La Cedu è l’estremo baluardo dei diritti, non può chiudere come un ufficio postale di Beniamino Migliucci* e Federico Cappelletti** Il Dubbio, 3 luglio 2018 La pronuncia resa giovedì scorso della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso G.i.e.m. srl e altri contro Italia, che ha visto il nostro Paese condannato sotto molteplici profili di violazione (principio di legalità, diritto di proprietà, presunzione di innocenza) in relazione alle confische urbanistiche per lottizzazione abusiva disposte sui siti di Punta Perotti (Ba), Golfo Aranci (Ss), Testa di Cane e Fiumarella di Pellaro (Rc), ha indotto il ministro degli Interni a caldeggiare la “chiusura” di “certe istituzioni”. Se, tuttavia, il Ministro Salvini ambisce a chiudere tutto ciò che non è funzionale ad alimentare populismo e sovranismo, per parte sua, l’Unione Camere Penali Italiane crede fermamente che sia compito dell’Avvocatura tenere aperte le menti dall’oscurantismo della paura e dell’ ignoranza, a maggior ragione, quando ad essere posta in discussione è l’autorità di un’istituzione quale la Corte Edu in un momento storico in cui, da più parti, sono artatamente contestati il valore e l’efficacia dei suoi pronunciamenti. In questo senso, come stigmatizzato nel comunicato diramato venerdì scorso, è opportuno che il Ministro tenga ben presente che le sue opinioni, ora, non rappresentano più gli elettori del partito di riferimento, ma l’intero Paese, e che, in virtù del ruolo che ricopre, non può ignorare né il sistema convenzionale né le caratteristiche della Corte che, a differenza di quanto da lui auspicato, non può essere “chiusa” come un ufficio aperto al pubblico. Dovrebbe sapere il Ministro che l’Italia è stata uno dei fondatori del Consiglio d’Europa (da non confondere con l’Ue), istituzione che oggi conta 47 Stati membri, nata sulle ceneri del continente devastato e sfiancato dagli orrori del secondo conflitto mondiale per assicurare la democrazia, la tutela dei diritti fondamentali e lo Stato di diritto, pilastri sui quali, tutt’ora, si fonda e che hanno consentito di arrivare sino ad oggi senza che sulle nostre vite si sia mai più riaffacciato lo spettro della guerra. E che al suo quadro istituzionale afferisce la Corte europea dei diritti dell’uomo - prevista dalla relativa Convenzione siglata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia nel 1955, e preposta ad assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti contraenti dalla Cedu e dai suoi Protocolli addizionali in via sussidiaria rispetto alle giurisdizioni interne - la quale, da decenni, attraverso le sue pronunce, corregge le storture degli ordinamenti degli Stati membri assicurando uno standard minimo di tutela dei diritti fondamentali a beneficio della generalità dei consociati. La miglior risposta all’ennesimo e plateale attacco alla tutela dei diritti fondamentali da parte di rappresentanti del Governo, invero, è contenuta nella sentenza stessa, in particolar modo, nell’opinione separata del giudice Pinto de Albuquerque, che, con chiara preveggenza, ha evidenziato come le feroci critiche al sistema convenzionale provengano da formazioni politiche che cavalcano il malcontento popolare nell’ottica di trovare facile consenso. Ed è molto significativo il suo richiamo ad una Corte che tutelerebbe, secondo dette critiche “terroristi, pedofili e criminali di ogni tipo contro la maggioranza innocente, gli immigrati abusivi e pigri contro i lavoratori solerti, o certe minoranze privilegiate contro la persona di strada disagiata”. Ecco perché riteniamo che sminuire così grevemente un’istituzione che da decenni contribuisce alla tutela dei diritti fondamentali - e, con essi, della democrazia, dello Stato di diritto e della pace nella cosiddetta Grande Europa - con affermazioni che fanno il paio con i frequenti attacchi al diritto di difesa, desti ancora più preoccupazione: se si tratta di una boutade, infatti, non è degna del ruolo che il Ministro rappresenta; se, invece, propone maldestramente una linea politica futura, pone il nostro ordinamento in un “Paleolitico giuridico” che dovremmo avere superato da tempo. *Presidente Unione Camere Penali **Responsabile Commissione Ucpi per i rapporti con l’avvocatura e le istituzioni internazionali Dalla parte della “ragione” camerepenali.it, 3 luglio 2018 In uno Stato di diritto il processo penale non può trasformarsi in uno strumento illiberale ed oppressivo, sottratto a bilanciamenti e a controlli e alla certezza di tempi ragionevoli. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha appreso che nel corso di un incontro tra Anm e Ministro della Giustizia, svoltosi - come si legge nella nota del Ministro - con reciproca soddisfazione ed in uno spirito di “massima condivisione dei progetti”, l’Anm avrebbe proposto al Ministro di fermare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado e di abolire il divieto di reformatio in peius. Già in occasione della circolazione della pubblicazione del cd. “contratto” di Governo, l’Unione ha manifestato il proprio pensiero sulle inaccettabili prospettive di riforma della giustizia penale, segnalandone l’impronta demagogica, l’approccio populista, ed i contenuti inequivocabilmente autoritari ed incostituzionali che contrassegnavano quel disegno. Con simili specifiche prospettive di riforma del processo penale, si segna evidentemente una distanza ancor maggiore da quelle linee di coerenza del nostro sistema processuale con i valori costituzionali e convenzionali del “giusto processo”. L’allungamento ulteriore, definitivo ed incontrollabile dei termini di prescrizione non solo contrasta con la ragionevole durata del processo e con la presunzione di innocenza, ma distrugge del tutto il senso del processo di appello che viene abbandonato a tempi non più regolati dai termini prescrizionali, spostando l’asse dell’accertamento giudiziario sul solo primo grado (quello più esposto all’influenza mediatica delle indagini), con l’indebolimento di ogni successivo e tempestivo controllo di merito e di legittimità. Con la conseguente distruzione e dispersione di tutti quei valori personali e reali, individuali e collettivi che sono legati all’accertamento giudiziario. Ancor più dissonanti con il sistema e con i principi fondamentali dell’ordinamento le ulteriori ipotesi di riforma che il Ministro intenderebbe coltivare, creando anche per la prescrizione un “doppio binario” che delimiti tale intervento solo a determinati reati che il ministero starebbe individuando su imperscrutabili basi “statistico-demagogiche”. Quanto a statistiche ricordi il Ministro che il 70% dei reati si prescrive in fase di indagine, nelle mani dei pubblici ministeri, e dunque molto prima che si giunga ad una sentenza di primo grado e all’esercizio dell’azione penale. È l’inefficienza del sistema, l’eccessivo numero di processi e di reati (che invece il Governo vorrebbe moltiplicare) ad intasare la macchina della giustizia. Quanto all’abolizione del divieto della reformatio in peius, propugnata anch’essa dal Ministro, d’intesa con la magistratura associata, stravolgerebbe del tutto l’equilibrio del nostro processo, trasformando l’appello in una sorta di ordalia, in una sfida tra cittadino e Stato, nella quale chi è vittima di una ingiustizia può cercare di porvi rimedio solo esponendosi ad un rischio maggiore. Anche in questo caso le già critiche condizioni nelle quali versa il processo d’appello, troverebbero rimedio anziché in un potenziamento dello strumento di controllo in una sua marginalizzazione e compressione. Si è infine sentito dell’idea prospettata da Anm al Ministro di intervenire sulla immodificabilità del giudice, estendendo ai fatti di corruzione le ipotesi di reato nelle quali si potrebbe rinunciare a tale principio e con esso ai fondamentali presidi dell’immediatezza e della oralità, approfondendo anche in questo caso il solco del “doppio binario” ed incidendo ancor più estesamente sulla tenuta stessa del sistema accusatorio. Se da parte della magistratura associata e del Ministro è questo è il modo di intendere quella “semplificazione” di cui si legge nel “contratto” del Governo, si tratta evidentemente di una “truffa delle etichette”, perché sotto tale nome si vogliono a ben vedere introdurre nell’ordinamento norme devastanti che rischiano di smantellare definitivamente l’identità del nostro codice contrabbandando le stesse per strumenti utili al recupero di efficienza del sistema. Lo stravolgimento che solo tali ipotesi di riforma del processo penale, contrarie allo standard minimo di tutela dei diritti e delle garanzie del cittadino, apporterebbero al nostro sistema è di tale evidenza che se ne deve necessariamente denunciare la matrice autoritaria, antidemocratica ed illiberale e la vistosa contrarietà ai nostri principi costituzionali e convenzionali. Di fronte a simili manifestazioni di profonda incomprensione delle esigenze reali della giustizia penale nel nostro Paese, e della necessità e dell’urgenza di procedere ad una riforma ordinamentale del sistema e di rifondazione del processo accusatorio, già a Bari l’avvocatura penale italiana ha in Assemblea con fermezza espresso la propria opinione sulle azioni del Ministro e del Governo in materia di giustizia penale. E su quella stessa linea l’Unione intende agire, raccogliendo attorno alla sua voce ed alla sua protesta ed alla idea di ricostruzione del processo e dell’ordinamento penale, tutte le voci più autorevoli dell’accademia, della politica e della società. Siamo pronti a confrontarci con tutte le forze di governo e di opposizione, e con tutti coloro che, nella magistratura e nei suoi organismi rappresentativi, abbiano una idea ancora democratica delle garanzie e del processo, come patrimonio inalienabile di tutti i cittadini, che in uno stato di diritto non può certo trasformarsi in uno strumento illiberale ed oppressivo, sottratto a bilanciamenti, a controlli ed alla certezza di tempi ragionevoli. La Giunta dell’ Unione Camere Penali Il potere e i limiti. Cosa piace davvero agli italiani di Antonio Polito Corriere della Sera, 3 luglio 2018 A una vera democrazia i diritti della minoranza sono più cari del potere della maggioranza: per questo è stato inventato lo stato di diritto, nel quale ognuno, anche chi governa a nome della maggioranza, è sottoposto alla legge. Francesca Barra, nota opinionista tv, ha detto qualche settimana fa nel programma di Giletti: “Fabrizio Corona può piacere o non piacere, ma piace agli italiani”. È la legge dello spettacolo, che si basa sul gradimento del pubblico. Capita però di ascoltare in tv questo stesso argomento applicato alla politica, per esempio per stroncare le critiche a Matteo Salvini: “Di’ pure quello che vuoi, tanto gli italiani sono con lui”. In effetti il