande. Le loro punture creano un forte prurito. A occuparsi in queste settimane del caso sono stati pure alcuni avvocati che hanno coinvolto il magistrato di sorveglianza, l’Osservatorio carcere della Camera penale e il garante dei detenuti. Airola (Bn): incontro all’Ipm sul cyberbullismo “puntare sulla prevenzione” scrivonapoli.it, 5 luglio 2018 Promosso da Corecom e Garante detenuti della Campania. Ieri nell’istituto penale minorile di Airola, nel Sannio, è avvenuto l’incontro con il Garante campano per i diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello, il presidente del Corecom della Regione Campania, Domenico Falco, i giovani reclusi ed alcune associazioni di volontariato che hanno tenuto un dibattito-riflessione su l’uso corretto di internet, toccando diversi punti dall’importanza “del contatto umano”, l’espressione delle emozioni attraverso uno schermo, al cyberbullismo, creando un momento di interazione e confronto con i giovani adulti diversamente liberi dell’Istituto di Airola. Per il Garante Ciambriello “È stato un confronto sincero su quelle che possono essere le vie d’uscita per i giovani dalle dinamiche del ‘brancò che spesso distorcono i comportamenti dei singoli conducendoli su terreni estremamente pericolosi. Accanto a questo vogliamo stimolare la discussione sulla modifica dei rapporti sociali alla luce dei social network e delle nuove forme di comunicazione che, se mal gestite, causano seri problemi ai ragazzi”. Per il presidente Falco “l’attività di prevenzione è fondamentale per limitare gli effetti del bullismo e del cyberbullismo proprio a partire dalle scuole. Abbiamo deciso di venire a parlare con i ragazzi detenuti nell’istituto penale minorile di Airola per avere ulteriori elementi utili per la nostra campagna @scuolasenzabulli e chiedere loro di aiutarci come testimonial nei confronti di tanti e tanti ragazzi che rischiano di incorrere negli stessi errori”. “Dobbiamo fare una riflessione su quanto sia utile l’uso di dispositivi elettronici - ha sottolineato Ivana Nasti, Direttore del Servizio ispettivo Registro e Corecom dell’ Agcom - anche senza connessione per promuovere l’alfabetizzazione digitale in luoghi come questo per consentire ai ragazzi di costruirsi un futuro una volta usciti dal carcere All’incontro hanno partecipato anche Dino Di Scanno, vice direttore dell’Istituto penale di Airola, Luigi Galasso, giudice del Tribunale di Benevento; suor Raffaella Letizia della comunità Emmanuel, Dea Demian Pisano, assistente sociale, Claudio Aletta, direttore principale tecnico fisico della Polizia Postale e Antonio Gaita del Miur. Pescara: giardino in carcere per i figli dei detenuti Il Centro, 5 luglio 2018 Ora la “Casetta Azzurra” nel carcere di San Donato ha anche un accogliente giardino attrezzato intorno, con gazebo, tavolini e sedie. Si arricchisce così il fortunato progetto del Telefono Azzurro di Pescara che ha inventato qualche anno fa uno spazio dove i detenuti, su permesso del magistrato di sorveglianza, possono incontrare per un paio d’ore i figli minori e il coniuge, e trascorrere un lasso di tempo, seppur breve, in loro compagnia. “È il progetto del recupero della genitorialità che abbiamo iniziato già diversi anni fa e che ha avuto tanto successo”, afferma orgogliosa Giulia Amodio la psicologa e responsabile della sede pescarese dell’associazione che si occupa della tutela dei minori. “È il coronamento di un sogno realizzato grazie alla tenacia di tutti i volontari che hanno adottato questa Casetta come fosse propria e l’hanno curata e seguita per aiutare i bambini, figli dei detenuti della Casa Circondariale, a incontrare in serenità i propri genitori”. La casetta è tutta di legno, si trova dentro le mura del carcere ma non al suo interno, ed è l’unica in Italia ad avere questa fortunata collocazione. È piena di giochi e disegni attaccati alle pareti ed è strutturata come una vera casa. “È un progetto che ha un riscontro molto positivo sui detenuti”, spiega il commissario coordinatore Nada Marrone, comandante dell’Istituto penitenziario, “che possono abbracciare i propri figli senza sbarre, fuori dall’ambiente asettico e pieno di porte blindate della stanza colloqui del carcere, ma comunque sotto lo sguardo vigile dei volontari del Telefono