Una voce dietro le sbarre di Vittorio Pierobon Il Gazzettino, 4 luglio 2018 Ornella Favero da anni lavora in carcere e con i detenuti ha realizzato un percorso di affrancamento attraverso un giornale. Assassini, stupratori, mafiosi, ladri, rapinatori e delinquenti di ogni risma. Non è la ciurma di una nave pirata, ma sono i componenti della redazione di un giornale che già dal titolo fa capire molte cose: Ristretti orizzonti, il periodico di informazione e cultura realizzato dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova. Alla direzione da sempre c’è Ornella Favero, giornalista padovana, presidente della Conferenza nazionale Volontariato e Giustizia, che raccoglie oltre 10mila persone che operano nel mondo carcerario, un passato vicino (ma non allineato) a Lotta Continua, sempre impegnata sul fronte dei diritti umani, insegnante e traduttrice di russo. Tra i detenuti. “Sono stati i detenuti a chiedermelo, volevano far sentire la loro voce spiega la direttrice con orgoglio io ho accettato la sfida, ma ho posto condizioni precise: il giornale dei carcerati doveva rispettare tutte le regole dell’informazione. Raccontare con onestà e obiettività i fatti. Quello che dovrebbe fare ogni giornalista. Ma spiegarlo, ed imporlo, a gente che nella vita era stata tutt’altro che onesta, poteva essere complicato. L’altro punto fermo è stato mettere al bando i pietismi e gli sfogatoi. Inutile scrivere quanto si sta male in carcere. Volevo le storie, i progetti. Un giornale per costruire un rapporto con chi sta fuori ed abbattere i luoghi comuni. Non volevo fare una rivista di tipo scolastico, ma un vero periodico. E ho dato molto importanza anche alla qualità della scrittura. Per questo ho avuto il contributo di addetti ai lavori (giornalisti e scrittori) che sono entrati in carcere per fare lezione ai futuri colleghi. Tra i primi Carlo Lucarelli”. Parola ai reclusi. Per quegli anni era una strada innovativa: dare la parola a chi sta in galera! C’era stato qualche esperimento a Porto Azzurro e San Vittore. “Il direttore dell’epoca, Carmelo Cantone, ha subito sostenuto il progetto. Mi ha messo a disposizione una cella per le riunioni con i detenuti. Mi chiudevano dentro assieme a otto reclusi. Cantone non ha mai fatto alcuna censura si è limitato a vedere in anticipo il primo numero, poi totale autonomia”. Un giornale, ma soprattutto un’occasione di riscatto. Un ritorno ma per molti un approdo alla civiltà. La possibilità di cambiare. “Ma da soli in carcere non si cambia scrive la direttrice di Ristretti Orizzonti, in un profondo editoriale che apre il numero del ventennale In carcere a volte non puoi decidere nemmeno quante paia di mutande tenere in cella”. Dialogo con l’esterno. L’antidoto a questa chiusura è il dialogo con l’esterno. E per chi non può uscire, per chi è ristretto (il termine con cui, nel linguaggio burocratico, sono indicati i detenuti) un giornale, un giornale scritto dai carcerati, diventa occasione di dialogo, di confronto con chi sta fuori. Ma il dialogo non avviene solo attraverso le parole scritte. Da anni il Due Palazzi, grazie alla spinta del gruppo guidato da Ornella Favero, ha avviato un programma di incontri con gli studenti. Oltre 150 all’anno, dentro e fuori le mura. Buoni e cattivi si confrontano, senza troppi mediatori. “Questi incontri rappresentano un momento molto educativo per i detenuti, ma anche per gli studenti. I giovani si confrontano con una realtà più vicina di quanto credono prosegue la volontaria Le storie di chi è dentro fanno capire i rischi che corre anche chi si crede immune. I detenuti raccontano di quello che chiamano scivolamento, un reato piccolo tira l’altro. Dallo spinello c’è chi è arrivato all’omicidio. Gente assolutamente irreprensibile, che si è rovinata. In carcere si impara che non ci sono solo i predestinati. Io nella mia redazione, per esempio, ho un insegnante, un giornalista, un direttore di banca e un medico. Tutta gente, che noi chiamiamo normale, con ottime professioni. Ma tutti autori di gravi reati”. Dietro le sbarre. Il mondo dietro le sbarre è davvero eterogeneo. Nel carcere che ha avuto per ospite, con annessa evasione, Felice Maniero, c’è gente che deve scontare pene pesanti. Vite segnate sin dalla nascita, altre bruciate per scelte sbagliate. Il campionario di storie che Ornella Favero potrebbe raccontare è impressionante. Dal mafioso che a 8 anni è stato mandato dalla famiglia da solo sui monti a pascolare le pecore e a 18 era già un delinquente incallito. “È arrivato qui, dopo che era stato ad ammuffire 15 anni in un altro carcere. Era un analfabeta asociale. Ora ha un titolo di studio ed è un altro uomo”. Oppure, cambiando la prospettiva, i drammi delle famiglie che hanno solo brevi momenti per incontrare i parenti dietro le sbarre. Chi sbaglia, paga. Quando parla dei suoi redattori, o in generale dei detenuti del Due Palazzi, Favero non è tenera. Non fa sconti: è gente che ha sbagliato e deve pagare. Ma si deve cercare di recuperala. “Lo dice la Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione. Non credo che tutti i detenuti siano recuperabili, però bisogna provarci con tutti. E, io che non sono cattolica, cito la Bibbia: bisogna farlo 70 volte 7. Il recupero è lento. Ma non è buonismo: è interesse della società recuperare i detenuti. Lo ha spiegato bene in un libro anche Gherardo Colombo, che come magistrato ha passato la vita a condannare al carcere: rispondere al male con altrettanto male porta al risultato opposto”. Per Ornella Favero le prime barriere da abbattere non sono le sbarre del carcere, ma le chiusure mentali che tendono a semplificare molto: chi sbaglia deve pagare. “Però la prigione non deve essere una discarica sociale. Una delle espressioni che più mi infastidisce è: lasciamoli marcire in carcere. È una semplificazione per dire: finché tu stai dentro io sto meglio. In realtà dietro a questa formula si nasconde il fallimento. Chi marcisce in galera, fino all’ultimo giorno di pena, nel 70% dei casi torna in galera perché ci ricade. Più uno marcisce meno lo recuperi. E il costo poi ricade su chi sta fuori”. Il carcere non sia la sola pena di Fabio Viglione* agenziaradicale.com, 4 luglio 2018 Devo ringraziare Agenzia Radicale, per queste frequenti e stimolanti occasioni di confronto, anche fra differenti approcci, che incoraggia a riflettere su questioni che sono centrali per il nostro ordinamento penale e per il sistema sanzionatorio. Dalle sentenze di condanna molto lontane dalla commissione del fatto alla certezza della sanzione e alla funzione stessa della pena. Per finire al rapporto tra la pena e il condannato e al coinvolgimento della collettività. Si tratta di problemi storici, problemi vecchi ma sempre nuovi nel senso che attendono ancora di essere affrontati in modo completo e, per quanto possibile, risolti. Parliamo di vicende che riguardano il quotidiano, vengono da lontano e, credo, non finiranno mai di essere al centro dei dibattiti. Quando si parla di sentenze e di esecuzione, nel rispetto assoluto che le sentenze devono avere e devono trovare nella coscienza individuale e collettiva in uno Stato di diritto, non va dimenticato che esistono anche gli errori giudiziari. Ciò naturalmente non significa affatto che le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali non debbano essere sempre rigorosamente rispettate. Il processo deve accertare la verità e si sforza di farlo attraverso i soggetti istituzionali chiamati a operare in tal senso, ma talvolta tra la verità giudiziaria e quella naturalistica, quella reale, può determinarsi una scollatura. Un fatto nella sua dimensione effettiva, naturalistica appunto, può essere andato in modo assolutamente diverso da come la sentenza lo ricostruisce. E tanto, anche a fronte del massimo impegno, del massimo rigore e della elevata professionalità dei soggetti chiamati a ricostruirlo e a valutare le prove raccolte. La letteratura degli errori giudiziari è particolarmente interessante perché ci offre in ogni epoca esempi di questo tipo, legati, inevitabilmente, anche alla natura dell’uomo, alla sua fallibilità e alla impossibilità di sovrapporre sempre in modo perfetto le due realtà. Che dire dei processi agli untori nella Milano seicentesca e delle condanne esemplari irrogate ai presunti responsabili del propagarsi della peste? La peste non venne certo diffusa per mano di volontarie azioni di spargimento batterico eppure in tanti furono processati e condannati guadagnando l’infamante “patente” di untori. Spesso finanche dopo aver confessato la commissione di ignobili atrocità, attingendo dalla fantasia. Le vicende degli sventurati Mora e Piazza, di manzoniana memoria, ne rappresentano un monumentale esempio. Ma l’errore giudiziario può materializzarsi in ogni tempo. Clamoroso il caso di un cittadino siciliano, a metà degli anni cinquanta, che stimolò una modifica normativa dell’istituto della revisione delle sentenze di condanna. L’imputato venne condannato all’ergastolo per omicidio e occultamento di cadavere. La sentenza passò in giudicato e il condannato cominciò a scontare la pena in carcere. Poi, dopo diversi anni, improvvisamente, sulla scena comparve la vittima…che non era morta... Vi era stata sì un’aggressione, ma senza conseguenze mortali e la vittima aveva deciso di scomparire per un po’. Quel caso consentì al legislatore di prevedere e disciplinare specificamente l’ipotesi della scoperta di nuove prove successive alla sentenza di condanna, per ribaltare una condanna ingiusta. Una revisione per la scoperta di prove nuove che da sole o unitamente al materiale già raccolto, sono in grado di ribaltare il giudizio di condanna. Perché ho voluto citare questo caso di oltre sessant’anni fa? Perché è ben possibile che, talvolta, la verità giudiziaria possa non essere sovrapponibile a quella della realtà fenomenica e il caso dell’omicidio con la vittima in vita assurge a paradigma di tale evenienza. D’altronde se è previsto nel nostro codice l’istituto della revisione, è proprio per consentire, in ogni tempo, di correggere le condanne ingiuste. Tuttavia, a prescindere dalla possibilità di errore, la sentenza di condanna dà vita ad un percorso che non sembra interessare molto i dibattiti più accesi e partecipati in tema di giustizia. Tutto sembra finire con l’ultimo “verdetto” giudiziario e l’apertura di un cancello metallico che si richiude rumoroso. Ma è proprio da quel momento, in cui tutto sembra completato, che occorre, sotto altri profili, essere molto attenti a quanto accade. No, non è tutto finito, credo sia necessario pensare alla funzione sanzionatoria, alla funzione della pena, al rispetto di quei diritti costituzionali che interpretano la pena come finalizzata al recupero del condannato. A me piace parlare di risocializzazione come modernizzazione del concetto di rieducazione. In questo senso, già autorevoli interventi della Corte Costituzionale oltre che delle Corti europee hanno evidenziato la necessità di consentire spazi vitali decorosi, dignitosi, umani al detenuto, affrontando con decisione il tema del sovraffollamento. Qualche tempo fa, ho partecipato ad un interessante convegno organizzato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma dal titolo “La criticità del sistema carcere e l’individualizzazione dell’esecuzione della pena”. Ritengo che il titolo contenesse il nous anassagoreo della scottante materia del sistema sanzionatorio e della sua effettività. In primo luogo, credo che, tanto la previsione di proposte quanto la verifica dei risultati prodotti dal sistema, siano condizionate da un approccio culturale. Nel senso di sensibilità e di linguaggio. Credo che il sistema del carcere generalizzato per tutti i tipi di reato, sia un sistema certamente vecchio ed obiettivamente superato. Questo anche a prescindere dal tema del sovraffollamento e delle condizioni dei detenuti all’interno delle strutture. L’adozione del carcere come unico modello di riferimento finisce per dare scarso rilievo alle cosiddette pene alternative che, ad alcuni, appaiono un perdonismo inaccettabile e in contrasto con la certezza della pena. Ma, a ben vedere, sono l’esatto opposto. O almeno dovrebbero esserlo. Si tratta di risposte effettive ma molto più in linea con la funzione risocializzante della pena. D’altronde, se il carcere diventa una risposta generalizzata, dobbiamo poi scontrarci con quello che è in concreto il sistema al suo interno, con quelle che sono le sue prospettive effettive in termini di deficit di prospettive di reale risocializzazione. Per moltissime delle pene da espiare, quando si chiude la porta del carcere, il cittadino condannato sconterà la pena e poi dovrà tornare in società con un percorso che dovrà essere il più possibile fecondo per stimolare le sue migliori energie finalizzate a vivere una vita nel rispetto delle regole. Una vita possibilmente diversa da quella in cui ebbe a violare il patto sociale. Credo che questo debba essere un obiettivo da perseguire se non si vuole dare alla pena una funzione inutilmente retributiva e completamente improduttiva. Se la pena fosse vissuta come una più dinamica riparazione dello “strappo” con l’inizio di un percorso realmente risocializzante, lo statico modello carcerario per la gran parte dei reati potrebbe e dovrebbe essere messo da parte. Peraltro, una pena meno statica e alternativa al carcere reca con sé un sostanzioso affievolimento del rischio di recidiva. In questo senso proprio i dati sulla recidiva ci confortano mettendoci in guardia sul maggior tasso per chi ha scontato la pena in regime carcerario rispetto a chi è stato sottoposto alle cosiddette pene alternative. Sono dati che non possono sorprenderci e che ci invitano a pensare sempre più ad una pena maggiormente legata a quelli che sono gli obiettivi da perseguire nell’ottica del reinserimento. Sempre, ripeto, guardando all’unico modello carcere come inefficace e dannoso se esteso a ogni tipologia di reato e di condannato. In questo ambito non possiamo non chiederci: come si fa a pensare a un recupero effettivo, così come previsto dalla Costituzione, se c’è dal punto di vista degli affetti un sostanziale “congelamento”. Proprio dal punto di vista degli affetti in relazione alla condizione dei detenuti, l’Italia è indietro. In molti altri Paesi europei, esistono strutture nelle quali le affettività vengono stimolate ed è possibile viverle per il detenuto in modo più spontaneo ed effettivo. Il detenuto è messo nelle condizioni di uscire dal proprio disagio e dal proprio isolamento e di condividere con le persone care momenti di intimità. Passa anche da quei momenti la voglia di riscatto e la condivisione con chi resta fuori ad attenderlo amorevolmente un percorso di recupero. Se quel mondo resta fuori vengono anestetizzati troppo preziosi supporti emotivi. E a proposito di affettività, mi chiedo: esiste o no un diritto in tal senso che appartiene al detenuto in quanto essere umano? È un tema aperto. Diritto o concessione premiale? Su questo aspetto, quello della affettività del condannato, credo si possano fare passi avanti. Difatti, per consentire al condannato di elaborare al meglio il proprio errore ed avere piena consapevolezza dello stesso, si deve puntare a non disperdere le positive energie emotive che possono essere stimolate proprio dalle relazioni affettive. e nella espiazione della pena carceraria continueranno a resistere queste forme di congelamento e isolamento delle affettività, il condannato finirà per sentirsi vittima di un sistema iniquo, ingiusto ed a non sentirsi in debito con la comunità. Al netto, poi, del ribaltamento condizionante che il carcere produce in termini di valori e di selezione: chi è dotato di maggiore spessore criminale finisce per fagocitare anche il detenuto resosi responsabile di reati minori ed alla prima esperienza da recluso. Ed è proprio per questo che come modello unico e massificato per ogni reato il carcere va superato non per un atteggiamento di perdonismo fine a se stesso. Credo che in un percorso evolutivo della sanzione penale, la pena detentiva debba essere utilizzata per i reati di particolare allarme sociale, per i reati che mettono in pericolo la sicurezza dello Stato, per quelli commessi da organizzazioni criminali che tendono a sostituirsi allo Stato e soffocano la libertà dei cittadini nelle comunità. Ma in ogni caso, quando non vi è grave e concreto pericolo per la sicurezza, va prevista sempre una forma alternativa alla detenzione che, pur conservando una necessaria afflittività non perda la vocazione riabilitativa e risocializzante. Anche dal punto di vista dei costi, poi, l’eccessivo ricorso alla pena carceraria determina spese altissime per lo Stato: il carcere non è neanche una pena “a buon mercato”. E quando si parla di carcere e Costituzione, non posso che pensare anche al cosiddetto ergastolo ostativo. A tal proposito ritengo interessante il dibattito proprio sulla possibilità di prevedere ergastoli privi di qualunque prospettiva e beneficio, anche a prescindere dalla condotta del detenuto. Mi chiedo: l’ergastolo ostativo non rischia di far perdere la speranza, che non è propria soltanto del cittadino libero ma dovrebbe appartenere all’Uomo in quanto tale? La speranza unica fonte per valorizzare al meglio il quotidiano. In questo senso, il discorso diventa complesso e coinvolge il singolo patrimonio politico culturale di riferimento. Devo ammettere che quando penso ad un individuo detenuto tendo a far prevalere, nelle analisi, il sostantivo sull’aggettivo. Così, inevitabilmente, il rispetto dei diritti e della dignità dell’Uomo in quanto tale, non può che rivelarsi centrale, a prescindere dallo stato di detenzione. Mi rendo conto che si tratta anche di temi impopolari da trattare perché