favore di cui “il Capitano” gode oggi nei sondaggi è talmente inebriante da fargli pronosticare per sé e la sua Lega “trent’anni di governo” (ha un po’ esagerato, forse perché “ventennio” suonava male). Ma siamo propri sicuri che in una società aperta l’opinione pubblica debba essere considerata infallibile come il Papa? Innanzitutto bisognerebbe intendersi su quel “piace agli italiani”. È un giudizio che spesso si basa su approssimazioni, presunzioni, deduzioni. Quasi sempre è effimero. Appena quattro anni fa Matteo Renzi prendeva in elezioni vere dieci punti in più del miglior sondaggio oggi attribuito alla Lega, e guardate com’è ridotto. Meno di un anno fa Di Maio valeva il doppio di Salvini, e ora gli sta sotto. Ma se anche il consenso fosse oggettivamente misurabile, robusto e duraturo, basterebbe per aver ragione? In una democrazia liberale il principio di maggioranza vale solo nelle urne, per selezionare i rappresentanti del popolo e legittimarne il governo. Ogni volta che lo si è usato per altri fini è andata male. Il caso più celebre fu il mini-referendum organizzato da Ponzio Pilato, che salvò Barabba e mandò a morte Gesù. Si può anzi dire che la democrazia, il peggior sistema di governo esclusi tutti gli altri (Churchill), è concepita proprio per impedire la dittatura della maggioranza. La sua vera essenza non sta nel decidere chi deve governare, tanto ogni cinque anni si cambia; ma nell’organizzare istituzioni capaci “di impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno” (Karl Popper). A una vera democrazia i diritti della minoranza sono più cari del potere della maggioranza. Per questo è stato inventato lo stato di diritto: nel quale ognuno, anche chi governa a nome della maggioranza, è sottoposto alla legge. Sono democrazie, seppure autoritarie, anche la Russia, l’Iran, la Turchia. Nel senso che anche lì si vota e chi vince governa. Ma perché le nostre istituzioni europee sono così più libere che tutti noi - si spera - non le scambieremmo mai con le “democrature”? Proprio perché da noi il potere è subordinato alla legge. Nel primo articolo delle nostra Costituzione - spesso citato dai sovranisti - sta scritto: “La sovranità appartiene al popolo…”; ma poi il testo continua così: “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Vuol dire che c’è un limite anche al potere della maggioranza. Se in Italia la maggioranza degli italiani fosse contro il “gay pride”, quella manifestazione si terrebbe lo stesso. In Turchia la proibiscono da quattro anni. Il parere dei più non è dunque sempre il migliore. E spesso non è neanche il più giusto. Di recente abbiamo appreso che per ora “solo” quattro italiani su dieci dicono sì alla pistola in casa. Ma se un giorno diventassero sei su dieci, se ne dovrebbe dedurre che possedere un’arma accresce la pubblica sicurezza? Il caso degli Stati Uniti sta lì a dirci ogni giorno il contrario. Quasi tutti i compagni di scuola di mio figlio festeggiano il compleanno in campi di “paintball”, un gioco nel quale i bambini mettono il casco e una divisa e si fanno la guerra imbracciando armi che sparano proiettili di vernice: questo rende meno giusto il mio “non se ne parla neanche”? La maggioranza degli italiani sostiene Salvini nel tentativo di dare una scossa all’Europa sui migranti: abbiamo molte ottime ragioni per non accettare più uno status quo che danneggia noi senza risolvere il problema degli africani. Ma mettiamo che questo sforzo finisca con un “lavarsene le mani” collettivo che riapre la stagione dei naufragi: le Ong se ne vanno perché respinte, i cargo girano al largo per non perdere giorni di navigazione, la Marina italiana si tiene a debita distanza. La maggioranza degli italiani - immagino - non sarebbe altrettanto d’accordo a sacrificare deliberatamente vite umane. Oppure sì: ma in quel caso si tornerebbe a condannare a morte Gesù, duemila anni dopo. Questo vale anche per chi governa, abituato ad operare come un attore che tiene sempre d’occhio il pubblico. Il pensiero liberale lo invita invece ad abbandonare l’idea che la storia del potere sarà il suo giudice, a non credere che la più alta ricompensa sia il consenso. Nel governante “abbiamo bisogno di un’etica che disprezzi il successo, e un’etica siffatta non bisogna inventarla e non è neppure nuova: è stata insegnata dal cristianesimo, almeno ai suoi inizi” (ancora Popper). Gli italiani non hanno sempre ragione. Ma la cosa buona è che lo sanno. Forse è per questo che amano così tanto il dibattito e la polemica. Nessuno li metterà a tacere, neanche in loro nome. La sfida dell’eguaglianza per cambiare il paese di Carlo Cottarelli Il Mattino, 3 luglio 2018 Non ho mai fatto politica e non credo sia nelle mie corde. Ma da cittadino vorrei un movimento politico basato su una semplice idea: quella dell’uguaglianza nelle opportunità. L’idea dell’uguaglianza nelle opportunità non è nuova, ma nel nostro panorama politico non è certo in voga. Altri sono i messaggi. Per la Lega il messaggio è: prima gli italiani. È il messaggio di tutti i movimenti nazionalisti: la nazione, nel suo complesso, costituisce una comunità più omogenea di quello che sta fuori confine. È un messaggio chiaro. Per i 5 stelle il messaggio è: prima vieni tu, il cittadino comune che ha diritti e li esprime per democrazia diretta. Anche questo è un messaggio chiaro. I messaggi del Pd e di Forza Italia alle scorse elezioni erano poco chiari. E Pd e Forza Italia ne sono usciti sconfitti. Non esiste in Italia un movimento che ponga l’uguaglianza nelle opportunità al centro del proprio messaggio politico. Eppure tale uguaglianza è una potente fonte per l’azione politica. Da essa conseguono tante altre cose. A livello individuale uguaglianza nelle opportunità significa che tutti, qual che sia la condizione sociale in cui nascono, devono avere le stesse possibilità. Non è l’uguaglianza nei punti d’arrivo che conta. È quella nei punti di partenza. Uguaglianza nelle opportunità significa lasciar spazio al merito. Uguaglianza nelle opportunità per le imprese vuole dire un level playing field, una parità di condizioni che consenta alla concorrenza di stimolare l’efficienza economica. Vuol dire ostacolare la formazione di monopoli. Vuol dire far vincere le imprese migliori non quelle che partono avvantaggiate. L’uguaglianza nelle opportunità definisce e limita il ruolo dello Stato, ma non significa uno Stato assente. Significa uno Stato che favorisce tale uguaglianza, per esempio attraverso una scuola pubblica che consenta la formazione di un capitale umano a tutti, anche a chi proviene da ambienti svantaggiati, una scuola che funzioni bene al Sud, al Centro, al Nord, una scuola che porti via i ragazzi dalle strade per avviarli a una vita professionale proficua. Uguaglianza nelle opportunità vuol dire, in generale, una pubblica amministrazione che funziona nello stesso modo in tutto il Paese. Uguaglianza nelle opportunità significa lotta alla corruzione perché devono vincere le imprese migliori non quelle che corrompono. E non c’è modo migliore di combattere la corruzione che semplificare l’apparato burocratico perché la corruzione e l’inefficienza si nutrono di eccessi di regole. Occorre uno Stato snello con poche regole, ma regole che vengano rispettate. Uguaglianza nelle opportunità non giustifica invece uno Stato che faccia concorrenza al privato perché lo Stato non sarebbe un concorrente alla pari con gli altri. Ricordiamoci in proposito le 10.000 società partecipate che esistono ancora in Italia. Uguaglianza nelle opportunità significa aiutare chi è disabile e una lotta serrata a chi abusa degli aiuti che dovrebbero andare solo a chi ne ha bisogno. Uguaglianza nelle opportunità vuol dire lotta all’assistenzialismo. Vuol dire avere non un reddito di cittadinanza ma un’opportunità di cittadinanza. Il messaggio centrato sull’uguaglianza nelle opportunità è di grande attualità in un mondo in cui l’ascensore sociale ha smesso di funzionare, in cui in Italia come all’estero chi è nato povero resta povero. Tale messaggio lascia spazio anche a elementi di solidarietà: ridistribuire il reddito attraverso la tassazione non è incoerente col principio dell’uguaglianza nelle opportunità. Nella vita vince chi è più bravo, ma anche chi è più fortunato. Ridistribuire ai meno fortunati non è quindi incompatibile col premio del merito, purché tale ridistribuzione non si eccessiva e non scoraggi l’attività economica. Insomma, l’idea è potente. Chi vuole portarla avanti? La rifondazione del Pd sembra partire dalla ricerca di un leader, ma non dovrebbe partire dalla ricerca di un’idea? E su quale idea la parte non leghista del centrodestra intende rifondarsi? Ho fatto una proposta. Spero che qualcuno mi ascolti. Banda della Uno bianca, scarcerato Occhipinti. I giudici: “il pentimento è autentico” di Amelia Esposito Corriere della Sera, 3 luglio 2018 Ha ucciso una guardia giurata ed era all’ergastolo, ma da anni usciva di cella per lavorare in una coop di Comunione e Liberazione. Sdegno dei parenti delle vittime. Marino Occhipinti, l’ex poliziotto assassino, indicato come il “gregario” della banda della Uno Bianca, è un uomo libero. Trent’anni dopo l’omicidio della giovanissima guardia giurata Carlo Beccari, durante l’assalto a una Coop alle porte di Bologna commesso insieme ai suoi complici in divisa, ventiquattro dopo il suo arresto e ventuno dopo la condanna all’ergastolo, può voltare definitivamente le spalle alle porte del carcere. Il percorso in carcere - È libero, Occhipinti, perché secondo il Tribunale di sorveglianza di Venezia non è più l’uomo violento e senza scrupoli di allora. Perché, recita il provvedimento, il suo pentimento è “autentico”, così come “il percorso di rivisitazione critica del suo passato”. L’ex vice-sovrintendente della squadra narcotici divenuto un criminale, negli anni di carcere a Padova sarebbe cambiato. Sarebbe un esempio di come la pena, in alcuni casi, possa davvero servire a rieducare, come dice la Costituzione. Ne è convinto il suo avvocato bolognese, Milena Micele, che lo ha assistito in tutti questi anni e che, il 20 giugno scorso, ha presentato in udienza una corposa documentazione a favore della libertà: perizie criminologiche, relazioni di sintesi sul suo lavoro svolto dentro il carcere e poi fuori dal 2012, quando ha guadagnato la semilibertà, e tanto altro. Decisione controversa - Ne sono convinti i firmatari del provvedimento notificato ieri a Marino Occhipinti in carcere, il giudice Linda Arata e il presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanni Maria Pavarin. Uomo di legge, quest’ultimo, che più volte si è esposto in difesa del detenuto, invitando anche i familiari delle persone uccise e ferite a incontrarlo, convinto che un percorso di riavvicinamento fra vittime e carnefici sia