Azzurro”. Dello spesso parere il funzionario giuridico para-pedagogico Cristina Olivieri che sottolinea come i figli possano essere “l’unico grande stimolo al cambi Volterra (Pi): teatro in carcere, compie 30 anni la Compagnia della Fortezza intoscana.it, 5 luglio 2018 Tanti eventi speciali per festeggiare l’importante traguardo, tra cui lo spettacolo “Beatitudo” ispirato a Borges e “Le rovine circolari” che andrà in scena nella Centrale geotermica di Larderello Compie trent’anni la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, nata nel 1988 come esperienza di teatro in carcere per i detenuti di Volterra e poi diventata una vera compagnia teatrale, un’esperienza unica in Italia che ha aperto nuove strade sia dal punto di vista artistico che sociale. Tanti gli eventi speciali in programma per festeggiare questo traguardo, tra cui l’anteprima nazionale dal 23 al 26 luglio nel carcere di Volterra dello spettacolo “Beatitudo”, ispirato all’opera di Borges, una pratica più filosofica che teatrale che affronta la sfida di rappresentare l’irrapresentabile. I festeggiamenti proseguiranno con l’evento “Le rovine circolari - Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato”, uno spettacolo sempre ispirato a Borges che andrà in scena il 4 agosto in una location davvero unica, la Centrale Geotermica di Larderello, dove una monumentale torre di raffreddamento è stata trasformata in un’arena per spettacoli: la parte superiore della torre è stata demolita, mentre il basamento è stato ristrutturato in uno spazio per spettacoli a cielo aperto, progettato come la gradinata di un antico tempio circolare sospeso su uno specchio d’acqua. La città di Volterra sarà inoltre lo scenario dell’installazione urbana “Luoghi comuni reloaded”, firmata dallo scenografo della compagnia, Alessandro Marzetti, senza dimenticare la mostra fotografica “Trent’anni di bellezza” del fotografo Stefano Vaja, con gli scatti degli spettacoli del trentennio. Como: detenuti attori per un giorno al carcere del Bassone giornaledicomo.it, 5 luglio 2018 Dopo un laboratorio di diversi mesi hanno portato in scena uno spettacolo che racconta le loro esperienze. Il teatro si trasforma in uno strumento di libertà per la popolazione carceraria del Bassone di Como. Sabato scorso infatti è andato in scena “Non è mai troppo tardi”. Si tratta di uno spettacolo nato da un’iniziativa promossa dalla scuola C.P.I.A. e dalla direzione dell’Istituto guidato da Aldina Arizza che ha autorizzato il laboratorio di teatro tenuto da Alfio Sesto. Ogni sabato, per due mesi, 15 detenuti hanno intrapreso questo percorso; dal laboratorio ne è nata un’iniziativa singolare: una interpretazione della vita carceraria affrontata in modo scherzoso. Battute, brevi scene e racconti da chi vive la carcerazione non tanto come una condizione sociale, ma come un percorso dal quale uscire e riprendere il volo. “Mettere in scena questo spettacolo - spiegano i detenuti - ci ha permesso di parlare della quotidianità che riflette l’essere o non essere della personalità ambigua che ci caratterizza. Per noi detenuti non è “Mai troppo tardi” per finire la scuola o iniziarla, imparare una lingua, riuscire a prendere un diploma, conoscere le vere responsabilità e considerare il bene o il male come tali”. “I laboratori si trasformano in percorsi di vita” - La direzione del carcere comasco parla di una delle tante iniziative che permettono di intraprendere nuovi percorsi e di presa di coscienza di una condizione spesso pesante. “Con questi progetti intendiamo avviare il maggior numero possibile di detenuti verso nuovi laboratori che si trasformano in percorsi di vita. - spiega il direttore Carla Santandrea. Noi crediamo tantissimo nel lavoro degli insegnanti e dei volontari che prestano il proprio tempo per l’Istituto e siamo grati a loro per le diverse iniziative ed eventi che promuovono nel corso dell’anno. Ogni loro azione è utile per il reinserimento del detenuto”. Ha ragione padre Zanotelli: migranti, è il momento di rompere il silenzio di Valter Vecellio Il Dubbio, 5 luglio 2018 Non bene: benissimo, ha fatto Il Dubbio, a pubblicare “l’appello di padre Alex Zanotelli ai giornalisti italiani”. Non bene: benissimo ha fatto Zanotelli ha concepirlo, scriverlo, diffonderlo. Ha