Carceri sempre più piene, ma i detenuti stranieri diminuiscono La Repubblica, 31 luglio 2018 Il rapporto semestrale dell’Associazione Antigone: “Che non ci sia un’emergenza immigrazione lo dicono i numeri”. La denuncia: in troppi istituti di pena le condizioni di vita sono insostenibili. Sono 58.759 i detenuti nelle carceri italiane, 672 in più negli ultimi cinque mesi. È il bilancio dell’Associazione Antigone che pubblica un aggiornamento sulle condizioni di detenzione nella prima metà dell’anno. Dai numeri emerge che ci sono 8.127 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare: al sovraffollamento, sottolinea Antigone, non si risponde con nuove costruzioni, ma “diversificando il sistema sanzionatorio e non puntando solo sul carcere quale unica pena”. Il 33,4% dei detenuti è in custodia cautelare. Di questi la metà, non ha avuto neanche un primo provvedimento di condanna. Mentre sono 21.807 i detenuti che devono scontare una pena inferiore ai 3 anni e che potrebbero dunque, in parte, usufruire di una misura alternativa alla detenzione. Dal 2008 ad oggi, a fronte del raddoppio della presenza di stranieri in Italia, da 3 a 6 milioni tra regolari e irregolari, quelli detenuti sono calati da 21.562 a 19.868. Il dato evidenzia dunque che “non c’è un’emergenza stranieri e non c’è un’emergenza sicurezza connessa agli stranieri”. Con il raddoppio della popolazione, i detenuti infatti sarebbero dovuti raddoppiare, sottolinea l’Associazione: “Invece no. Ogni diversa interpretazione e ogni allarme sono pura mistificazione”. Gli stranieri sono comunque il 33,8% del totale dei detenuti e quelli non europei sono 13.490, ossia il 22,9%. È straniero il 44.64% dei detenuti cui è stata inflitta una pena inferiore a un anno (e dunque per reati di scarsa gravità) e solo il 5,6% degli ergastolani (che sono complessivamente 1.726). Considerando i reati più gravi, come ad esempio la criminalità organizzata, il 98,75% dei detenuti condannati per tali delitti è italiano e solo l’1,25% è straniero. Inoltre, gli stranieri costituiscono il 37,3% dei detenuti per violazione della legge sulle droghe, i quali sono complessivamente 20.525. In diversi penitenziari del Paese si riscontrano ancora carenze per adeguate condizioni di vita del detenuto. Nel 33 % delle carceri, si legge nel rapporto, non funziona a norma il riscaldamento d’inverno e nel 26,7% dei casi non vi è acqua calda in alcune celle. Nel 63,3% delle carceri ci sono celle senza doccia, al contrario di quanto prevede la legge e nel 53,3% vi sono celle in cui le finestre presentano schermature che riducono l’ingresso di aria luce naturale. Nel 75,9% dei casi, inoltre, mancano luoghi di culto per i detenuti non cattolici, mentre “la radicalizzazione - osserva Antigone - si combatte riconoscendo i diritti religiosi”. Nell’10% delle carceri visitate, per detenuti di fede islamica non è previsto tutto l’anno un menù rispettoso dei loro precetti e nel 13,3% non entra alcun ministro di culto diverso dal cappellano cattolico. Per quanto riguarda il lavoro dei detenuti, la media di coloro che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione è pari al 33,4%. Un dato che però include anche quelli che lavorano per poche ore alla settimana o al mese. La percentuale dei reclusi che lavorano per ditte private o soggetti esterni è pari al 3% e ci sono regioni, come la Sicilia, “dove tutto è fermo”, emerge dal dossier. “Preoccupante”, secondo Antigone, è la percentuale dei detenuti coinvolti in corsi di formazione professionale, che nelle carceri visitate è pari al 4,8%. La percentuale dei detenuti che frequentano attività educative e scolastiche si attesta al 20%. Quanto alle comunicazioni, nel 90% delle carceri visitate non è possibile effettuare colloqui via Skype con i familiari e un “limitato accesso ad Internet” è ammesso solo nel 6,7% degli istituti di pena. Sono inoltre 17.205 i permessi premio concessi nel primo semestre del 2018: in media poco più di un permesso ogni tre detenuti. “Per troppi la pena si sconta tutta in carcere - afferma Antigone - e rapporti con l’esterno sono del tutto esigui. Tutto ciò contribuisce a innalzare i tassi di recidiva”. Un istituto sul quale, secondo Antigone si deve investire è quello della messa alla prova, mutuata dalla giustizia minorile e dal 2014 possibile anche per i maggiorenni: è stata prevista per i reati puniti con pena non superiore a quattro anni; il giudice predispone un programma che contempla lavori di pubblica utilità, attività di volontariato e di mediazione penale con la vittima del reato. Negli ultimi quindici mesi il ricorso alla messa alla prova è aumentato notevolmente, passando da 9.598 a 13.785 imputati messi alla prova. Antigone segnala una serie di esperienze, attive dal 2017, per lavori di pubblica utilità ai fini della messa alla prova con Legambiente e l’Ente Nazionale Protezione Animali, l’Unione Italiana Ciechi ed Ipovedenti, la Lega Italiana Lotta ai Tumori e con il Fondo Ambiente Italiano. “Così - commenta Antigone - si creano occasioni virtuose di impegno sociale e lavorativo”. Integrare funziona: gli stranieri aumentano ma il tasso di detenzione in carcere si è dimezzato di Andrea Oleandri Il Manifesto, 31 luglio 2018 Non c’è un’emergenza stranieri e non c’è un’emergenza sicurezza connessa agli stranieri. È senza dubbio questo uno dei principali dati che emerge dal rapporto di metà anno sulle carceri italiane che Antigone ha presentato ieri a Roma. Nel 2008 gli stranieri residenti in Italia erano circa 3 milioni. Anche all’epoca si registrava un clima culturale e politico di forte astio nei loro confronti e venivano invocati provvedimenti straordinari, a quei tempi in particolare contro i cittadini rumeni. I detenuti non italiani in carcere alla fine di quell’anno erano 21.562. Il tasso di detenzione (detenuti in carcere sul totale di quelli residenti nel paese) era dello 0,71%. A 10 anni di distanza il numero degli stranieri residenti in Italia è pressoché raddoppiato mentre sono diminuiti quelli di loro che finiscono in carcere. Sono 19.808, per un tasso di detenzione più che dimezzato. Oggi è infatti dello 0,33%. Un dato spiegabile con il patto di inclusione. Questo funziona, paga, dà risultati. Regolarizzare la posizione degli stranieri e integrarli nella società riduce di molto i tassi di criminalità e produce sicurezza. Un esempio è quello dei rumeni cui facevamo riferimento poche righe fa. In dieci anni per loro molte cose sono cambiate e il loro processo di integrazione si è nella maggior parte dei casi completato. Così, negli ultimi cinque anni, i detenuti di cittadinanza rumena sono diminuiti di oltre mille unità nonostante il loro numero in Italia sia andato aumentando. Non solo negli ultimi anni gli stranieri nelle carceri sono di meno ma la loro presenza è legata in particolare a reati di scarsa gravità. A circa la metà dei detenuti non italiani è stata infatti inflitta una pena inferiore a un anno, mentre solo il 5,6% degli ergastolani e l’1,2% dei detenuti condannati per reati più gravi, come ad esempio la criminalità organizzata, è straniero. Se diminuisce il numero degli stranieri, continua invece a salire - anche se a ritmi più lenti rispetto a quanto si verificava fino a circa un anno fa - il numero dei detenuti presenti nelle carceri del paese. Siamo arrivati a 58.759. Questo significa che ci sono oltre 8.000 persone che non hanno un posto letto regolamentare e che il tasso di affollamento ha raggiunto il 116%. Un dato in costante ascesa, nonostante il numero dei reati sia in diminuzione e minori siano anche gli ingressi in carcere dalla libertà. Questi dati, di segno opposto tra loro, possono essere plausibilmente dovuti a una stasi nel numero degli arresti, dalla maggiore durata della condizione di persona in custodia cautelare, di pene inflitte più lunghe, di un basso investimento nelle misure alternative. Mentre è proprio su queste ultime che bisognerebbe investire. Ad oggi sono 28.621 i detenuti in misura alternativa. La maggior parte di loro è in affidamento in prova al servizio sociale o sta scontato una detenzione domiciliare. Meno di mille sono coloro che attualmente scontano la pena in regime di semilibertà. Ma ci sono almeno altri 20.000 detenuti che, avendo condanne inferiori ai tre anni, potrebbero averne diritto e invece restano in carcere. Incentivare questo tipo di pene aiuterebbe a decongestionare le carceri ma, permettendo di ricostruire una relazione con la famiglia e la società, anche a contrastare la recidiva. E sarebbero molto più economiche di quanto non siano la costruzione di nuove carceri. Costruire un nuovo istituto di 250 posti, senza tenere conto dei costi di gestione, costa 35 milioni di euro. Risorse che potrebbero essere usate meglio, per i diritti e la sicurezza di tutti. Carcere duro anche per i minorenni camerepenali.it, 31 luglio 2018 Le Commissioni Giustizia procedono non rispettando la delega in difformità dei principi costituzionali. L’UCPI pronta ad un’immediata protesta. Esterrefatti! Non vi può essere altro termine per descrivere la sensazione che si prova nell’apprendere che le Commissioni Giustizia di Camera e Senato vorrebbero introdurre le limitazioni previste dall’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario anche ai condannati minorenni. Il lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione non verrebbero concessi, così come previsto per gli adulti. Fino a qualche giorno fa tale possibilità sarebbe stata impensabile, in quanto il dibattito giuridico verteva esclusivamente sulla possibilità di limitare al massimo gli ostacoli posti dall’art. 4 bis, che in alcuni casi appaiono ingiustificati e mirati esclusivamente a scopi investigativi. Abbandonare tale discussione, per consolidare tali ostacoli ed addirittura estenderli ai minorenni non può che lasciare stupiti e spaventati. L’Unione Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, denuncia il pericolo di tale scelta che vede ancora una volta i neo-parlamentari non tener conto dei principi costituzionali e, nel caso specifico, ignorare i limiti imposti dalla Delega per la Riforma dell’Ordinamento Penitenziario. La discussione in Commissione Giustizia, infatti, non può riguardare l’”universo-mondo”, ma deve essere ancorata alle direttive fornite dalla delega del Parlamento al Governo ed avere ad oggetto la verifica se gli schemi sottoposti a valutazione siano rispettosi di tali prescrizioni. Piaccia o no la Legge Delega prevede tutt’altro e se davvero se ne vuole stravolgere il contenuto lo si faccia in altra sede e in altri momenti, adottando scellerate scelte di politica giudiziaria di cui sarà necessario assumersi la responsabilità per intero. Lo schema di decreto, che il 24 aprile 2018 il precedente Consiglio dei Ministri ha trasmesso alle Camere, si propone di introdurre, nel rispetto della delega ricevuta dal Parlamento, una normativa speciale per l’esecuzione della pena nei confronti dei condannati minorenni al fine di adattare la disciplina dell’ordinamento penitenziario alle specifiche esigenze di tali soggetti, con particolare riguardo al peculiare percorso educativo e di reinserimento sociale di cui gli stessi necessitano in ragione della giovane età. Si vuole adeguare il quadro normativo alle numerose pronunce della Corte Costituzionale e agli impegni assunti dall’Italia con la sottoscrizione di