possibile. Ma Pavarin ha sempre trovato davanti a sé un muro. È dunque facile, e umanamente comprensibile, immaginare che effetto avrà questa decisione sui parenti di chi ha perso la vita per mano di Occhipinti e dei fratelli Savi: Roberto, Alberto (i due poliziotti) e Fabio. La Via Crucis e CL - Una decisione senza precedenti perché l’ex vice sovrintendente della Squadra Mobile è il primo dei membri di spicco della banda, cioè quelli con le mani sporche di sangue, a tornare libero (i componenti “minori” della banda, Pietro Gugliotta e Luca Vallicelli, condannati a pene più lievi per non aver partecipato agli omicidi, lo sono ormai da anni). L’esito di un percorso iniziato nel 2010 quello di Marino Occhipinti, con il primo permesso premio per partecipare alla Via Crucis organizzata da Comunione e liberazione. Poche ore alle quali fatto seguito tantissime polemiche. Le proteste - Poi, all’inizio del 2012, la semilibertà: fuori dal carcere al mattino per lavorare al call center della Usl di Padova e rientro in cella alla sera. “Scusatemi tutti”, disse in quella occasione Occhipinti. Ma a Bologna nessuno apprezzò. Persino il sindaco criticò la linea dei giudici. Meno di un anno fa, un permesso di una settimana per un campo sempre di Comunione e liberazione in Val d’Aosta. La fede, il lavoro: la nuova vita dell’ex killer. Anche stavolta l’associazione dei familiari delle vittime, presieduta da Rosanna Zecchi (vedova di Primo, giustiziato dai Savi), ha alzato la voce. Le proteste sono arrivate fino in Parlamento attraverso il deputato bolognese democratico Andrea De Maria. Segno di quanto i crimini della banda della Uno Bianca facciano ancora molto male. Cassazione. Detenuto asmatico in cella con i fumatori: ridotta la pena di Sondra Coggio Il Secolo XIX, 3 luglio 2018 Lamenta di essere asmatico, e di essere stato costretto a stare in cella con altri detenuti fumatori. E, più in generale, dice di essere stato sottoposto a condizioni di detenzione nona norma, rispetto a quanto prevede l’Europa, presso quattro diverse carceri italiane. Il tribunale aveva già accolto, in parte, il suo primo reclamo: e, a titolo di risarcimento del danno, gli aveva concesso “una riduzione della pena detentiva da espiare, in misura di 33 giorni, su complessivi 334 giorni di pena non conformi”. L’uomo, Vincenzo Deraco, nato nella provincia di Reggio Calabria, ha ritenuto insufficiente questo pronunciamento. S’è appellato alla Cassazione. E la Cassazione gli ha dato ragione. La sezione I, con la sentenza 29063 di quest’anno, ha annullato la sentenza del tribunale di sorveglianza, nella parte relativa ai periodi di detenzione subiti negli istituti liguri di Genova e della Spezia, ed ha chiesto che le ragioni del detenuto vengano riconsiderate, con un approfondimento diverso. L’appello si basa sull’articolo 3 della Cedu, la convenzione europea dei diritti dell’uomo, che prevede il diritto ad essere risarciti, se la detenzione è “inumana”. E le ragioni di contestazione possono essere tante, dal sovraffollamento al trattamento considerato degradante, fisicamente o psicologicamente. Il cinquantenne, un detenuto di lungo corso, s’è fatto un’idea della realtà carceraria italiana, durante i suoi ripetuti periodi di restrizione. Nella sua storia personale, è passato attraverso istituti diversi, in giro per l’Italia. E, sulla base della conoscenza diretta, ha lamentato la non conformità di una serie di istituti di pena, da Ascoli Piceno a Livorno, da Genova alla Spezia, ad Asti. L’appello in Cassazione, si basa su un punto di fondo: il tribunale di sorveglianza de L’Aquila non avrebbe abbia approfondito i fatti, rispetto ai quali il detenuto ha elaborato la sua denuncia. La Cassazione ha dovuto ammettere che il tribunale di sorveglianza si è “limitato a fare proprio quanto era stato rappresentato dalle direzioni penitenziarie”. Direzioni che, a loro volta, “si sono limitate ad affermare di non poter riscontrare i fatti”. Pare che la ragione addotta, per l’omessa verifica, sia stata “l’avvenuta distruzione degli archivi cartacei”. Non si è arrivati a verificare, insomma, se il detenuto avesse detto il vero, anche perché - probabilmente - i fatti sono risalenti indietro nel tempo. Per questa ragione, la Corte Suprema ha riaperto la questione. Il tribunale dell’Aquila dovrà accertare, nello specifico, come sia stato trattato il cinquantenne calabrese, quando è transitato dalla Spezia e da Genova. Ci vorrà qualcuno che ritrovi i fascicoli, se ancora ce ne sono, e che li esamini. E questo, leggendo la sentenza, si prospetta abbastanza difficile. Il sistema penitenziario tiene senz’altro la traccia dei passaggi, ma non è detto che vi sia memoria scritta, di episodi specifici, avvenuti anni fa. Per quanto riguarda le accuse mosse dal detenuto sui due istituti penitenziari di Ascoli e Livorno, l’esito è stato inaspettato: dagli accertamenti dell’amministrazione penitenziaria, l’uomo “non risulterebbe essere mai stato ristretto in quelle strutture”. E questo pare davvero curioso. Il detenuto avrebbe lamentato di essere stato trattato male in due carceri, nelle quali non risulta essere mai stato. Forse, in tanti anni di detenzione, la memoria si è confusa. La questione, comunque, non è affatto conclusa qui. Omicidio stradale al vaglio della Consulta per il divieto di bilanciare le aggravanti di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2018 Tribunale Torino - Ordinanza 1199/18. Si avvicina l’esame di costituzionalità per l’omicidio stradale e altri inasprimenti introdotti dalla legge 41/2016. Sono ormai tre i Tribunali (Roma, Forlì e Torino) che ne hanno censurato di fronte alla Corte Costituzionale alcuni cardini essenziali (si vedano anche gli altri articoli in pagina). Il primo punto riguarda l’articolo 590 quater del Codice penale, che disciplina il calcolo delle circostanze dell’omicidio (articolo 589 bis) e delle lesioni stradali (articolo 590 bis). Secondo il Tribunale di Roma (ordinanza 16 maggio 2017) e quello di Torino (ordinanza 8 giugno 2018), la norma è incostituzionale: impedisce al giudice di bilanciare le aggravanti con l’attenuante speciale prevista al comma 7 degli articoli 589 bis e 590 bis, che prevede una diminuzione fino alla metà della pena determinata dall’aggravante se l’evento non è esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole. Per comprendere la questione di costituzionalità proposta, va ricordato che omicidio e lesioni personali stradali sono reati autonomi rispetto all’omicidio colposo e alle lesioni personali colpose. L’ipotesi-base si configura in presenza di una qualunque violazione delle norme sulla circolazione stradale; se scatta una delle aggravanti previste nei commi successivi - abuso di alcol o droghe, condotte di guida particolarmente pericolose, quali velocità molto alta, circolazione contromano o con il semaforo rosso, inversione di marcia in condizioni di poca visibilità, in prossimità di incroci o dopo un sorpasso - le pene vengono più che triplicate. L’articolo 590 quater prevede un blocco delle attenuanti che riguarda anche la diminuente speciale prevista dal comma 7 degli articoli 589 bis e 590 bis per i casi di concorso di colpa. Secondo le ordinanze, tale previsione è irragionevole, perché comporta un aumento di pena esorbitante senza considerare “l’effettivo contributo causale dato all’evento” e compromette la finalità rieducativa della pena, alla quale “il reo tenderà a non prestare adesione (…) per la percezione di subire una condanna profondamente ingiusta, del tutto svincolata dalla gravità della propria condotta”. La Consulta dovrà fare chiarezza sulla differenza tra l’attenuante generale prevista dall’articolo 114 - che non è soggetta al blocco previsto dall’articolo 590 quater - e la diminuente speciale prevista dal comma 7 degli articoli 589 bis e 590 bis. Da comportamenti molto simili - entrambe le attenuanti, in definitiva, si riferiscono a casi in cui il reo ha avuto un ruolo minimo nell’incidente - possono discendere conseguenze molto rilevanti. Basta pensare che, se si ritenesse che siano due circostanze diverse, il giudice potrebbe sia far prevalere l’attenuante prevista dall’articolo 114 - annullando gli aumenti di pena previsti per le aggravanti - sia concedere l’ulteriore diminuzione di pena fino alla metà. Tradotto in termini concreti, vuole dire che un omicidio stradale commesso con abuso grave di alcol, la cui pena minima è 8 anni, potrebbe essere punito con qualche mese di reclusione condizionalmente sospesa oppure convertita in una pena pecuniaria ai sensi della legge 689/1981. Appropriazione indebita, tre mesi per la presentazione della querela di Vincenzo Vecchio Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2018 Amministratore di condominio e appropriazione indebita: in arrivo i primi provvedimenti dei Tribunali per la rimessione in termini per la presentazione di querela. È entrato in vigore il 9 maggio 2018 il Dlgs 36/2018, che trasforma alcuni reati da procedibili d’ufficio a procedibili a sola querela di parte (si veda il Sole 24 Ore del 27 aprile scorso). Sono entrate in vigore anche le disposizioni transitorie di rimessione in termini (articolo 12 del Dlgs) che permettono alle persone offese dal reato di presentare querela, qualora non l’avessero già fatto: il nuovo termine è di 3 mesi e decorre dalla notifica alle parti della comunicazione della cancelleria del Tribunale. Uno dei primi provvedimenti in materia è quello notificato dal Tribunale di Brescia in data 24 maggio 2018 relativo a un procedimento penale per appropriazione indebita a carico di un amministratore di condominio che aveva sottratto alcuni milioni di euro. Il Tribunale ha disposto che le parti in causa, cioè i condomini, fossero informati della facoltà di esercitare il diritto di querela nei termini dei tre mesi. La mancata presentazione della querela avrebbe come conseguenza l’adozione di un provvedimento di non doversi procedere per assenza di una condizione di procedibilità. Il reato è previsto dall’articolo 646 del Codice penale che punisce, appunto “a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a € 1.032 chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso”. Nel caso del reato commesso da parte dell’amministratore era configurabile l’aggravante di cui al n. 11 dell’articolo 61 del Codice penale a causa della maggiore pericolosità e anti-socialità dimostrata, per aver approfittato della fiducia del soggetto passivo e della violazione dei particolari doveri derivanti dal rapporto di mandato e dalla legge. Tale aggravante rendeva procedibile d’ufficio il reato di appropriazione indebita commesso dall’amministratore di condominio. Sino all’entrata in vigore del nuovo regime di procedibilità del reato di appropriazione indebita era sufficiente un esposto all’autorità di pubblica sicurezza perché si aprisse un procedimento penale che sarebbe comunque andato avanti sino alla conclusione, a prescindere dalla volontà dei condòmini o della loro costituzione quale parte civile nel processo penale. Dopo l’entrata in vigore del Dlgs 36/18 il predetto reato è perseguibile solo a querela di parte, querela che può essere presentata solo dai danneggiati o, per loro conto e nome, da parte dell’amministratore che nel frattempo è subentrato ed ha ricevuto lo specifico mandato da parte dei condòmini. Processo penale: le notificazioni a mezzo Pec sono precluse alle parti private Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2018 Processo penale - Notificazioni - Uso della Pec - Disciplina ex art. 16, d.l. 179/2012 - Destinatari - Uffici giudiziari - Persona diversa dell’imputato - Esclusione utilizzo dalle parti private. A norma dell’art. 16, D.L. n. 179/2012, le notificazioni penali a persona diversa dall’imputato, ai sensi dell’articolo 148 c.p.p., comma 2 bis, articoli 149 e 150 c.p.p., e articolo 151 c.p.p., comma 2, si effettuano dal 15 dicembre 2014 per via telematica, in concreto attraverso la Pec. La suddetta normativa è prevista, quindi, solo a favore degli Uffici Giudiziari e nei confronti di persona diversa dall’imputato. Al contrario, poiché l’articolo 16, d.l. cit. non richiama né l’articolo 121, né l’articolo 152 c.p.p.