è certamente più facile far ricorso ad una svalutazione dei diritti quando si parla di soggetti che hanno commesso reati, talvolta particolarmente gravi, e stanno scontando la pena. Tuttavia, ritengo che non si possa mai perdere di vista un concetto di fondo: le garanzie costituzionali sono un patrimonio prezioso per tutti e non si esauriscono in meri formalismi dovendo rispondere nella sostanza, ai propri contenuti. Mi piace pensare, poi, che ci sia sempre e per tutti gli uomini, un diritto alla speranza. La Speranza che per Sant’Agostino era madre di due bellissimi figli: lo sdegno per la realtà delle cose e il coraggio per cambiarle. *Avvocato “Oltre il carcere”, per rendere formativo il tempo della pena di Alessandra Ceccherelli indire.it, 4 luglio 2018 Sintesi dal seminario Epale di Bari. Le misure alternative alla detenzione devono essere ampliate. Non si tratta dell’opinione di una parte di società dotata di spiccato senso umanitario, ma di evidenze sostenute dai dati: ogni esperienza di recupero dimostra infatti che dopo, in carcere, non ci si torna più. O comunque molto meno. Muovendo dalla volontà di dare visibilità a queste affermazioni e approfondirne i princìpi fondativi, a lungo dibattuti nelle recenti vicende della riforma dell’ordinamento penitenziario, l’Unità Epale Italia (Indire) ha organizzato all’Università Aldo Moro di Bari tre giornate di seminario sul tema, con l’obiettivo di contribuire a costruire un carcere più inclusivo e umano, con componenti educative e responsabilizzanti volte al ritorno del reo nella società. La relazione di Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, ha invitato a promuovere la crescita e lo sviluppo della persona durante l’esecuzione della pena. Creare alternative alla restrizione della libertà, che oggi rappresenta l’unica espressione del carcere, serve a rafforzare l’efficacia della pena e a restituire alla società il torto subìto, ma anche a formare individui in grado, una volta fuori, di contribuire alla comunità e rispettare le regole. Istruzione e cultura, lavoro e impegno sociale - la fatica da superare per recuperare se stessi, perché è più facile perdersi e sbagliare che trovare una strada nella legalità - sono gli elementi per rendere questo processo forte. Lo dimostrano le esperienze di tanti Paesi europei citate dal Garante e da molti dei relatori presenti a Bari. Carmelo Cantone, Giuseppe Centomani e Pietro Rossi, rispettivamente Provveditore, Direttore del Centro minorile e Garante dei detenuti per le regioni Puglia e Basilicata hanno aperto i lavori introdotti e moderati da Lorenza Venturi, Capo Unità di Epale Italia, davanti a una platea di oltre 150 partecipanti, tra docenti carcerari, responsabili di associazioni e onlus, referenti presso gli enti locali e operatori penitenziari, da tutta Italia. Riconfermando la sua posizione di sostenitore delle politiche di apertura alle attività artistiche, Carmelo Cantone ha indicato la necessità di rendere effettive e significativamente presenti le iniziative idonee a ricostruire un legame con la società, oltre a ogni attività educativa e lavorativa remunerata. L’esempio positivo da seguire, ha rilevato poi Centomani, viene dagli istituti penitenziari minorili che ospitano solo 450 ristretti (250 stranieri), mentre oltre 20mila sono seguiti sul territorio, a testimonianza del lavoro che il Minorile compie per limitare il carcere. Anche dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato, è arrivato l’invito a sostenere concretamente un utilizzo diverso del tempo della detenzione da parte degli organismi amministrativi, un tempo morto, parentesi di vita, tempo dilatato che cancella i punti di riferimento e le connessioni con la realtà. “La maggior parte dei detenuti italiani è costretta a un ozio forzato che significa avere una limitazione di spazio eccessiva rispetto a un tempo dilatato, e questo influisce negativamente sui processi di responsabilizzazione del detenuto”, ha dichiarato Bortolato aggiungendo che “Il detenuto deve essere destinatario attivo e non passivo del suo percorso di educazione e per questo è necessario un forte investimento culturale che abbracci tutti gli ambiti della vita detentiva: dal linguaggio, alla libertà di movimento, al doloroso rapporto con l’affettività negata”. Nel corso del seminario si è parlato nello specifico di alcune proposte a supporto del reinserimento: istruzione e formazione professionale in primis, ma anche una nuova via per il confronto e la presa di coscienza del danno causato. Si tratta della giustizia riparativa attraverso la mediazione penale, presentata da Laura Vaira secondo la quale “Il lavoro più importante della giustizia riparativa è far sì che ognuno, per il suo ruolo nella società, possa contribuire a far cambiare la mentalità, il punto di vista sul carcere, perché ci riguarda tutti”. I lavori dei gruppi si sono focalizzati sullo sviluppo di proposte e soluzioni concrete, con l’intento di redigere un documento condiviso conclusivo. Per questo, accanto agli interventi istituzionali, sono state presentate anche esperienze svolte in diverse regioni e province: attività di istruzione professionale nel settore alberghiero, in corso con successo nella Casa di reclusione di Volterra; il lavoro per i detenuti in libertà vigilata del progetto di birrificio artigianale promosso da “Semi di Libertà Onlus” a Roma; il processo di collaborazione tra istituzioni e cittadini che a Ferrara, su iniziativa del Comune, ha messo in rete tante realtà disperse di volontariato, regolamentandole e indirizzandole verso un obiettivo comune: la città che incontra il carcere. Tante altre esperienze di piccole realtà isolate, che potrebbero essere di esempio per tanti, sono state poi condivise dai partecipanti nei gruppi. Con lo stesso intento ispiratore di nuove pratiche sono state proposte visite sul campo per conoscere meglio alcune realtà del territorio, tra cui il Laboratorio di legalità gestito dalla Cooperativa “Pietra di Scarto” di Cerignola che da qualche anno impiega nei lavori agricoli anche i detenuti a fine pena. Un esempio di circuito virtuoso che valorizza il territorio e che Epale Italia ha deciso di sostenere, scegliendolo come sede per la cena sociale del seminario. E in Europa? Quali politiche educative si stanno sperimentando e quali sono le indicazioni e le azioni della Commissione in questo campo? Sono questi temi delle relazioni di Paul Talbot, project manager di Epea - European Prison Education Association, la rete di insegnanti carcerari per lo studio, la diffusione e la promozione dell’educazione in carcere che da più 20 anni si propone di raccogliere e condividere pratiche attraverso l’azione dei suoi associati nei diversi Paesi; l’intervento di Alan Smith, ex coordinatore del programma Grundtvig alla Commissione europea, ha invece ricostruito le azioni comunitarie a sostegno dell’istruzione dei detenuti e dei loro formatori. Ma più significativa di qualsiasi affermazione e opinione, resta la testimonianza dei detenuti invitati a Bari. Edin Ticic e Lester Batista, attraverso il linguaggio nobile di Torquato Tasso, hanno sospeso per qualche minuto la cadenza degli interventi cambiando l’espressione dei volti dei presenti. Sono potuti uscire dal carcere con un permesso speciale della polizia penitenziaria, grazie al loro essere parte della compagnia teatrale della Casa circondariale di Ferrara. Fermandosi a chiacchierare con gli spettatori, hanno raccontato quanto sia stato difficile “lottare” per mesi con il testo della Gerusalemme Liberata, ma anche quanto sia bello vedere le facce della gente mutare dopo lo spettacolo e uscire dal pregiudizio. “Perché siamo bravi”, scherza Lester. La fatica dello studio e della memoria in una lingua che è antica, ostica anche per gli italiani oggi, è già segno tangibile di motivazione e impegno, e nel loro temporaneo tornare “fuori”, è visibile il valore del lavoro che hanno fatto su se stessi. Nei tre giorni di seminario sono state realizzati video, interviste e documenti di sintesi e sono stati proposti documenti ufficiali determinanti per comprendere l’attualità del dibattito sul carcere oggi. Tutto il materiale è disponibile su Epale nell’articolo di Martina Blasi, “Oltre il carcere. I contenuti del seminario”. Chi oggi strepita contro i barbari ha legittimato la giustizia forcaiola di Valerio Spigarelli* Il Foglio, 4 luglio 2018 Paghiamo vent’anni di inni ai caudillos della magistratura e di assalti alla politica considerata becera e immonda. Quando eravamo ragazzini, nei 60, per fare le squadre nei campetti sotto casa stendevamo una mano e dicevamo “chi sta con me metta il dito qua sotto”. Ecco, facciamo la stessa cosa di fronte all’ondata di nequizie che i nuovi al governo stanno facendo, o dicono di voler fare, sui diritti e sulla giustizia. Senza distinguo e birignao paraculi, del tipo “il popolo sta con loro” e mettendoci tutti un po’ di sangue, che altrimenti non si capisce che la faccenda in ballo è un formidabile arretramento del livello di civiltà giuridica del paese. Intanto, se proprio è vero che il “il popolo sta con loro” e vuole il sangue dei migranti, i pogrom degli zingari, una bella doccia di pene raddoppiate per tutto e tutti, l’abolizione della Gozzini e magari anche la libertà di tirare una pistolettata a uno che gli ruba la bicicletta in giardino, è perché molti di quelli oggi strepitano contro i nuovi barbari hanno legittimato una idea palingenetica e antipolitica della giustizia, per venti e passa anni; pronti a bere il sangue degli avversari politici e soprattutto a inneggiare ai caudillos della magistratura che di quella becera visione della politica come cosa immonda e corrotta si fanno paladini anche ora. E allora bisogna essere chiari e tondi nel dire che una idea liberale della giustizia non contempla i distinguo politically correct di chi è disposto a versare il sangue per Abdul (e io sono disposto a farlo, sia chiaro) che magari ha solo otto anni e viene rimbalzato nel Mediterraneo da un porto all’altro per un oncia di consenso popolare, però applaude, o perlomeno se ne sta zitto col nasino arricciato e la coccarda “anti” qualcosa sul bavero della giacca, quando un Provenzano o un Dell’Utri schiatta di carcere. E no, i diritti, e un modello liberale del diritto, sono indivisibili, quando cominci ad affettarli sono gli altri che vincono, quelli che adorano la certezza della pena, anche se non per gli amici loro. “Il popolo sta con loro” - Dunque cominciano a dire che per contrastare le supercazzole forcaiole di quelli che siedono oggi sulle poltrone che decideranno le sorti del nostro sistema giudiziario, da Via Arenula alle commissioni Giustizia del Senato e della Camera, bisogna avere chiaro in testa che tutto si tiene, e che “il popolo sta con loro” perché negli ultimi cinque lustri dai fax, ai girotondi, fino ai popoli delle ruspe e del vaffanculo, non aver detto chiaro e tondo che “intercettateci tutti” era l’immonda parola d’ordine da Stato Leviatano, ci ha portato alla situazione attuale. Per cui grazie a chi scopre che Bonafede davanti a Lilli Gruber balbetta e rinnega Lanzalone come san Pietro, ma non ci facciano però la morale inneggiando a San Saviano - che fa bene ad incazzarsi se Salvini gli toglie la scorta per ripicca e si comporta come se il Viminale fosse la fabbrichetta sua, perché giustamente la pelle è una cosa seria - però fa meno bene a dire che se fai un comizio in Calabria devi per forza essere mafiosally correct sennò sei un ministro della malavita. E che diamine, non eravamo antirazzisti? Cominciamo a dire che non è normale ascoltare un allora presidente dell’Anni dire in televisione che i cattivi vengono assolti perché non si può usare quello che i testimoni raccontano nelle private stanze di commissariati e caserme. Non è normale sempre e per tutti, mica solo quando scoppia il casino Consip. Non è normale, ed è anche incostituzionale a leggere l’articolo 111 della Costituzione, e quindi un decimo di quelle reazioni sdegnate che registriamo ora sul far west che si vagheggia a proposito della legittima difesa era giusto aspettarsele anche allora, soprattutto da parte di quei magistrati che la Costituzione la sbattevano in faccia al ministro Castelli all’epoca della riforma dell’ordinamento giudiziario. Visto che ci siamo diciamocela tutta: magari avercelo Castelli al posto del ricercatore di Firenze che vuole costruire mille galere e abrogare anche quel poco di buono che si è fatto negli ultimi dieci anni in tema di strumenti deflattivi dei processi o alternativi al carcere. Bisogna pure che ci diciamo chiaro, noi garantisti d’antan, che il discorso vale per tutti, giustizialisti di ritorno ed anche amici delle garanzie a “tempo” o ad hominem, che non puoi stare coi piedi in due scarpe, per cui quando sotto la gogna ci sta il signor B ti incazzi mentre quando tocca a Salvuzzo o Mustafà gli apparecchi l’allungamento della prescrizione ad libitum, che la Cirielli mica ce la siamo scordata. Così come non ci siamo scordati che se nei primi cento giorni dei governi che furono si fosse fatta la separazione delle carriere, invece che tentare di garantire l’immunità di questo o quello, forse non saremmo nella situazione in cui stiamo ora, con le Procure che fanno quello che vogliono durante le indagini preliminari, si inventano mafie di ogni risma e colore ogni volta che incrociano tre o quattro scagnozzi che fanno i guappi a Corso Francia o su un lungo mare, e privilegiano quel cimitero di diritti e garanzie che sono i processi di prevenzione dove anche le assoluzioni valgono come prova del fatto che sei un poco di buono altrimenti non ti avrebbero processato. Tutto si tiene signori, o cominciamo a dirle queste cose, bestemmiando anche nel sancta sanctorum dell’antimafia, oppure è tutta una finta. Occhio, urlare bisogna urlare, senza riflessi corporativi, tutti. Per cui quei pochi giornalisti che non confondono l’informazione giudiziaria con la diffusione delle veline delle agenzie investigative dovrebbero incominciare a bombardare il loro quartier generale, oltre che tirare qualche moccolo in redazione. Per esempio spiegando alla Fnsi che di fronte a un giornalista che dà del mafioso ad un avvocato per averlo citato in un arringa, non dovrebbe scendere subito in campo in difesa del collega, magari il giorno dopo aver fatto un bel comunicato di solidarietà a favore di quelli, magistrati e avvocati, che vengono sbattuti in galera solo perché pretendono di difendere lo stato di diritto in Turchia. Nello stato “di diritto” c’è pure il diritto di difesa, o piace solo quando sta a qualche migliaio di chilometri? E tanto per non farci mancare nulla diciamo anche ai garantisti per mestiere, o per ideale, come dovrebbero essere gli avvocati, le loro associazioni e le loro rappresentanze istituzionali, che i tempi sono quelli che sono e non possiamo salvarci l’anima scrivendo qualche bel pezzullo sui giornali ma facendo una lotta politica seria e intransigente fuori dei tribunali - sul programma giustizia di governo, però, non su singole questioni sulle quali abbaiare alla luna come conigli mannari - oltre che il nostro dovere senza paure dentro i tribunali. La visione rozza della giustizia - Bisogna rendersi conto che oggi è passata l’idea che un avvocato, penalista o civilista, è un tutt’uno con quelli che rappresenta, e questo è il segno definitivo di una visione rozza, oltre che forcaiola, della Giustizia, che ha normalizzato persino qualche schiera di avvocati, perché, se tanto mi dà tanto, anche tra gli avvocati i nuovi barbari hanno rastrellato un bel po’ di voti. E se questo pregiudizio viene usato anche contro “l’avvocato degli italiani” sull’Espresso - benché la convinzione di una stellare differenza, persino antropologica, tra noi e loro, che Ferrara giustamente rivendica, sia in fondo più che giusta - ciò non ci deve far velo a denunciarla con quanto fiato abbiamo in corpo, perché se siamo garantisti su Riina figuriamoci su Conte. Anche perché è una idea che in certe zone di questo splendido Belpaese legittima la criminalizzazione del diritto di difesa, quella vera fatta di intercettazioni ipocritamente “casuali” tra cliente e avvocato, e magari qualche accusa di concorso esterno a gente colpevole solo di aver difeso. Ed è una idea che si allarga dal sud al nord, tanto che comincia a trionfare anche sulle gazzette emiliane, per dire. Allora, forza, “mettete il dito qua sotto”, che la partita è già iniziata e il pubblico, cioè il popolo, ci tifa contro, ma non è un problema, ci siamo abituati. *Avvocato, già presidente dell’Unione delle Camere penali L’impegno del Cnf per una giustizia che custodisca il principio di uguaglianza di Andrea Mascherin Il Dubbio, 4 luglio 2018 Sull’orizzonte delle questioni affrontate nell’incontro di ieri, il presidente del Cnf Andrea Mascherin ha consegnato al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede “materiale che sarà utile per gli ulteriori approfondimenti comuni” - come riferisce un comunicato del Cnf - a partire da una nota che riprende tutti i temi a cui è rivolto l’impegno dell’avvocatura e della quale riportiamo un ampio stralcio. L’impegno del Consiglio Nazionale Forense è quello di contribuire con il Governo e con tutte le forze politiche alla piena attuazione dei principi costituzionali nel nostro Paese. Dunque piena centralità al principio di eguaglianza e al dovere di solidarietà, con il riconoscimento di una giurisdizione custode di tali principi. Per questo, il Consiglio garantisce impegno e collaborazione al Governo, sia in qualità di componente tecnica della giurisdizione, sia come corpo intermedio interprete delle esigenze sociali dei cittadini. Giurisdizione. Il processo. Deve recuperare la centralità intesa