ragione: occorre rompere il silenzio sull’Africa e su quello che in quel continente accade. “Rompere” nel senso che a questa “rottura” gli dà Leonardo Sciascia: “Rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto tra le stupidità e la violenza che si viene manifestando; rompere l’equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuole dirla con linguaggio ed immagine più quotidiana, prima che ci preparino la letale frittata”. È davvero scoccata l’ora delle “rotture”, davvero è giunto il tempo di “rompere”. Sì. È inaccettabile il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudun, dove si consuma una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga. È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur. È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni... Tutto, come dice padre Zanotelli è inaccettabile, e poco importa se si sia credenti, non credenti, o in altro dalle chiese ufficiali credenti. È inaccettabile. Questa deve essere la parola d’ordine. Il kantiano categorico imperativo. “Non possiamo rimanere in silenzio”, ci implora Zanotelli, “davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi”. Shoah, olocausto, sterminio: non si era esagerati, allora, quando si usavano questi termini che evocano la bestialità nazista. Si era nel giusto... Si era nel giusto fin dal 24 giugno 1981 (un’era geologica fa!) quando Marco Pannella e il pugno di radicali che si era allora, lanciò il Manifesto contro lo sterminio per fame nel mondo. Quel 24 giugno 1981, il Partito radicale diffondeva nelle maggiori capitali dell’Occidente un documento contro lo sterminio per fame sottoscritto da un centinaio di Premi Nobel. Era la risposta, politica, degli uomini di scienza all’indifferenza dei governi, dei mass media e dei singoli alle spaventose cifre che annunciavano la sicura morte di milioni di persone per fame nel Sud del mondo. Il Manifesto indica con precisione cosa fare per porre fine all’olocausto dei nostri giorni. Rileggiamolo, quel documento, ha una drammatica attualità: “Noi sottoscritti, donne e uomini di scienza, di lettere, di pace, diversi per religione, storia, cultura, premiati perché ricerchiamo, onoriamo e celebriamo verità nella vita e vita nella verità, perché le nostre opere siano testimonianza universale di dialogo, di fraternità e di civiltà comune nella pace e nel progresso, noi sottoscritti rivolgiamo un appello a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, ai potenti ed agli umili, nelle loro diverse responsabilità, perché decine di milioni di agonizzanti per fame e sottosviluppo, vittime del disordine politico ed economico internazionale oggi imperante, siano resi alla vita. Un olocausto senza precedenti, il cui orrore comprende in un solo anno tutto l’orrore degli stermini che le nostre generazioni conobbero nella prima metà del secolo, è oggi in corso e dilata sempre più, ogni attimo che passa, il perimetro della barbarie e della morte, nel mondo non meno che nelle nostre coscienze. Tutti coloro che constatano, annunciano e combattono questo olocausto sono unanimi nel definire come innanzitutto politica la causa di questa tragedia. Occorre quindi una nuova volontà politica e un nuovo specifico organizzarsi di questa volontà, che siano direttamente e manifestamente volti - con assoluta priorità - a superare le cause di questa tragedia e a scongiurarne subito gli effetti. Occorre che un metodo ed una procedura adeguati, fra i tanti esistenti o immaginabili, vengano subito prescelti o elaborati e attuati; occorre che un sistema di progetti convergenti e corrispondenti alla pluralità delle forze, delle responsabilità, delle coscienze li sostanzi. Occorre che le massime autorità internazionali, occorre che gli Stati, occorre che i popoli - troppo spesso tenuti all’oscuro della realizzabilità piena di una politica di vita e di salvezza - così come già chiedono, angosciate, alcune tra le massime autorità spirituali della terra, operino unendosi o uniti nell’operare, con obiettivi puntuali, certi e adeguati perché venga attaccata, colpita e vinta, nelle sue sedi diverse, la morte che incalza, dilaga, condanna ormai una grande parte dell’umanità. Occorre ribellarsi contro il falso realismo che induce a rassegnarsi come ad una fatalità a