(“notificazioni richieste dalle parti private”), deve ritenersi che le parti private non possano avvalersi della PEC per depositare memorie o richieste o comunque effettuare notifiche. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 8 giugno 2018 n. 26362. Notificazioni - Notificazioni telematiche - Utilizzo nel procedimento penale - Notificazioni delle parti private - Esclusione. Nel procedimento penale non è consentito all’imputato l’utilizzo della Posta Elettronica Certificata quale generalizzata forma di comunicazione o notificazione per la presentazione di atti (istanze, memorie) o richieste di rinvio. Ciò conformemente al dettato legislativo che, nel processo penale, non consente alle parti private l’uso di tale mezzo informatico di trasmissione quale forma di comunicazione e/o notificazione, previsto invece solo per le notificazioni da parte delle cancellerie. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 9 maggio 2018 n. 20443. Notifica a mezzo Pec - Processo penale - Notifica da difensore a difensore - Ammissibilità. È valida la notifica dell’istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, effettuata dal difensore dell’indagato al difensore della persona offesa, in ossequio a quanto dispostodall’art. 299, co. 2-bis c.p.p., tramite p.e.c. Infatti l’unico divieto che può trarsi dall’art. 16 del d.l. 179/2012 è quello dell’inutilizzabilità della notifica a mezzo p.e.c. a cura della cancelleria, qualora il destinatario sia l’imputato (persona fisica) e dunque tale divieto non comprende l’ipotesi di notifica da effettuarsi “da difensore a difensore”. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 10 febbraio 2017 n. 6320. Processo penale - Notificazioni - Notificazioni a mezzo Pec - Notificazioni all’imputato da eseguire presso il difensore - Ammissibilità. In presenza delle altre condizioni di legge deve considerarsi valida la notifica a mezzo posta elettronica certificata (c.d. pec), trattandosi di uno strumento da cui può evincersi con certezza la ricezione dell’atto da parte del destinatario, laddove la norma consenta la notifica all’imputato mediante consegna al difensore. La dizione “persona dell’imputato” di cui al Decreto Legge 16 ottobre 2012, n. 179, articolo 16 (che prevede che, a decorrere dal 15 dicembre 2014, nei procedimenti dinanzi ai tribunali e alle corti di appello, possano essere operate con la pec le notificazioni a persona diversa dall’imputato) va infatti interpretata nel senso di persona fisica dell’imputato. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 21 aprile 2016 n. 16622. Marche: sistema detentivo al limite per la vivibilità con i parametri della Corte Ue di Paolo Montanari pesaronotizie.com, 3 luglio 2018 Nelle Marche vi sono 3 case circondariali in attivo: ad Ancona Montacuto, ad Ascoli Piceno Marino del Tronto e a Pesaro Villa Fastiggi e quella di Camerino chiusa dopo il terremoto e 3 case di reclusione: Ancona-Barcaglione, Fermo e Fossombrone con 935 detenuti, di cui 310 stranieri, 624 agenti di polizia assegnati, 22 educatori e 9 psicologi. Le Case circondariali a Moncauto hanno tutt’oggi 311 detenuti, mentre la capienza regolamentare è di 257 detenuti, la capienza tollerata è di 308 e 75 detenuti alta sicurezza, 158 detenuti con condanna definitiva, 117 agenti di polizia penitenziaria in servizio, di cui 176 pianta organica e 150 assegnati. A Pesaro Villa Fastiggi la situazione non è certamente migliore: 229 sono i detenuti di cui 207 uomini e 22 donne. La capienza regolamentare è di 153 detenuti, di cui 143 con condanna definitiva. 154 sono gli agenti penitenziari in servizio su un organico previsto di 192 e assegnazione di 165. Più limitato il numero di detenuti a Marino del Tronto con la chiusura della sezione 41bis. I dati sono stati forniti dall’Ombudsman dicembre 2017, in particolare dal garante dei diritti delle Marche, Andrea Nobili che, nei giorni scorsi, insieme ai neo deputati, ha fatto visita alle carceri marchigiane. Un allarme non solo per il sopraffollamento carcerario, ma per la carenza di agenti, vedi Ancona e Pesaro e l’allarme per l’aumento delle patologie psichiatriche e legate alla tossicodipendenza. Il rischio ha sottolineato Nobili che a Pesaro e ad Ancona, nel prossimo futuro, non si riesca a rispettare i parametri di vivibilità sanciti dalla Corte europea per i diritti dell’uomo”. Torino: braccialetti elettronici finiti, il figlio resta in carcere, madre in sciopero della fame di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 3 luglio 2018 Luisella in sciopero della fame: “Liberatelo”. La protesta della mamma di Nicolò Mirandola, arrestato al corteo antifascista. Gli sono stati concessi i domiciliari ma non ci sono braccialetti disponibili e rimane in cella. “Sono una mamma e continuerò con questa protesta fino a quando Nicolò non uscirà dal carcere”. Da ieri mattina Luisella Piazza ha iniziato lo sciopero della fame per chiedere che suo figlio possa lasciare la cella della casa circondariale Lo Russo dove è rinchiuso dallo scorso 19 marzo. Nicolò Mirandola, giovane antifascista vicino ad Askatasuna, aveva partecipato al corteo del 22 febbraio in contrapposizione al comizio organizzato dal leader di CasaPound, Alfredo di Stefano. In seguito ai violenti scontri con le forze dell’ordine Nicolò era stato prima ricercato dagli agenti della Digos e poi si era presentato in Questura ed era stato arrestato. Il 6 giugno a Nicolò, difeso dall’avvocato Roberto Lamacchia, sono stati concessi gli arresti domiciliari dal gip Stefano Vitelli, ma è ancora in carcere a causa dell’indisponibilità del braccialetto elettronico. Per protestare contro una “situazione assurda” gli appartenenti al centro sociale Askatasuna hanno organizzato un presidio fisso di fronte al carcere delle Vallette: “Nicolò, impegnato a difendere i valori dell’antifascismo e dell’antirazzismo, è in carcere da tre mesi con l’accusa di concorso morale in reati che non sono stati ancora né definiti né provati. Questa battaglia non è solo per lui, ma per tutti coloro che sono privati ingiustamente della libertà”. Verona: “espulso dall’Italia senza un perché” di Enrico Presazzi Corriere di Verona, 3 luglio 2018 Gridò “Allah Akbar”, il legale: nessun elemento di legame con ambienti estremistici. “Ma quale terrorismo?”. Hamza Manai, il tunisino di 29 anni espulso sabato con un volo diretto a Tunisi, non ci sta. E per tramite del suo avvocato Simone Bergamini è pronto a difendersi fino alla fine. Il 19 novembre scorso, poco prima del passaggio dei corridori della Verona Marathon, il tunisino aveva aggredito prima due volontari dell’Associazione carabinieri impegnati per la manifestazione e poi due poliziotti, urlando “Allah Akbar”. “Ma quale terrorismo?”. Hamza Manai, il tunisino di 29 anni espulso sabato con un volo diretto a Tunisi, non ci sta. E per tramite del suo avvocato Simone Bergamini è pronto a difendersi fino alla fine. La prossima settimana, infatti, di fronte al gip del tribunale di Verona è stata fissata l’udienza preliminare per il “parapiglia” che il nordafricano aveva scatenato a novembre in Borgo Milano. E il suo difensore ha tutta l’intenzione di chiedere una autorizzazione speciale per farlo rientrare in Italia al fine di poter partecipare all’udienza e “fare giustizia”. La tesi difensiva si basa su un assunto molto semplice: se per i fatti di quella domenica mattina non è stata riscontrata alcuna “matrice terroristica”, come si può sostenere che Manai fosse “vicino ad ambienti legati all’estremismo islamico”? Doveroso fare un passo indietro per capire meglio la questione. Il 19 novembre scorso, poco prima del passaggio dei corridori della Verona Marathon, il tunisino era uscito di casa e aveva aggredito prima due volontari dell’Associazione Nazionale Carabinieri impegnati per la manifestazione e poi due poliziotti, urlando “Allah Akbar” e pronunciando minacce di morte. Il pm Giovanni Pietro Pascucci, nella sua richiesta di rinvio a giudizio che sarà discussa la settimana prossima di fronte al gip, gli ha contestato i reati di resistenza, lesioni e minaccia (oltre alla detenzione di poche dosi di droga). Ma la procura scaligera, pur mettendo in evidenza i rischi relativi alla “pericolosità sociale” dell’indagato, non ha ritenuto sussistere alcunché dal punto di vista di eventuali responsabilità relative al terrorismo. E la perizia disposta successivamente avrebbe escluso qualsiasi sua eventuale vicinanza ad ambienti sospetti: nessuna frequentazione su siti che inneggiano alla Jihad, nessun contatto telefonico “anomalo”, nemmeno la frequentazione della moschea. Neppure gli scritti confusi con riferimenti al presidente americano Donald Trump che erano stati sequestrati nel suo appartamento, hanno avuto una qualche rilevanza ai fini della formulazione dell’accusa. Ma allora, perché è stato espulso? Di certo il fatto che, anche in un’eventuale situazione di stress dovuta al mancato rilascio di permesso di soggiorno, sia uscito in strada aggredendo le forze dell’ordine al grido di “Allah Akbar” non ha giovato nella valutazione relativa alla sua pericolosità sociale. Il provvedimento adottato lo scorso 19 aprile dal prefetto di Vercelli e convalidato dal gip, secondo la difesa, “accenna appena” ai fatti della Verona Marathon. Dal Piemonte si mette nero su bianco che Manai rappresenta “minaccia concreta, effettiva e sufficientemente grave ai