come sede di garanzie e di affermazione dei diritti, specie dei più deboli, e ciò deve valere per tutte le nostre forme di processo. Non può quindi valutarsi il processo (civile, amministrativo, penale, tributario…) con metro meramente efficientista o come palestra di performance, né con tali criteri debbono essere valutati i magistrati. Investimenti. Necessario, quindi, investire nel sistema Giustizia: i settori primari sono quelli relativi all’aumento degli organici di magistrati, del personale amministrativo, agli strumenti informatici, alla edilizia giudiziaria. Bari è solo la punta di un iceberg destinato, questo si, ad affondare il sistema Giustizia. Costi. Attualmente i costi per accedere alla giustizia civile e amministrativa rendono i rispettivi processi non democratici, bisogna dunque intervenire sui contributi di iscrizione a ruolo. Va, invece, abbandonata l’idea di riforme a costo zero o procedurali, che troppo spesso si riducono a tagli di garanzie senza alcun effetto benefico per il processo, anzi (...). Prossimità. In passato si è confuso il concetto di efficienza con quello di accentramento degli Uffici Giudiziari, con sacrificio del diritto dei cittadini alla prossimità dei servizi. La riforma della geografia giudiziaria in non pochi casi ha dato pessimi risultati, facendo perdere efficienza al siste- ma, aumentando i costi, creando forme di disagio logistico non dignitose. Ciò non significa che si debba ripristinare in toto la situazione antecedente, ma certamente va svolto un monitoraggio che consideri le peculiarità territoriali, quali la esistenza di infrastrutture, di mezzi di comunicazione, di densità criminale, di depauperamento socio economico, di posizione geografica ecc... Processo civile. Come detto i costi del contributo unico sono tali da negare per censo il diritto alla tutela dei diritti. Importante potenziare lo strumento della negoziazione assistita con i necessari incentivi economici per gli utenti e semplificazione massima del procedimento. La negoziazione e altre misure procedurali, che pongano al centro il ruolo dell’avvocato nella fase che precede l’eventuale ricorso al giudice, sono i veri strumenti deflattivi in grado di dare importanti risultati in tal senso, preservando nel contempo la centralità della Giurisdizione (...). Si richiama qui il problema dei costi di accesso anche al processo amministrativo. Come per il processo tributario si richiama l’esigenza di dare centralità alla qualità della giurisdizione di primo grado. Processo penale. Il processo penale decide dell’essere dell’individuo ed è destinato ad accertare i fatti, non può aver nessuna funzione di prevenzione dei fenomeni criminali. Si ricorda che in Italia sono circa mille all’anno le persone accertatamente innocenti che si ritrovano ristretti in carcere per periodi variabili (...). Motivo di criticità pensare di risolvere il tema della durata del giusto processo (non del processo) con l’eliminazione di fatto dell’istituto della prescrizione, che può avere l’unico risultato, in mancanza di mezzi, personale, strutture, di allungare all’infinito lo stesso. Interventi normativi così delicati sarebbero certamente inutili nel caso si operassero i necessari investimenti, già richiamati. Del resto se guardiamo (giustamente) anche agli interessi della parte lesa, va osservato come la concreta tutela della stessa nella quasi totalità dei casi è destinata comunque a essere rimessa al giudice civile. Per tale motivo e per determinate fattispecie sarebbe più efficace ricercare soluzioni di tutela risarcitoria “più rapida” all’interno del processo civile stesso. Delicatissimo avventurarsi in ipotesi quali la reformatio in pejus, che allontanerebbero il nostro Paese dalla idea di Stato di diritto e della inalienabilità del diritto a difendersi senza condizionamenti di sorta, più o meno occulti (...). Ordinamento Penitenziario. Nel solco di una idea di Stato di diritto va anche il tema della riforma dell’Ordinamento penitenziario. Non va sovrapposto il giusto concetto di certezza della pena con un discostamento dalla interpretazione costituzionale (e delle Corti internazionali) della pena stessa. La pena alternativa è pena, e la sua applicazione ne comporta l’espiazione certa. Espiazione che deve coincidere anche con l’obiettivo del recupero alla Società del reo, con il vantaggio di aumentare la soglia di sicurezza (si vedano le note statistiche sul punto) e di reimmettere nel circuito della Società soggetti economicamente attivi, dunque non a carico della collettività. Naturalmente, e per contro, è importante che le pene alternative siano calibrate su rigorosi criteri soggettivi, con esclusione dunque di automatismi, e con un favor per l’aspetto riparativo. Intercettazioni. Si tratta di strumento delicatissimo, che deve stare in equilibrio tra ragioni di indagine, tutela del diritto di riservatezza e quello di cronaca. Le intercettazioni non possono essere considerate come mezzi di ricerca “a strascico” della prova, ma devono essere utilizzate in un conteso indiziario già di per sé robusto, attraverso un rigoroso controllo giurisdizionale, senza ostacoli di accesso alle stesse, in diritto o in fatto, da parte della Difesa. Deve essere garantita la riservatezza di chi è estraneo al procedimento penale e la tutela della dignità a chi è coinvolto nel procedimento stesso. Vanno rispettati i divieti di pubblicazione, seppur nel pieno rispetto del sacrosanto diritto di cronaca. Infine va vietata senza eccezioni e riserve di sorta la intercettazione, ovvero l’ascolto, dei colloqui tra avvocato e assistito. Patrocinio a spese dello Stato. Necessario intervenire sulla normativa del patrocinio a spese dello Stato, strumento riconosciuto dalla nostra Costituzione, e dalla Cedu, come mezzo indispensabile per garantire il diritto alla difesa a tutti, ovvero il principio di eguaglianza nella Giurisdizione. Il Consiglio Nazionale Forense assieme a altre componenti della avvocatura ha predisposto un articolato che punta a risolvere i problemi attuali, non ultimo quello delle forme e dei tempi delle liquidazioni dei, peraltro modesti, compensi. Linguaggio d’odio. Terreno di impegno del CNF è il contrasto al linguaggio d’odio, specie sui social, che rischia di sacrificare ogni idea di corretto confronto di opinioni, che è alla base del vivere civile e della risoluzione dei conflitti sociali. Da qui, tra l’altro, l’evento del G7 delle avvocature sulla protezione della persona nell’era dei social media tenutosi il 14 settembre in Roma, sotto gli auspici della Presidenza del Consiglio, così come l’impegno nelle scuole all’interno del progetto Alternanza scuola- lavoro per la promozione di una cittadinanza attiva secondo principi di legalità. Diritto come regolatore. Necessario riportare al centro il diritto come strumento regolatore dei rapporti sociali e di mediazione dei conflitti. Lo Stato di diritto è proprio quello che rifiuta una società senza regole che finisce per risolvere i conflitti con la prepotenza, anche del linguaggio, secondo canoni di sopraffazione del più debole. Necessario quindi fissare l’idea del diritto come mezzo di mediazione e come regolatore generale, compresa l’economia e il mercato. Un mercato senza regole ha prodotto gli effetti che conosciamo, vedi ad esempio le truffe ai (piccoli) risparmiatori. Solo la centralità del diritto e delle regole può garantire una Società solidale fondata sulla dignità della persona. Sistema normativo eco-centrico. In un mondo soggetto a effetti domino globali, non ci si può sottrarre alla considerazione che fenomeni come le migrazioni di massa dipendano da guerre, mancanza di cibo e di acqua. Il Consiglio Nazionale Forense è impegnato in reti internazionali aventi lo scopo di promuovere sistemi normativi nazionali e internazionali sempre più eco-centrici e sempre meno antropocentrici. Ogni Stato deve riconoscere il diritto all’acqua, il diritto al cibo, il diritto alla pace, da fissarsi attraverso regole giuridiche e accordi sia a livello interno che internazionale. Da qui le iniziative del Consiglio Nazionale Forense a sostegno dei principi richiamati e la costituzione della associazione ZeroWar2020. Diritti umani. In generale il tema dei diritti umani dovrebbe essere tema centrale per il Governo, dovendosi chiarire senza ipocrisie gli equilibri troppo spesso labili tra impegno per il rispetto dei diritti umani e gli interessi economici dello Stato. In questo ambito si inserisce anche l’impegno del Consiglio Nazionale Forense a tutela dei colleghi soggetti nel mondo a violenze, incarcerazioni, assassinii, per il solo fatto di voler garantire i diritti fondamentali. Professione. Specializzazioni. Alla attuazione definitiva della legge professionale manca solo l’emanazione del DM in tema di specializzazioni. Importante provvedervi al più presto, trattandosi di strumento utile a garantire ai cittadini un servizio competente e ai giovani professionisti specifici settori di mercato. Equo compenso e parametri. L’affermazione del decoro e della dignità della professione richiede un riconoscimento economico adeguato alla prestazione, che deve peraltro essere contraddistinta da competenza, correttezza e qualità. Nella passata legislatura si sono fatti passi in avanti importanti con la introduzione della legge sull’equo compenso e una rimodulazione dei parametri forensi. Sarà necessario proseguire su questa strada per una migliore estensione e applicabilità di queste norme. Sostegno a giovane avvocatura. Importante per il futuro del Paese garantire sostegno ai giovani professionisti, secondo criteri di merito, che ne favoriscano la crescita professionale e la strutturazione di moderne forme organizzative degli studi professionali. Da promuovere quindi accessi agevolati al credito e benefici fiscali, così come è necessario impedire che gli stessi soffrano di concorrenza “sleale” attraverso burocratiche applicazioni delle direttive europee. Natura Ordini. I Consigli dell’Ordine sono soggetti a interpretazioni giurisprudenziali e normative spesso schizofreniche, venendo considerati alle volte alla stregua di ordinari enti pubblici, altre volte come associazioni di impresa. Senza considerare che si tratta di enti che non pesano assolutamente sull’erario pubblico (anzi lo sovvenzionano) e che le proprie risorse economiche derivano dai contributi privati degli iscritti. Al fine di garantire un adeguato funzionamento degli Ordini senza distorsioni di sorta, e nel rispetto dei principi di trasparenza, sarà necessario mettere mano a una normativa che ne delinei la specifica natura. Rafforzamento del ruolo di avvocato in Costituzione. La moderna giurisdizione reclama sempre più la difesa da possibili condizionamenti e dunque la difesa della autonomia e della indipendenza della stessa da ogni forma di compressione esterna. D’altro canto la autonomia e la indipendenza della magistratura si è di fatto espansa, sol che si pensi alla attività inevitabile di interprete di norme interne e internazionali che ne ha accentuato la funzione di “legislatore”. Di converso si è inevitabilmente compressa la attività del difensore. Appare evidente come sia importante garantire che l’equilibratore al potere della magistratura, non sia un altro Potere, non sia invasivo della di lei autonomia e indipendenza e non sia esterno alla Giurisdizione stessa (controllo dell’Esecutivo, del Parlamento, forme elettive, ecc.). Necessario quindi affermare con chiarezza che a rivestire il ruolo di equilibratore, esclusivamente tecnico, del Potere giudiziario debba essere l’avvocatura, con l’inserimento nell’art. 111 Cost. della affermazione della libertà e indipendenza dell’esercizio della professione. Violenza domestica, il “kit della fuggiasca” che non risolve i problemi di Emanuela Valente Corriere della Sera, 4 luglio 2018 Ci sono molti modi per affrontare la violenza domestica. Il Consiglio Regionale del Piemonte ha scelto la via del gadget: una valigia con tutto l’occorrente in omaggio alle donne che decidono di “non tornare più a casa”. Dentro: “Accappatoio, asciugamani, canottiera, pigiama, pantofole, tre cambi di slip e di calze, e anche fazzoletti di carta e assorbenti” nonché “una trousse con l’occorrente per l’igiene, che contiene bagnoschiuma, shampoo e saponetta, spazzolino e dentifricio, cotton fioc e dischetti di cotone, spazzola, latte detergente, creme per il viso e per il corpo”“. Insomma, se fuggite di casa non fatelo di notte che poi rischiate di trovarvi con quattro pantofole e nessun paio di scarpe. Nell’immaginario di chi ha progettato il “kit di salvataggio”, dunque, la donna costretta a fuggire di casa è una persona molto pulita, in età fertile, taglia unica, che passa la vita a dormire e non rinuncia alla crema idratante, non ha un lavoro né una vita sociale e può uscire di casa da un momento all’altro senza più farvi ritorno purché abbia con sé una spazzola. Nell’immaginario collettivo, poi, basta che ci sia un omaggio e tutto funziona. Anche i giornalisti, che hanno reclamizzato con toni compiaciuti la mirabile iniziativa dell’ormai noto club Soroptimist, non hanno avuto il minimo dubbio sull’utile bontà di una valigia per le donne vittime di violenza e dell’utilizzo di fondi pubblici per l’acquisto di canottiere e dischetti di cotone. E allora anche noi proviamo ad immedesimarci. Chiudete gli occhi ed immaginate di essere una donna e trovarvi in una situazione di violenza domestica. Ve ne accorgete così, all’improvviso, mentre fate jogging al parco e non avete con voi altro che la bottiglietta d’acqua a basso contenuto di sodio. Vi guardate un attimo nel riflesso di una vetrina, vi accorgete di avere un occhio pesto, preferibilmente il sinistro, e passate al commissariato. Sporgete denuncia et voilà decidete di non tornare più a casa, anche se è casa vostra da nove generazioni, anche se avete appena finito di pagare il mutuo, anche se avete lasciato la pasticca per la pressione sul comodino, se tutti i vostri documenti sono rimasti nella libreria e il cane deve uscire a fare pipì: pazienza, l’emergenza è emergenza. Non vi interessa se a casa ci sono tutti i vostri vestiti, le scarpe, le foto, i diari di quando eravate bambina, il libretto di assegni e la parure che vi hanno regalato per i cinquant’anni. Non importa se in quella casa avete tutta la vostra vita, se avete investito in quella famiglia più della metà dei vostri anni, se avete scelto il colore delle tende, rifatto gli infissi e passato l’aspirapolvere fino a stamattina. Voi uscite da quella casa e andate via, così, senza neanche lo spazzolino da denti. Ed è qui che si vede la prontezza della Polizia di Stato: non solo lo spazzolino, ma anche il dentifricio vi danno! Non importa se prima di consegnarvi il borsone della fuggiasca vi osservano scettici e vi chiedono trentasei volte se siete proprio sicura di quello che state dicendo, se per caso non avete fatto voi qualcosa per provocare vostro marito; non importa nemmeno se vi invitano a tornare a casa e preparare un piatto di spaghetti e magari mettervi un po’ di profumo, che quello nel kit non c’è ma a volte i problemi coniugali si risolvono così. L’importante è che voi abbiate deciso di andare via di casa nel tardo pomeriggio, e tutto ciò che vi serve è un pigiama per la notte. Poi tutto il resto si vedrà. Intanto siete a posto per tre notti e, a quanto scrivono i giornali, sarete anche ospitate in un non meglio specificato albergo. Ora tutto sta a non uscire di là, giustificare l’assenza dal lavoro, non rispondere al cellulare e fare due passi solo camuffate in modo da essere irriconoscibili (ma la parrucca, gli occhiali da sole e le tette finte non sono nel kit). Via, tutta la vostra vita precedente dovete dimenticarla, cancellate il profilo Facebook, oscurate Instagram e rendetevi degne di “chi l’ha visto?”