quel che invece appartiene alla responsabilità della politica ed al “disordine stabilito”. Occorre realisticamente lottare perché il possibile sia realizzato e non consumato, forse per sempre. Occorre che si convertano in positivo sia quegli assistenzialismi che danno soprattutto buona coscienza a buon mercato e che non salvano coloro cui si rivolgono, sia quelle crudeli e infeconde utopie che sacrificano gli uomini di oggi in nome di un progetto d’uomo e la società di oggi in nome di un progetto di società. Occorre che i cittadini e i responsabili politici scelgano e votino, ai rispettivi livelli, elettorali o parlamentari, governativi o internazionali, nuove leggi, nuovi bilanci, nuovi progetti e nuove iniziative che immediatamente siano volti a salvare miliardi di uomini dalla malnutrizione e dal sottosviluppo, e centinaia di milioni, per ogni generazione, dalla morte per fame. Occorre che tutti e ciascuno diano valore di legge alla salvezza dei vivi, al non uccidere, e al non sterminare, nemmeno per inerzia, nemmeno per omissione, nemmeno per indifferenza. Se i potenti della terra sono responsabili, essi non sono gli unici. Se gli inermi non si rassegneranno ad essere inerti, se dichiareranno sempre più numerosi di non obbedire ad altra legge che a quella, fondamentale, dei diritti degli uomini e delle genti, che è in primo luogo Diritto, e diritto alla vita; se gli inermi andranno organizzandosi usando le loro poche ma durature armi - quelle della democrazia politica e le grandi azioni nonviolente “gandhiane” prefiggendosi e imponendo scelte ed obiettivi di volta in volta limitati ed adeguati; se questo accadesse, sarebbe certo, così come oggi è certamente possibile, che il nostro tempo non sia quello della catastrofe. Il nostro sapere non può consistere nel contemplare, inerti e irresponsabili, l’orrida fine che incombe. Il nostro sapere, che ci dice che l’umanità intera è essa stessa e sempre più in pericolo di morte, non può che essere scienza della speranza e della salvezza, sostanza delle cose da noi tutti credute e sperate. Se i mezzi di informazione, se i potenti che hanno voluto onorarci per i riconoscimenti dei quali siamo stati insigniti, vorranno ascoltare e far ascoltare anche in questa occasione la nostra voce e l’opera nostra e di quanti in queste settimane stanno operando nel mondo nella stessa direzione, se le donne e gli uomini, se le genti sapranno, se saranno informati, noi non dubitiamo che il futuro potrà essere diverso da quello che incombe e sembra segnato per tutti e nel mondo intero. Ma solo in questo caso. Occorre subito scegliere, agire, creare, vivere, fare vivere”. In quei nove accorati “occorre” c’è tutto quello che andava fatto, che si deve fare. E fin da allora si ravvisava come urgente, necessario, fondamentale, perseguire e conquistar il diritto al diritto; e il diritto umano e civile al sapere, alla conoscenza. Ieri, oggi, domani. È una lunga marcia, padre Zanotelli. Farla insieme sarà meno faticoso. Brennero e migranti, in giugno la quota degli arrivi è stata pari a zero di Leonard Berberi Corriere della Sera, 5 luglio 2018 I transiti verso Nord sono crollati: solo 149 nel 2018. E nel mese passato non è stato registrato nessun passaggio. Cento quarantanove intercettati in sei mesi. Contro i quasi tremila dell’intero 2017. E i circa dodicimila del 2016. L’”emergenza” migranti nell’estate 2018 dall’Italia all’Austria è tutta qui. E spiega come attraverso il Brennero ormai non sta transitando quasi nessuno. Quello che un tempo era il corridoio classico - che partiva dalla Sicilia per finire nel Tirolo e procedere fino alla Baviera - si è di fatto prosciugato. Del resto basterebbe leggere il progressivo del primo semestre dell’anno in corso: 65 individui bloccati a gennaio sui treni merci, 52 a febbraio, 26 a marzo, 4 ad aprile, 2 a maggio fino a toccare quota zero nel mese di giugno. Un calo netto rispetto ai circa 2.894 respinti in tutto il 2017. E rispetto agli 11.800 del 2016, quando erano nigeriani e marocchini, soprattutto. Circa duemila hanno poi presentate richiesta di asilo in Austria. Quasi tutti gli altri hanno tentato di raggiungere la Germania. “Controlli più severi” - Il bilancio di questa prima parte del 2018 viene fornito da una fonte