diritti fondamentali” e che l’assenza di fonti lecite di reddito e la “pluralità di reati commessi”, “costituiscono elementi a sostegno della pericolosità sociale del soggetto, destando un forte allarme per la società”. Tesi contro le quali l’avvocato Bergamini ha già presentato ricorso in Cassazione, sostenendo non vi sia alcuna “pluralità di reati”: Manai è stato condannato nel 2015 per violenza sessuale, ma la Corte d’Appello di Venezia ha riconosciuto l’attenuante di speciale tenuità (si trattava di “palpeggiamenti”) e concesso la sospensione condizionale della pena. L’altra condanna citata nel provvedimento di espulsione sarebbe relativa a un episodio di spaccio contestato a Brescia, ma il legale (che ha sollevato anche questioni di competenza territoriale e di violazione del diritto di difesa) sostiene che tale condanna “non esiste e non è mai stata pronunciata” e ha chiesto che venga prodotta. E i fatti di Borgo Milano? Sarà il gip veronese a doverli giudicare. Se “violenza” è stata, la procura ha già escluso comunque che si sia trattato di terrorismo. Trento: carcere di Spini “carenza di personale e mancata manutenzione” ildolomiti.it, 3 luglio 2018 Una delegazione di consiglieri provinciali visita la struttura. Manuela Bottamedi e Lorenzo Baratter, accompagnati dall’avvocato Fabio Valcanover: “Nella sezione femminile nessuna iniziativa di lavoro”. E sulla proposta del Provveditorato regionale: “Siamo qui per chiedere sinergia tra Stato e Regione”. “Questa mattina abbiamo visitato la Casa Circondariale di Trento”, scrivono in una nota l’avvocato Fabio Valcanover e i consiglieri provinciali Manuela Bottamedi e Lorenzo Baratter. Un’iniziativa messa in atto attraverso il ‘potere ispettivo’ che è attribuito al loro ruolo e che hanno esercitato per conoscere da vicino una realtà spesso dimenticata, quella carceraria. All’interno della struttura di Spini di Gardolo ci sono rimasti quasi quattro ore: “Con occhi diversi, ma con comune sensibilità - scrivono - abbiamo visitato tutta la sezione femminile”. E sinteticamente comunicano il loro resoconto. Si ripresenta il problema della carenza di personale, non risolto dall’aggiunta di trenta unità lo scorso inverno: “Pare che le funzioni del direttore saranno assunte da un’altra persona entro qualche mese - spiegano - facendo così venir meno il requisito fondamentale di una certa stabilità del personale amministrativo”. La delegazione riferisca anche che il personale lamenta la decisione del ministero che ha modificato il limite della capienza, portandolo da 240 unità a 418. Un potenziale aumento di presenze che si scontra con una carenza di personale addetto alla custodia e alle attività di educative. “Si è potuto notare che la struttura, per quanto eccellente, soffra l’assoluta (o quasi) carenza di manutenzione. In particolare - si legge nel comunicato - occorrono manutenzioni degli impianti di riscaldamento (d’inverno) e ora di manutenzione degli impianti di climatizzazione in alcuni luoghi di lavoro della polizia penitenziaria”. “Permane il problema della chiusura del secondo piano (inutilizzato dall’apertura del carcere) con conseguente sovraffollamento della sezione femminile”. Il motivo del mancato utilizzo è da ricercare ancora una volta nella carenza di personale capace di assicurare la sorveglianza su tutta la struttura. “Permangono dubbi quindi sul sovraffollamento della sezione femminile - avvertono - con dubbi nostri della compatibilità con le metrature conseguenti alla sentenza Torreggiani”, quelli che calcolano l’area calpestabile al netto di arredi fissi e mobili. La delegazione descrive anche la situazione delle detenute, costrette a trascorrere l’ora d’aria in zone disagiate: “L’area di passeggio esterno, per quanto abbia delle dimensioni decenti, si caratterizza per essere nel periodo di caldo estivo un irradiatore e moltiplicatore del calore naturale”. Dolente nota sull’attività lavorativa in carcere, quella che dovrebbe servire anche e soprattutto per le finalità di reinserimento e per abbattere le percentuali di recidiva. “È totalmente assente nella sezione femminile, qualsiasi ipotesi che abbia a che fare con cooperative. Sicché le detenute si devono ‘accontentarsi” di lavori in cucina saltuari e a rotazione”. Nella sezione femminile c’è poi soltanto un’infermiera, quando invece “occorrerebbe personale medico stabile anche nella sezione femminile. In generale -spiegano Valcanover, Bottamedi e Baratter - gli educatori sono ridotti soltanto a tre, rispetto ai sei previsti”. “Emerge urgentemente la manutenzione come prima necessità per evitare che l’importante investimento deperisca a causa del tempo e per omissione di intervento. C’è da sperare che l’Ente pubblico si faccia carico di conservare l’utilità dell’investimento iniziale”. Tutti e tre i componenti della delegazione sono stati protagonisti attivi dell’iniziativa politica, votata e approvata dal Consiglio Regionale, sulla richiesta di valutare la possibilità di istituire in Trentino Alto Adige una sezione distaccata del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Su questo interviene anche Baratter: “Il dato politico di questa mia visita è proprio quello promuovere una maggiore attivazione della sinergia tra Regione e Stato rispetto a questa struttura. Rappresenta potenzialmente un punto di eccellenza che però deve essere messo nelle condizioni di operare al meglio”. Questo per rispondere al meglio ai detenuti, “per mirare alla funzione rieducativa che spetta alla detenzione”. Ma anche per rispondere alle esigenze del personale “che deve poter lavorare in un ambiente sereno”. Il consigliere assicura che tornerà a breve nella struttura: “Lo abbiamo già anticipato al personale, che devo dire ci ha accolti con molta disponibilità, perché voglio poter visitare anche la sezione maschile che a Trento è la più numerosa”. Treviso: sei sindaci in visita a Santa Bona per conoscere il mondo del carcere lavitadelpopolo.it, 3 luglio 2018 Il direttore del carcere Francesco Massimo ha guidato i primi cittadini Cristina Andretta (Vedelago), Miriam Giuriati (Casier), Paola Moro (Monastier), Rossella Cendron (Silea), Anna Soza (Maserada) e Marco Serena (Villorba) illustrando i vari progetti, in modo particolare quelli seguiti dalla cooperativa Alternativa. Sei sindaci in visita al casa di reclusione di Santa Bona per capire come interagire soprattutto sul fronte del reintegro nella società dei detenuti che hanno espiato la condanna. Oggi il direttore del carcere Francesco Massimo ha guidato i primi cittadini Cristina Andretta (Vedelago, accompagnata dall’assessore Denisse Braccio), Miriam Giuriati (Casier), Paola Moro (Monastier), Rossella Cendron (Silea), Anna Soza (Maserada) e Marco Serena (Villorba) nella struttura carceraria illustrando i vari progetti che si svolgono all’interno, in modo particolare quelli seguiti dalla cooperativa Alternativa. Questa visita segue quella avvenuta circa un mese fa nell’analoga struttura femminile del carcere della Giudecca a Venezia. “Un’opportunità ­ spiegano i sei sindaci ­ per conoscere una realtà di cui poco si parla come il carcere, mentre è sempre più importante il rapporto con le pubbliche amministrazioni, soprattutto per intervenire sul ridurre il tasso di recidività, ovvero il ritorno in carcere di persone che hanno già scontato una pena. In questo senso risulta molto utile la possibilità, già attiva a Villorba, che i comuni possano impiegare i detenuti per servizi di pubblica utilità, una esperienza formativa per loro in vista del ritorno in libertà senza costi per le amministrazioni comunali”. Ancona: orto sociale in carcere, il progetto si allarga italiafruit.net, 3 luglio 2018 Sono circa 40 i detenuti del carcere di Barcaglione di Ancona che hanno aderito al progetto “Orto sociale in carcere” e che ogni anno producono 30 quintali di ortaggi. Il progetto è organizzato in collaborazione con i pensionati di Coldiretti Ancona che insegnano la gestione della terra e supervisionano il lavoro. La presidente di Coldiretti Ancona Maria Letizia Gardoni, insieme al direttore regionale Enzo Bottos, ha visitato la struttura per conoscere meglio una realtà che, da tre anni a questa parte, è stata resa possibile dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dalla Regione Marche. “L’agricoltura - commenta la Gardoni - raggiunge il suo apice di valore quando sfocia nel sociale. Con questo progetto, ormai consolidato, diamo la possibilità ai detenuti di ritrovare la fiducia in se stessi e la spinta motivazionale”. In un terreno che dispone anche di serre riscaldate vengono prodotti pomodori, peperoni, zucchine, ma anche cocomeri e meloni. C’è persino un uliveto. Gli ortaggi vengono consumati dagli stessi detenuti. Anche quelli che non lavorano. L’adesione al progetto è volontaria ma grazie al passaparola sono sempre di più quelli che si avvicinano al lavoro della terra. “Una volta - racconta Antonio Carletti, presidente di Federpensionati Coldiretti Ancona - un detenuto mi ha chiesto di insegnargli a coltivare un orto perché fuori dal carcere, se non avesse trovato lavoro, avrebbe potuto comunque aiutare la sua famiglia. Mi ha colpito molto e mi ha fatto comprendere in pieno il valore di questa iniziativa. A mio avviso andrebbe ulteriormente valorizzata con un attestato di partecipazione. Una soddisfazione in più per i detenuti”. Nisida (Na): un servizio navetta porterà le famiglie dei detenuti sull’isola identitainsorgenti.com, 3 luglio 2018 “Nisida è un’isola, ma nessuno lo sa”, cantava Edoardo Bennato, nato a Bagnoli, proprio di fronte a Nisida. Questo grosso scoglio, legato alla terra da una strada costruita da qualche decennio, fa parte dell’arcipelago delle isole Flegree. Oggi ospita l’Istituto penale per i minori e una base Nato, ma fin dai tempi antichi ha ispirato scrittori e poeti (secondo Omero qui vivevano le sirene che hanno incantato Ulisse) ed è stata la dimora di personaggi storici, politici e teste coronate. Quando si entra a Nisida ci si lascia tutto alle spalle, si attraversa un grosso cancello e si entra in un altro mondo. Ed è, stranamente, un mondo di pace. Una strada stretta e tortuosa permette ad un solo veicolo per volta di salire o di scendere. Arrivati alla sommità dell’isola, la strada finisce e inizia l’edificio che ospita i ragazzi dell’Istituto penale. Nulla qui da l’idea della reclusione, non c’è degrado, solo una struttura tenuta benissimo, in mezzo ad una vegetazione rigogliosa, come sa esserlo la macchia mediterranea. L’Istituto fa parte di un progetto europeo che studia e cerca di trovare soluzioni alle forme di devianza minorile, sull’isola, infatti è presente il Centro europeo di studi (Ceus) e Osservatorio sulla devianza minorile, diretto dalla Dottoressa Isabella Mastropasqua. Il minore che