. Siete come un pentito di mafia, un collaboratore di giustizia, ma non avete diritto alla scorta e ad una nuova identità: avete solo un borsone per tre notti. E ora? Ora che avete depositato la denuncia, come fate a salvarvi? Ora che, invece di essere allontanato lui dall’abitazione - come è previsto per legge - siete state invitate voi a lasciarla in cambio di tre paia di calze? Chi vi scorta al lavoro, a scuola, in palestra, al supermercato? Chi vi protegge da colui che ha promesso di uccidervi per tutto il tempo (anni) che serve alla lenta giustizia? Chi interviene ogni volta che lui si presenta a sorpresa alle vostre spalle? Chi paga gli avvocati, i periti, le cooperative a cui delegano i Servizi Sociali? Chi protegge i vostri figli, che ora dormono con voi in albergo senza nemmeno uno zainetto di salvataggio? Tutto ciò che avete è un pigiama, che magari non è neanche della vostra taglia, una canottiera che non siete abituate a portare e un accappatoio. Buona fortuna. Per il processo tributario servono giudici terzi e professionali di Antonio Damascelli Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2018 L’articolo del presidente emerito della Corte costituzionale Franco Gallo sulla giustizia tributaria, pubblicato sul “Sole” il 23 giugno scorso, offre una chiave di lettura critica delle ragioni giustificative della primazia della parte pubblica in nome della specificità della giurisdizione tributaria e propone soluzioni concrete per ristabilire l’equilibrio della parità delle armi nell’ottica del giusto processo. L’analisi e le terapie suggerite trovano il pieno consenso dell’Uncat, la quale in più occasioni ed anche in contesti istituzionali ha evidenziato come gli attuali componenti delle Commissioni tributarie di merito siano privi dei requisiti di terzietà, indipendenza e professionalità e ha affermato alcune priorità di cui il legislatore deve farsi carico: esercizio della giurisdizione tributaria da parte di giudici assegnati a tempo pieno; reclutamento dei giudici mediante pubblico concorso ed adeguato riconoscimento economico; passaggio delle Commissioni dal Mef alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Le ragioni di opportunità sono abbastanza evidenti e militano a favore di entrambe le parti del processo, le quali hanno un interesse non diverso da quello che il cittadino ha di fronte alle altre giurisdizioni, affinché il giudice naturale sia un organo terzo e professionale. Qualità non assicurate nella giurisdizione tributaria. L’intervento riformatore in senso organico del legislatore si impone ai fini della certezza del diritto: le modifiche succedutesi dall’entrata in vigore della legge processuale tributaria sono state opera della Corte costituzionale o della Cassazione. Ma questi interventi, lungi dal garantire la stabilità delle decisioni, creano un diritto giurisprudenziale che diventa assai pericoloso e fuorviante. È, infatti, diffuso il ricorso all’utilizzo delle massime di giurisprudenza nell’atto impositivo. L’utilizzo della massima presuppone l’identità del precedente, vale a dire la perfetta coincidenza del caso concreto deciso in precedenza con quello oggetto della decisione attuale. Poiché, spesso, la forbice tra la massima e la motivazione della sentenza è ampio, la regola dell’attenersi a quanto deciso diventa fuorviante se incorrettamente applicata. Di qui l’accentuarsi dei gradi del processo fino all’ingolfamento della cancelleria della Corte suprema. Per queste ragioni non si può non convenire che alla costituzionalizzazione del giusto processo siano consustanziali le tre regole del contraddittorio, della parità delle armi e della terzietà del giudice. La tutela differenziata si dimostra antistorica e la sua rivendicazione costituirebbe sul piano culturale il ritorno all’ancien regime, ad una concezione del tributo riconducibile al potere del sovrano-persona, che sarebbe stata spazzata via dalla nuova cultura illuministica circa il ruolo delle imposte all’interno dell’organizzazione sociale, funzionali all’erogazione dei pubblici servizi. E se in tribunale a decidere sarà un robot? di Andrea Ducci Corriere della Sera, 4 luglio 2018 Domani giornata di studi all’Accademia dei Lincei tra tecnologia e diritto. La scommessa è mettere a fattore comune le competenze di giuristi, matematici finanziari e ingegneri. Con l’intento di risolvere le cause pendenti nei tribunali che evidenziano elementi di serialità. I giudizi dove, insomma, si presentano problemi e casistiche che richiedono ogni volta valutazioni identiche, alcuni esempi tipici sono le cause per danni automobilistici, per invalidità o per casi di infortunistica. Al progetto lavora da quasi tre anni un gruppo coordinato dal professor Natalino Irti, accademico dei Lincei e già titolare di innumerevoli incarichi come presidente del Credito Italiano e vice presidente di Enel. Il lavoro svolto finora si è focalizzato sul tema della prevedibilità delle decisioni giudiziarie e sulla certezza del diritto. Nel 2016 si è tenuto un primo convegno dedicato a “la calcolabilità giuridica”, il successivo orientamento è stato quello di approfondire nel 2017 in un apposito convegno il tema dei “precedenti”, e domani sempre all’Accademia dei Lincei si svolgeranno i lavori di un incontro dedicato a “la decisione robotica”. “Gli algoritmi di decisone robotica e le tecnologie in generale sono in una fase di intenso sviluppo e la ricerca in diversi settori contribuisce alla loro rapida crescita. Anche il decidere delle macchine è oggetto delle ricerche in corso”, un’osservazione quella di Irti, seguita dalla constatazione che “il mondo giuridico deve essere parte integrante anche tecnica di questa rivoluzione, poiché il concetto di decisione chiama quello di responsabilità, e perché tra le attività decisorie di maggiore impatto e rilievo ci sono le decisioni dei giudici”. Qualcosa sta dunque cambiando, perché un software evoluto e corredato di tutte le informazioni necessarie potrebbe essere chiamato a svolgere un’attività “giudicante”. Una rivoluzione che non è sfuggita ai principali organi della magistratura, tanto che al convegno è previsto l’intervento di Giovanni Legnini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Mammone, primo presidente della Corte di Cassazione, e Filippo Patroni Griffi, presidente aggiunto del Consiglio di Stato. La contingenza punta perciò a dare una soluzione ai problemi correlati ai costi della giustizia e dell’assistenza sanitaria. I robot giudicanti sulle controversie che presentino carattere di serialità e ripetitività avrebbero, tra l’altro, il merito di contribuire a ridurre l’imponente arretrato che grava sul funzionamento dei tribunali. Ai lavori del convegno contribuiranno, tra gli altri, studiosi di tecnologia robotica come il professor Antonio Carcaterra, e matematici finanziari come il professor Massimo De Felice. Niente ricorso in Cassazione per il rinnovo della notifica con rinvio dell’udienza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 3 luglio 2018 n. 29860. L’indagato non può fare ricorso in Cassazione contro l’ordinanza interlocutoria con la quale il Tribunale del riesame dispone il rinnovo della notifica, in assenza di riscontri sull’avviso di udienza camerale, disponendo il rinvio. Il provvedimento, che non può essere considerato abnorme, non determina, infatti, alcuna stasi o regressione del procedimento. La Corte di cassazione, con la sentenza 29860depositata ieri, bolla come inammissibile il ricorso, in sede di legittimità, contro il provvedimento con il quale il Tribunale del riesame, con ordinanza interlocutoria, dispone il rinvio dell’udienza ad un’altra camerale fissa, considerando opportuno disporre la rinnovazione della notifica all’indagato, per la mancanza di una prova negli atti, dell’avviso per l’udienza camerale. I giudici della terza sezione penale, chiariscono, infatti, che seguendo questo percorso il tribunale non emette un provvedimento abnorme, né dal punto di vista strutturale né funzionale. La possibilità di rinnovare la notifica della citazione a giudizio è, infatti, un atto previsto dalle norme (articolo 143 delle disposizioni di attuazione del codice penale e articolo 310 del Codice di rito) applicabili anche al procedimento davanti al tribunale del riesame. L’iniziativa non intralcia il percorso del giusto processo perché non comporta una stasi e neppure una regressione del procedimento al di fuori dei casi espressamente previsti. L’atto, in linea con i diritti della difesa, non definisce il giudizio incidentale cautelare, ma ne consente la prosecuzione. In virtù della sua natura interlocutoria non pregiudica, infatti, in alcun modo i diritti delle parti Ladri di biciclette in cortile come in casa di Luana Tagliolini Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 27143/2018. Rubare una bicicletta in un cortile condominiale equivale a rubare in casa. Questo, in sintesi, il principio applicato di recente dalla Cassazione al furto di una bicicletta effettuato da un soggetto che si era intrufolato in un cortile privato dove era custodita e appartenente a una condomina (sentenza 27143/2018). Il furto, tuttavia, non era riuscito perché il ladro era stato osservato dal portiere, che lo aveva fatto bloccare all’esterno del complesso. La Corte d’appello aveva confermato la sentenza del tribunale che aveva condannato l’intruso per il reato “di furto in abitazione e furto con strappo” (articolo 624 bis del Codice penale: reclusione da uno a tre a sei anni e multa da 927 a 1.500 euro) mentre il condannato - ricorrente contestava tale qualificazione del fatto sostenendo che il tentativo di uscire immediatamente dal cortile doveva essere valutato in modo da inquadrate il comportamento nel reato di “furto non consumato in abitazione o nelle sue appartenenze” (articolo 624 del Codice penale: reclusione da sei mesi a tre anni e multa da 154 a 516 euro) o nel reato di “furto d’uso” (articolo 626: reclusione fino a un anno o multa fino a 206 euro). Per la Cassazione l’analisi dei fatti effettuata dalla corte di merito aveva ben illustrato come si fosse concretizzato il tentativo di furto, senza che fosse possibile diversamente qualificarlo né come “furto d’uso” (non era credibile che il condannato avesse voluto fare un uso momentaneo della bicicletta solo per percorrere alcuni metri interni al cortile) né come “furto non consumato in abitazione” perché, per orientamento costante della giurisprudenza “il cortile interno di una abitazione viene individuato come una pertinenza della medesima così da doversi configurare in caso di sottrazione di beni da tale spazio, il delitto previsto dall’articolo 624-bis codice penale”. Scafisti responsabili dell’ingresso illegale di migranti soccorsi in acque internazionali Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2018 Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza 3 luglio 2018 n. 29832. Il procurato stato di pericolo dovuto all’abbandono di migranti in acque internazionali, poi soccorsi e condotti in Italia grazie all’ausilio di una nave svedese di soccorso, rileva non solo ai fini del trasporto, ma anche dell’ingresso illegale di clandestini e ciò radica la giurisdizione del giudice italiano contro gli scafisti. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 29832 di ieri, ha così confermato la condanna per gli scafisti responsabili, a norma dell’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione. La sentenza di appello contro cui hanno proposto il ricorso per cassazione aveva ridotto la pena cancellando l’aggravante del fine di profitto, in quanto traghettatori materiali delle persone e non organizzatori della traversata. Posizione condivisa dalla Cassazione che per il resto respinge totalmente le pretese dei ricorrenti, compresa quella di vedersi riconoscere le attenuati generiche. L’aver indotto i soccorsi di altra nave di fatto obbligata a sbarcare sulle nostre coste è sostanzialmente procurato ingresso nel nostro Paese di migranti illegali. Non spezza la continuità della condotta punibile in base all’ordinamento italiano il fatto - sottolineato dagli scafisti - che i migranti a fronte dell’aiuto offerto da un altro mercantile di condurli a Malta abbiano rifiutato, determinandosi ad approdare sulle coste italiane attraverso il soccorso poi ricevuto da una nave svedese. Come spiega la Cassazione tale fatto non è sufficiente a circoscrivere l’azione degli scafisti alle acque internazionali, cioè in un’area al di fuori della competenza italiana. Il solo fatto di aver provocato il soccorso per essere in mezzo al mare con imbarcazione inadeguata e in situazione di sovraffollamento e di condizioni meteo avverse è sufficiente a escludere che l’ingresso illegale sia ascrivibile all’autore mediato del reato, cioè la nave svedese, anziché a coloro che hanno provocato la situazione di emergenza, che in base al diritto del mare obbliga al salvataggio delle persone alla deriva. Subaffitto del conduttore a immigrati irregolari: proprietario responsabile se partecipa a profitto Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2018 Corte di Cassazione - Sezione prima - Sentenza 3 luglio 2018 n. 29829. La proprietaria di un capannone dato in affitto a una cinese che, oltre a produrre indumenti, subaffittava parte dello stabile a lavoratori stranieri alcuni senza permesso di soggiorno è stata condannata in primo e secondo grado alla pena di otto mesi di reclusione. Secondo i giudici l’imputata era colpevole perché consapevole della creazione da parte della conduttrice degli spazi per l’abitazione dei lavoratori dipendenti in condizioni disumane. Una colpevolezza non condivisa dai giudici della corte di Cassazione che, con la sentenza 3 luglio 2018 n. 29829, hanno cassato le precedenti decisioni e rinviato il giudizio ad altra sezione della corte di appello di Milano. Secondo i giudici di legittimità infatti ai fini della configurabilità del concorso nel reato non basta la conoscenza del fatto che l’affittuario stesse subaffittando a stranieri senza permesso di soggiorno e in condizioni disumane è necessaria anche una partecipazione al profitto tratto dal conduttore. I principi di diritto - La Cassazione ha colto l’occasione per pronunciare tre principi di diritto. Questo il primo: “il delitto descritto nell’art. 12, comma 5-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 ha natura istantanea e si perfeziona, quanto alla locazione di immobile (o di parte di esso), nel momento in cui, per effetto dell’incontro dei consensi rispettivamente espressi dallo straniero privo di permesso di soggiorno e dal titolare (proprietario o conduttore) della facoltà di locare (ovvero sublocare) un immobile, si conclude ovvero si rinnova il contratto di locazione relativo a tale bene; senza che sia necessario che il conduttore (ovvero il sub conduttore) abbia acquisito la detenzione qualificata dell’immobile ed abbia iniziato a pagare il canone pattuito; con la conseguenza che tali eventi costituiscono effetto, nel tempo permanente, della commissione del reato”. E ancora i giudici hanno precisato che “ai fini della configurabilità del concorso del locatore nel fatto del conduttore che nell’immobile oggetto del contratto dia alloggio, al fine di trarne profitto, a stranieri privi di permesso di soggiorno, non è sufficiente la mera consapevolezza del locatore di tale illecita destinazione, non accompagnata dalla partecipazione al profitto tratto dal conduttore, del momento che non sussiste, per il locatore di immobile per un canone la cui misura risponda ai valori di mercato, l’obbligo di impedire la destinazione illecita impressa al bene dal conduttore nel corso dello svolgimento del rapporto ovvero di denunciare il fatto ai sensi dell’art. 354 cod. pen.”. Infine “una volta accertata la sussistenza del concorso del locatore nella commissione da parte del conduttore della condotta descritta nell’art. 12, comma 5-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, se il fatto sia stato commesso prima dell’entrata in vigore del d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, trova applicazione, anche agli effetti della confisca, la disciplina, più favorevole contenuta nell’art. 12, comma 5, dello stesso d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286”. No alla condanna del sindaco inerte sul rischio crollo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 29901/2018. L’inerzia del sindaco che si limita a fare un’ordinanza, disattesa, di sgombero di un’immobile abusivo e pericolante non basta a condannarlo per disastro ambientale. Perché possa essere configurato il reato è necessario che i comportamenti addebitati - tali da mettere in pericolo la pubblica incolumità - siano anche incidenti sull’ambiente. La Cassazione (sentenza 29901) accoglie il ricorso del sindaco e del tecnico responsabile della gestione del territorio, contro la condanna per il reato di disastro ambientale, previsto dall’articolo 452-quater del Codice penale, una norma introdotta dalla legge di riforma 68/ 2015 con l’obiettivo di rafforzare la protezione della salute e dei beni naturali. La Suprema corte annulla, senza rinvio, l’ordinanza con la quale il Tribunale della libertà aveva dato il via libera al sequestro di una via e di due immobili abusivi, costruiti negli anni ‘80, ipotizzando a carico del primo cittadino e del tecnico il disastro ambientale. L’accusa era di non essersi attivati a fronte di un concreto pericolo di crollo di fabbricati del tutto abusivi costruiti sopra un canale e dunque ad elevato rischio idrogeologico. Il sindaco non era andato oltre un’ordinanza di sgombero non rispettata da abitanti e negozianti incuranti delle evidenti lesioni strutturali. Un pericolo per la pubblica incolumità, passanti compresi, che aveva indotto il Tribunale ad accogliere la tesi del Pm e a fare l’ordinanza di sequestro contestando ai ricorrenti il disastro ambientale: un reato che per la Cassazione non c’è. I giudici ricordano le tre ipotesi previste dall’articolo 452-quater: alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; alterazione dell’equilibrio dell’ecosistema eliminabile solo con provvedimenti particolarmente onerosi e eccezionali e offesa alla pubblica incolumità, sulla quale pesano l’estensione degli effetti lesivi e il numero di persone coinvolte. Nel caso esaminato può essere rilevante solo la terza ipotesi, ma anche questa, al pari delle altre due, presuppone che “le conseguenze della condotta svolgano i propri effetti sull’ambiente in genere o su una delle sue componenti”. Per i giudici la condotta omissiva degli indagati, che avrebbe messo a repentaglio la pubblica incolumità, non ha il necessario “impatto” sull’ambiente richiesto dalla norma. Certamente l’abusivismo edilizio incide sul territorio trasformando il suo assetto originario, con conseguenze evidenti sull’ambiente. Nello specifico però, la realizzazione degli edifici risaliva agli anni 80 e, oltre a non poter essere addebitata agli indagati, non è stata indicata come produttiva di conseguenze sull’ambiente. Questo non vuol dire - conclude la Cassazione - che non ci si trovi difronte a una gravissima situazione di illegalità, protratta nel tempo, rispetto a edifici mai sanati, costruiti su una zona a rischio idrogeologico e mai abbattuti. Ma le ipotesi di reato sono altre e certamente non il disastro ambientale. L’accordo di ristrutturazione non seleziona i debiti da pagare di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 29869/2018. L’accordo di ristrutturazione, o meglio un’autorizzazione da parte del tribunale fallimentare al pagamento di alcuni debiti, non impedisce di soddisfare debiti diversi da quelli espressamente previsti. A meno che l’adempimento di