non sospetta: la polizia tirolese. Del resto alcuni giorni fa il responsabile della task force per i controlli di confine Erich Lettenbach aveva spiegato che il crollo era il frutto di “controlli più severi che vengono effettuati dalla polizia italiana sui treni in partenza dalla stazione di Verona”. Oltre che, più in generale, “al calo complessivo degli sbarchi in Italia”. Dal 1° gennaio fino a ieri, certifica il nostro ministero dell’Interno, sono sbarcate 16.687 persone, “l’80,4% in meno rispetto allo stesso periodo del 2017”. “I migranti ormai si muovono sulla base di informazioni reali: non si avventurano verso destinazioni dove sanno che ci sono dei controlli”, aggiungeva Lettenbach. Che confermava come i controlli trilaterali (agenti italiani, austriaci e tedeschi) sarebbero continuati. Il fronte bavarese - Il vero fronte problematico per gli austriaci è oggi il confine con la Germania. Nel 2017 in 14.600 hanno tentato di sconfinare in Baviera e di questi 7.200 sono stati consegnati agli agenti austriaci. Nei primi cinque mesi di quest’anno - confermano da Vienna e Berlino - “4.600 persone hanno tentato di entrare in maniera non autorizzata: 2.450 sono state fermate e respinte”. Non arriva più quasi nessuno dall’Italia, insomma. Ma ne restano sempre di più in Austria. Sulle cifre in sede di Commissione europea più di qualche funzionario sottolinea che, di fatto, non esiste un database unico. Gli stessi transiti tra i diversi Stati membri - fanno sapere al Corriere da Bruxelles - “non sono omogenei e non sempre identificano il profilo di chi transita e il suo status giuridico”. Una battaglia per la trasparenza, ricordano, “avviata più di un anno fa e che finora non ha prodotto risultati”. Il commercio - Quello del Brennero viene considerato il punto di transito più trafficato sulla rotta tra Sud e Nord dell’Europa: l’anno scorso 2,25 milioni di camion sono transitati nei valichi di confine. L’introduzione dei controlli - secondo le stime dell’Ufficio studi Isfort e Conftrasporto - finirebbe così per comportare un costo ulteriore di 370 milioni di euro per i ritardi nell’attraversamento. “La decisione dell’Austria va immediatamente sanzionata”, tuona Paolo Uggè, vicepresidente di Confcommercio e di Conftrasporto. “Il governo italiano si faccia sollecito interprete delle esigenze del sistema produttivo nazionale adottando le misure necessarie e avanzando proposte che riducano al massimo i danni per la nostra economia”. Stati Uniti. La riforma delle carceri di Trump conviene a tutti di Caterina Giojelli Tempi, 5 luglio 2018 Con consenso bipartisan la Camera Usa ha approvato il First Step Act di una legge che permette di liberare carcerati anziani, stanziare milioni per migliorare la qualità della detenzione e reinserire le persone nella società. Quanta timidezza dei nostri giornali intorno alla riforma dell’ordinamento carcerario su cui punta Donald Trump. Con 360 voti a favore e 59 contro la Camera degli Stati Uniti ha approvato il First Step Act di una legge che permette di liberare migliaia di detenuti anziani, malati e donne prossime al parto, di stanziare milioni di dollari per migliorare la qualità della detenzione e reinserire le persone nella società. “Giusta direzione”. Giustizia riparativa, misure alternative: c’è chi grida alla “mini riforma” (l’ala più a sinistra dei democratici sostiene infatti che la legge, non prevedendo una diminuzione delle pene per i reati minori come lo spaccio di droga, non risolve il problema e discrimina la stragrande maggioranza della popolazione carceraria rappresentata da neri e latinos); e c’è chi invece, come la Chiesa cattolica, nella persona di monsignor Stuart Swetland, presidente del Donnelly College di Kansas City, si aggiunge al grande consenso bipartisan riscosso alla Camera: “Ci stiamo muovendo nella giusta direzione”. Il caso Donnelly. Cosa c’entrino le parole di un monsignore con un atto legislativo di cui per altro i giornali hanno parlato pochissimo è presto detto: il college cattolico presieduto da Swetland gestisce una sorta di campus presso la casa circondariale di Lansing, fornendo corsi universitari a 402 persone incarcerate e permettendo a 20 di loro di diplomarsi. Ebbene, a Donnelly il grado di recidiva degli studenti galeotti