compie dei reati deve essere recuperato prima di essere di immesso di nuovo nella società. A Nisida i ragazzi vengono coinvolti in numerose attività tese a sviluppare la loro capacità creativa e far loro imparare un mestiere, così una volta scontata la pena, possono tornare alla vita di tutti i giorni e avere meno possibilità di commettere di nuovo dei reati. I vari edifici dell’Istituto ospitano laboratori di ceramica, pittura, pasticceria; i ragazzi producono oggetti di artigianato recuperando antiche tradizioni, come quella di costruire i presepi, oppure curano animali, capre, oche, galline e c’è anche un orto biologico i cui prodotti vengono consumati nella mensa comune. Da lunedì prossimo 1° luglio e fino al 30 settembre 2018, Regione Campania ed Eav attivano in via sperimentale un servizio navetta gratuito - tutti i giorni, compresi i festivi - sulla tratta Bagnoli - Nisida - Bagnoli, ad uso esclusivo dei giovani ospiti del penitenziario di Nisida. Le corse in direzione Nisida partiranno da Piazza Bagnoli prevedendo una sola fermata intermedia a via Coroglio nei pressi dell’ex laboratorio di ceramica ed un’altra nei pressi dell’Istituto penitenziario minorile, all’altezza del campo sportivo. Anche i familiari degli ospiti della struttura penitenziaria minorile potranno beneficiare del servizio navetta nei giorni di colloquio. Deputato al servizio di controllo e verifica dei passeggeri sarà il personale di Polizia Penitenziaria della base navale nell’ambito dell’accordo di collaborazione. “Grazie al sostegno della Regione Campania, con il servizio navetta a cura di Eav, siamo in grado di agevolare le attività quotidiane e i rapporti tra i giovani ospiti del penitenziario di Nisida e le loro famiglie, molte delle quali in condizioni di forte disagio economico” ha dichiarato il Dirigente del Centro per la Giustizia minorile della Campania, Maria Gemmabella. “Ci è sembrato doveroso assicurare ai ragazzi di Nisida un collegamento con le strutture esterne presso le quali effettuano attività rieducative e di formazione al lavoro per agevolare il loro reinserimento sociale - ha dichiarato il Presidente Vincenzo De Luca. In collaborazione con Eav, stiamo già lavorando per continuare a garantire il servizio navetta ai ragazzi di Nisida e alle loro famiglie anche nel periodo invernale”. Napoli: pena e società, l’Università Federico II approda in carcere Ansa, 3 luglio 2018 Si chiude ciclo di incontro tra studenti e detenuti. Una riflessione sulla società di oggi che promette consumi di massa ma che fornisce i mezzi solo a pochissimi: questo l’obiettivo del ciclo di incontri “Pena e società oggi” per i detenuti che ha aperto le porte della casa circondariale napoletana di Poggioreale agli studenti di Giurisprudenza e Scienze Politiche dell’Università Federico II di Napoli. Il progetto, nato la metà dello scorso maggio e realizzato su iniziativa del professore Francesco Marco De Martino, troverà il suo epilogo nella visita in programma il prossimo 3 luglio alla quale parteciperà anche il docente di storia delle mafie dell’Unisob Isaia Sales con un discorso che concluderà un percorso durato circa due mesi. Spesso sono loro, i detenuti, a fare domande agli studenti, tra il serio e il faceto - “Cosa si prova ad essere qui?”, oppure, “Ma parlando di cose serie, il mare c’è ancora a Napoli?”. Ragazzi poco più che maggiorenni e uomini di ogni età si appiccicano agli universitari alla ricerca di confronti, dialoghi, intese e anche scontri. “Sono loquaci, interattivi e spigliati”, dice Ilaria, studentessa al quarto anno di Giurisprudenza, “mi hanno chiesto cosa ci facessi qui. Ho risposto che volevo sentire cosa avessero da dirmi, volevo sapere cosa ci fosse oltre i libri che studio, volevo sapere come vivono i loro giorni e se ci fosse qualcosa di cui avessero bisogno”. A farsi avanti per raccontare meglio la sua storia è stato Raffaele Starace, ospite del padiglione Livorno. “Ho deluso i miei genitori imbattendomi in quella piaga sociale che è la droga...chiedo perdono alla mia famiglia, a chi ho arrecato danni e a chi, se ne avessi la possibilità, risarcirei pur convinto che abbia gettato nell’oblio le mie malefatte che sto ancora pagando con lunghe detenzioni”. Al suo ventisettesimo anno di reclusione, Raffaele sceglie di mettere nero su bianco parole dure, un grido di protesta contro una società che, a suo dire, è ingiusta. “Il magistrato di sorveglianza mi ha concesso la detenzione domiciliare con affidamento diurno al Sert di Casavatore dove ho trascorso diciotto mesi con ottime considerazioni da parte gli operatori del centro. Mi era stata proposta una possibilità lavorativa ma - ricorda il detenuto - una mattina, mentre a piedi mi recavo al centro, ho avuto un malore”. “Non avevo il telefono - dice ancora - e sono ritornato a casa per avvisare i responsabili e i funzionari pubblici. Ho subìto un controllo delle forze dell’ordine che hanno verificato il mio stato di malessere fisico. Poi mi hanno portato nel posto di polizia di zona e contestato un’evasione. È stato un episodio di bullismo”. A causa di questo, dice ancora Starace, ora “sono un uomo confinato in una cella sei metri per quattro, con altre nove persone. Ogni giorno mi chiedo se ritornerò a delinquere o ne uscirò sano” perché “non sempre la giustizia è indulgente con chi ha deciso di cambiare la sua vita in positivo”. Lucera (Fg): “Artisti di sbarre” in carcere, arte, musica e poesia per l’open-day del Cpia1 Ristretti Orizzonti, 3 luglio 2018 Grandi applausi ed emozioni tra gli artisti di sbarre, protagonisti di un pomeriggio senza barriere. Il direttore, Giuseppe Altomare: “I detenuti hanno lavorato con grande passione e realizzato un’opera nella sala colloqui che sorprenderà. Questo pomeriggio si è avvertito un bel clima, giusto”. Soddisfatta la dirigente scolastica, Antonia Cavallone: “L’Istruzione è un tassello fondamentale del percorso riabilitativo”. “Questo pomeriggio si è avvertito un bel clima, giusto. Credo che a nessuno sia sembrato di aver trascorso alcune ore in carcere. Grazie a tutti per il grande impegno profuso: è stata una bella iniziativa”. Nelle parole del Direttore della Casa Circondariale di Lucera, Giuseppe Altomare, il senso della manifestazione organizzata nell’Istituto Penitenziario dal Cpia1, il Centro Provinciale di Istruzione per gli Adulti. Scuola e carcere - “L’Istruzione è un tassello fondamentale del percorso riabilitativo - ha evidenziato il dirigente scolastico del Cpia1, Antonia Cavallone - In particolare in luoghi come questo, è determinante l’intento sociale, civico e culturale, che viene realizzato grazie a una collaborazione sinergia tra direzione, polizia penitenziaria, area educativa, qui rappresentata da Cinzia Conte, da associazioni e docenti, che credono in questa importante missione e lavorano silenziosamente, ogni giorno. La scuola nel carcere non si concretizza solo con i corsi di alfabetizzazione e scuola media: i progetti sono tanti e rivestono un ruolo fondamentale. Il PON che ha portato all’abbellimento della sala colloqui ne è un esempio”. Il murale nella sala colloqui - Nel corso del pomeriggio è stato proiettato un video che ha illustrato le varie fasi del murale che i detenuti hanno realizzato insieme con l’esperto Mosè La Cava e con il tutor, Alfonso Rainone. “Il progetto che ha visto all’opera gli artisti di sbarre - ha sottolineato il docente - si è nutrito di un’attività cooperativa, in cui ciascuno ha dato il proprio contributo: tutti si sono entusiasmati e divertiti e qualcuno si è rilassato. A tutti noi piace pensare che davanti a tale opera le famiglie, entrando, non abbiano la percezione di un luogo chiuso e triste, ma di uno spazio aperto, dove anche i bambini possano sentirsi a proprio agio”. L’opera rappresenta un paesaggio, con diversi elementi; in basso, una scritta significativa: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita”, l’incipit del primo canto dell’Inferno di Dante Alighieri, “per ricordare a tutti che c’è stato un momento della vita in cui si è smarrita la via”. Progetti e lavori dietro le sbarre - Dopo la consegna degli attestati ai corsisti partecipanti al Pon, alcuni detenuti si sono esibiti cantando, accompagnati dal docente del corso musicale, Sergio Picucci e recitando poesie. Sono stati poi illustrati i lavori realizzati con la docente responsabile del punto di erogazione del Cpia1, Rosaria Saponaro, con la docente di Potenziamento, Maria Filippa Finaldi e con i volontari dell’associazione Padre Maestro San Francesco Antonio Fasani. La lettera dei clown dottori - Al termine della manifestazione, prima che i ristretti cantassero l’ultimo brano, “Stand by me” di Ben E. King, la responsabile della promozione del volontariato in ambito penitenziario del Csv Foggia, Annalisa Graziano, ha letto una lettera di ringraziamento che la presidente de Il Cuore Foggia ha scritto per i ristretti della Casa Circondariale di Lucera, protagonisti di una raccolta fondi per l’associazione. “Vi auguro di recuperare ogni secondo degli anni di crescita dei vostri figli perché i vostri figli sono piccoli una volta sola, perché ci sono situazioni che succedono una volta sola, ci sono emozioni che potrete condividere solo in alcuni momenti della loro vita, perché alcune cose si possono fare anche domani, altre passano e non torneranno più. Vi auguro - ha scritto Jole Figurella - di parlare, conoscervi, semplicemente dando loro le attenzioni di cui hanno bisogno, perché sono sicura che loro vi vedono come una persona da imitare, come i loro super eroi e perché non diventarlo davvero? Dopo tutto, ciò che più desiderano è che voi li facciate sentire importanti e vi assicuro che non c’è nulla che valga di più a questo mondo del vederli felici. Vi auguro gioia vera e serenità anche se il vostro cuore è deluso e stanco di ricominciare. Vi auguro abbracci e strette di mano sincere e tanta pace e prosperità a tutti voi che lottate per esserci, malgrado tutto. Concludo questa mia lettera con dirvi ancora grazie di cuore per averci donato il vostro contributo che sarà preziosamente utilizzato per un progetto che si concretizzerà a Natale 2018, per il quale stiamo mettendo da parte tutti i nostri risparmi. Realizzeremo una Sala Tac a dimensione bambino, trasformandola in una navicella spaziale con stencil e tanti colori sulle pareti”. Cassino (Fr): la “stozza cassinese” realizzata in carcere linchiestaquotidiano.it, 3 luglio 2018 “Questo luogo è un territorio importante. Chi è qui dentro deve conoscere questo territorio. Ringrazio l’Associazione culturale Vecchia Cassino per aver portato uno spaccato della città in carcere e per aver fatto conoscere ai nostri ospiti una delle più belle ed antiche tradizioni”. Con queste parole la dottoressa Irma Civitareale, direttore della