questi ultimi non pregiudichi la soddisfazione dei primi. Lo chiarisce la Corte di cassazione con la sentenza n. 29869 della Terza sezione penale depositata ieri. la Corte ha così annullato con rinvio l’ordinanza con la quale il tribunale del riesame aveva cancellato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip nei confronti del rappresentante legale di una spa, sospettato di non avere corrisposto l’Iva. Il riesame aveva fondato la sua posizione sulla valorizzazione del decreto del tribunale fallimentare sull’accordo di ristrutturazione proposta dalla società: il divieto di iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive individuali, accompagnato dall’autorizzazione alla società a effettuare solo alcuni pagamenti, avrebbe come conseguenza l’implicito divieto a effettuarne altri e cioè tutti quelli non espressamente inclusi nel provvedimento, come è il caso dell’Iva. Per la Corte però si tratta di una conclusione errata. Infatti, “la proposta di accordo di ristrutturazione, anche qualora accolta nei limitati termini di cui al decreto ex articolo 182 bis Legge fallimentare, non impedisce di certo il pagamento dei debiti ulteriori rispetto a quelli espressamente compresi nel provvedimento stesso, a meno che questi l’adempimento di questi ultimi non si riveli esiziale rispetto agli altri, impedendone o pregiudicandone radicalmente la soddisfazione”. È il caso, per esempio, dell’esaurimento della capienza finanziaria. Se si ragionasse in maniera diversa, come ha fatto il riesame, invece, si metterebbe nelle mani del debitore un potere improprio. Basterebbe infatti una sua iniziativa e un provvedimento emesso in aderenza a questa (come il decreto del tribunale fallimentare) per dargli la possibilità di scegliere quali creditori soddisfare e quali no, garantendosi, come nel caso esaminato, la piena immunità dalla pretese del Fisco. In questo modo si aprirebbe un’ingiustificata breccia nel sistema delle garanzie erariali. Esito valido e paradossale oltretutto anche nel caso in cui l’accordo di ristrutturazione non fosse poi depositato nel termine assegnato dal tribunale, imponendo la revoca. Non vale poi a fare cambiare il giudizio della Cassazione, neppure il richiamo effettuato dal riesame a quanto previsto in materia di concordato. La Corte infatti ricorda suoi precedenti nei quali è sempre stato contestato un reato tributario quando l’ammissione al concordato stesso è avvenuta in un’epoca successiva alla scadenza del debito d’imposta. Di qui il rinvio al riesame per una nuova valutazione della questione. Lazio: il Garante dei detenuti “carceri sovraffollate, riprendere la riforma” latina24ore.it, 4 luglio 2018 “Continuano a crescere i detenuti nella Regione Lazio. Siamo ormai arrivati a 6.400 detenuti, la terza regione italiana per numero di presenze. Il tasso di affollamento è del 121%, cinque punti più della media nazionale. Nonostante i ripetuti sfollamenti Regina Coeli arriva al 155%, ma anche Latina, Civitavecchia, Cassino, Viterbo e Velletri sono in grande sofferenza. Prima che la situazione diventi ingovernabile, è urgente riprendere la delega alla riforma penitenziaria, lasciata in sospeso dal precedente Governo, e incentivare le alternative al carcere per le pene brevi e per i residui di pena. In questo senso, Regioni ed Enti locali possono fare molto per costruire percorsi di accompagnamento e sostegno ai condannati in esecuzione penale non detentiva”. Lo dichiara, in una nota, Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio. Calabria: costituito il Polo universitario penitenziario regionale Corriere della Calabria, 4 luglio 2018 Siglato protocollo tra Unical e Amministrazione penitenziaria. I detenuti di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria potranno svolgere attività didattica nelle sedi individuate dal Provveditorato delle carceri. L’Università della Calabria ed il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Calabria, rappresentati, rispettivamente, dal rettore Gino Mirocle Crisci e dal provveditore, Cinzia Calandrino, hanno siglato un Protocollo esecutivo con il quale è stato costituito il “Polo Universitario penitenziario”. “Il Protocollo esecutivo - è detto in un comunicato diffuso dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria - segue un’intesa sottoscritta nel 2014, con la quale era stato avviato un programma di collaborazione per la didattica, la formazione e la ricerca finalizzato a garantire ai detenuti il diritto allo studio. Grazie al “Polo universitario penitenziario” sarà possibile, per i detenuti italiani e stranieri presenti negli istituti penitenziari della Calabria, usufruire dell’offerta formativa dell’Università della Calabria. Infatti saranno organizzati cicli di lezioni e seminari del tutto simili a quelli che i docenti offrono agli studenti nelle aule universitarie”. “Le attività didattiche previste dal “Polo universitario penitenziario” - si aggiunge nella nota - si svolgeranno nell’Università della Calabria e nelle sedi individuate dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Calabria insistenti negli istituti penitenziari “Sergio Cosmai” di Cosenza, “Ugo Caridi” di Catanzaro e “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria. Grazie a questa importante iniziativa si rafforza l’attività posta in essere dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Calabria finalizzata al recupero ed alla risocializzazione dei detenuti”. Cosenza: Radicali in visita al carcere “area verde chiusa e prezzi alti per i detenuti” quicosenza.it, 4 luglio 2018 Sabato scorso 30 giugno, una Delegazione di Radicali Italiani composta da Emilio Enzo Quintieri e Valentina Anna Moretti, previamente autorizzata dal Consigliere Marco Del Gaudio, Vice Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia su richiesta dell’On. Riccardo Magi, Deputato di Più Europa con Emma Bonino e Segretario Nazionale di Radicali Italiani, ha visitato la Casa Circondariale di Cosenza “Sergio Cosmai” ove è stata ricevuta ed accompagnata dal Comandante di Reparto Commissario Capo Davide Pietro Romano ed altro personale di Polizia Penitenziaria. Preliminarmente, la Delegazione, prima di accedere alle Sezioni detentive, ha chiesto notizie in ordine all’area verde per i colloqui all’aperto, per la quale lo scorso 29 maggio, all’esito della precedente visita del 7 maggio fatta con gli Studenti dell’Università della Calabria, aveva sollecitato, ancora una volta, l’Amministrazione Penitenziaria a voler ultimare i lavori di rifacimento della stessa, al fine di rendere più gradevole e sereno l’incontro dei detenuti con i propri familiari, specie durante i mesi estivi. Ed infatti, una volta fatto ingresso negli spazi detentivi, numerosi detenuti, appartenenti ai Circuiti della Media e dell’Alta Sicurezza, hanno lamentato l’impossibilità di poter effettuare i colloqui all’aperto con le loro famiglie ed in particolare con figli/nipoti in tenera età o adolescenti e/o genitori anziani. Non si comprende come sia possibile che una progettualità finanziata nel lontano 2015 dalla Cassa delle Ammende, alla data odierna, non sia stata ancora completata e ciò nonostante le ripetute sollecitazioni, puntualmente effettuate all’esito di ogni visita. Stando a quanto riferito, allo stato i lavori sarebbero stati ultimati e mancherebbe soltanto il collaudo da parte dell’Ufficio Tecnico del Prap per la Calabria di Catanzaro. Pertanto, l’Amministrazione Penitenziaria ed in modo particolare il Provveditorato Regionale per la Calabria, è stato invitato dalla Delegazione visitante, per quanto di rispettiva competenza, a voler provvedere con la massima sollecitudine e senza ulteriori perdite di tempo, ad inviare il personale dell’Ufficio Tecnico presso l’Istituto di Cosenza al fin di definire la procedura di collaudo in modo tale che l’area verde venga immediatamente aperta e resa fruibile ai detenuti che, ormai da anni, sono privati di poter effettuare colloqui all’aperto. Altra problematica, degna di nota, emersa durante i colloqui intrattenuti con i detenuti circa le condizioni di vita detentiva nell’Istituto, riguarda il servizio di sopravvitto. Più precisamente, tantissimi detenuti, hanno lamentato che, proprio nei giorni antecedenti alla visita, sono state apportate delle modifiche al c.d. “Modello 72”, con assurdo aumento dei prezzi ed eliminazione di alcuni prodotti in vendita al sopravvitto. Da una veloce visione del “Modello 72” effettuata dal radicale Quintieri, in effetti, è stato riscontrato che: 1) vi è stato un aumento significativo dei prezzi per molti dei prodotti in vendita al sopravvitto; 2) sono stati eliminati alcuni prodotti di frequente consumo, in particolare quelli per la pulizia personale lasciando, unicamente, ai detenuti la possibilità di acquistarne solo uno; 3) in tutte le Sezioni detentive non è stato rinvenuto affisso alle bacheche il tariffario “Modello 72” vistato dall’Autorità comunale. L’Ordinamento Penitenziario del 1975 ed il Regolamento di Esecuzione del 2000 stabiliscono che: a) i prezzi del sopravvitto non possono essere superiori a quelli comunemente praticati nel luogo in cui è sito l’Istituto; b) che una rappresentanza dei detenuti composta da tre persone, designata mensilmente per sorteggio, integrata da un delegato del Direttore, scelto tra il personale civile, controlli qualità e prezzi dei generi venduti nell’Istituto; c) che la Direzione assumi mensilmente informazioni dall’Autorità comunale sui prezzi correnti all’esterno relativi ai generi corrispondenti a quelli in vendita da parte dello spaccio o assuma informazioni sui prezzi praticati negli esercizi della grande distribuzione più vicini all’Istituto e d) che i prezzi dei generi in vendita nello spaccio, debbano essere comunicati alla rappresentanza dei detenuti ed adeguati a quelli esterni risultanti dalle informazioni. Inoltre numerose Circolari del Dap emanate dal 1979 al 2011 invitano le Direzioni degli Istituti: ad eseguire costanti, puntuali e penetranti controlli in ordine al servizio del sopravvitto, con particolare attenzione ai prezzi praticati che andranno confrontati, con le informazioni sui prezzi correnti all’esterno, richiesti mensilmente all’Autorità comunale; il tariffario modello 72 deve essere, compatibilmente con le esigenze d’ordine e sicurezza, il più ampio possibile e prevedere tre o quattro articoli dello stesso genere; copia del tariffario, vistato dall’Autorità comunale, con cadenza almeno mensile, deve essere esposto nei reparti detentivi. Alla luce di quanto riferito dai detenuti e riscontrato dalla Delegazione, in ordine al servizio di sopravvitto, pare che nella Casa Circondariale di Cosenza non vengano scrupolosamente rispettate le norme vigenti e le disposizioni impartite al riguardo dalla stessa Amministrazione Penitenziaria. Per tali ragioni, la Delegazione dei Radicali Italiani, ha invitato l’Amministrazione ed in particolare modo la Direzione dell’Istituto ed il Provveditorato Regionale, di volersi attivare con la massima sollecitudine affinché venga rivisto il “modello 72” per verificare, insieme alla rappresentanza dei detenuti, integrata dal delegato del Direttore, se i prezzi di tutti i generi posti in vendita nell’Istituto siano corrispondenti a quelli degli esercizi della grande distribuzione più vicini all’Istituto ove si praticano i prezzi più bassi, assicurando che il predetto “modello 72” sia il più ampio possibile e che vi siano inseriti almeno 3 o 4 articoli dello stesso genere, di diversa qualità e prezzo. Inoltre, è stato chiesto che tale verifica venga effettuata con cadenza mensile e che copia del “modello 72”, vistato dall’Autorità comunale, venga esposto in tutti i reparti detentivi. Ulteriore proposta della Delegazione è stata quella di stilare un elenco, da diffondere nelle Sezioni, degli altri prodotti alimentari e di conforto, acquistabili dal detenuto con fondi personali (peculio), per il tramite dell’impresa di mantenimento, previa autorizzazione della Direzione e di offrire la possibilità ai ristretti di fruire anche di “offerte speciali” e cioè di sconti così come riscontrato durante delle visite in altri Istituti Penitenziari della Repubblica. Infine, è stato chiesto di conoscere se le mercedi e i relativi contributi assicurativi e previdenziali a favore dei detenuti che esercitano attività lavorativa per la gestione del sopravvitto, siano a carico dell’impresa appaltatrice o, invece, dell’Amministrazione Penitenziaria. Gli esiti della visita, con una relazione del capodelegazione Emilio Enzo Quintieri, membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani, sono stati trasmessi al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, al Provveditore Regionale Reggente per la Calabria, al Direttore della Casa Circondariale di Cosenza, al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza ed al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti presso il Ministero della Giustizia. Velletri (Rm): incompatibile con il carcere, ma dopo un anno di domiciliari di nuovo in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 luglio 2018 Ha un linfoma aggressivo, al quarto stadio, pesa 146 kg e ha gravi difficoltà di movimento sia per il peso che a causa di un’artrosi provocata dalla chemioterapia. Secondo la dottoressa del carcere sarebbe del tutto incompatibile con la detenzione e non si spiegherebbe come mai stia ancora lì. Parliamo dell’ennesima storia di sanità in carcere e a segnalarla è Rita Bernardini, coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale. Lui è un detenuto ristretto nella casa circondariale di Velletri, nel Lazio. Secondo quanto riferito dalla madre all’esponente radicale, all’uomo, dopo la detenzione per 8 mesi nel carcere, è stato concesso un anno di domiciliari per incompatibilità del suo stato di salute con il regime carcerario. Passato l’anno, però, è stato riportato nello stesso carcere. “Fatto sta - denuncia Rita Bernardini - che l’uomo è affetto (diagnosi di 4 anni fa) da Linfoma anaplastico al 4° stadio trattato con chemioterapia e che, in aggiunta, ha subito un intervento per una protesi valvolare all’aorta. Pesa 146 kg e ha gravi difficoltà di movimento sia per il peso che a causa di un’artrosi provocata dalla chemioterapia”. Proprio per via della condizione fisica - sempre secondo quanto riferisce la madre - il detenuto non riesce a mantenere una corretta igiene perché non arriva fisicamente a lavarsi le parti intime e si vergogna di farsi aiutare dal piantone che gli è stato assegnato per un’ora al giorno e che lo aiuta a vestirsi. “Inevitabile - spiega sempre l’esponente del Partito Radicale - che ora sia affetto anche da dolorosissime e sanguinanti emorroidi”. Ma non finisce qui. Sempre secondo quanto ha riferito la madre, l’uomo presenterebbe anche una paresi facciale per la quale avrebbe un occhio sempre aperto il che gli provocherebbe una fastidiosissima secchezza oculare: da quando è entrato in carcere chiede una pomata oftalmica lubrificante che però non gli verrebbe fornita. “A metà luglio - prosegue Rita Bernardini - dovrebbe sottoporsi al controllo semestrale al Gemelli per il tumore, ma non sa se lo porteranno e, comunque, prima di andare dovrebbe eseguire tutta una serie di controlli diagnostici che non gli stanno facendo”. L’esponente radicale ha subito trasmesso queste informazioni per una urgente verifica e intervento al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al Garante nazionale delle persone private delle libertà, Mauro Palma, e al Garante regionale, Stefano Anastasìa. Parliamo dell’assistenza sanitaria in carcere, una delle criticità, enormi, presenti nel sistema carcerario. Non a caso, Rita Bernardini, da anni in prima linea anche con lunghi periodi di sciopero della fame per sollecitare il governo precedente, ha evocato la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. Nel decreto c’è un lungo capitolo dedicato alla sanità. L’articolo 2 della riforma adegua l’ordinamento penitenziario ai principi affermati dal decreto legislativo 22 giugno 1999 di riordino della medicina penitenziaria. In particolare, la lettera a) sostituisce l’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario, con particolare riguardo al trasferimento delle competenze di tale settore penitenziario al servizio sanitario nazionale, ribadendo l’operatività del servizio sanitario nazionale negli istituti penitenziari. Si interviene sulla disciplina della competenza per il rilascio delle autorizzazioni in materia di ricoveri in strutture esterne di diagnosi e cura, modificando la norma sulle autorizzazioni a cure e accertamenti sanitari che non possono essere garantiti dal servizio sanitario all’interno degli istituti. Viene esplicitato il diritto di ciascun detenuto o internato di ricevere informazioni complete sullo stato di salute personale e viene garantita la continuità terapeutica, con le indagini e le cure specialistiche necessarie persino riguardo alla medicina preventiva o connessa a patologie già esistenti. Una riforma, necessaria, che però ha una delega che scade tra meno di un mese. Roma: i detenuti al servizio della città di Dario Caputo farodiroma.it, 4 luglio 2018 La Sindaca Raggi: “L’iniziativa è stata possibile grazie ad una profonda sinergia con il Ministero della Giustizia”. “Espiare la pena attraverso un lavoro socialmente utile, tramite attività che producano benefici per la collettività”; ecco quello di cui ha parlato Virginia Raggi ricordando quello che i detenuti di Rebibbia stanno mettendo in campo con la cura del verde di ville e parchi di Roma. La Sindaca si è recata nel parco di via Bartoli al IX Municipio per ringraziarli del lavoro svolto: “qui hanno iniziato le operazioni per la cura del verde; tagliato l’erba, potato le piante e pulito l’area, eliminando