atti internazionali ed europei. In particolare, contrariamente a quanto oggi sostenuto dalle Commissioni Giustizia, si vuole un’esecuzione penale diversa da quella prevista per i maggiorenni, escludendo qualsiasi sbarramento all’accesso ai benefici, favorendo le misure penali di comunità quali misure alternative alla detenzione. Estendere ai minorenni il regime speciale del carcere duro, rappresenta l’ennesimo tassello del mosaico repressivo voluto dal Governo che, in nome di un facile ed immediato consenso, è pronto a tradire la Costituzione e a far precipitare il nostro Paese nel buio totale di uno Stato primitivo. L’Unione Camere Penali vigilerà su quest’ennesimo attentato alla Carta Costituzionale, pronta a manifestare il suo dissenso. La Giunta UCPI L’Osservatorio Carcere UCPI Aids e carceri: detenuti poco e male informati quotidianosanita.it, 31 luglio 2018 Fa paura la scarsa igiene, il contatto con la saliva e l’urina di una persona con Hiv e due detenuti su tre sono convinti che le zanzare trasmettano l’Hiv. Invece sono sottostimati i rischi legati ad eventuali risse ed il possibile contagio scambiando spazzolini e rasoi. Il dato più allarmante è che un detenuto su tre afferma che non assumerebbe la terapia se scoprisse di avere l’HIV. Questo l’esito del progetto di Nps Italia Onlus, Università Ca Foscari di Venezia, Simspe. Il video “Detenuti, ma liberi dall’HIV” racconta l’esperienza del progetto Flew (Liberi di star bene in prigione con l’HIV) attraverso le voci dei protagonisti che hanno partecipato alle azioni di educazione e prevenzione all’HIV e di lotta alla discriminazione delle persone con HIV detenute. Il video è’ stato presentato durante la 22°conferenza internazionale sull’Aids ad Amsterdam in una delle sessioni organizzate da EATG dal titolo “Prison Health and Beyond”. Per la prima volta in Italia all’interno di 10 strutture penitenziarie è stato possibile introdurre, grazie al lavoro del Simpse, i test rapidi capillari per l’HIV che sono stati ben accolti anche dalla polizia penitenziaria e non solo dai detenuti. Sia i Direttori delle strutture penitenziarie sia il dirigenti delle Polizia Penitenziaria sono stati coinvolti in ogni fase al fine di favorire la completezza delle azioni. L’azione centrale dei Peer education è stata affidata a due ex detenuti con HIV, attivisti di Nps Italia Onlus che hanno saputo stabilire un dialogo orizzontale con i detenuti insieme a una supervisione di attività di ricerca coordinata dall’università Ca’ Foscari che ha evidenziato che l’HIV nelle carceri fa paura, ma per i motivi sbagliati. Fa paura la scarsa igiene, il contatto con la saliva e l’urina di una persona con HIV e due detenuti su tre sono convinti che le zanzare trasmettano l’HIV. Gli agenti di Polizia Penitenziaria sono preoccupati dallo sputo che riferiscono essere una forma comune di ribellione da parte di alcuni detenuti. Tutti timori derivano da credenze sbagliate, ma che creano paure e possibile emarginazione dei detenuti con HIV. Invece sono sottostimati i rischi legati ad eventuali risse tra detenuti, considerate innocue da metà degli intervistati mentre costituiscono un pericolo reale perché la fuoriuscita di sangue è in questi casi la norma. Anche il rischio di possibile contagio scambiando spazzolini e rasoi è molto sottovalutato. Ma il dato più allarmante è che un detenuto su tre afferma che non assumerebbe la terapia se scoprisse di avere l’HIV. È un dato preoccupante e incomprensibile considerando che le terapie oggi disponibili sono molto efficaci e consentono di condurre una vita pressoché “normale”. Ma un detenuto che non crede nella terapia non avrà probabilmente motivazione a fare il test per l’HIV e lo terrà nascosto se scoprisse di averlo. I risultati della ricerca sono un vero patrimonio per comprendere quali interventi devono essere fatti per una prevenzione e una lotta sempre più efficaci all’HIV nei penitenziari italiani. L’importanza del progetto è stata da ultimo riconosciuta a livello europeo e inserita com best practice delle ultime linee guida “Active-case-finding-communicable-diseases-in-prisons”. Quando la giustizia è in ostaggio di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 31 luglio 2018 Utilizzare il diritto penale come uno strumento contro i nemici sociali è una tentazione ricorrente. Legittima difesa e carcere. Contro lo tsunami della demagogia giudiziaria. Prima di guardare a singoli temi, è il caso di soffermarsi proprio su questa ispirazione di fondo - che a dire il vero seguita ad emergere, anche implicitamente, dagli interventi e dalle interviste di esponenti dell’area di governo - perché essa è in grado di condizionare il modo di legiferare in relazione alle varie questioni che saranno di volta in volta affrontate. In poche parole, ed estremizzando, l’impressione è in sintesi questa: che i nuovi governanti tendano a concepire la legge penale e la pena come armi per combattere i nemici del popolo, identificati come tali alla stregua delle attuali ideologie populiste e in base alle logiche di una persistente campagna elettorale che strumentalizza le paure e i sentimenti di insicurezza (a torto o a ragione) diffusi nella popolazione. Lo ha ben visto, con sensibilità da politologo, Angelo Panebianco in un recente articolo sul Corriere (ed. 15 luglio). Come giurista, rilevo che la propensione a utilizzare il diritto penale come uno strumento di guerra contro nemici sociali di turno, esasperando il rigore punitivo a discapito dei principi del garantismo liberale, costituisce una tentazione storicamente ricorrente. Specie quando nuove forze al potere ambiscono (almeno a livello propagandistico) a realizzare cambiamenti politici radicali insieme a presunte rivoluzioni morali collettive. Questa funzionalizzazione politica in chiave populista ha raggiunto punte estreme, ad esempio, nel caso del diritto penale della Germania nazista (che assunse il “sano sentimento del popolo” a criterio ultimo della punibilità) e in quello del diritto penale della Russia sovietica (che elevò a criterio decisivo del punibile gli interessi del proletariato interpretati alla luce della coscienza rivoluzionaria). Certo, l’attuale compagine governativa è lontana da simili estremismi, ma preoccupa comunque - e non poco - che essa sembri replicare il vizio autoritario di selezionare soggetti pericolosi da bandire dalla società in quanto nemici che attentano alla sicurezza del popolo sano (questa volta immigrati da allontanare e criminalizzare, Rom da sgomberare, ladri e rapinatori da neutralizzare con una “legittima difesa” senza limiti, pene draconiane insieme a Daspo e agenti sotto copertura per i corrotti; e, più in generale, riaffermazione del primato e irrigidimento della pena detentiva, con eliminazione o riduzione dello spazio delle misure alternative, ecc.). In realtà, in una democrazia costituzionale come la nostra, è in linea di principio contestabile che le scelte di politica penale (in quanto incidenti in senso limitativo sulle libertà fondamentali costituzionalmente rilevanti) possano desumere la loro ragione giustificatrice, in termini razionali e valoriali, dalla mera volontà della maggioranza. A maggior ragione, quando - come sta accadendo in Italia - le forze di maggioranza vanno guadagnando consenso, mentre l’opposizione appare sempre più debole. Chi ha oggi la forza di difendere nel dibattito pubblico, e all’interno della discussione parlamentare, le ragioni del garantismo penale così come trasfusi in un insieme di noti principi costituzionali che dovrebbero in teoria fungere da barriere allo strapotere di una maggioranza legiferante? Non a caso, gran parte della riflessione sviluppata dagli studiosi di diritto penale nel corso degli ultimi decenni si è incentrata proprio sui vincoli e i limiti, che la Costituzione oppone alla discrezionalità del legislatore parlamentare al momento di decidere che cosa punire e come punire. Vincoli e limiti, al cui rispetto ha dato un contributo notevole anche la giurisprudenza della Corte costituzionale, e sui quali la elaborazione scientifica mantiene ancora cantieri aperti (si veda, ad esempio, il recente scritto del tedesco Thomas Vormbaum, dove si spiegano i motivi per prevedere costituzionalmente una maggioranza qualificata per creare o modificare norme penali). Di tutto ciò dovrebbero essere in qualche modo consapevoli anche Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede, proprio perché (seppure a livelli diversi di gerarchia accademica) studiosi di diritto, prima ancora che premier e guardasigilli. A meno che, una volta assunto il ruolo di governanti, essi non abbiano voltato le spalle alla loro formazione di provenienza. Sarebbe tranquillizzante poter confidare nel contrario. Ma un qualche sospetto non parrebbe azzardato, considerando ad esempio che non hanno affatto brillato per profondità di pensiero e competenza tecnica gli argomenti utilizzati dallo stesso nuovo Ministro per contrastare la riforma carceraria elaborata dal precedente governo a guida Pd. La critica alla riforma si è avvalsa infatti di slogan e di formulette del tipo “c’è l’esigenza di far stare insieme la rieducazione e la certezza della pena”, oppure la “rieducazione deve essere perseguita col lavoro carcerario” piuttosto che con le misure alternative. Affermazioni di questo genere, se appaiono prive di seria consapevolezza criminologica, risultano però politicamente redditizie perché assai “gradite al popolo”: il messaggio di un carcere tutto da scontare, senza misure alternative da eseguire nel mondo esterno, soddisfa pulsioni punitive e bisogni di sicurezza oggi emotivamente diffusi ancor più che in passato. Ed è questo ciò che politicamente conta davvero per il guardasigilli di un governo come quello in carica (anche se il Bonafede dei tempi dell’apprendistato universitario si sarà, quasi sicuramente, imbattuto in qualche testo didattico o scientifico che spiega perché il carcere così come lo conosciamo, nella maggior parte dei casi, diseduca ulteriormente più di quanto non rieduchi!). E che dire della riforma, che sembra davvero incombere, della legittima difesa? Gli argomenti spesi per giustificarla hanno invero ancor minore dignità di quelli impiegati per affossare la riforma penitenziaria. È infatti un’autentica bufala, una mistificazione propagandistica, far credere ai cittadini che si possa realizzare una modifica legislativa che esenti da indagini e accertamenti giudiziali anche approfonditi colui il quale uccide o ferisce qualcuno allo scopo di difendersi da un’aggressione: se tali accertamenti sono inevitabili persino nel caso dell’uccisione di un cane (per verificare il delitto di uccisione di animali), non si vede come legittimamente prescinderne nel caso ben più grave dell’uccisione di un uomo (per verificare se tale uccisione sia stata veramente giustificata dalla necessità di difendersi, o sia stata ad esempio motivata da una esigenza difensiva soltanto apparente dietro la quale si nasconde in effetti una intenzione criminosa, o da una reazione manifestamente eccessiva che trascende la necessità di autodifesa ecc.). È, altresì, impensabile riscrivere l’istituto della legittima difesa, eliminando dai suoi presupposti il requisito della “proporzione” tra aggressione e reazione difensiva. Come ben si rileva nella recente (e preoccupata) presa di posizione dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, il requisito della proporzione è in ogni caso implicito nello stesso concetto di “necessità” di difendersi: una difesa manifestamente “sproporzionata cesserebbe di essere difesa e assumerebbe i contenuti di un’offesa”. In una democrazia rispettosa di principi di consolidata civiltà giuridica, e del rango prioritario che ai beni della vita e dell’integrità personale (degli stessi delinquenti!) è riconosciuto in una Costituzione come la nostra, nessuna maggioranza parlamentare è autorizzata ad assumere la sicurezza dei cittadini a fondamento giustificativo di una trasformazione della legittima difesa in un diritto di difesa svincolato da limiti invalicabili, come se si trattasse di una incondizionata licenza di uccidere. Una eventuale riforma in questo senso sarebbe sicuramente illegittima, per violazione di principi costituzionali, sovranazionali e internazionali, e come tale sarebbe destinata a essere cassata dalle Corti competenti. Diverso sarebbe il discorso se, fuori da slogan illusori e fuorvianti, l’obiettivo riformistico fosse quello di migliorare la attuale formulazione dell’art. 52 del codice penale, in modo da consentire prima ai cittadini e poi alla magistratura di individuare con maggiore certezza gli spazi di una autodifesa legittima. E, in aggiunta, si potrebbe eventualmente valutare l’opportunità di una ragionevole integrazione della disciplina vigente, nel senso ad esempio di prevedere espressamente la non punibilità di possibili eccessi difensivi dovuti a grave turbamento psichico. Ma, proprio per agevolare il compito di introdurre modifiche davvero migliorative, scongiurando il rischio di inammissibili stravolgimenti o di soluzioni pasticciate, è auspicabile che i lavori di riforma non siano affidati soltanto alla fabbrica politica. Il nuovo guardasigilli, che certo non disdegna il mondo accademico, chiami in soccorso qualificati rappresentanti della scienza penalistica e li incarichi di partecipare alla riscrittura dell’art. 52. È vero che le due ideologie populiste, gialla e verde, dovrebbero mostrare una diffidenza di principio anche verso il ceto professorale. Ma una cosa è la propaganda ideologica, altra cosa è passare dalla propaganda alla gestione del lavoro governativo e legislativo. Come la stessa formazione di questo governo paradossalmente dimostra, i professori servono e servono più di prima. L’ambiguità culturale del cattivismo di Antonio Polito Corriere della Sera, 31 luglio 2018 Per quanto non esistano statistiche ufficiali delle aggressioni motivate da “odio razziale”, basta sfogliare i giornali per accorgersi che qualcosa è cambiato. Qualcosa è cambiato. Per quanto non esistano statistiche ufficiali delle aggressioni motivate da “odio razziale”, basta sfogliare le collezioni dei giornali per accorgersi che qualcosa è cambiato. Negli anni passati, pur nel pieno di arrivi ben più massicci e caotici di stranieri, imparagonabili ai numeri di oggi ormai sotto controllo, non si era registrata una tale frequenza di atti di violenza contro persone di etnia e colore di pelle diverso dal nostro. Sono episodi differenti tra loro, e solo la Giustizia potrà accertare i moventi e sanzionare i colpevoli. Ma tutti sarebbero difficili da immaginare se non si fosse ormai prodotto uno sdoganamento culturale della xenofobia. Ecco una prova di quanto quel complesso di sentimenti, emozioni e senso comune che va sotto il nome di cultura popolare, possa condizionare i comportamenti di una comunità. Le idee certe volte contano di più dei fatti. Ed è per questo che vanno maneggiate con cura. L’idea nuova che circola in Italia da un po’ di tempo è il “cattivismo”. Non si tratta solo del rovesciamento del vecchio “buonismo” della sinistra, basato sulla retorica secondo la quale i fenomeni migratori sono troppo grandi per essere governati, dunque non si può che accogliere chiunque e comunque arrivi. Una tesi che alla lunga ha prodotto l’effetto opposto, confermando le peggiori paure degli italiani: che cioè la Repubblica avesse rinunciato a ogni sovranità sulle proprie frontiere, e che il fenomeno fosse ormai fuori controllo. Salvini ne ha raccolto i frutti a piene mani. Ma il “cattivismo” di cui ormai molti menano vanto (un giro su Twitter può essere istruttivo) è qualcosa di più: è la convinzione che sia in corso una “invasione” ostile e perfino organizzata, e che quindi esista una giustificazione morale, se non ancora giuridica, a difendersi. Alla guerra come alla guerra; e in guerra, si sa, pietà l’è morta. Si può definirlo razzismo? No, in senso stretto. Perché non è (ancora) fondato sulla proclamazione della superiorità biologica e storica della nostra etnia. Ma sicuramente genera forme di discriminazione razziale, secondo la definizione della Convenzione delle Nazioni Unite, che così definisce “ogni differenza, esclusione e restrizione della parità dei diritti in base a razza, colore della pelle e origini nazionali ed etniche”. Di qui l’allarme per i tanti episodi di intolleranza e di violenza. Non siamo per fortuna in Italia neanche lontanamente vicini ai livelli che i conflitti razziali hanno avuto e hanno tuttora altrove. Ma questo non vuol dire che, di imitazione in imitazione, non si possa raggiungere prima o poi la massa critica di “volenterosi carnefici” necessaria per innescare una reazione a catena di punizioni e vendette. Meglio dunque agire prima che lamentarsi dopo. Per questo ci eravamo permessi qualche tempo fa, dalle colonne di questo giornale, di suggerire al ministro dell’Interno Matteo Salvini di non indulgere al “cattivismo”, per quanti consensi gli abbia portato o gli possa portare. Nel ruolo istituzionale che oggi ricopre, e che gli consente di usare la forza coercitiva dello Stato, non si può fare propaganda politica, e si deve anzi produrre qualsiasi sforzo per scongiurare il rischio di conflitto tra italiani e non. Non solo perché lo Stato democratico difende l’incolumità e la dignità di chiunque, compresi gli immigrati. Ma anche perché l’esplodere di quel conflitto sarebbe il fallimento della promessa di “legge e ordine” che il titolare del Viminale ha fatto agli italiani. Si può condurre con efficacia una politica di chiusura o di controllo dell’immigrazione senza accettare alcuna discriminazione razziale. Paesi perfettamente democratici e liberali, come gli Usa, il Regno Unito, la Francia, l’Australia, hanno di volta in volta nella loro storia aperto o chiuso le frontiere ai migranti, ma sempre vigilando con attenzione contro ogni rischio di scontro tra “nativi” e “newcomers”, fino al punto di ricorrere anche a forme di discriminazione positiva: aiutando cioè gli ultimi arrivati a integrarsi scalando posizioni nel lavoro, negli studi, nell’amministrazione pubblica. A Salvini non si può chiedere tanto: la sua politica è “prima gli italiani”. È una posizione legittima, purché tra gli italiani vengano annoverati anche coloro che lo sono senza essere nati da noi, come Daisy Osakue, la campionessa di lancio del disco aggredita a Moncalieri e che vestirà l’azzurro agli Europei, sempre che il suo occhio guarisca. Ma al ministro dell’Interno si può certamente chiedere di usare la sua popolarità e il suo consenso per spegnere i bollenti spiriti di alcuni nostri connazionali. Innanzitutto bisogna separare radicalmente gli atti di violenza a sfondo razziale da ogni pretesa giustificazione sociale. Di fronte al pestaggio di un ragazzo nero mentre sta lavorando, come il giovane cameriere di Partinico, non ha alcun senso ricordare che gli italiani sono esasperati per i reati commessi dagli immigrati. Tra le due cose non c’è nesso, ammesso che non si voglia suggerire che se ne può punire uno per educarne cento. Che poi è esattamente ciò che venne in mente al “giustiziere” di Macerata: se ne andò in giro a sparare a giovani neri innocenti per vendicare le colpe di tre spacciatori nigeriani nell’orribile morte della povera Pamela. Allo stesso modo il ministro potrebbe evitare di dare un sapore ideologico, o peggio ancora nostalgico, alla sua politica di contrasto dell’immigrazione clandestina, fenomeno tra l’altro in calo proprio grazie alla sua azione di governo. Con il linguaggio del corpo e delle T-shirt che maneggia con assoluta maestria, il ministro ci ha fatto sapere in questi giorni che ama avere molti nemici perché questo gli dà molto onore, o che l’”offesa è la migliore difesa”. Mai una volta che gli venga l’idea di esibire una scritta con una frase del Vangelo tipo “beati gli operatori di pace”, o un articolo della Costituzione che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”? Avrebbe un grande valore se il ministro dell’Interno, uomo del tutto al riparo da ogni sospetto di buonismo, magari di ritorno da una visita ai bagnasciuga sui quali ferma sbarchi e “vu cumprà”, si facesse un giorno fotografare al capezzale di un immigrato vittima di un’aggressione a sfondo razziale. Sarebbe un testimonial straordinario di una Repubblica che sa essere severa con ogni illegalità, e giusta con tutte le vittime dell’illegalità. L’emergenza è Salvini al Viminale di Giuliano Ferrara Il Foglio, 31 luglio 2018 Usare un linguaggio razzista per diffondere poveri e indecenti concetti allo scopo di fomentare e usare le paure fa di Salvini un ministro pericoloso ma non fa dell’Italia un paese razzista. Il Truce e le nuove parole del consenso. Il Truce è un razzista, uno xenofobo attivo, e un furbo fesso. Di tutto questo ha scarsa contezza. Il demagogo giovane, inesperto, e questo entro certi termini vale anche per il suo vice socio, non sa distinguere tra la funzione pubblica in materia di sicurezza e di governo e il putridume del linguaggio privato, occasionale, mefitico e ribaldo, che colpisce chi ha un altro colore della pelle e labbra spesse o una fisionomia forastica e un accento pesante e spesso di una sonorità ridicola all’orecchio bianco e nativo. È razzista quando dice: “Il razzismo non c’è, ma gli immigrati delinquono”, come se non sapesse che certi reati di strada e di forte allarme sociale da sempre sono principalmente appannaggio dei miserabili, e certo nella scala dell’integrazione sociale e del benessere la “pacchia” degli immigrati in Italia è relativa, che un terzo dei reati di strada sia ascrivibile a gente disintegrata che viene da fuori può stupire, appunto, solo un fesso. È razzista quando si volta dall’altra parte, o giù di lì, di fronte a un suo fan che spara ai neri a Macerata, all’impazzata, credendo di vendicare una povera ragazza finita male, tragicamente, e divenuta simbolo della “violenza dei nigeriani”, dei neri. Bossi raccontava barzellette sui bingo bongo, sfruculiava il razzismo e la xenofobia domestica nella forma del nativismo, che è un male capace di infettare qualunque popolo o sezione di popolo, è una postura d’insolenza e di violenza verbale, e nel privatissimo di una battuta di cui si vergogna Berlusconi non ci è andato piano nel commento su una fidanzata di Balotelli. Ma i due avevano altro per la testa, la libertà dallo stato fiscale e magari il federalismo o l’invenzione di una nazione mai vista, la fumettistica e ambigua Padania. Nella testa del Truce, al contrario, alligna l’invenzione di un popolo che non vuole convivere con la realtà, che vuole respingere, espellere, magari impallinare, dare la caccia a quelli che non sono confortevolmente italiani e