Casa circondariale di Cassino ha presentato la Stozza Cassinese che, per la prima volta nella storia della manifestazione, lo scorso venerdì mattina ha varcato il cancello del carcere. L’iniziativa è stata accolta con calore ed entusiasmo dalla direzione, dal personale e dagli stessi detenuti, alcuni dei quali scelti a far parte del Comitato dei Saggi. Alex, Raffaele, Luca, Alessandro, Alex, Alessandro, Alessandro, Vincenzo sono coloro che hanno avuto il compito di giudicare le cinque super “Stozze” in gara: il classico panino farcito con prodotti e ricette tipici della cucina cassinese. I giudici, che frequentano la sede distaccata dell’Istituto Alberghiero all’interno della casa circondariale, hanno assaggiato e giudicato in base a tre aspetti: forma, contenuto e sapore. Nessuno di loro era a conoscenza del nome degli autori delle stozze, ognuna caratterizzata da un titolo: n.1) “Gliu Fazzolettone a base di peperoni dell’orto mio vicino”. La stozza è stata preparata dagli Educatori della Casa secondo la tradizione contadina in uso il giorno della trebbiatura; n. 2) “Gliu Panar” a base di melanzane e peperoncini piccanti. Preparata dal gruppo Caritas; n. 3) “Aria di Casa” con coratella e carciofi. Preparata dal Direttore; n. 4) “Mare e Monti” ingredienti principali salmone e melanzane arricchita da caprino e limoni del giardino del Direttore; 5) “Pastozza di Mamma Peppinella” ingredienti principali uova e cipolletta francese degl’uort mio. Preparata dal gruppo pensionati. Fuori concorso lo staff della Stozza Cassinese ha riproposto la vincitrice della settima edizione svoltasi “Chella che non se fa chiù” a base di polpette a sugo e parmigiana di melanzane. Al termine dell’evento il presidente dell’associazione Antonio Marzocchella ha consegnato alla direttrice Irma Civitareale una targa ricordo della giornata sottolineando: “Oggi è la terza volta che organizziamo questa manifestazione, che ha l’obiettivo di far conoscere ai giovani una delle antiche tradizioni della nostra città. La prima il 26 maggio presso la scuola Pio Di Meo del Primo Istituto Comprensivo, dinanzi a 200 bambini. La seconda volta lo scorso 3 giugno a Montecassino. Oggi chiudiamo qui, insieme a voi. Grazie per le emozioni che ci avete trasmesso. Vi annuncio - ha rivelato il presidente rivolgendosi ai detenuti - che la notte del 5 gennaio 2019 porteremo La Pasquetta anche per voi”. Anche i Saggi per gli assaggi hanno ringraziato l’associazione e lo staff per aver regalato a tutti loro momenti di allegria e spensieratezza. Dopo aver consegnato un attestato ai partecipanti, lo staff composto dal presidente Antonio Marzocchella e dai collaboratori Marcello Trupiano, Mary Comparone, Domenica Marinelli e Roberto Minchella ha premiato i primi tre classificati. Il primo premio è andato alla stozza n. 4 “Mare e Monti” proposta dal personale amministrativo. Il secondo premio al gruppo Pensionati “Pastozza di Mamma Peppinella”, ritirato da Tonino Comparone. Il terzo premio è andato al gruppo Caritas con “Gliu Panar” ed è stato ritirato dalla direttrice Caritas Maria Rosaria Lauro. Migranti. Unhcr: nuovo naufragio con 63 dispersi, situazione di difficile gestione in Libia La Stampa, 3 luglio 2018 Il massiccio afflusso di migranti recuperati dalla Guardia costiera libica sta creando un problema di sovraffollamento. Ancora un naufragio, ancora morti in mare. Davanti alla Libia continua il traffico dei migranti e oggi un’altra carretta è affondata con un nuovo bilancio di vite umane perse che si profila tragico: 63 i dispersi, destinati ad allungare il triste numero dei morti che, solo da inizio anno, conta già mille vittime. Oltre 40 delle persone che erano a bordo sono state salvate dalla Guardia costiera libica. Più fortunate dei compagni di viaggio. Ma per loro, mentre i soccorsi delle Ong sono al momento azzerati (complice anche la chiusura dei porti di Italia e Malta), il futuro è quello di finire nei centri di accoglienza libici. Strutture ormai al collasso, che ospitano già almeno 10 mila persone in condizioni estreme di sovraffollamento e emergenza umanitaria, aggravata anche dall’afa di questi giorni. Come fa sapere l’Oim che insieme all’Unhcr lancia un nuovo allarme sulla situazione. Anche perché i recuperi in mare, tra salvataggi e intercettazioni, cresce ad un ritmo “drammatico”: 2.500 le persone riportate a terra solo nell’ultima settimana di giugno. Il naufragio di oggi è stato segnalato in serata dall’Unhcr, l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati: al largo di Zuara, davanti alle coste occidentali libiche, si è rovesciato un barcone e 63 persone risultano disperse mentre solo 41 sono state tratte in salvo dalla Guardia costiera. Le scarne informazioni sulla nuova tragedia dei migranti arrivano appena due giorni dopo un altro naufragio con oltre cento dispersi, che ormai si presume siano affogati, fra cui una decina di bambini: solo di tre di loro, di meno di un anno, erano stati recuperati i corpi con ancora le tutine colorate addosso. Immagini che hanno dato cruda sostanza ad aride cifre di un’ecatombe da decine di migliaia di morti che da anni rende la tratta fra Libia e Italia la più micidiale al mondo. La chiusura dei porti italiani, e il conseguente diradarsi delle navi di Ong appostate al largo della Libia (alcune bloccate, altre come la OpenArms in viaggio per Barcellona con 59 a bordo) confermato anche dal portavoce della Guardia costiera libica, ha avuto come immediata ripercussione un “drammatico aumento” del numero di migranti riportati indietro dai guardacoste: 2.425 in una sola settimana secondo una rilevazione dello stesso Unhcr, mentre l’Oim ne ha stimati circa 3.000 in due settimane. Altri 220 sono stati recuperati nelle ultime ore su due gommoni davanti alle coste ovest, l’epicentro della crisi. Come tutti gli altri, i migranti sono stati avviati verso uno dei 20 centri di detenzione in cui, sommando l’ultimo dato ufficiale risalente a un mese fa (circa 7.000 persone) e gli almeno tremila delle ultime due settimane, si supera abbondantemente la soglia dei diecimila. I centri verso cui c’è un maggiore afflusso sono circa cinque. L’Oim, attraverso una portavoce in Libia, ha avvertito che il massiccio afflusso di migranti recuperati dalla Guardia costiera libica sta creando un problema di sovraffollamento che “ci preoccupa molto”. Quando spazi angusti come quelli dei centri di detenzione si riempiono troppo, “ciò ha un impatto sulla condizioni di vita”, ha ricordato la portavoce, Christine Petrè, lasciando solo immaginare cosa questo voglia dire ad esempio in termini di servizi igienici. Soprattutto quando ci sono oltre 40 gradi di temperatura. Migranti. Unione Europea, senza solidarietà vincono i nazionalismi di Elly Schlein* Il Manifesto, 3 luglio 2018 Al Consiglio europeo del 28 e 29 giugno i Governi hanno perso l’occasione storica di riformare il Regolamento di Dublino e dare sostanza al principio di solidarietà, decidendo ancora una volta di non decidere. O meglio, hanno trovato accordo solo su due cose: sull’esternalizzazione delle frontiere, una strada vigliacca e pericolosa intrapresa da tempo con l’unico risultato di violare diritti altrove. E aprire così nuove rotte sempre più pericolose verso i Paesi di confine. E pure sull’attacco alle Ong che salvano vite in mare, intimando loro di non disturbare l’azione della Guardia costiera libica, che viola costantemente i diritti fondamentali dei migranti e ne mette a rischio la vita, come denunciato persino dalle Nazioni unite. Nelle conclusioni del Consiglio non c’è traccia di una soluzione europea basata sulla condivisione delle responsabilità tra tutti gli Stati, non c’è alcun obbligo di ricollocamento ma solo solidarietà volontaria, eventuale e rimandata a future intese bilaterali, che non ha mai funzionato e consente a chi si è sempre sottratto ad ogni responsabilità sull’accoglienza, di continuare a farlo. Si rimanda la fondamentale riforma del regolamento di Dublino, l’unica in grado di garantire vera solidarietà europea, mettendo nero su bianco che si vuole trovare un’intesa all’unanimità, rischiando così di mettere una pietra tombale sulla riforma e ignorando quella proposta dal Parlamento europeo a larghissima maggioranza. Così vincono i nazionalismi, ma perde l’Unione. Non è un caso che i primi a festeggiare siano stati Orbán e i suoi sodali: il premier polacco Morawiecki ha commentato soddisfatto l’esito del vertice, dicendo che l’Unione europea ha finalmente adottato la linea dei Paesi Visegrad. Ed è proprio l’inerzia, l’incapacità di visione comune e di mettere in campo soluzioni europee, che sta rafforzando l’asse nazionalista e spalancando le porte al rigurgito fascista nei nostri Paesi. La debolezza dell’intesa raggiunta venerdì scorso è stata subito chiara, quando a poche ore dalla firma i leader europei hanno cominciato a litigare sull’interpretazione del testo. E così Macron, che non manca anche in questa occasione di mostrare quanto di facciata sia il suo sbandierato europeismo, si è affrettato a chiarire che uno dei punti fondamentali dell’intesa raggiunta nella notte al Consiglio - i centri “controllati” per migranti in Europa da istituire anch’essi su base volontaria - si faranno nei Paesi di primo arrivo, ma non in Francia. Del resto nemmeno Conte, che ha smentito Macron dicendo che “era stanco”, è riuscito a celare la disfatta della sua prima volta al Consiglio europeo. Sono partiti ‘battendo i pugni sul tavolo’ e tornati a casa a mani vuote, rinunciando a tutti gli obiettivi annunciati alla vigilia del vertice, in cambio di vaghe promesse d’intesa, sulle quali stanno già litigando. Sull’assurda idea dal vago sapore colonialista di creare hotspot nei Paesi fuori dall’Unione europea, ci hanno già pensato Tunisia, Libia ed Albania a rispondere “no grazie”. Ma anche la cancelliera tedesca esce dal Consiglio europeo indebolita. Merkel, che su questo tema rischia la tenuta del suo governo per via delle tensioni con gli storici alleati della Csu, è riuscita a portare a casa un paragrafo delle Conclusioni che impegna i Governi ad una stretta sui movimenti secondari, e cioè dei richiedenti asilo che si spostano dal Paese di primo arrivo attraverso i confini, e che ai sensi del Regolamento di Dublino possono essere rimandati indietro. Ma questo non è bastato al ministro Seehofer che minaccia dimissioni. Dopo questo disastroso vertice è ancor più chiaro che con questi leader l’Unione non si sarebbe nemmeno mai fatta. La battaglia però non è finita: facendoci forti della maggioranza che al Parlamento europeo ha votato per un meccanismo permanente e automatico di ricollocamento e della straordinaria mobilitazione di migliaia di persone in 173 piazze europee mercoledì scorso, dobbiamo continuare ad insistere perché tutti