il degrado”. In questi mesi, gruppi di detenuti sono stati anche in altre zone della Capitale come a Colle Oppio, al Parco Schuster e al Gianicolo. Nel suo comunicato stampa la Prima Cittadina ha ricordato che quest’attività è stata possibile grazie ad un protocollo di intesa firmato dal Campidoglio con il Ministero della Giustizia e dall’ampia e profonda sinergia sviluppata con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Questa è stata un’iniziativa che ha visto il grande impegno, in prima linea, degli assessori Baldassarre, Montanari e Frongia. “L’accoglienza del territorio nei confronti dei detenuti mostra che una comunità si costruisce con il contributo di tutti. L’articolo 27 della nostra Costituzione prevede la funzione rieducativa della pena, quindi, il nostro progetto ne è viva espressione, grazie al reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso progetti di pubblica utilità e la tutela del nostro patrimonio ambientale”. Catanzaro: “In nome del padre”, un percorso di scrittura che ha coinvolti i detenuti lamezialive.it, 4 luglio 2018 “In nome del padre” può capitare di riaprire ferite profonde, che risalgono ai tempi dell’infanzia, e che spesso sono all’origine degli errori che ci si ritrova a commettere. È proprio per tendere ad una “rieducazione” e riflettere su di sé che il progetto di scrittura autobiografica (“In nome del padre”, appunto) è stato portato avanti nella Casa Circondariale di Catanzaro, dopo aver varcato le mura di altre cinque realtà carcerarie del nord Italia. Per volontà della direttrice del carcere, Angela Paravati, che crede nella portata “rieducativa” del carcere, la proposta avanzata dall’associazione LiberaMente - rappresentata da Francesco Cosentini, che è anche vicepresidente nazionale del Seac (Coordinamento enti ed associazioni di volontariato penitenziario) - ha trovato nel gruppo di detenuti coinvolti una “classe” attenta e pronta ad aprirsi alle sollecitazioni che Carla Chiappini e Laura Gaggini, che hanno condotto il laboratorio di scrittura, hanno loro rivolto. “La scrittura ha il potere di “liberare” e di far fuoriuscire un potenziale che altrimenti resterebbe sempre nascosto - è stato il commento della Chiappini, intervenuta alla presentazione del progetto, avvenuta giovedì pomeriggio nel teatro dell’Istituto di Pena, alla presenza degli stessi detenuti che hanno partecipato al laboratorio - Qui a Catanzaro, più che in altri carceri, è successo qualcosa: i detenuti hanno riscoperto con coraggio la relazione con il padre, rileggendola alla luce del momento di trasformazione che stanno vivendo qui dentro. Ne sono usciti fuori dei lavori bellissimi, a tratti commoventi, in cui risalta il senso di colpa nei confronti della figura paterna e dei propri figli. Ma un papà resta tale anche quando ha sbagliato”. A leggere gli scritti, in cui i detenuti hanno riportato i loro ricordi legati al papà ed al giorno in cui sono nati i propri figli, sono stati Generoso Scicchitano e Pasquale Caridi: le suggestioni evocate dalle parole pregne di rimorsi e sofferenze hanno ispirato gli interventi successivi, moderati dalla giornalista Benedetta Garofalo, che hanno avuto per protagonisti la stessa direttrice Paravati, Francesco Cosentini, il magistrato di sorveglianza Laura Antonini, l’onorevole Angela Napoli, il pedagogista Nicola Siciliani Decumis ed il giornalista Filippo Veltri, apprezzato dai detenuti per la sua capacità di provocare e, quindi, di far riflettere. La vita, a detta di Veltri, non finisce tra le sbarre. Certo, ci vuole una certa “tensione morale” ad entrare lì dentro come fanno i volontari, ma tutti i progetti portati avanti dalle associazioni (presenti, tra gli altri, il presidente del Csv di Catanzaro, Luigi Cuomo; il portavoce del Forum del Terzo Settore, Giuseppe Apostoliti, e la presidente di “Universo Minori”, Rita Tulelli, che è stata ricordata per essersi spesa nell’aver arredato una stanza in maniera accogliente in cui i papà possano ricevere la visita dei propri figli senza che ne rimangano traumatizzati), come il laboratorio di scrittura autobiografica, rappresentano opportunità di confronto e di conoscenza che tendono a “rieducare” alla vita, specie al momento in cui ad essa si fa ritorno dopo aver scontato la pena. Cremona: “Cattedrale teatro”, la “Storia di Edimar” esempio di redenzione di Nicola Arrigoni La Provincia di Cremona, 4 luglio 2018 Spettacolo dei detenuti: così gli “emarginati” entrano nel cuore della comunità E nel cortile del vescovado la festa degli oratori con gli animatori dei Grest. Non capita tutti i giorni che la cattedrale si trasformi in teatro e diventi ‘pontè fra città e carcere: è accaduto mercoledì sera nell’ambito della festa della Federazione Oratori dedicata agli animatori del Grest. La “Grande estate 2018” della FoCr racconta ilpiacere dimettersi all’opera, di fare per cambiare. E allora dopo la musica dei “The Marshall Pian” nel cortile del vescovado, la forza del ‘mettersi all’opera’ ha trovato una sua deflagrante e simbolica efficacia nella restituzione pubblica de La storia di Edimar, esito del laboratorio teatrale condotto all’interno di Cà del Ferro da Alfonso Alpi. I detenuti fuori dal carcere: a mostrare quello che accade all’interno. E così la direttrice Maria Grazia Lusi ci tiene a sottolineare: “Tutto ciò è stato reso possibile dalla collaborazione dell’amministrazione carceraria, della cappellania con don Graziano Ghisolfì e don Roberto Musa, e al magistrato di sorveglianza, Marina Azzini. Ovviamente la serata in cattedrale vuole essere una restituzione del progetto Periferie, voluto dal vescovo Antonio Napolioni come segno di integrazione e comunicazione fra le diverse condizioni periferiche, non solo urbanistiche ma anche sociali, economiche, culturali”. La serata di mercoledì farà inoltre parte del documentario che Alessandro Scillitani sta girando sul carcere nell’ambito del progetto “Cinema e Carcere”, coordinato da Giorgio Brugnoli e sostenuto dalla Provincia. Prima dell’inizio dello spettacolo, il vescovo va in sacrestia, dove i cinque attori-detenuti si stanno concentrando e preparando. In cerchio, dicono: “Il teatro è libertà”. “Io qui sono l’unico cremonese”, dice Davide, omone in canottiera; io sono di Lodi riferisce Alessandro; poi si va nel mediterraneo con Jamal-wasafi: “È il mio soprannome e vuol dire Jamal e basta in arabo. Per me il teatro non è una novità. Lavoravo per il Teatro delle Erbe a San Babila, mi travestivo da Gormita per fare spettacoli nei centri commerciali”. Carlos così motiva la sua partecipazione: “Me lo hanno proposto e mi sono detto: perché no?”. Mihai punta sulla sostanza: “Facciamo questo lavoro per raccontare quando male ci possa essere nel mondo e come sia possibile uscirne se diamo ascolto a ciò che abbiamo dentro”. La storia di Edimar: la storia di un ragazzo di strada che decide di cambiare vita incontrando il messaggio cristiano, ma che viene ucciso proprio perché il sottrarsi dalla droga e dallo spaccio, dalla criminalità, è un peccato da punire con la morte per chi vive dell’illecito e della violenza. Le scenografie - costruite dal laboratorio in carcere coordinato dal Cpia - hanno fatto da fondale allo spettacolo, coordinato da Alfonso Alpi e funestato da qualche problema tecnico di troppo. La storia di Edimar procede per quadri: dalla vita del ragazzo di strada, dalla sua ascesa nel mondo dello spaccio, passando dalla conversione per arrivare alla sua morte perché diventato scomodo con la sua testimonianza di possibilità di redimersi. I quadri sono intervallati da movimenti di capoeira che la cattedrale gremita scandisce con applausi calorosi e ritmati. Al di là dell’esito estetico e degli incidenti di percorso, la serata di mercoledì ha mostrato come nel cuore della comunità - la cattedrale - sia possibile convocare chi è posto ai margini di quella comunità stessa. In dialogo attraverso quel gioco serio ma leggero, finto ma poeticamente vero, che è il teatro. E se i cinque detenuti-attori sono stati applauditi con calore, dimostrandosi veri e propri acrobati perché all’ultimo alcuni altri membri della compagnia non hanno avuto il permesso di uscire da Cà del Ferro, alla fine la testimonianza del missionario Andrea Franzini ha offerto il polso della realtà di chi agisce fra i ragazzi di strada in un Brasile in cui si contano 63mila omicidi l’anno. E allora, con “La storia di Edimar” gli attori-detenuti e gli animatori del Grest la cattedrale si è offerta come grande “fabbrica delle opere”. Da Condividere insieme. Aversa (Ce): cena e show in carcere con la Rendano di Ignazio Riccio Il Mattino, 4 luglio 2018 Avvicinare i detenuti al mondo esterno e rendere meno duro il distacco provocato dalla permanenza in carcere. È questo l’obiettivo di Carlotta Giaquinto, direttrice dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa, oggi casa circondariale attenuata di fine pena. Ieri pomeriggio, in sinergia con la Comunità di Sant’Egidio, è stata organizzata una cena-spettacolo nel giardino del penitenziario, presenti 60 detenuti. La cantante Ida Rendano, che nel corso della sua carriera ha collaborato con gli artisti Nino D’Angelo, Gigi Finizio, Gigi d’Alessio, Mario Merola, Franco Simone, il rapper Davide Accareddu e Carmelo Zappulla, si è esibita in un repertorio di canzoni napoletane. “Da anni - ha detto Antonio Mattone, responsabile carcere in Campania per la Comunità di Sant’Egidio - il nostro sodalizio è presente con iniziative di solidarietà e promozione sociale nelle case di detenzione. Anche questa estate organizzeremo eventi in Campania: il prossimo è previsto a Poggioreale. Siamo in un periodo storico difficile e non è inasprendo le pene che si migliora la condizione di sicurezza dietro le sbarre. Come comunità promoviamo progetti e iniziative che tendono alla recupero sociale di detenuti”. Ad Aversa, che accoglie 225 carcerati, c’è attenzione ai progetti di socializzazione. “La cena nel giardino del carcere - spiega la direttrice Giaquinto - rappresenta uno dei tanti momenti di condivisione e di svago. Il nostro obiettivo è quello di aiutare queste persone a vivere in maniera meno dura il tempo in cella”. Alla cena-spettacolo, offerta dalla ditta amico Bío Spartacus Arena, hanno partecipato anche ospiti esterni, tra cui il responsabile dell’Ufficio pastorale della diocesi di Aversa, Stefano Di Foggia. Migranti. Muore il 9% di chi parte, il dato record dell’ultimo mese di Federico Fubini Corriere della Sera, 4 luglio 2018 Nell’ultimo mese si registra il terzo più alto numero di morti e scomparsi in mare da quando due anni e mezzo fa le agenzie internazionali hanno iniziato a tenere i conti. Per chi si imbarca in cerca di un futuro in Europa, non era mai stato tanto probabile morire in mare durante la traversata dalla Libia. Né erano mai state tanto più frequenti le partenze in giugno, da quando esistono dati credibili, rispetto a quelle di maggio. E del resto non era neppure mai stato così alto il numero di migranti che approdano in Spagna, in proporzione a quelli che arrivano in Italia. Nella prima metà dell’anno i flussi sono diventati quasi equivalenti: secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, 15.426 sbarchi in Spagna contro 16.585 in Italia. Gli oneri sopportati dai due Paesi sono ormai simili. Qualcosa di nuovo sta succedendo sulle rotte migratorie, da quando il primo giugno ha giurato al Quirinale il governo di Giuseppe Conte. Solo i prossimi mesi diranno se sia solo una coincidenza tra eventi senza relazione tra loro, o se la svolta sulla rotta del Mediterraneo centrale sia anche effetto del nuovo governo italiano. Di certo non tutte le novità sono rassicuranti, a partire da quelle sui naufragi. Nell’ultimo mese - soprattutto dalla seconda metà, inclusi i primi due giorni di luglio - si registra il terzo più alto numero di morti e scomparsi in mare da quando due anni e mezzo fa le agenzie internazionali hanno iniziato a tenere i conti. Sono annegati o risultano scomparsi nel Mediterraneo il 9% di coloro che hanno provato la traversata dalla Libia, la quota più alta di sempre. In tutto si tratta di 679 morti. Se n’erano avuti di più solo nel maggio e nel novembre 2016, ma allora le partenze dalle coste libiche erano il doppio o il triplo rispetto a quelle di quest’ultimo giugno. I dati sono calcolati da Matteo Villa dell’Ispi di Milano sulla base delle cifre fornite dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e dall’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr). Mostrano che ogni singola traversata non era mai stata tanto pericolosa, neanche in pieno inverno. Di solito per migranti le probabilità di morire in mare erano state attorno al 2%, ma nelle ultime settimane qualcosa è cambiato: sono quasi sparite dalle acque davanti alla Libia le navi per la ricerca e soccorso delle Organizzazioni non governative. La Aquarius di Sos Méditerranée e di Medici senza frontiere è ferma a Marsiglia dopo il lungo viaggio verso Valencia; la Seefuchs e la Seawatch 3, di due Ong tedesche, sono entrambe bloccate a Malta, mentre la Lifeline si trova lì sotto sequestro. “Da quando le Ong sono state messe nell’impossibilità di lavorare, la minore presenza di navi che pattugliano quelle acque sta rendendo i naufragi più frequenti”, osserva Flavio Di Giacomo dell’Oim. In teoria la vigilanza dovrebbe essere assicurata da Themis, la missione europea di Frontex nel Mediterraneo, oltre che dalla Guardia costiera libica equipaggiata grazie alle forniture dell’Italia. E in effetti i guardiacoste di Tripoli lavorano a pieno regime: il mese scorso hanno intercettato in mare e riportato verso centri di detenzione in Libia - che raccolgono insieme uomini, donne e bambini - il 51% dei migranti in piena traversata. Ma, appunto, su questo aspetto emerge la seconda novità. Se non gli arrivi in Italia, in forte calo da agosto scorso, senz’altro solo ora le partenze dalla Libia stanno di nuovo aumentando. Erano state 4.500 a maggio e sono oltre 7 mila a giugno, mentre negli anni precedenti i due mesi avevano registrato flussi molto simili. Forse è un segno che sta scricchiolando l’accordo che l’Italia aveva stretto con le tribù libiche di Sabrata. Di certo sta crescendo anche la rotta dal Marocco: nei primi sei mesi del 2018, l’aumento degli sbarchi in Spagna è del 137%. Checché ne dica il ministro dell’Interno Matteo Salvini, oggi una pressione non minore di quella sull’Italia. L’appello ai giornalisti: rompiamo il silenzio sull’Africa di Alex Zanotelli* Il Dubbio, 4 luglio 2018 Rompiamo il silenzio sull’Africa. Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo. Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass- media italiani, come in quelli di tutto il modo del resto. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media, purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico- finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quel- lo che veramente sta accadendo in Africa. Mi appello a voi giornalisti/ e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa. È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga. È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur. È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni. È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa. È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai. È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera. È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi. È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi. È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’Onu. È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile. È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!). Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia “dell’invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact, contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti. Ma i disperati della storia nessuno li fermerà. Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’Onu si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: “Aiutiamoli a casa loro”, dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’Eni a Finmeccanica. E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimanere in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?). Per questo vi prego di rompere questo silenzio- stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di sorveglianza della Rai e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti? Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/ e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa. *Missionario italiano della Comunità dei Comboniani Quei bimbi morti di migranti italiani di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 4 luglio 2018 Le storie dei tanti veneti che all’inizio del Novecento partivano pieni di speranze alla volta del Brasile sono simili a quelle degli odierni emigranti. Anche i loro drammi. “Durante il viaggio in nave la bimba mi prese la febbre, una febbre sempre più alta, la vegliavo giorno e notte, non sapevo cosa fare. Una notte la sentii gemere, sudava freddo, tremava; cercai di scaldarla e tenermela vicino, ma all’improvviso smise di tremare. Era morta. Morta. Forse perché non c’erano medicine, forse perché il medico non c’era; non so. Forse aveva preso una febbre mortale”. “Me la strapparono dalle braccia, la fasciarono stretta stretta da capo a piedi e le legarono una grossa pietra al collo; di notte, alle due di notte, con quelle onde così nere, la calarono giù, in mare. Io urlavo, urlavo, non volevo staccarmi da lei, volevo annegare con la mia piccola; mi tennero ferma con le braccia, degli uomini credo. Io non volevo che la mia bambina così piccola finisse in quel mare così freddo, così scuro, certamente divorata dai pesci. Volevo essere sepolta con lei, mi pareva di proteggerla, difenderla, perché non la divorassero. Non volevo lasciarla sola, povera bambina, invece mi tennero indietro mentre la buttavano giù. Quel tonfo in acqua, non posso dimenticarlo”. La mamma emigrante che ricorda lo strazio di perdere una figlioletta durante il viaggio verso il continente mille volte sognato durante l’attesa di partire, nei lunghi mesi trascorsi a vendere tutto per raccogliere i soldi e pagare la nave non è eritrea, non è senegalese, non è nigeriana... È Amalia Pasin, una veneta che, partita col marito Giovanni da Villafranca Padovana nel 1923, avrebbe tanti anni dopo raccontato la sua tragedia a Francesca Massarotto Raouik, autrice di un bellissimo libro di testimonianze, “Brasile per sempre. Donne venete in Rio Grande do Sul”. Donne mosse tutte dalla stessa speranza: “catàr fortuna”. Lì, nel “Brasil taliàn” pieno di immigrati nostri ed evocato da una canzone struggente: “Italia bella, mostrati gentile / i figli tuoi non li abbandonare / sennò se ne van tutti nel Brasile / non si ricordan più di ritornare...”