bianchi. E quando queste invenzioni diventano oratoria politica di uno che ha successo, che ha chiesto e ottenuto un certo consenso, e ora che è al governo vuole moltiplicarlo con questi mezzi, sono guai. La mia impressione è sempre stata, a leggiucchiare di storia e cultura, che noi non c’entriamo gran che con il razzismo biologico nel senso in cui l’espressione può essere usata in Europa per i polacchi, per i tedeschi, per gli austriaci e in parte per la Francia cosiddetta de souche, del profondo, o per i nordamericani del sud, in particolare, eredi di una civilizzazione fondata sulle pratiche della schiavitù e poi di lunghi anni di segregazione. Però abbiamo avuto le leggi razziali, e una condiscendenza diffusa, anche culturale, verso le radici intellettualmente pietose e moralmente rancide del razzismo e dell’antisemitismo. Secondo me, in materia di razza, se esista poi la questione, e di nativismo, il popolo in Italia si farebbe volentieri i fatti suoi, può sbertucciare, irritarsi, maramaldeggiare sugli zingari, ma dare fuori di matto, perseguitare e imporre soluzioni di forza aberranti, non mi pare il tratto dell’arcitaliano. È il tratto possibile delle sue classi dirigenti quando del popolo fanno l’uso alla Truce. Da noi mancano principi universalistici saldi, non siamo un posto da dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, l’esecuzione del Duce non ebbe nulla del martirio regicida, niente della sua solennità cupa, della sua inevitabilità tragica, fu una vendetta, un reato di strada per così dire. Siamo brava gente, anche molto cattiva, che ha saputo fare buon uso del proprio cinismo, di una assoluta mancanza di idealismo, di una mollezza di princìpi che affascina e stuzzica i viaggiatori del bel paese, anche brutto quando vuole, da che mondo è mondo. Il razzismo come tragedia moderna ci sarebbe virtualmente estraneo. Dispersi e senza Patria, quando qualcuno se la inventa a nostro nome. e chiama miticamente alle armi con discorsi che coincidono con fatti orrendi di spregio sociale e razziale, lì comincia a manifestarsi però un vero problema. Non so se ci sia un’emergenza razzismo, certo il Truce può stare sicuro. Se continuerà a usare quel linguaggio e a diffondere quei poveri e indecenti concetti allo scopo di fomentare e usare le paure, sarà sempre più e meglio seguito. Il che è un’emergenza: l’emergenza Salvini al Viminale. Migranti e criminalità, c’è davvero un allarme come dice Salvini? di Enrico Cicchetti Il Foglio, 31 luglio 2018 Il 25 luglio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha messo in guardia contro la deriva da “far west” che sta prendendo l’Italia, “dove un tale compra un fucile e spara dal balcone colpendo una bambina di un anno, rovinandone la salute e il futuro”. E sono almeno sei i casi di cittadini stranieri che, negli ultimi due mesi, sono divenuti bersaglio di “cecchini urbani” senza un apparente motivo. Solo negli ultimi giorni e dopo le parole di Mattarella - provocate anche dal caso della bambina rom colpita a Roma con una pistola ad aria compressa da un ex dipendente del Senato - a Vicenza e Caserta altri due migranti sono stati feriti da cittadini italiani. Mentre è di ieri il caso del presunto ladro marocchino inseguito ad Aprilia da due 40enni del posto che armati (l’uomo, uscito di strada con la sua macchina, è morto ndr). Nel giorno in cui i carabinieri hanno denunciato per lesioni aggravate dall’odio razziale uno dei membri del branco che ha malmenato un 19enne senegalese nel palermitano, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha spiegato che “aggredire e picchiare è un reato, a prescindere dal colore della pelle di chi lo compie, e come tale va punito”. Ma ha anche aggiunto che “i reati commessi ogni giorno in Italia da immigrati sono circa 700, quasi un terzo del totale, e questo è l’unico vero allarme reale contro cui da ministro sto combattendo”. L’idea di un legame migranti-criminalità rilanciata da Salvini è un’ipotesi molto diffusa tra gli italiani, che secondo uno studio annuale della Commissione Europea sono fra i più preoccupati dall’immigrazione in tutta Europa. Ma c’è un vero allarme per i reati commessi dagli stranieri? Cominciamo da una premessa: il numero dei reati è in calo, anche quelli commessi dagli stranieri. Una tendenza in atto in tutta l’Unione Europea, dove fra il 2003 e il 2012 il numero dei reati compiuti in un anno è diminuito del 12 per cento. Uno dei dati citati da chi sostiene che gli stranieri compiano più reati degli italiani è quello della popolazione carceraria. Ma secondo l’ultimo “pre-rapporto di metà anno sulle carceri” di Antigone, l’associazione che da anni si batte per i diritti dei detenuti, il tasso di detenzione degli stranieri in Italia è diminuito di oltre 2 volte negli ultimi 10 anni. “Non c’è un’emergenza stranieri, non c’è un’emergenza sicurezza connessa agli stranieri”, si legge nel documento presentato oggi dall’associazione. “I detenuti stranieri sono addirittura diminuiti in termini assoluti rispetto al 2008, quando il numero dei non italiani residenti in Italia regolarmente o irregolarmente era la metà. Avrebbe dovuto raddoppiare. Invece no. Ogni diversa interpretazione e ogni allarme sono pura mistificazione”. La stessa cosa che aveva detto nel 2016 il capo della polizia Franco Gabrielli: “I numeri parlano chiaro: non c’è stato alcun incremento di reati rispetto all’aumento della presenza di immigrati”. L’associazione evidenzia che, in totale, tra stranieri e italiani, “gli ingressi in carcere dalla libertà sono stati 24.380 nei primi mesi del 2018, in calo rispetto alle 25.144 persone entrate nel primo semestre del 2017. Il segno di un’attività criminale non in aumento. I detenuti, che sono 58.759, crescono ma di poco. Sono aumentati di 672 unità in 5 mesi. Ci sono 8.127 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare”. “Gli stranieri sono il 33,8 per cento della popolazione detenuta. Gli stranieri non europei sono 13.490, ossia il 22,9 per cento della popolazione detenuta. Nell’ambito di questo 22,9 per cento, la presenza di detenuti con regolare permesso di soggiorno, seppur non stimata ufficialmente, è - secondo indagini a campione effettuate nei grandi istituti di pena - inferiore al 20 per cento”. Per essere ancora più chiari gli extracomunitari regolari in carcere sono circa 3.000. Come i detenuti di origine lombarda, pari a 2.966 unità. “Se sommiamo i detenuti con regolare permesso di soggiorno a quelli comunitari si arriva a circa 8.000 unità, cioè il 13 per cento circa della popolazione detenuta, un numero più o meno pari ai 7.546 detenuti di origine siciliana”. “Il patto di inclusione paga - si legge ancora nel rapporto. Garantisce sicurezza. Questo è particolarmente evidente guardando ad alcune comunità straniere insediatesi in Italia da più di dieci anni. Ciò accade in quanto quella comunità diventa parte integrante dell’economia e della società italiana. Di conseguenza diminuisce il rischio per i suoi membri di finire in carcere. Gli ucraini hanno un tasso di detenzione più o meno identico a quello degli italiani. Poco superiore è il tasso di detenzione di moldavi, romeni, etiopi, ungheresi. La regolarizzazione è anche funzionale alla sicurezza del paese, alla riduzione dei crimini. Una grande regolarizzazione degli attuali irregolari determinerebbe, alla luce dei dati statistici, un’ulteriore riduzione della presenza di detenuti stranieri”. Quanto avvenuto nella comunità rumena è paradigmatico: “Negli ultimi 5 anni i detenuti rumeni sono diminuiti di 1.103 unità, scendendo da 3.661 a 2.558, nonostante il numero degli immigrati rumeni in Italia sia andato aumentando. Come si evince dai dati, man mano che passa il tempo dal suo insediamento in Italia una comunità esprime un minor numero di detenuti al proprio interno”. Secondo i dati dell’Amministrazione penitenziaria aggiornati al 30 giugno 2018 la comunità straniera più numerosa nelle carceri italiane è quella marocchina (3.700 detenuti, cioè il 18,6 per cento del totale degli stranieri), seguita da albanesi (2.505, cioè il 12,6 per cento) e rumeni (2.558, cioè il 12,9 per cento). Se aggiungiamo i tunisini (2.137, cioè il 10,7 per cento) vediamo che le prime quattro nazionalità da sole pesano per più della metà (54,8 per cento). Nessuna di queste nazionalità rientra tra quelle più presenti tra le persone sbarcate negli ultimi anni che nel 2015 erano eritrea, nigeriana e somala; nel 2016 nigeriana, eritrea e guineana; nel 2017 nigeriana, guineana e ivoriana. Nelle carceri i cittadini nigeriani ed eritrei - le due nazionalità maggiormente presenti tra gli immigrati sbarcati negli ultimi anni - sono rispettivamente 1.125 e 57, cioè il 5,7 per cento e lo 0,3 per cento del totale degli stranieri detenuti. Gli stranieri commettono reati meno gravi rispetto agli italiani - È straniero il 44,6 per cento dei detenuti cui è stata inflitta una pena inferiore a un anno (e dunque per reati di scarsa gravità) e solo il 5,6 per cento degli ergastolani (che sono complessivamente 1.726). Considerando i reati più gravi, come ad esempio la criminalità organizzata, il 98,7 per cento dei detenuti condannati per tali delitti è italiano e solo l’1,2 per cento è straniero. Nonostante questo nella prima metà del 2016 sono stati approvati in tutto 19.128 affidamenti in prova ai servizi sociali, di cui solamente 2.722 a detenuti stranieri (circa il 14 per cento). Nello stesso periodo di tempo, i domiciliari - cioè la possibilità di scontare l’ultima parte della pena a casa propria - sono stati concessi a 14.136 detenuti italiani e solamente a 3.306 stranieri. È vero, come dice Salvini, che negli ultimi anni più o meno un terzo delle persone detenute è di origine straniera. Ma, come riassunto bene da Luca Misculin sul Post, uno studio del 2016 di Francesco Palazzo, docente di Diritto penale all’università di Firenze, lo considera un dato fuorviante per analizzare il rapporto fra immigrazione e criminalità. Palazzo confronta la percentuale dei detenuti stranieri (circa un terzo) con la popolazione complessiva degli stranieri in Italia che è molto minore, intorno all’8 per cento: si potrebbe dedurne che il loro tasso di criminalità sia superiore a quello degli italiani. Palazzo spiega che per sostenere una cosa del genere non possiamo utilizzare questi dati. La maggiore concentrazione di detenuti stranieri si spiega soprattutto col fatto che i condannati stranieri “hanno una maggiore difficoltà ad accedere alle misure alternative al carcere”, sia perché non possono permettersi una difesa diversa da quella d’ufficio sia perché a volte non dispongono delle condizioni necessarie per ottenere le misure in questione, come una casa o un lavoro stabile. In sostanza, gli stranieri tornano a delinquere con maggior frequenza degli italiani perché sono quelli che passano più tempo in carcere per reati di piccola entità, per i quali in media gli italiani usufruiscono di pene alternative. Un paradosso suffragato dalle statistiche: sempre secondo Antigone il tasso di recidiva è del 68,4 per cento tra coloro che hanno scontato una pena in carcere e solo del 19 per cento tra coloro che hanno scontato una pena in misura alternativa. “Niente processi a chi spara per difesa”. Bonafede spiega come cambierà la legge di Mario Giordano La Verità, 31 luglio 2018 “Bisogna dare ai magistrati una norma chiara. Con