i Governi europei facciano la propria parte sull’accoglienza, cambiando Dublino e aprendo vie legali e sicure d’accesso in tutti i Paesi dell’Unione. Dobbiamo continuare la battaglia per la solidarietà europea, nelle istituzioni e fuori, e prepariamoci perché temo sarà lunga. *Eurodeputata di Possibile Tra Francia e Italia è scontro coloniale in Niger di Alberto Negri Il Manifesto, 3 luglio 2018 Il presidente francese ieri era in Mauritania al summit dell’Unione africana, oggi è in Nigeria ma l’obiettivo è disimpegnarsi progressivamente. Per questo ha fatto ostruzionismo alla missione in Niger, di valore particolare per l’Italia, specie dopo l’avvio della ricognizione a Ghat, nel sud ovest della Libia. MacronAfrique, il presidente francese è instancabile ma soprattutto è alla ricerca di soldi per finanziare le missioni militari francesi e africane mentre sul campo si accentua, anche nel Sahel, il confronto tra Italia e Francia: Macron e i suoi alleati in Niger dimostrano di preferire persino la Gran Bretagna della Brexit agli italiani. Una vicenda, un po’ lontana dai riflettori. Che sta assumendo contorni paradossali e tragi-comici. Il presidente francese ieri era in Mauritania al summit dell’Unione africana, oggi è in Nigeria: la Francia continuerà a guidare la forza G5 Sahel, che riunisce Mauritania, Burkina Faso, Mali, Niger e Ciad, ma il suo obiettivo è disimpegnarsi progressivamente. Un tema quanto mai d’attualità dopo gli attacchi terroristici del fine settimana contro il quartier generale dello stesso G5 Sahel a Sévaré, in Mali, e contro i soldati dell’operazione francese Barkhane. Macron ha parlato a lungo anche ai leader di cinque Paesi del Sahel del G5, un sistema militare e di sicurezza che ha preso le mosse dall’intervento francese in Mali del 2013 contro Al Qaeda. Per Parigi si è trattato di ritorno in forze nel continente dove nell’ultimo mezzo secolo ha compiuto una cinquantina di missioni militari senza contare le operazioni segrete e clandestine. La Francia oggi ha 7mila militari in Africa e, oltre a Gibuti, mantiene basi sulla costa atlantica, con una presenza importante in Senegal, Gabon, Costa d’Avorio e un ruolo decisivo tra il Mali, il Ciad e il Centrafrica. Ma adesso la Francia vuole alleggerire una presenza militare costosa e anche insidiosa: il maggiore ostacolo al disimpegno sono gli Stati Uniti che hanno ridotto sensibilmente i loro finanziamenti alle cosiddette operazioni di pace africane. E Parigi cerca anche una compensazione per l’aumento dell’impegno militare francese in Siria (un migliaio di soldati) proprio a fianco degli americani. La grandeur francese, estesa nei suoi ex possedimenti e protettorati coloniali dal Medio Oriente all’Africa, deve fare i conti con i bilanci, per questo la Francia era rimasta molto delusa dal piano italiano di andare con una missione militare in Niger dedicata però ai traffici dei migranti e non al combattimento contro le formazioni jihadiste. I francesi avevano fatto quindi ostruzionismo con l’appoggio delle forze interne nigerine. Questa missione ha un valore particolare per l’Italia, specie dopo l’avvio della ricognizione a Ghat, nel sud ovest della Libia, dove con i fondi europei Roma vorrebbe costituire un comando militare e di polizia che addestri le future guardie di frontiera di Tripoli e presidi 5 punti di confine con Niger, Algeria e Ciad attraversati dai convogli dei migranti “illegali” diretti verso il Mediterraneo. La vicenda italo-francese in Niger ha assunto invece toni quasi comici, se non trattassimo qui di laceranti drammi africani. Al mancato avvio della missione dell’Italia, che pure ha sbloccato 100 milioni di euro a favore di Niamey, si unisce la beffa dell’arrivo in Niger di truppe britanniche. Le avanguardie di un contingente di un centinaio di militari di Sua Maestà sono atterrate a Niamey il 14 giugno per essere inquadrate nell’Operation Barkhane. L’invio di truppe nel Sahel riafferma il peso della cooperazione militare franco-britannica che per Parigi costituisce anche una garanzia in caso di crisi dell’intesa con Berlino e dell’incapacità dell’Unione europea di far fronte alle sfide alla sicurezza. La saga di questa missione in Niger - che era stata accompagnata da una sorta di vertice il 20 giugno alla Fao di Roma tra il premier Giuseppe Conte e il presidente nigerino Mahmadou Issoufou - sta assumendo contorni paradossali: un quarantina di soldati italiani, sotto il comando di un generale, sono da mesi accampati, in maniera precaria, nella base Usa dell’aeroporto di Niamey senza neppure un accordo scritto che li tuteli sotto il profilo giuridico. L’ennesimo dispetto, quasi un’umiliazione, che dimostra l’incapacità dei partner europei di sapere agire da alleati e non da concorrenti. Germania. Rimpatri collettivi, più carceri e detenzione forzata per gli immigrati illegali di Claudio Paudice huffingtonpost.it, 3 luglio 2018 Ecco il piano migranti di Seehofer. Diffuso il Masterplan Migration: un documento di 22 pagine per 63 punti che sta mettendo a rischio la tenuta del Governo Merkel. Eccolo, il piano “segreto” di Horst Seehofer: il Masterplan Migration. Si tratta del documento che i media tedeschi stanno pubblicando in queste ore, mentre la Germania si trova sull’orlo della più grave crisi di Governo dell’era Merkel dopo lo scontro tra il ministro dell’Interno e la Cancelliera sui migranti. È un documento di politica interna - diviso in 63 punti per 22 pagine - molto duro nella lotta all’immigrazione irregolare all’interno dei confini della Germania. Solo una pagina è dedicata al tema dell’integrazione dei rifugiati; al contrario gran parte del piano mira a una stretta molto forte sull’immigrazione illegale, attraverso respingimenti forzati anche collettivi e azioni di polizia più flessibili alle frontiere di tutto il territorio tedesco. Il piano portato da Seehofer al vertice di domenica del suo partito - la Csu che insieme alla Cdu compone l’Unione a sostegno della cancelliera - sarebbe stato presentato in qualità di presidente del partito bavarese e non di ministro dell’Interno, stando a quando diffuso da un tweet del ministero che ha smentito l’ufficilialità del piano. Il masterplan potrebbe quindi essere modificato in queste ore di febbrili trattative tra la Cdu e la Csu. Ecco il piano riassunto in pochi punti. In primis, Seehofer prevede nuovi accordi con i paesi d’origine dei richiedenti asilo per rendere più efficace il rimpatrio di coloro ai quali non venisse riconosciuto lo status di rifugiato. Il masterplan prevede poi la costruzione di hotspot lungo le vie percorse dai migranti per arrivare in Nord Africa, a cominciare dalla regione del Sahel in Africa centrale, “centri sicuri” sotto la supervisione dell’Ue e dell’Onu e capaci di occuparsi del reinsediamento dei migranti. Un punto parla di una sorta di “passaparola” da intensificare in territorio africano a scopo informativo per chi, come i migranti economici, intende iniziare il suo viaggio per l’Europa. Il senso, in parole povere, è: non ci sono opportunità per gli immigrati irregolari, quindi non partite. Frontex dovrà poi svilupparsi, secondo il masterplan di Seehofer, in una polizia di frontiera europea, attraverso la dotazione di mezzi propri. C’è poi tutta la parte, la più delicata e al centro del Consiglio Europeo della scorsa settimana, della cooperazione al livello europeo nell’accoglienza dei migranti. Per il ministro dell’Interno occorre un sistema di asilo comune e solidale in tutti i paesi membri ma pone l’accento anche sulle “responsabilità” e a una equa “ripartizione degli oneri tra tutti ai sensi del Regolamento di Dublino”. Questo è un richiamo diretto ai paesi di primo approdo, in quanto secondo Dublino il paese di prima registrazione è il responsabile della procedura d’asilo e su di esso pesano gli oneri di accoglienza e gestione del migrante. Italia, Grecia e Spagna non sono menzionate ma il nesso è evidente. Non solo: perché il piano di Seehofer prevede che se le misure previste dal regolamento di Dublino non dovessero essere efficaci si dovrà provvedere attraverso “misure interne” per renderle tali. Qui si va al punto della discordia tra il ministro e la cancelliera: Seehofer vuole rafforzare i controlli delle frontiere interne dell’area Schengen, “temporaneamente e nella misura necessaria”, si legge nel documento. I migranti sprovvisti di documenti devono essere “rimpatriati”, ma in futuro “si intende respingere anche coloro che hanno già presentato domanda d’asilo in un altro Stato membro dell’Ue”. E ancora: il masterplan prevede una “azione di polizia flessibile su tutte le frontiere terrestri della Germania” e “controlli temporanei del traffico transfrontaliero da parte della polizia federale”. E una riduzione dei benefici per i richiedenti asilo, meno soldi e più beni in natura, come deterrente. Infine, il piano di Seehofer punta ad aumentare i posti nelle strutture per la custodia dei migranti, consentendo di trattenere i “trasgressori” delle norme sull’immigrazione anche in strutture diverse da quelle d’accoglienza. Quello di trattenere i richiedenti asilo nei centri fino a quando la richiesta di asilo non sarà processata è un punto molto controverso e diverse fonti della polizia tedesca hanno fatto notare come si tratti di procedure non realizzabili. Va poi valutata la possibilità di creare centri d’espulsione all’interno degli aeroporti per facilitare “i rimpatri collettivi”. Russia. “Grave” il regista ucraino Sentsov, dopo 50 giorni di sciopero della fame Askanews, 3 luglio 2018 Dopo 50 giorni di sciopero della fame, il cineasta ucraino Oleg Sentsov, in carcere in Russia con l’accusa di terrorismo, è in condizioni “molto gravi”. Lo ha detto oggi il suo avvocato. “Ovviamente il suo stato di salute è molto grave”, ha dichiarato all’Afp il legale, Dmitri Dinze, aggiungendo di non aver avuto accesso al suo assistito da due settimane. “Non ha contatti con il mondo esterno. Non posso parlare con lui al telefono”, ha proseguito, aggiungendo che conta di ottenere maggiori informazioni sullo stato di salute del suo cliente quando la sorella lo andrà a trovare “prossimamente”. Condannato a trascorrere 20 anni in un campo di prigionia di massima sicurezza in Siberia dopo essere stato accusato da Mosca di terrorismo nel 2015, il 41enne Sentsov è dal 14 maggio che fa uno sciopero della fame per chiedere la liberazione di tutti i “prigionieri politici” ucraini detenuti in Russia. In occasione del G7 di giugno in Canada, il presidente del consiglio europeo Donald Tusk aveva chiesto di “mostrare sostegno” per Sentsov. “La nostra solidarietà può salvare la sua vita”, aveva detto. “Si era opposto all’annessione della Crimea ed è stato accusato dalla Russia di avere commesso terrorismo”, aveva spiegato Tusk alla stampa.