. Alcuni fecero i soldi. Altri no. Ad agosto a volte fanno ancora festa cantando un “forrò” brasileiro in veneto ricordando la ricotta, la polentà e il baccalà: “ohi puina la bèla puina / la polentina con el bacalao”. I loro bambini morti nella traversate, però, tantissimi, non li hanno dimenticati mai. E se vedono alla tivù le immagini di bimbi spiaggiati sulle spiagge italiane, loro, ancora oggi un sussulto ce l’hanno. Non scrivono su facebook “buon appetito ai pesci”... Migranti. “Brennero blindato”, la mossa di Vienna fa infuriare l’Italia di Walter Rauhe La Stampa, 4 luglio 2018 Il piano anti migranti della Germania crea un effetto domino. Moavero: l’Austria si assuma le responsabilità. Alt di Salvini. Il compromesso raggiunto in extremis tra la Cdu di Angela Merkel e il partito fratello bavarese della Csu di Horst Seehofer ha fatto rientrare per il momento il rischio di una crisi di governo in Germania ma non ha accantonato tutte le incognite attorno alla spinosa questione migratoria. La decisione da parte della Grosse Koalition di creare “centri di transito” lungo il confine tra Germania e Austria nei quali poter trattenere e poi respingere più celermente i migranti secondari, rischia di innescare un effetto domino in tutta Europa e di far vacillare il già di per sé labile trattato di Schengen. La prima ad aver reagito ieri all’accordo raggiunto a Berlino tra la cancelliera e il suo ministro degli Interni è stata l’Austria. Temendo l’arrivo dei profughi respinti dalla Germania, Vienna corre ai ripari e annuncia a sua volta misure per proteggere i suoi confini meridionali con l’Italia e la Slovenia. Per il cancelliere austriaco Sebastian Kurz le nuove misure unilaterali annunciate dal governo tedesco rappresentano una minaccia. Immediata la replica a Vienna del ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero: “Il Consiglio europeo ha affermato che l’immigrazione è una questione europea. Ma la decisione austriaca sarebbe contro questo spirito: chi la mettesse in atto se ne dovrebbe assumere le responsabilità”. E se l’Austria dovesse chiudere i suoi confini, l’Italia farà lo stesso, ha rilanciato Salvini: “Se Vienna vuole fare controlli, ha tutto il diritto di farlo. Noi faremo lo stesso e a guadagnarci saremo noi”. A questo punto si aprirebbe paradossalmente proprio quello scenario che Angela Merkel voleva scongiurare a tutti i costi. L’innescamento cioè di una serie di reazioni a catena e misure di contenimento dell’immigrazione illegale avviate dai singoli governi nazionali e non la tanto auspicata risposta congiunta europea. Anche se gli effetti dell’accordo con i cristiano-sociali bavaresi sono circoscritti al solo confine austro-tedesco e riguardano unicamente i migranti secondari, Angela Merkel, venendo parzialmente incontro alle pressanti richieste del ministro dell’Interno Seehofer e salvando così la fragile alleanza tra i due partiti conservatori, rischia un’ulteriore spaccatura all’interno dell’Ue e nuove scintille con gli alleati socialdemocratici. La leader dell’Spd Andrea Nahles ha subito chiesto “chiarimenti” sull’accordo e sull’istituzione dei centri di transito sempre osteggiati dalla sinistra del partito. “Non accetteremo lager chiusi e circondati col filo spinato”, ha avvertito il presidente dei giovani socialdemocratici Kevin Kühnert. L’Spd alza la voce anche se non sembra intenzionata a fare della vicenda una questione di principio. Il contraccolpo nell’Ue - Di ben altra portata sono invece gli strascichi a livello europeo. L’iniziativa tedesca rende necessari tutta una serie di accordi bi- e trilaterali. In primo luogo con l’Austria al suo debutto del semestre di presidenza dell’Ue, e poi con l’Italia. Parlando all’Europarlamento di Strasburgo Sebastian Kurz ha messo in chiaro che “Schengen si salva solo bloccando gli sbarchi” e sorvegliando meglio i confini esterni dell’Unione. Più che mai necessaria sarebbe però anche una riforma dell’accordo di Dublino per evitare di scaricare tutto il peso dell’accoglienza dei profughi solo sui Paesi di primo ingresso, come ha ricordato ieri il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani. “Non è certo chiudendo le rispettive frontiere interne che si risolvono i problemi”. A detta del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker invece l’accordo raggiunto a Berlino tra Cdu e Csu appare a “prima vista” conforme al diritto comunitario. Ma già è chiaro che in prima linea è servito ad Angela Merkel a ricompattare le varie anime della coalizione di governo a Berlino. Tutto il resto si vedrà. Droghe. Fontana ci riporta alla preistoria di Maria Stagnitta* Il Manifesto, 4 luglio 2018 Perfino il tema della legalizzazione non è più un tabù, per la cannabis è una realtà ormai in diverse parti del mondo: dall’Uruguay al Canada, che ha definitivamente approvato la regolamentazione legale della cannabis il mese scorso. Per non parlare della rivoluzione americana, dove ormai diversi stati, dal Colorado alla California, hanno in vigore sistemi legali di produzione e vendita di marijuana. “Contro la droga serve tolleranza zero”, ha dichiarato al quotidiano La Stampa il Ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, esplicitando la propria disponibilità ad assumere la delega delle politiche sulle droghe nel nuovo governo. Lo slogan rimanda a politiche di pura repressione, riesumando una visione “preistorica” oltre che ideologica delle politiche sulle droghe: quella della cosiddetta War on Drugs del secolo scorso. Un approccio che ha dimostrato tutta la propria inefficacia e pericolosità. Nell’ultimo decennio molti paesi, e perfino diverse agenzie delle Nazioni Unite, hanno espresso in sede nazionale e internazionale il proprio dissenso verso la politica di “guerra alla droga”: tanto che nel 2016 è stata convocata una sessione speciale sulle droghe dell’assemblea generale dell’Onu (Ungass 2016), in cui i diritti umani, il supporto alle persone in difficoltà, i rischi della stigmatizzazione dei consumatori sono stati temi emergenti, relegando in secondo piano l’applicazione della legge penale. Molti paesi dell’America Latina hanno abbracciato il cosiddetto “modello europeo”, basato appunto sul riequilibrio delle politiche, dal penale al sociale. Perfino il tema della legalizzazione non è più un tabù, per la cannabis è una realtà ormai in diverse parti del mondo: dall’Uruguay al Canada, che ha definitivamente approvato la regolamentazione legale della cannabis il mese scorso. Per non parlare della rivoluzione americana, dove ormai diversi stati, dal Colorado alla California, hanno in vigore sistemi legali di produzione e vendita di marijuana. Inoltre, sono sempre più le evidenze scientifiche circa l’efficacia, in termini di salute pubblica, degli interventi di riduzione del danno nel contrasto all’overdose e alle malattie a trasmissione sessuale (in primis Hiv). I dati sul consumo di sostanze non hanno mai registrato flessioni (anzi spesso aumenti), malgrado gli sforzi e le enormi quantità di denaro spese nella repressione penale e nella lotta al narcotraffico. Tirando le somme, le politiche di “tolleranza zero” hanno solo prodotto carceri piene, aumenti di infezioni droga correlate, più morti. Il tema delle droghe è questione importante, non si capisce perché il Ministro Fontana si lasci andare a dichiarazioni estemporanee senza alcun approfondimento. In un’agenda di governo seria, il primo impegno dovrebbe essere la revisione dell’attuale Testo Unico, in primis delle pesanti sanzioni amministrative previste per il consumo, in modo che le persone che usano sostanze possano essere liberate dal rischio di punizioni che li emarginano e li stigmatizzano. Si tratta poi di decriminalizzare l’auto-coltivazione di cannabis, primo passo per la sua regolamentazione. Altro intervento urgente e strutturale riguarda le misure alternative alla detenzione per le persone che consumano sostanze e dipendenti, finite in carcere per reati minori non violenti. Al nuovo governo chiediamo che, nel rispetto della stessa legge sulla droga, organizzi finalmente nei tempi più brevi possibili la Conferenza Nazionale sulle droghe, a ben nove anni dall’ultima convocazione. La Conferenza è la sede naturale per valutare le politiche fin qui seguite e per elaborare un piano d’azione nazionale innovativo, che prenda le distanze dall’approccio iper-punitivo inaugurato nel 2009-2010. Infine, è necessario procedere al rilancio e alla riorganizzazione dei servizi per le dipendenze, con particolare attenzione alla riduzione del danno. Di questo vogliamo parlare al più presto con il nuovo governo, entrando nel merito delle questioni di oggi e lasciando da parte gli slogan di ieri. Una cosa è certa: il ministro Fontana dimostra di essere il meno adatto a ricevere la delega per la politica delle droghe. *Presidente di Forum Droghe Turchia. Cristina Cattafesta è ancora detenuta, intervenga Mattarella di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 4 luglio 2018 Chiedono l’intervento del presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e del presidente del Consiglio Giuseppe Conte i familiari Cristina Cattafesta, la presidente del Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda), fermata domenica 24 giugno dalle autorità turche a Batman, nel Sudest della Turchia a maggioranza curda, e rinchiusa dal 26 giugno in un centro di deportazione a Gaziantep in attesa di essere espulsa in Italia. In casi come questi i tempi possono dilatarsi di molto come accadde l’anno scorso al fotografo francese Mathias Depardon che fu detenuto per un mese nel centro di deportazione di Gaziantep. Per il rilascio dovette intervenire direttamente il presidente Emmanuel Macron. È molto probabile che sarà così anche per Cristina. Per questo la famiglia Cattafesta si rivolge alle autorità italiane e chiede, con una raccolta di firme, “una forte mobilitazione della società civile” affinché la donna possa al più presto tornare in Italia. La presidente del Cisda, 62 anni, era arrivata il 21 giugno a Diyarbakir, insieme con il marito e altri quattro colleghi, per osservare lo svolgimento delle elezioni presidenziali e parlamentari che si sono tenute il 24 giugno in Turchia ma non aveva lo status per farlo. “In verità - ha spiegato l’avvocato Sirin Sen che è sempre stato pessimista su una liberazione veloce - i sei italiani sono entrati come semplici turisti su invito del partito filo-curdo Hdp di Batman”. Domenica, durante una visita a un sito archeologico, la delegazione era stata controllata dalla polizia. A far scattare il fermo di Cattafesta era stata una foto pubblicata su Facebook di una manifestazione in cui sventolavano bandiere del Pkk, il Partito del Lavoratori del Kurdistan che è considerato un’organizzazione terrorista anche dall’Ue e dagli Stati Uniti. Lunedì 25 giugno la procura di Batman aveva decretato l’espulsione dell’attivista e trasferito la decisione sulle modalità ad Ankara. L’ultima volta che il Corriere ha parlato con Cristina era il 26 giugno: “Stanno per trasferirmi in un centro di deportazione a Gaziantep - ha detto al Corriere. Sono di nuovo molto preoccupata, mi hanno detto che potrei rimanere lì per un’ora o per sei mesi. E tutto questo nonostante il giudice abbia deciso di non rinviarmi a giudizio per propaganda terroristica”. “Sono tre giorni che non mi lavo i denti, non mi cambio i vestiti e non ho accesso a nulla di mio. Non so cosa ne sarà di me”, sono state le ultime parole di Cattafesta prima di chiudere il telefono che da allora non è raggiungibile. Stati Uniti. Più carceri per migranti significa più affari per aziende amiche di Trump today.it, 4 luglio 2018 La decisione del presidente degli Stati Uniti di creare nuovi centri di detenzione per migranti irregolari darà una “notevole spinta” agli affari degli operatori di carceri private (che lo hanno generosamente sostenuto alle elezioni) secondo l’autorevole Wall Street Journal. Il quotidiano economico parte dall’analisi dei numeri. Il valore delle azioni di Core Civic e Geo Group, che hanno donato 250.000 dollari ciascuno per le celebrazioni in occasione dell’inaugurazione del mandato di Trump, è notevolmente aumentato lo scorso mese, dopo che l’Immigration and Customs Enforcement (Ice) ha annunciato che potrebbe chiedere 15.000 nuovi letti per le famiglie a seguito dell’ordine esecutivo di Trump che prevede che i bambini non siano separati dai genitori, in attesa del procedimento penale nei loro confronti. Dall’inizio dell’anno, il valore delle azioni di Geo è cresciuto del 14%, quello dei titoli di Core Civic del 4,8%. L’amministrazione guidata da Trump vuole aumentare il numero di posti per i migranti da 40.000 a 52.000 (49.500 adulti e 2.500 per le famiglie), per cui chiederà 2,8 miliardi di dollari per il budget 2019. I centri di detenzione per migranti sono diventati un’importante fonte di reddito per le società che gestiscono le prigioni private sin dall’amministrazione Obama, ha ricordato il Wall Street Journal. Nel 2016, un rapporto dell’ispettore generale del dipartimento di Giustizia aveva affermato che le prigioni private fossero più pericolose di quelle governative, spingendo le autorità ad annunciare che non avrebbero rinnovato i contratti con gli operatori privati; le società, naturalmente, contestarono il rapporto. L’amministrazione Trump ha poi revocato il piano di ridurre il ricorso a carceri private. Migranti “irregolari” e famiglie divise - Lasciare gli Stati Uniti, con o senza i propri figli. È il bivio che l’amministrazione Trump ha deciso di porre davanti ai migranti irregolari separati dai loro figli, in applicazione della tolleranza zero al confine con il Messico. Dopo che un tribunale ha ordinato che gli oltre 2.00 bambini separati dai genitori, tra maggio e giugno, siano riuniti ai familiari, l’amministrazione statunitense ha indicato agli agenti dell’immigrazione che dovranno lasciare ai migranti solo due possibilità: lasciare gli Stati Uniti con i figli, o lasciare il Paese senza di loro. Lo riporta Nbc News, che ha ottenuto una copia del documento governativo. La nuova direttiva non permette ai genitori di riabbracciare i figli e, con loro, di aspettare la decisione di un tribunale sulla loro richiesta di asilo e sulla loro detenzione. Le famiglie entrate negli Stati Uniti dopo il 20 giugno, invece, resteranno insieme, in detenzione. Gli avvocati che si occupano dei diritti dei migranti hanno già manifestato la loro opposizione, perché la direttiva obbliga di fatto i genitori a rinunciare alla richiesta di asilo. “Un bambino non dovrebbe mai essere tenuto in ostaggio per forzare un genitore a rinunciare al suo diritto legale di chiedere asilo” ha detto Wendy Young, presidente di Kids in Need of Defense. Polonia. Ormai è scontro totale tra giudici e governo di Andrea Tarquini La Repubblica, 4 luglio 2018 È ormai guerra totale tra il governo nazional-conservatore di maggioranza assoluta polacco al potere dal novembre 2015 e la magistratura. In un nuovo passo avanti nella riforma della Giustizia condannata dall’Unione europea, il capo dello Stato Andrzej Duda ha firmato il decreto di pensionamento della presidente della Corte suprema, giudice Malgorzata Gersdorf (foto). Ma la presidente non ci sta, rifiuta di lasciare il suo posto. E tra poche ore è prevista una clamorosa manifestazione di piazza organizzata dai magistrati polacchi. Secondo la Ue, che ha aperto contro Varsavia procedura d’infrazione, la riforma della Giustizia asservisce i magistrati di fatto al potere esecutivo e abroga la loro indipendenza violando quindi la separazione tra i poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) cardine dei valori dello Stato di diritto il cui rispetto è richiesto dai Trattati europei e dall’adesione all’Unione, di cui la Polonia è il più grande membro orientale. La riforma inoltre imporrà il pensionamento anticipato di un terzo dei giudici della Corte suprema. L’esecutivo vuole sostituirli con personalità di provata fedeltà politica, secondo Ue e opposizioni polacche. Con la riforma il potere esecutivo acquisirà il controllo totale della Giustizia, che sarà interamente alle dirette dipendenze del Guardasigilli e perderà ogni autonomia dei suoi organi. Israele. Stop ai soldi versati dall’Anp alle famiglie dei detenuti palestinesi di giordano stabile La Stampa, 4 luglio 2018 La Knesset ha approvato la legge che congela dalle tasse raccolte da Israele per l’Autorità nazionale palestinese che vengono poi usate per sostenere le famiglie di detenuti nelle carceri israeliane e quelle di palestinesi uccisi durante attacchi terroristici. L’Anp riconosce una sorta di “pensione” ai famigliari dei “martiri”, giovani morti in attacchi alle forze di sicurezza o a