la Lega niente divisioni e non credo si rischi il Far West”. Il Guardasigilli annuncia un giro di vite e aggiunge: “Faremo in modo di celebrare il processo solo quando è necessario: chi si è difeso legittimamente non deve attraversare anche il calvario giudiziario”. Bonafede ha molti altri assi nella manica, a partire dal Daspo per i corrotti: “Chi paga le mazzette deve sapere che rischia ben più del carcere”. E sull’agente sotto copertura assicura: “Non è come l’agente provocatore. Estenderemo un istituto che è già previsto, così da rendere il nostro Paese un leader a livello europeo nella lotta alla corruzione”. Ministro Bonafede, lei si sente giustizialista? “Per nulla”. Davide Casaleggio ci ha detto che il giustizialismo è un’aberrazione. “Per me è una bandierina”. Una bandierina? “Sì, una di quelle sventolate per far diventare la giustizia motivo di finta divisione politica”. E chi la sventola questa bandierina? “Ormai solo qualche nostalgico. Io, da ministro, ho come principale obiettivo quello di far uscire la giustizia dal pantano politico”. Come? “Ragionando solo nell’interesse dei cittadini”. Va beh, ma come? Passiamo alle cose concrete. “Passiamo”. Lei sta preparando il Daspo per i corrotti. “Esiste già un articolato”. E che dice? “Dice che chi è condannato in via definitiva per corruzione non potrà più stipulare contratti con la pubblica amministrazione. A vita”. A vita? “A vita. Chi paga le mazzette deve sapere che rischia non solo il carcere, ma qualcosa che lo limiterà per sempre”. Effetto deterrente. “Sì, effetto deterrente. Ma poi si ottiene un altro risultato: si ripulisce il mercato dai corrotti”. Lei vuole introdurre anche l’agente sotto copertura. È il famoso agente provocatore? “No, è diverso”. In che cosa? “L’agente provocatore provoca il reato. L’agente sotto copertura s’infiltra nel sistema e scopre i reati che esistono”. Ma gli infiltrati non esistono già? “Certo”. E che cosa cambia? “Che finora erano previsti solo per alcuni reati, come terrorismo e traffico di stupefacenti. Non per la corruzione. E mi faccia dire una cosa cui tengo molto”. Che cosa? “Con queste due norme (Daspo e agente sotto copertura) l’Italia diventa leader a livello europeo nella lotta alla corruzione”. Se le dico che la difesa è sempre legittima, lei cosa risponde? “Che non è così”. Ma la legge va cambiata? “Sì, voglio essere sicuro che, se una persona è stata attaccata e si è difesa legittimamente, non debba anche attraversare il calvario dei tre gradi di giudizio”. E come si fa? “Bisogna dare ai magistrati una norma più chiara, senza zone d’ombra. Stiamo lavorando al testo”. Che cosa cambierà in pratica? “Si eviterà di andare sempre a processo, come avviene oggi”. Si agevoleranno le archiviazioni? “Non ho interesse ad agevolare le archiviazioni. Faremo in modo di celebrare il processo solo quando si deve celebrare”. La Lega è d’accordo? “Il mondo mediatico sta cercando elementi divisivi. Invece con il ministro Matteo Salvini c’è piena sintonia su questo punto”. Ma si rischia il Far West? “Non esiste. Nessun Far West, nessuna proliferazione delle armi. Ci accusano di tutto, ma anche su questo tema stiamo togliendo tutte le bandierine ideologiche”. Lei ha bocciato la riforma penitenziaria, che è stata letta da molti come uno svuota carceri. “Lì c’è stato un comportamento irresponsabile del precedente governo”. Perché? “Hanno fatto sparire la delega prima del voto, per paura del giudizio popolare. Poi l’hanno ritirata fuori dopo che hanno perso le elezioni”. Voi ci rinuncerete? “Non su tutto. Solo sulla parte che mina alla radice la certezza della pena. E la eserciteremo invece su una parte minoritaria, ma importante”. Quale? “Quella che riguarda i minori e il lavoro per i detenuti”. Secondo lei c’è stato un ricorso eccessivo a pene alternative e permessi premio in questi ultimi anni? “C’è stato un uso schizofrenico di diversi strumenti”. Quali per esempio? “Per esempio la liberazione anticipata speciale che era arrivata a prevedere uno sconto di 75 giorni ogni sei mesi. Ma le pare? Per un cittadino normale sei mesi iniziano al primo gennaio e finiscono al 30 giugno. Per un detenuto, invece, cominciavano il primo gennaio e finivano a metà aprile”. Le carceri però sono sovraffollate. Ne costruirete di nuove o pensa a un mondo senza carceri, come dice Beppe Grillo? “Intanto faremo interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria”. Doveroso, ma i posti restano quelli. “No, già con la manutenzione si potrebbero aumentare i posti tanto da raggiungere quasi il livello ottimale”. E le carceri nuove? “Si sta valutando quante ne servono. Ma la prospettiva a lunghissimo termine, che è quello che emergeva dal post di Beppe Grillo, è investire nella cultura della legalità, in modo che si riduca il bisogno delle carceri”. Vaste programme, direbbe il generale De Gaulle. “Ma io comincerò da cose concrete. Per esempio: oltre che nei tribunali e nelle carceri, andrò anche nelle scuole. Per dare un’idea diversa della giustizia”. Aspettando l’idea diversa della giustizia, c’è la possibilità di mandare i detenuti stranieri a scontare la pena nel loro Paese? “Sì, una volta appurato che le carceri in quel Paese non siano un inferno”. Una volta appurato, che si fa? “Bisogna fare accordi bilaterali in cui si prevede la possibilità di trasferimento senza il consenso dei detenuti”. Perché oggi ci vuole il consenso dei detenuti? “Sì. E ovviamente, visti gli sconti di pena, i permessi e le altre facilitazioni del nostro ordinamento, nessuno accetta”. Ma ha già impostato accordi bilaterali di questo tipo? “Sì, stiamo lavorando con la Romania”. I tribunali sono anche intasati dai ricorsi degli immigrati cui è stato negato il diritto d’asilo... “C’è appena stata una riforma su questo punto. Prima di intervenire bisogna vedere come funziona”. Il ministro Salvini dice che li dietro c’è il business degli studi legali con il gratuito patrocinio... “No, dal mio punto di vista non c’è alcun business. Gli avvocati fanno il loro mestiere rispettando la legge”. Un altro tema di discussione è la prescrizione. Lei la vuole fermare dopo la sentenza di primo grado. “Questo è il punto di partenza”. Un attacco al garantismo? “No, una misura di buon senso. Che rispetta i cittadini. E anche il bilancio dello Stato”. Il bilancio dello Stato? “Sa quanti soldi vengono sprecati? Si fanno indagini, processi di primo grado. E poi finisce tutto a tarallucci e vino”. Però con il blocco della prescrizione si rischia l’intasamento dei tribunali. “Infatti questa misura va di pari passo con gli investimenti nella giustizia”. Non si potrebbe introdurre, come proposto dalla Verità, l’impossibilità di ricorso in appello da parte della Procura, in caso di assoluzione? “Ma il processo non è un percorso afflittivo...”. No? “No, è un modo per accertare la verità. E il secondo grado serve appunto a questo: ad accertare meglio la verità. Tutt’al più...”. Tutt’al più... “Per sgravare un po’ i tribunali, io sarei favorevole a eliminare il divieto della reformatio in peius”. Cioè il principio per cui, oggi, se un condannato fa ricorso, non può avere in appello una pena superiore a quella avuta in primo grado. “Esatto. Oggi in pratica tutti i condannati fanno ricorso...”. È una misura allo studio? “No, non è nel contratto di governo. È un’opinione personale”. Quanto dovrebbe durare secondo lei un giusto processo? “Non più di quattro anni. Per tutti e tre i gradi”. Ci si arriverà? “Sto investendo molte energie sul processo telematico. In autunno avremo novità importanti”. Ma i tribunali non stanno chiusi troppo? I magistrati non fanno troppe ferie? “No, i magistrati italiani sono fra i più produttivi, se non i più produttivi, a livello europeo. E lavorano tantissimo a casa”. Lo stato dei tribunali, invece, è disastroso. A Bari è un bel pasticcio... “A Bari il pasticcio era che si facevano le udienze nelle tende. Mi criticano per questo?”. No, la criticano perché per togliere le tende è stato affittato l’immobile di un amico dei clan mafiosi. A un milione di euro l’anno. “Stiamo facendo approfondimenti”. È stato un errore? “Lo vedremo. Noi abbiamo seguito le regole per cercare di dare a Bari la soluzione migliore”. Ci sono altri tribunali in quelle condizioni? “In quelle condizioni, no. Ma ci sono tanti tribunali in condizioni critiche. Mi sto muovendo per cercare di intervenire”. Quindi a breve potrebbe intervenire su altri casi? “Sì. Però è meglio agire a livello strutturale. I campanelli d’allarme a Bari c’erano da tempo. Bisogna riuscire a muoversi in tempi più rapidi”. Capitolo intercettazioni. Lei ha citato Consip e Renzi le ha risposto: “O sei in malafede o non hai capito”. Poi dice che lei dovrebbe occuparsi di Lanzalone e dello scandalo di Roma. “Renzi ormai dice sempre la stessa cosa. Ha un repertorio vecchio. Ma se lui critica vuol dire che la direzione è giusta”. Ma c’era davvero una relazione tra le norme sulle intercettazioni e Consip? “Non mi sono riferito solo al caso Consip. Ho detto semplicemente che nella scorsa legislatura il provvedimento sulle intercettazioni aveva un’impennata di attenzioni da parte del Parlamento in coincidenza degli scandali giudiziari. Magari era solo una coincidenza”. Ma a proposito di scandali giudiziari: si è pentito di aver presentato Lanzalone alla Raggi? “Di cosa mi dovrei pentire? La giustizia farà il suo corso, siamo in attesa. Ma in quel momento io ho presentato un eccellente avvocato alla sindaca Raggi”. Torniamo per un attimo alle intercettazioni. C’è stato un eccesso nell’utilizzo e nella pubblicazione? “Se questo è il problema, questa riforma lo avrebbe aggravato, ledendo fra l’altro il diritto di difesa”. Ma pensa che sia necessaria una limitazione delle intercettazioni? “Mi rendo conto che 1 a questione è delicatissima. E per questo voglio riscrivere la normativa, ascoltando tutti”. Questo governo dura cinque anni? “Anche dieci”. Ottimista. “Scherzi a parte, le dico che dopo il primo mese e mezzo questo è il governo più solido che io abbia mai visto in azione”. E dopo cinque anni di governo insieme sarà possibile presentarsi alle elezioni separati? “Per quanto mi riguarda, io ho il limite del doppio mandato. Tornerò a fare l’avvocato”. La caccia all’uomo ad Aprilia: si chiama linciaggio di Piero Sansonetti Il Dubbio, 31 luglio 2018 Linciaggio. Voi conoscete il significato di questa parola? Probabilmente sì. E dunque siete in linea di massima più colti, o comunque migliori conoscitori del linguaggio, della quasi totalità dei giornalisti italiani, compresi i direttori. Linciaggio (legge di Lynch: sono incerte le generalità esatte di questo signor Lynch, pare fosse un giurista della Virginia, fine 700) è il processo popolare, o anche il non processo, seguito dall’esecuzione della pena capitale nei confronti di una persona sospettata di avere commesso un delitto piccolo o grande. Di solito, negli Stati del Sud degli Usa (dove il linciaggio imperversò per un paio di secoli e proseguì ancora fino a oltre la metà del novecento), veniva adoperato il linciaggio solo per gli autori di reati gravissimi. La violenza sessuale (ma solo se era di un nero contro una bianca) e l’omicidio (idem). L’altra notte ad Aprilia, a due passi da Roma, vicino ad Anzio, in una località dove in questo periodo passa le vacanze un pezzetto della media e piccola borghesia romana, è stato compiuto