è pari al 2 per cento, una cifra incredibilmente bassa rispetto alla media nazionale: secondo il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti sono circa 650 mila le persone che vengono scarcerate ogni anno, ma il 68 per cento di queste tornerà dietro le sbarre entro tre anni: un trend influenzato, secondo il dipartimento, dalla mancanza di prospettive una volta fuori, “senza lavoro, senza soldi e senza un posto dove vivere” le persone torneranno in galera, spesso facendosi arrestare per gli stessi reati. First Step Act. Quello del college americano non è un esempio isolato ed è sul rafforzamento dei “casi Donnelly” (che ad oggi si sovvenzionano esclusivamente attraverso donazioni private) che l’amministrazione Trump vuole puntare per cambiare la vita ai detenuti. Il First Step Act aumenterebbe infatti i finanziamenti stanziati per programmi educativi e di formazione professionale di 50 milioni di dollari ogni anno per cinque anni e incentiverebbe la partecipazione ai programmi garantendo la possibilità di scontare la pena, guadagnando fino a 54 giorni di rilascio anticipato. Vieta anche di ammanettare donne incinte e madri che hanno appena dato alla luce un bambino e garantisce la fornitura gratuita di prodotti per l’igiene femminile. Non solo, prevede che i prigionieri siano collocati entro 500 miglia dai membri della loro famiglia e aumenta il novero dei casi in cui può avvenire il rilascio per motivi compassionevoli. Il risparmio. Il disegno di legge dovrebbe riguardare solo una piccola parte dei 2,3 milioni di persone negli Stati Uniti attualmente dietro le sbarre (è la grande obiezione che potrebbe frenare il suo iter al Senato, dove molti membri insistono sull’inclusione di una riforma delle sentenze) dal momento che solo 225 mila persone, ospitate nelle prigioni federali, potrebbero beneficiare delle sue disposizioni, e in 4 mila verrebbero subito scarcerati. Ma si tratta di un passo importantissimo nell’immediato: secondo uno studio Rand, dati 2013, ogni dollaro investito nell’educazione dei carcerati consente di risparmiare dai 4 ai 5 dollari in costi per la detenzione. Chi frequenta corsi di istruzione ha infatti il 43 per cento di probabilità in meno di tornare dietro le sbarre. La storia di Ramirez. Educazione come modello per ridurre il crimine e gli oneri dei contribuenti, dunque. Ma soprattutto per cambiare la vita di persone come Sandy Ramirez: quando gli arrivò una multa da 500 dollari, Ramirez, studente universitario del Bronx, decise che avrebbe fatto una rapina. Non voleva fare male a nessuno ma qualcosa andò storto: mentre stava scappando premette il grilletto. Una persona morì, un’altra rimase ferita. Ramirez fu condannato a 22 anni di carcere. In questi anni ha concluso gli studi, beneficiato di programmi educativi, ha incontrato qualcuno grazie a cui riscoprire la sua fede cattolica, ha ottenuto dei permessi per lavorare e ha iniziato così a reinserirsi nella società, “quando sono uscito, era come se mi sentissi parte del mondo”. La storia di Ramirez è stata raccontata dal National Catholic Register in un lungo articolo sui limiti ma soprattutto i benefici e i consensi raccolti dal First Step Act tra eletti ed elettori democratici e repubblicani, laici e cattolici, ma qui in Italia chi mai racconterebbe che Trump li ha messi quasi tutti d’accordo? Ungheria. Il Parlamento approva le modifiche anti-migranti: carcere per chi li aiuta Il Messaggero, 5 luglio 2018 Come era stato annunciato l’Ungheria sbarra l’ingresso agli immigrati. Con 160 voti a favore e 18 contrari, il Parlamento ungherese ha approvato una serie di emendamenti alla Costituzione che pongono invalicabili paletti all’accoglienza. In particolare, nessun cittadino straniero potrà insediarsi in Ungheria e coloro che sono arrivati sul territorio provenienti da nazioni dove non erano sottoposti a persecuzione o minaccia dirette non potranno chiedere asilo. La misura va soprattutto a colpire i migranti che arrivano dall’ Asia e dal Medio Oriente attraverso la rotta balcanica, passando dalla Serbia. Le misure approvate dal Parlamento prevedono una condanna fino a un anno di carcere per chi aiuta i migranti, compresi rifugiati e richiedenti asilo. Ugualmente presente nella legge, è un emendamento contro