civili che vivono negli insediamenti. La nuova legge è stata approvata con 87 voti a favore e 15 contrari fra i 120 deputati della Knesset. La legge bloccherà parte dei 130 milioni di dollari di tasse raccolte ogni mese da Israele per conto dell’Anp, in quanto i versamenti sono “un’espressione di sostegno ad atti terroristici”. Secondo Israele l’Anp spende ogni anno 330 milioni di dollari, circa il 7 % del suo budget, per salari e pensioni di questo genere. In base agli accordi di Oslo degli anni Novanta, Israele raccoglie tasse doganali sui beni che passano attraverso il suo territorio per conto dell’Anp. Questi introiti costituiscono il grosso del bilancio dell’Autorità nazionale palestinese. Brasile. Terzo giorno di ribellione nel carcere di Curitiba, quattro ostaggi Nova, 4 luglio 2018 Continua per il terzo giorno consecutivo la ribellione scoppiata nel carcere di Curitiba, capitale dello stato brasiliano del Paranà, nel pomeriggio di domenica. Quattro guardie carcerarie sarebbero ostaggio dei detenuti, riferisce la stampa locale, uno dei quali sarebbe ferito alla fronte. I negoziati con la polizia sono terminati ieri in tarda serata e sono ripresi questa mattina presto. Un quinto agente, preso inizialmente come ostaggio dai rivoltosi, è stato rilasciato domenica sera con ferite lievi. Secondo la Polizia Militare, non vi sarebbe rischio di una ribellione di massa. La prigione di Curitiba ha 600 detenuti. Di questi, 172 sono in rivolta, secondo il capitano della polizia militare Marcos Roberto de Oliveira. I detenuti chiedono il trasferimento di altri detenuti, rinchiusi in carceri in altre città di Curitiba, all’interno della Casa di custodia. Le motivazioni di questa richiesta sarebbero legate al fatto che i detenuti sostengono di essere costantemente minacciati da fazioni rivali. I negoziati con i carcerati si starebbero svolgendo pacificamente, anche se luce e acqua sono state tagliate al carcere. “Una delle tattiche di negoziazione è togliere genere di conforti ai prigionieri”, ha spiegato Oliveira, che pensa che la ribellione sarà conclusa tra martedì e mercoledì. I membri della Commissione per i diritti umani dell’Ordine degli avvocati del Brasile (Oab) accompagnano i negoziati, che sono sotto il comando del Battaglione delle operazioni speciali della polizia militare (Bope). Anche il Segretario speciale dell’Amministrazione Penitenziaria dello stato del Paraná, il Colonnello Élio de Oliveira Manoel, partecipa ai negoziati. “I negoziati stanno andando avanti, ma siccome i prigionieri hanno iniziato la ribellione senza una leadership definita, hanno già perso. Hanno semplicemente arrestato ostaggi e iniziato il tumulto. Ogni giorno appare un leader diverso”, ha detto il presidente del sindacato degli agenti penitenziari del Paranà, Ricardo Carvalho. Venezuela. Il rumore sordo della povertà attraversa le strade di Caracas di Federica Iezzi Il Manifesto, 4 luglio 2018 In Venezuela crisi petrolifera e scelte economiche, embargo illegale Usa, sanzioni illecite della Ue e governi golpisti in America Latina, rendono sempre più dura la vita della popolazione. A pagare il prezzo più alto, come al solito, sono i bambini. “Qua la guerriglia si sposta di città in città ma non finisce mai”. Sono le crude parole di Franco. Ha solo sette anni. L’abbiamo incontrato da solo nelle strade tutte uguali di Caracas, con una busta di verdura in mano. Suo padre faceva parte della schiera di quelli che chiamavano “ribelli”. Ma poi chi sono i “ribelli” agli occhi dei bambini? Le turbolenze economiche e politiche spediscono regolarmente migliaia di persone nelle strade per protestare, a favore o contro il governo del presidente Nicolas Maduro. E lontano dalle strade, la nuova normalità per i venezuelani è diventata lotta quotidiana. Lottano per sopravvivere a fronte di gravi carenze di cibo, medicine, acqua. Da mesi manca la farina. Centinaia di forni industriali sono in silenzio, manca il lavoro che c’era dietro la preparazione del pane. E negli scaffali delle farmacie non c’è nemmeno l’aspirina: se sei così fortunato da trovarla, il prezzo per poterla comprare è ingiustificabilmente fuori misura. Il tutto è stato sapientemente stabilito da un duro embargo che coinvolge le più grandi compagnie multinazionali di farmaci e vaccini. E su chi hanno effetto certe scelte? Sui bambini con la febbre che i genitori non possono curare, per esempio. I pochi ristoranti rimasti chiudono le porte prima di sera a causa dell’aumentata paura della violenza. Hanno acqua corrente solo il lunedì e il martedì, il resto della settimana si vive grazie a un serbatoio. E bisogna sperare che non si rompa nulla dei macchinari usati in cucina, perché ottenere pezzi di ricambio diventa un incubo, si possono arrivare a investire fino a due mesi di stipendio per l’acquisto di un pezzo rotto. Con un’economia in declino, la gente è tornata a scambiarsi i materiali. Si scambia farina di mais con le uova. I barbieri fuori città tagliano i capelli per yucca, banane o carne di scarto. I proprietari dei ristoranti offrono un piatto caldo in cambio di pacchetti di tovaglioli di carta. Il salario medio mensile del Paese è di 1.300.000 bolívar, circa 6 euro sul mercato nero, cifra sufficiente per acquistare due cartoni di uova, un chilo di farina di mais e una scatola di pasta, due litri di latte, tonno e pane. Mentre l’iperinflazione continua a salire a livelli esorbitanti, i soldi perdono sempre più valore. “El dinero no alcanza para nada” (“I soldi non sono sufficienti per comprare nulla” nda), ci dice la gente che incontriamo ogni giorno nelle perenni file sulle strade. Anche quando il cibo è disponibile nei negozi, lo stipendio medio non è sufficiente per sfamare una famiglia. Lo spirito della revolución bolivariana contro i grandi proprietari terrieri, i vecchi latifondisti, la borghesia compradora, i militari golpisti e a favore di contadini, operai, senza terra e indigeni, si è affidata totalmente alle entrate petrolifere. Questo è stato sufficiente per finanziare i nobili programmi di alfabetizzazione, gli investimenti per garanzie sociali, la lotta anticolonialista. Ma quando il prezzo del petrolio è crollato nel 2014, il governo ha tagliato le importazioni e utilizzato le sue piccole riserve per pagare il suo debito estero ed evitare il default. Questo si è trasformato nella crisi di oggi. Il blocco economico illegali guidato dagli Usa, le sanzioni illecite di Stati uniti, Ue e governi golpisti dell’America latina hanno fatto il resto. Tentativi di corruzione, boicottaggi economici e finanziari, embarghi, finanziamento di oppositori politici, controllo dei mass media locali, militarizzazione di gruppi radicali. È una storia già vista in America latina che crudelmente si ripete oggi ai danni del governo Maduro. Al mercato nero il prezzo di un dollaro si aggira intorno a 200.000 bolívar. Lo stipendio medio settimanale è di 250.000 bolívar. Una saponetta costa 200.000 bolívar, quindi spesso bisogna scegliere se mangiare o lavarsi adeguatamente. Una scatola di antibiotico, quando lo trovi, può costare più dell’intero stipendio mensilè ci dice Linda. Visto che anche i contanti sono scarsi, non è raro trovare lunghe code di persone in tutta la città in attesa di prelevare denaro. In media, gli sportelli automatici consentono il ritiro di soli 10.000 bolívar al giorno (5 centesimi di dollaro). “Se si guarda dall’alto la città, sembriamo tutti piccole formiche che corrono impazzite da una parte all’altra. La sensazione è quella di vivere in una prigione. La libertà non fa più parte delle nostre vite”, continua Linda. “Senza essere prigionieri, non abbiamo la libertà di muoverci. Non siamo liberi di consumare ciò che vogliamo, ma ciò che gli altri scelgono per noi”. Gli effetti della crisi capitalista e della recessione economica hanno avuto un impatto sull’economia globale di ciascun Paese, siano essi colonialisti o territori dipendenti. Gli effetti sono diversi in quanto i primi hanno il controllo diretto su ogni settore dell’economia, mentre i secondi sono subordinati alle decisioni delle grandi potenze. Il Venezuela non è sfuggito a questa realtà. Ci sono molte parole per descrivere cosa sta succedendo nel Paese: crisi, implosione, caduta. C’è l’inflazione alle stelle, la mancanza di generi alimentari e medicine di base, la crisi della sanità pubblica. C’è la crisi energetica, con ostinati black-out e carenza d’acqua. C’è violenza diffusa. Certamente, la situazione in Venezuela è complessa. Complessa come la realtà in ogni Paese che si sta avvicinando a una rottura definitiva con la sua realtà. Il sabotaggio della produzione, il blocco internazionale e il boicottaggio economico si esprimono in molteplici forme, tra cui la fuga di commercianti nei Paesi limitrofi, il deflusso di capitali e di forza lavoro, con un conseguente impatto diretto su economia locale e condizioni di vita della popolazione. “La prassi è questa. Dall’alba mi metto in fila fuori dal negozio di alimentari più vicino a casa. Dopo molte ore viene scannerizzata la mia impronta digitale e il sofisticato database governativo recupera le mie informazioni personali. Questo dirà alla cassiera non solo il mio indirizzo, il mio nome completo e il mio numero di telefono, ma anche se ho già comprato la razione di cibo assegnata alla mia famiglia in quel mese”, ci racconta Adelita. Se è così, Adelita verrà rimandata a casa a mani vuote. Ci sono droni che sorvolano la fila che si estende per svariati isolati nelle strade e nessuno ne conosce lo scopo. Nicaragua. La repressione fa vittime e migliaia di persone stanno lasciando il Paese di Virginia Negro La Repubblica, 4 luglio 2018 Il racconto dei collettivi di studenti che denunciano le risposte violente del governo di Ortega alle proteste: “286 persone assassinate, 600 detenute illegalmente e 2000 feriti”. La leggenda del carro della morte. “Se ascolti passare la carretanagua non ti affacciare alla finestra” raccomandavano le nonne ai nipoti al calar del sole, “e prega che la Morte non stia arrivando a prenderti”. La leggenda nicaraguense racconta di una carretta condotta dalla Morte Quirina che, nell’ oscurità delle strade del villaggio, va a bussare alla porta in sorte. Oggi, si chiama carretanagua la Toyota Ilux dei gruppi paramilitari che hanno fatto sparire 156 studenti da quando sono scoppiate le rivolte di aprile, racconta Lorena Valle, del collettivo SOS Nicaragua Global, che denuncia i 286 assassinati, i 600 detenuti illegalmente e i 2000 feriti dalla prima protesta repressa nel sangue del 18 aprile scorso, quando soprattutto studenti dell’UCA scendono in piazza per protestare contro la riforma di legge sulle pensioni, che prevedeva una riduzione del 5% su una pensione media di 120 dollari mensili. Da allora, Managua è avvolta in un clima di terrore, con gruppi paramilitari che padroneggiano le strade desolate della capitale. Lunghe file per i documenti di espatrio. Si contano ormai a migliaia i nicaraguensi che hanno lasciato il Paese negli ultimi due-tre mesi. Lunghissime file di persone davanti agli uffici del dipartimento Migrazioni di Managua aspettano i documenti per lasciare il Nicaragua. Le destinazioni prevalenti di questa nuova ondata migratoria sono, oltre agli Stati Uniti, il Canada il Costa Rica, l’Honduras, Panama e El Salvador. Si tratta in prevalenza di donne con figli piccoli che affrontano ore e ore di attesa per ottenere i passaporti, ma soprattutto per i permessi necessari per far espatriare i minori. Le richieste di espatrio - segnalano diverse organizzazioni umanitarie nicaraguensi - provengono da cittadini che vivono all’interno del Paese e che nell’attesa dei documento dormono per strada, per non perdere il turno. La protesta per le pensioni. “È curioso riflettere sulla genesi intergenerazionale delle proteste: nonni e nipoti. In realtà, pensandoci, non è raro vedere anziani accompagnati dai loro nipoti nella fila della banca. In Nicaragua i nonni spesso sono un appoggio finanziario importante allo studio dei più giovani”, dice Lorena. In questa prima protesta, la repressione è forte e immediata. I media che filmano gli scontri violenti con la polizia vengono censurati, ma è soprattutto il comunicato della moglie di Ortega, Rosario Murillo - vicepresidente - che infiamma la piazza, perché definisce gli studenti in rivolta dei “vandali” e “mediocri”. È lei che ha fatto scoppiare la rabbia nei settori sociali rimasti in silenzio fino a quel momento. “Me duele respirar”. “Ascoltare quelle parole e pensare al quindicenne Alvaro Conrado, colpito alla gola da una pallottola mentre appoggiava i manifestanti della prima linea con acqua, a cui furono chiuse le porte dell’ospitale per ordine ministeriale, è stato scandalosamente difficile” confessa Lorena Valle. Tanto che la frase ripetuta da Alvaro “Me duele respirar” (non riesco a respirare) è diventata uno degli slogan della protesta contro il governo di Ortega e Murillo. Un Fsln (Frente Sandinista de Liberación Nacional) ormai di proprietà della coppia che esercita il potere, in forma dittatoriale e davanti al quale molti esponenti storici del sandinismo, hanno preso le distanze; uno tra tutti, l’intellettuale Sergio Ramirez. Il ruolo della moglie di Ortega. Ortega e Murillo hanno servito lealmente la rivoluzione negli anni ottanta, poi Daniel Ortega è stato eletto presidente nel 1984, perdendo le elezioni del 1990 contro una coalizione di partiti d’opposizione. Successivamente l’ex rivoluzionario sandinista ha vinto le elezioni del 2006, alleandosi con la chiesa cattolica, grazie al patto che ha portato alla proibizione dell’aborto nel paese. “La moglie di Ortega, Rosario Murillo è diventata il volto pubblico del partito, riformando la Juventud Sandinista, e accusa l’opposizione di essere fomentata dagli Usa, dalla Cia, per screditarla”, afferma Lorena Valle, “ma la realtà è che la gente non tollera più l’ingiustizia e dispotismo di questo governo”. L’omicidio di un giornalista. Un altro caso emblematico è stato l’omicidio del giornalista Angel Gahona per cui sono stati incarcerati preventivamente due giovani afro discendenti, apparentemente senza prove concrete. “Sono due mesi che sono rinchiusi in un carcere, senza dare seguito al caso. Due ragazzi che rappresentano le ingiuste detenzioni che si sono inanellate in questi mesi”. Si risveglia la società civile. La società civile si è risvegliata, non sono più solo pensionati e studenti, adesso sono i difensori dei diritti umani, come Francisca Ramirez, detta Doña Chica, una leader del Movimento campesino, che da anni lotta contro la costruzione del canal interoceanico che prevede la vendita di migliaia di ettari di bosco a un magnate cinese, per costruire progetto di percorso navigabile tra il Mar dei Caraibi (Oceano Atlantico) e l’Oceano Pacifico, attraverso centroamerica. La marcha de las flores. Con la marcha de las Flores, esattamente un mese dopo il massacro della protesta delle madri a Managua il 30 di maggio, in memoria dei bambini assassinati si è tolto il velo ad un altro annoso fenomeno: i tomatierra. La protesta era stata organizzata per commemorare i venti minori d’età morti dall’inizio delle manifestazioni, una barbarie culminata nell’incendio della casa della famiglia…dove si trovavano anche i due figli piccoli, di cinque anni e l’altro di appena quindici mesi. “I tomatierra sono bande che occupano brutalmente e illegalmente la terra nelle campagne”. Il modus operandi dell’usurpazione violenta culmina nell’assassinio da parte di un gruppo paramilitare di una famiglia di sei persone, tra cui quattro adulti Óscar Velásquez Pavón, Maritza López, Alfredo Velásquez, Mercedes Raudez, Matías Velásquez e due bambini piccoli: Matías Velásquez Muñoz, di otto mesi e Daryelis Velásquez, di due anni. Cynthia Lopez, sopravvissuta alla strage, testimonia di come dopo che la famiglia nega l’accesso al gruppo paramilitare questi incendiano l’intero edificio. La strategia della repressione. Amnesty International nel report sulla strategia di repressione del governo nicaraguense denuncia l’uso di franchi tiratori durante le proteste, e dell’uso di forze paramilitari. “La cosiddetta gioventù sandinista collegata a Murillo si è trasformato in un organo paramilitare. La Commissione interamericana per i diritti umani ha denunciato la situazione di violenza. Chi può se ne sta andando, con destino Costa Rica o gli Stati Uniti, ma si tratta della classe media che ha le possibilità per farlo. Purtroppo i paesi vicini, come Salvador, Guatemala e Messico non hanno preso una posizione chiara, e conseguentemente non sono stati studiate azioni di aiuto umanitario, come dei visti speciali per chi adesso sta richiedendo asilo”. Il proliferare dei collettivi, molti in Messico. Collettivi come quello di Lorena Valle, formati da nicaraguensi espatriati, si stanno formando proprio adesso. Giovani studenti che vivono soprattutto in Messico, si sono uniti per cercare di diffondere informazione, per fare pressione diplomatica chiedendo alla Comunità Internazionale di posizionarsi e di fare pressione sul governo di Ortega, ma anche cercando di canalizzare fondi alle varie associazioni locali che stanno attendendo i feriti, le famiglie delle vittime e la situazione di urgenza nella capitale Managua, come in svariati altri municipi dello stato. Il 30 giugno il giovane collettivo si è riunito davanti all’ambasciata Usa in una Vigilia Internazionale, chiedendo giustizia e democrazia. “Il popolo vuole la rinuncia di Ortega. L’unico modo legale è che sia volontaria e accettata dall’Assemblea, che pure è controllata da Ortega, ed inoltre il potere passerebbe a Gustavo Porras, che resta un uomo del governo. Insomma, non cambierebbe niente. Per questo è necessario un intervento internazionale”.