un linciaggio. Alcuni cittadini, sospettando che un signore di origine marocchina fosse un ladro, lo hanno inseguito e ucciso. In questo caso senza processo. È stato sufficiente scorgere uno zainetto nel quale, forse, erano nascosti degli strumenti adatti allo scasso (credo di automobili). Diciamo meglio: senza processo e senza reato, visto che questo signore del Marocco non aveva rubato niente, era disarmato, non era violento, non aveva minacciato nessuno, era in fuga, ma non in fuga dalla legge, in fuga dalla furia degli inseguitori. È un reato gravissimo quello commesso, sembra, da due cittadini di Aprilia. Per questo reato saranno processati e la magistratura deciderà se sono colpevoli o innocenti e quale pena meritano. Noi - come per tutti - speriamo che la pena non sia eccessiva e speriamo che - se sono colpevoli gli sia data la possibilità di riabilitarsi e di capire cosa sia la giustizia vera e cosa, invece, la furia e il delitto. Però restiamo sgomenti di fronte all’atteggiamento della stampa. Tutta. La grande maggioranza dei giornali italiani ieri non aveva questa notizia in prima pagina. L’hanno messa in prima solo le grandi testate (ma non tutte) come il Corriere, la Repubblica, il Messaggero e il Fatto, però nessuna di loro gli ha dedicato il titolo più importante della prima pagina (quella che noi giornalisti, in gergo, chiamiamo “l’apertura”). Eppure non c’è dubbio che il linciaggio ieri era la notizia nuova più importante del giorno. Il Corriere e la Repubblica hanno preferito parlare dei dissidi nel governo e tra governo e opposizione, sulla Rai e sull’Ilva (temi sicuramente importantissimi, per carità, ma che campeggiavano da diversi giorni, senza rilevanti novità), Il Fatto gli ha preferito anche altre notizie come una inchiesta nella quale ha accertato che il Pd è in crisi. In nessuno dei titoli dedicati al linciaggio - nessuno - si parla di linciaggio. (A occhio neppure in nessuno degli articoli). In molti titoli la parola “ucciso” è sostituita dalla parola “muore”. Bene. Io non credo, francamente, che la totalità dei giornalisti italiani che si sono occupati dell’omicidio di Aprilia - e dei direttori che hanno deciso se e come collocarlo in prima pagina, e usando quali parole - non conoscano il termine linciaggio e la differenza tra la forma verbale attiva - “morire” e la forma - passiva - “essere ucciso”. E allora, perché questa prudenza? C’è una sola risposta: è la nuova political correctness. La correttezza politica, il galateo, vogliono che di fronte a un vicepremier che sostiene che il problema non sono questi delitti ma i piccoli furti commessi dagli immigrati, e che esclude che in Italia ci sia il razzismo - e un altro vicepremier che difende il suo collega sostenendo che se il suo amico vicepremier dice così, evidentemente è così… - vadano attenuati i toni delle polemiche e anche dell’informazione. Si sta ai fatti e basta. Quali sono i fatti? Che quel ragazzo del Marocco è morto e che probabilmente aveva in auto un piede di porco. Bene: questo si riferisce. Punto. È morto un ragazzo del Marocco che aveva in macchina un piede di porco. Razzismo? Linciaggio? Clima d’odio? Caccia all’immigrato (anzi, al negro)? La risposta è secca: andiamoci piano con le ideologie. E così, mentre è del tutto chiaro, a chiunque voglia vedere, che in Italia sta montando una ondata razzista, non solo xenofoba (e il nuovo episodio di ieri contro la nostra campionessa di atletica lo conferma) le voci che restano a gridare l’allarme sono sempre di meno e sempre più flebili e isolate. Quella del Papa, quella del Presidente Mattarella, qualche rivista cattolica sbeffeggiata dall’intero schieramento di quelli che Travaglio (che ne fa parte) chiama “i giornaloni”. Questo che vuol dire? Che Salvini è un razzista e che è stato lui, spalleggiato dai 5 Stelle a creare questo clima? No, anche questa è una scemenza. Non so se Salvini sia un razzista (anche se sin qui ha fatto molto poco per smentirlo, e certo non lo aiutano a questo scopo le citazioni, consapevoli o no, di Mussolini...), so che il razzismo in Italia e in molti paesi d’Europa sta montando e si sta radicando in una parte molto grande dell’opinione pubblica. E non è certo una manovra politica di Salvini né di Grillo. Il problema è che i partiti politici a questo dovrebbero servire: ad affermare principi di buon senso. A dialogare con il popolo e ad influenzare il popolo. Se non muovono un dito per affermare questi principi, e se anzi immaginano di poter trarre vantaggi elettorali dalla crescita di un senso comune razzista, fanno un pessimo servizio al nostro paese. La citazione di Manzoni usata qualche giorno fa dal presidente della Repubblica è assolutamente calzante: “Il buonsenso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Per quanto tempo ancora deve restare nascosto, clandestino? L’estate del nostro disonore di Francesco Merlo La Repubblica, 31 luglio 2018 In questo 2018, da Moncalieri a Catania, è la caccia al nero il delitto dell’estate, che non è solo la stagione delle zanzare e dei pensieri cattivi, ma anche della violenza seriale e del crimine che, ripetendosi come un orrendo tormentone, diventa un vizio maligno, una patologia sociale, una sottocultura nazionale di orrore e di morte. Per esempio rimanda, questa caccia al nero estiva, ai sassi gettati dai cavalcavia che, nell’estate del 2014, divennero valanghe di pietre. E fu chiaro a tutti che la criminale - e non inedita - bravata, qualche volta mortale, in quel 2014 si contagiava per imitazione, si riproduceva per emulazione. Gli episodi denunziati furono infatti 90 e i minorenni fermati 70. E abbiamo anche avuto l’estate degli aggressori delle prostitute, dei pirati della strada, dei barboni dati a fuoco, dei coltelli in discoteca. È vero che l’espressione “razzismo diffuso” applicata a un ritornello dell’estate ha un suono orribile, ma questa infocata caccia al nero è così ripetuta, così replicata e così imitata che davvero sembra la versione demoniaca di “Sapore di sale”, di “Vamos alla playa/ todos col sombrero”, e poi di “Ostia Fregene Rimini Riccione/ un’altra estate un’altra canzone”. E può finire come ad Aprilia dove Hady Zuady, marocchino di 43 anni, è stato ucciso a pugni e calci perché “ladro”, o come in Piemonte dove all’atleta nera Daisy Osakue, 22 anni, che rischia di perdere l’occhio, sono state lanciate uova da un’auto in corsa. E pensate a cosa ha trasformato in un razzista quel normale milanese di 55 anni che ha visto un nero parlare al telefono in cingalese e dunque lo ha inseguito al grido di “parla italiano!” Secondo voi, chi dei due emanava un afrore selvatico, arcaico e animalesco, il senegalese al telefono o il milanese che lo ha aggredito con un coltellino e una rabbia aggravata dall’inconsistenza, dalla mancanza dell’offesa? Siamo i primi a pensare che la sociologia vada applicata ai delitti di nera con estrema prudenza, ma per esempio nell’estate del 2010 la cronaca ha cominciato a registrare casi di violenza familiare finiti con l’acido sul viso. E a poco a poco, di nuovo per contagio, l’acido si è imposto, in un’escalation di donne, e qualche volta di uomini, sfregiate dagli ex. La barbarie dell’acido - nitrico, solforico, cloridrico - che i mafiosi abitualmente usano per sciogliere i cadaveri e farli sparire, entrò nel degrado delle famiglie, sostituendo, che so?, la rottura dei piatti, il “torno da mia madre”, il “vado a comprare le sigarette”. L’acido, che è il massimo dell’offesa con il minimo della spesa, fu la spia rivelatrice di un monstrum italiano, della ferocia che stava avvelenando il Paese, dai forconi al teppismo politico spacciato per rivoluzione, sino al femminicidio appunto: l’acido fu il dettaglio rivelatore d’epoca. Ebbene oggi, la spia d’epoca è il razzismo. L’ estate italiana, oltre che dalle vespe e dalle sciocchezze sui social, è infatti dominata dalla caccia al nero. Così nel piazzale della stazione di Catania, come raccontano i testimoni, alle 9.30 del mattino, un autista del bus per Taormina ha chiuso le porte in faccia a un gruppetto di africani che stavano per salire muniti di biglietto. Li ha lasciati a terra e se n’è andato: tiè. In provincia di Vicenza, un operaio nero è stato ferito da un pallino di piombo sparato dalla terrazza di un appartamento, mentre a Partinico l’agguato è avvenuto al grido di “sporco negro” e poi l’aggressore si è scusato così: “Avevo bevuto qualche birra di più”. Come si sa, il primo ad aprire la caccia a neri fu, in campagna elettorale, Luca Traina a Macerata, che in galera a Piacenza adesso riceve fiorì, regali, messaggi di solidarietà - “sei un grande”: insomma affetto, sostegno e offerte di denaro. Sono passati cinque mesi e solo ora, nel pieno dell’estate italiana che con i suoi ormai abituali 40 gradi arroventa e rincretinisce il Paese, la caccia al nero si sta diffondendo in tutto il territorio nazionale, “isole comprese” dicevano i piazzisti di una volta, con la creatività del maligno. Ma poiché nel Paese del sole che corrode i nervi, in luglio ed agosto i misfatti e i reati si contagiano nell’aria opprimente insieme alle gastriti, alle coliti, ai deliri, alla sbracatezza e al sudore, può anche darsi che uno fosse davvero ubriaco e che l’altro abbia sparato ma non mirato. E c’è pure quello che “non sapevo che era nero”. Ci sono poi quelli che “è tutta un’esagerazione della sinistra pietista e buonista”, e quelli che “nessuno si occupa delle uova lanciate ai bianchi”. Può darsi insomma che il razzismo stia per ora mostrando solo la sua faccia cretina. E forse è anche così che vanno raccontate queste orribili storie, con il codice dei cretini: spaventosi, fantasmagorici, tragicomici, colossali cretini. Come appunto all’ospedale di Giulianova, provincia di Teramo, dove a Ibrahima Diop, naturalizzato italiano di 39 anni, sposato con un’italiana e padre di un sedicenne, è stato detto di rivolgersi al reparto Veterinaria. Chissà le risate di questi cretini. La caccia al nero è come allegro tormentone, dunque, proprio come qualsiasi altro refrain identitario delle piccole variazioni che poco alla volta cambiano un Paese: da “A A Abbronzatissima” a “Sento il mare dentro a una conchiglia”, sino al Salento dei Negramaro e alla taranta. Canzoni e delitti: i tormentoni di quest’estate sono la caccia al nero e “andale andale / portami giù dove non si tocca”. Ora la stessa severità su clandestini e intolleranti di Carlo Nordio Il Messaggero, 31 luglio 2018 Non sappiamo ancora se il lancio di uova contro Daisy Osakue, e gli altri più gravi e recenti episodi di aggressione a persone di colore siano motivati da odio sovranista, da irresponsabile spirito emulativo, da grossolana stupidità o da tutte queste cose insieme. Ma di fronte alle allarmate reazioni di chi teme l’affermarsi nel nostro Paese di una nuova mistica razziale intollerante e violenta possiamo fare alcune osservazioni. Primo. È quasi banale dire che questi reati vanno al più presto accertati e puniti, e che, se fosse dimostrata l’aggravante della discriminazione, la sanzione dovrebbe essere, come si dice, esemplare. Non perché crediamo nella sua efficacia deterrente, ma perché dimostrerebbe la serietà di uno Stato che mantiene le sue promesse: severità contro gli intolleranti, e severità contro i clandestini. La legalità non può conoscere eccezioni. Chiudere un occhio nei confronti di un