l’attuale sistema di redistribuzione europeo dei migranti in base alle quote. Il pacchetto di leggi, denominate “Stop Soros” dal nome del filantropo ungherese George Soros, sono state promosse dal premier Viktor Orban, capofila dei falchi europei che preme per la linea dura contro i migranti. Israele. Palestinesi in carcere, l’Anp: “continueremo a sostenerli” moked.it, 5 luglio 2018 L’Anp continuerà a versare un indennizzo ai cittadini palestinesi detenuti nelle carceri israeliane per terrorismo e ai loro familiari. A comunicarlo è il Ministero delle Finanze di Ramallah, in risposta alla legge che si ispira allo statunitense “Taylor Force Act”, dedicato a un giovane americano ucciso nel 2016 da un terrorista palestinese, che è stata approvata lunedì dalla Knesset, il Parlamento di Israele, e che stabilisce la decurtazione di tali somme (corrisposte in proporzione alla pena: maggiore è la pena, maggiore è il sostegno finanziario) dai trasferimenti di denaro previsti dallo Stato ebraico all’Autorità. “La leadership palestinese, con a capo il Presidente Mahmoud Abbas, non abbandonerà i prigionieri e le famiglie dei martiri, che hanno sacrificato le loro vite per il bene della patria” si legge in una comunicazione delle scorse ore. Contestualmente l’Anp ha annunciato l’intenzione di dar battaglia anche in sedi internazionali affinché tale legge sia invalidata. “L’avevamo promesso, e oggi questa promessa è stata mantenuta. D’ora in poi ogni shekel (la moneta israeliana) che Abu Mazen pagherà ai terroristi e agli assassini sarà dedotto dal budget complessivo a disposizione dell’Autorità” aveva subito commentato il ministro israeliano della Difesa Avigdor Lieberman. Mentre Stuart Force, il padre di Taylor, invitato alla Knesset in occasione del voto, aveva detto: “Il mio augurio è che d’ora in poi, anche in altri paesi, cresca la consapevolezza sulla destinazione di aiuti che vengono destinati con ben altre intenzioni rispetto a quella di foraggiare dei terroristi”. Egitto. “Le mie prigioni al Cairo”: parla Ibrahim il dublinese di Riccardo Noury Corriere della Sera, 5 luglio 2018 “In cella eravamo così stipati che lasciavamo sedere gli anziani e gli ammalati mentre noi giovani stavamo in piedi”. Di ricordi delle sue prigioni al Cairo, Ibrahim Halawa ne ha, ancora vivi, tantissimi. Li racconta, nella sala riunioni di Amnesty International Italia, insieme a Somaia, una delle sue tre sorelle. Ibrahim Halawa è tornato nella sua città, Dublino, il 25 ottobre 2017: assolto da 19 capi d’accusa per i quali era in carcere dall’agosto 2013. Ibrahim era partito da Dublino insieme alle sorelle Somaia, Fatima e Omaima per andare a trovare i parenti al Cairo. “Avevo 17 anni, volevo salutare parenti e amici d’infanzia. Non m’interessavo molto di chi saliva al potere e di chi veniva rimosso dal potere”. Di lì a poco se ne sarebbe interessato. A metà agosto del 2013 due suoi amici vennero uccisi nel corso delle proteste organizzate dalla Fratellanza musulmana contro il colpo di stato del generale al-Sisi. Allora pensò di unirsi alle proteste. Le forze di sicurezza egiziane fecero una strage, almeno 900 morti. Arrestato con le sorelle insieme a 500 persone, Ibrahim è stato accusato di omicidio, tentato omicidio, disturbo all’ordine pubblico, intralcio alle attività delle istituzioni nazionali, protesta senza autorizzazione, distruzione di beni pubblici, impedimento ai fedeli di pregare nella moschea Al Fath, possesso di armi, attacco alle forze di sicurezza e altro ancora. Le sorelle Halawa, dopo tre mesi di carcere, furono rilasciate ed espulse in Irlanda. Al rientro a Dublino, denunciarono le torture subite dal fratello, confermate anche dal giornalista di al-Jazeera Peter Greste, che ha condiviso con lui un periodo di detenzione nel carcere di Tora. Somaia avviò la campagna per la scarcerazione di Ibrahim. Amnesty International lo dichiarò prigioniero di coscienza. Il nuovo governo di Dublino finalmente si mosse. Così dopo quattro anni, decine di udienze rinviate, cambi continui di giudici, maltrattamenti e torture, Ibrahim è tornato a casa. “Non provo rancore, ma posso permettermi questo distacco emotivo perché non sono più in Egitto. Penso ai compagni di prigionia, loro temo non abbiano questa possibilità”.