razzista è esattamente come chiudere un occhio davanti al reato commesso da un immigrato irregolare. Secondo. È non solo improprio ma addirittura fatale evocare lo spettro del razzismo solo perché, in pochi giorni, si sono verificati alcuni episodi particolarmente odiosi. È già accaduto che alcuni crimini abbiano avuto reiterazioni significative in stretti limiti temporali. Nessuno ne conosce la ragione, ma gli addetti del settore lo sanno per esperienza. Ci furono momenti in cui sembravamo circondati da sacerdoti pedofili, da violentatori notturni, da truffatori seriali e da uxoricidi. Poi il vento cambia, e si ripropongono allarmi nuovi. Prima di trarre conclusioni sbagliate, sarebbe bene disporre di uno spettro statistico più vasto. Sempreché, naturalmente, si voglia adottare un criterio razionale, e non esclusivamente emotivo, o politicamente conveniente. Terzo, e consequenziale. Coloro i quali gridano al dilagante razzismo davanti a questi eventi recenti, non si rendono conto di mettersi sullo stesso piano dei razzisti veri, e di avallarne le ragioni. Perché, se fosse vero che una mezza dozzina di episodi di intolleranza etnica esprimono una sedimentazione consolidata di questi insani pregiudizi tra i nostri cittadini, lo stesso criterio potrebbe essere usato, in modo simmetrico, nei confronti degli immigrati clandestini. Potrebbe essere usato, ad esempio, da chi ha subìto un furto, una rapina, o una qualsiasi violenza da parte di un extracomunitario irregolare. O da chi, anche senza essere stato vittima di un reato, si sia sentito semplicemente discriminato all’incontrario: in treno o in autobus, dove c’è chi paga il biglietto e chi no, o al Pronto Soccorso, dove la minaccia di una denuncia per discriminazione suggerisce, o impone, al medico un trattamento preferenziale nei confronti dell’immigrato. E poiché questi esempi non sono né rari né isolati, si dovrebbe concludere che, come alcune manifestazioni di razzismo farebbero dell’Italia un Paese razzista, così questi episodi dovrebbero fare di tutti i migranti una turba di privilegiati mascalzoni. Concludo. Come gli immigrati irregolari non sono tutti delinquenti, così l’Italia non è affatto un Paese razzista. Lo ha dimostrato nella sua storia passata e recente, accogliendo e assorbendo, in pace e fraternità, un numero crescente di esuli sfortunati. Ma anche i buoni sentimenti incontrano i limiti della misura, della compatibilità, e in definitiva del buon senso. Se oggi molti cittadini, soprattutto tra gli anziani e i meno abbienti, si sentono insicuri nella propria incolumità e nei propri beni, e, perché no, discriminati nella loro stessa identità culturale, questo dipende dal fatto che i flussi massicci e incontrollati del recente passato hanno sconvolto gli equilibri di una società uscita, da troppo poco tempo, dalla povertà e dalla paura. Credere che le esortazioni profetiche a un’assimilazione rapida e indolore siano convincenti e produttive, è un’ingenua e astratta aspirazione. L’unico rimedio possibile risiede nella riaffermazione della legge: che però sia, come deve essere, davvero uguale per tutti. Emma Bonino: “hanno sdoganato umori malsani e queste sono le conseguenze” di Carlo Lania Il Manifesto, 31 luglio 2018 La leader radicale: “Grazie al linguaggio di questo governo qualcuno si sente legittimato ad aggredire chiunque abbia la pelle scura”. “Le politiche e il linguaggio di questo governo, e in particolare del ministro Salvini, hanno sdoganato umori malsani che finora erano più controllati, e le aggressioni di queste settimane contro persone dalla pelle scura lo dimostrano”. Emma Bonino è una testimone diretta del clima di intolleranza che attraversa l’Italia. La settimana scorsa la senatrice di +Europa è intervenuta in aula in difesa dei migranti e le sue parole sono state coperte dagli insulti di parte della maggioranza. “Pensavo che il mio intervento potesse essere accolto con maggiore rispetto e attenzione, senza tanti “buu, buu” da curva sud. Così non è stato”, commenta. Dodici aggressioni in due mesi. Cosa pensa stia accadendo al Paese? Credo sia qualcosa che covava sotto la cenere, anche se abbastanza evidente da mesi, e adesso sta esplodendo. Ovviamente questo sentimento di intolleranza viene da lontano, ma l’accelerazione delle ultime settimane è impressionante e mi auguro che finalmente qualcuno si preoccupi e non lo attribuisca alle visioni di qualche buonista di passaggio, possibilmente radical chic. È evidente che il nuovo vocabolario, e non solo, di questa compagine governativa, e in particolare del ministro Salvini, ha sdoganato umori malsani che finora erano un po’ più controllati. Sta dicendo che ora c’è qualcuno che si sente legittimato a compiere aggressioni? Esattamente, assistiamo alle conseguenze non solo di politiche che non approvo, ma anche di linguaggi che sono volgarmente crudeli e gratuiti. Dire che i migranti sono in crociera è più di un insulto, è un’ingiuria perché sappiamo tutti cosa si lasciano alle spalle questi signori. È un liberi tutti, uno sdoganamento degli impulsi peggiori che fino a poco tempo fa c’erano ma erano più controllati. Però Salvini nega l’emergenza e cita Mussolini, mentre per Di Maio non si tratta di razzismo. Ognuno può raccontarsi quello che vuole e mettersi la benda sugli occhi, sta di fatto che gli episodi delle ultime settimane sono tutti, dico tutti contro persone dalla pelle scura e contro una bambina rom. Per altro sarà anche vero che tanti nemici tanto onore, come scrive il ministro Salvini, ma posso permettermi di ricordare che quella fase politica non è finita in modo brillante? Si è passati dal “È finita la pacchia” riferito ai migranti che provano ad arrivare in Italia, alle aggressioni a chi in Italia vive e lavora. Una volta che sdogani un tabù poi non hai più modo di controllarlo, ed è quello che sta succedendo. Se poi a questo vogliamo aggiungere l’arrivo dell’ipotetico decreto sicurezza, capisci bene dove stiamo andando. Non si attaccano solo i migranti: nel mirino ci sono anche diritti acquisiti come le unioni civili, l’aborto… C’è un trend reazionario, più che conservatore, sui diritti civili e gratuitamente crudele contro i migranti che serve solo a ottenere il consenso dell’opinione pubblica, ma nessun risultato politico. La miscela comincia a diventare esplosiva, se vogliamo anche per quanto riguarda la violazione dello stato di diritto. Per esempio sulla competenza dei ministeri e dei ministri. Abbiamo il vicepremier e ministro degli Interni che di volta in volta è padre di famiglia, ministro degli Esteri, delle Infrastrutture e dei porti. Spero davvero che tutto questo cominci a preoccupare qualcuno. Di questa miscela esplosiva fa parte anche la retorica sulle legittima difesa? Certo, la difesa di ciascuno di noi deve essere garantita dalle istituzioni, altrimenti il ministro degli Interni che ci sta a fare? Più armi circolano, più vengono usate e più incidenti ci sono. È d’accordo con Ilvo Diamanti quando sostiene che in giro c’è voglia di un uomo forte? Ma non è una tendenza nuova, basta pensare agli ultimi venti anni. Da Berlusconi in poi abbiamo avuto l’uomo forte o l’uomo rottamatore, cambia la volgarità e la durezza ma il concetto è quello. Dopo di che c’è questa passione tutta italiana di salire sul carro del vincitore, salvo poi che gli italiani sono anche velocissimi a scendere. L’ex premier Paolo Gentiloni propone di creare un’alleanza per l’alternativa e tra i possibili partecipanti ha fatto anche il suo nome. La convince questa proposta? Non so bene cosa voglia dire, quando me ne parlerà starò a sentire. In questi mesi io non ho avuto contatti con il Pd né loro con me, quindi ho fatto le mie battaglia con l’associazione Coscioni, per i diritti civili, i migranti, la giustizia. Guardi che il capitolo giustizia del famoso contratto è spaventoso. Ora cosa voglia fare il Pd non lo so, per il momento so cosa facciamo noi, cioè da una parte la campagna “L’Europa che accoglie”, dall’altra cerchiamo di resistere per quello che possiamo a questa deriva. Io non sono una pessimista, ma credo veramente che la democrazia liberale, già imperfetta di suo, sia a rischio. Il tutto inserito in una fragilità europea piuttosto evidente. Il segretario del Pd Martina propone per settembre una manifestazione contro il razzismo. Non rischia di essere troppo tardi? Non ho capito perché a settembre, abbiamo già le infradito ai piedi e il pareo? È da un bel po’ che qualcuno doveva prendere coscienza di quello sta accadendo nel Paese, perché questo borboglio sotto traccia, ma con tracce molto evidenti, viene da lontano. Penso alla Hannah Arendt de “La banalità del male”: tutte le volte che lanciavo l’allarme su quanto stava accadendo mi sentivo rispondere “Eh ma cosa vuoi che sia?” Salvo che poi, di scalino in scalino, siamo arrivati a un episodio violento al giorno. Allora senza aspettare settembre forse si può fare qualcosa prima. La sentenza europea che “salvò” Contrada non vale per i casi analoghi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2018 Corte di cassazione, sentenza 30 luglio 2018, n. 36505. Il principio che ha portato la Corte europea per i diritti dell’uomo ad accogliere il ricorso di Bruno Contrada - e annullare la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa - non si può applicare a chi è in situazioni analoghe a quelle dell’ex 007. Lo specifica la Cassazione, nella sentenza 36505 depositata ieri. Per la Corte di Strasburgo il reato era frutto di un’evoluzione giurisprudenziale non ancora consolidata all’epoca dei fatti (1979-1988). La non sufficiente chiarezza dell’”imputazione” impediva al ricorrente di conoscere la pena che rischiava. Di qui l’obbligo per l’Italia - condannata per violazione l’articolo 7 della Cedu sulla legalità della pena - di cancellare con incidente di esecuzione la sentenza definitiva. Dopo la decisione della Corte si era ipotizzato che altri condannati potessero eccepire la violazione della Cedu in condanne per azioni commesse prima del consolidamento giurisprudenziale, fatto coincidere con la sentenza delle Sezioni unite “Demitry” del 1994. Ma la Cassazione ha escluso la portata generale di quanto affermato a Strasburgo sull’ex numero due del Sisde e respinto il ricorso di un condannato in una situazione sovrapponibile. I giudici precisano che l’annullamento della sentenza è il risultato dell’applicazione dell’articolo 46 della Cedu in base al quale è vincolante il giudicato europeo. La Cassazione aveva però chiarito, in modo inequivocabile, che l’articolo 46 impone di allinearsi a Strasburgo, solo per il caso di cui si controverte. Ma i princìpi sul concorso esterno in associazione mafiosa affermati sul caso Contrada non sono esportabili, fuori degli obblighi Cedu, anche perché in contrasto col nostro sistema penale. La decisione di Strasburgo partiva, infatti, dall’assunto che il reato in questione sia di origine giurisprudenziale. Un’affermazione che, per la Cassazione, “si pone in termini problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale, in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “origine giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e tassatività”. Profili di problematicità che sono ancora più accentuati se quanto sostenuto della Cedu viene letto alla luce della sentenza delle Sezioni unite del 2005 (33478) sul modello di punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa. La decisione non consente dubbi sulle ragioni che rendono legittimo applicare nel sistema penale l’istituto concorsuale. Il Supremo collegio non ha “creato” una nuova fattispecie incriminatrice. Il reato non è frutto di una “fantasia” giurisprudenziale ma è il risultato di una ricostruzione sistematica e armonica del nostro ordinamento. E la conclusione è che la responsabilità penale, per il contributo esterno al “clan” scatta quando il concorrente è consapevole di dare il suo “apporto” a un’attività illecita svolta in forma associata, di cui conosce obiettivi e struttura, anche se non ha aderito. Clandestini, sul decreto espulsione fa fede la testimonianza della polizia di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 30 luglio 2018 n. 36437. A seguito di un accertamento da parte della polizia giudiziaria, per contestare il reato di mancato allontanamento dal territorio italiano non è necessario produrre il decreto di espulsione emesso dal Questore. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sentenza n. 36437del 30 luglio 2018, accogliendo il ricorso del Procuratore generale presso la Corte di Appello di Trieste contro la decisione del locale giudice di pace che invece aveva assolto l’imputato, di origine serba, in quanto mancava “un riscontro documentale alla testimonianza dell’operante”. L’ufficiale infatti aveva riferito di avere proceduto (nel marzo 2016) al controllo e all’identificazione dell’imputato che risultava colpito dal provvedimento di espulsione emesso dal Questore (nel dicembre 2015), senza però produrlo in giudizio. Per la Suprema corte le dichiarazioni testimoniali, “purché credibili e riferite a fatti specifici di diretta cognizione, non necessitano, in vista dell’utilizzazione probatoria, di riscontri esterni perché, in assenza di specifici e riconoscibili elementi idonei a giustificare il sospetto di dichiarazioni consapevolmente false, il giudice deve presumere che il testimone abbia correttamente riferito quanto a sua effettiva conoscenza e deve limitarsi a verificare la compatibilità tra il contenuto delle dichiarazioni testimoniali e le altre risultanze probatorie”. E nel caso specifico il giudice di pace non aveva espresso dubbi sulla credibilità del testimone né aveva esercitato i poteri istruttori. La Cassazione ha così accolto il ricorso della Procura statuendo che nel giudizio di rinvio il Giudice di pace dovrà attenersi ai seguenti principi di diritto: “le dichiarazioni testimoniali dell’ufficiale di polizia giudiziaria, purché credibili e riferite a fatti specifici, non necessitano, in vista dell’utilizzazione probatoria, di riscontri”. “Il giudice, qualora ritenga insufficienti gli elementi probatori acquisiti mediante la dichiarazione testimoniale dell’ufficiale di polizia giudiziaria in merito all’esistenza di un fatto giuridico - presupposto all’oggetto dell’accertamento - del quale l’operante abbia avuto conoscenza per ragioni di ufficio, ha il dovere di esplicitare le ragioni per le quali ritenga di non procedere ai sensi dell’art. 507 c.p.p., in quanto il potere di disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova rientra nel compito del giudice di accertare la verità ed ha la funzione di supplire all’inerzia delle parti o a carenze probatorie, quando le stesse incidono in maniera determinante sulla formazione del convincimento e sul risultato del giudizio”. Puglia: sovraffollamento e pochi agenti, carceri a rischio sicurezza di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 31 luglio 2018 Sovraffollamento e pochi agenti della polizia penitenziaria. È l’allarme lanciato dal sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) per i numeri da record delle carceri. Dai dati emerge che la Puglia è la regione più sovraffollata con un indice che arriva a quasi il 60 per cento a fronte della media nazionale che non supera il 25 per cento rendendo le carceri insicure. Sovraffollamento e poliziotti penitenziari in numero inferiore rispetto alle necessità. La Puglia “è la regione col maggior numero di detenuti (in proporzione, ndr) con un indice che arriva a quasi il 60 per cento a fronte di una media nazionale che non supera il 25 per cento”. La denuncia arriva dal Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) che sottolinea i “numeri estremamente preoccupanti nelle carceri pugliesi”. I detenuti sono 3.600 a fronte dei 2.300 posti disponibili, mentre i poliziotti penitenziari da un organico di circa 2.400 agenti è sceso a non più di 1.900. La capienza regolamentare del penitenziario di Bari - stando ai dati forniti dal Sappe - è di 265 detenuti e allo stato attuale ne sono presenti 402; Brindisi ha una capienza di 120 detenuti ma ce ne sono 212; a Foggia ci sono 502 posti a fronte dei 365 posti a disposizione; a Lecce 1.040 su una capienza di 610; a Taranto 589 su 306 posti; Trani ha una capienza di 227 detenuti a fronte dei 331, a Turi 109 presenze su 99; a San Severo 94 su 65; a Lucera, 138 su 137 (qui ci sono dei lavori in corso) e infine Altamura che conta 86 presenze sulle 52 disponibili. “Tutto ciò si traduce in carceri sempre meno presidiati nelle ore serali e notturne - spiega Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe - con pochi poliziotti che gestiscono centinaia di detenuti in condizioni di insicurezza sia per la loro incolumità che per le carceri”. Nei giorni scorsi è stata sventata un’evasione dal carcere di Foggia quando un extracomunitario è riuscito a scavalcare la recinzione dell’area “passeggi” e ha tentato di raggiungere il muro perimetrale del carcere utilizzando alcuni fili elettrici dei lampioni ormai spezzati. Lunedì scorso invece presso il carcere di Bari un trentenne con problemi psichiatrici (detenuto per furto) dopo il ricovero di circa 3 mesi nel Policlinico ha aggredito violentemente due poliziotti durante l’ora d’aria mandandoli entrambi in ospedale. “I carichi di lavoro per gli agenti penitenziari spiega ancora Pilagatti - sono massacranti per i poliziotti perché da soli occupano più posti di servizio contemporaneamente, gestendo centinaia di detenuti con patologie contagiose come epatiti, scabbia, hiv, tbc. Per non parlare - aggiunge ancora - dell’invasione degli ultimi anni dei detenuti con patologie psichiatriche che vengono messi nelle celle insieme ad altri detenuti, senza un’adeguata assistenza specializzata. Questi detenuti negli ultimi due anni hanno spedito all’ospedale 50 agenti”. Altra emergenza nelle carceri è l’assistenza sanitaria ai detenuti “per cui vengono spese molte risorse nella gestione dei detenuti con risultati molto scadenti”. Nei giorni scorsi il Sappe ha polemizzato contro di vertici dell’Asl Bari “per lo spreco di denaro e risorse nella gestione dei detenuti del capoluogo di regione”. Infine il Sappe pone l’accento sulle strutture carcerarie. “Sono stati spesi decine di milioni di euro per fare tre nuove sezioni da 200 posti l’una a Trani, Lecce e Taranto per poi lasciare senza manutenzione altre strutture che sono diventate fatiscenti e invivibili come la sezione blu di Trani che dovrebbe essere chiusa dall’Asl ma che invece rimane operativa”. Viterbo: aveva tentato il suicidio in carcere, muore in ospedale dopo una settimana cronachedellacampania.it, 31 luglio 2018 È morto nell’ospedale di Belcolle dopo una settimana di coma il detenuto 21enne recluso nel carcere di Viterbo che sette giorni fa aveva tentato il suicidio. Il giovane, che doveva scontare ancora solo 40 giorni di pena - secondo quanto riferisce il garante per i detenuti del Lazio Stefano Anastasia - si era impiccato un’ora dopo essere stato posto in isolamento. “Aumentano gli episodi violenti all’interno delle carceri italiane e con il regime penitenziario aperto e la vigilanza dinamica, ossia con controlli ridotti della Polizia Penitenziaria, la situazione si è ulteriormente aggravata”. È quanto afferma il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria. Per il Sappe, “questo è un dato oggettivo, nonostante le false rassicurazioni di Antigone, che ha presentato oggi a Roma il suo rapporto sulle condizioni di detenzione nella prima metà dell’anno. La situazione si è notevolmente aggravata, rispetto agli anni precedenti”. Roma: cento detenuti per tappare le buche, intesa tra Dap e Autostrade di Enrico Bellavia La Repubblica, 31 luglio 2018 Dopo giardini e parchi ora anche le buche. Una task force di cento detenuti a bassa pericolosità, con pene ridotte e ancora poco da scontare, si occuperà delle disastrate strade cittadine mentre i municipi arrancano in un piano di ripristino lontano dal regalare un asfalto senza fossi, avvallamenti, radici, sporgenti, bitume corroso o sfaldato. Il piano di utilizzo dei reclusi è già pronto, manca solo l’ufficializzazione al ministero della Giustizia, ma è questione di ore. Accadrà alla firma del protocollo d’intesa tra il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e Autostrade per l’Italia che renderà operativi i corsi di formazione. Si tratta di una preparazione intensiva della durata di due mesi che in autunno, già ai primi di ottobre, renderà operativi i nuovi manutentori. Autostrade ci mette l’esperienza, i mezzi, e l’asfalto “a caldo”, sottolineano con una punta di malizia gli esperti, visto il flop delle colate a freddo, buone a dare l’illusione del rattoppo che va via alle prime piogge. E sempre Autostrade fornirà l’equipaggiamento per gli operai. Tute a prova di incidenti provocati dall’uso di materiale ad altissima temperatura. Sarà poi l’amministrazione comunale di Roma a disporre di queste squadre, da utilizzare o in affiancamento alle ditte che si occupano già di alcuni tratti o per aggredire zone ancora non coperte dal servizio di manutenzione delle strade. Se il provvedimento non incontrerà ostacoli nella fase di esecuzione, il Campidoglio dovrebbe così disporre di cento uomini già addestrati e a costo zero per la manutenzione delle strade. Una sorta di assisi giunto in pieno idillio istituzionale tra Raggi e governo nazionale ma che ha le premesse tutte durante il precedente governo. Fu con Andrea Orlando alla Giustizia che il Dap, allora guidato da Santi Consolo che è stato immaginato e si è realizzato il progetto giardini, pensando già alle strade. Cambiati gli uomini, con Alfonso Bonafede in via Arenula e Francesco Basentini al Dap, il plano per l’utilizzo dei detenuti come operai è andato avanti senza interruzioni. Gli inconvenienti vengono semmai dall’impatto dei piani sulle incrostazioni degli uffici comunali. Il servizio Giardini, per esempio, digerì male l’arrivo dei reclusi giardinieri, pronto a mettere a nudo, inconsapevolmente, le inefficienze di un settore che al pari di quello delle manutenzioni stradali, è stato terreno di scorrerie per cooperative legate a doppio filo alla politica e alla malavita. Per questo negli uffici del ministero, chi lavora al progetto di reimpiego dei detenuti con l’ambizione di realizzare “dal basso” una piccola rivoluzione nel sistema dell’espiazione della pena, fa i debiti scongiuri sul successo anche di questa iniziativa e resta nell’ombra. “Gli interessi in ballo sono tanti - spiegano senza svelarsi - “che i personalismi in questo ambiente si pagano”. “Andiamo a scardinare - proseguono -un sistema consolidato: c’è chi lavora poco e non ha voglia che altri lo meritano a nudo. E c’è chi in passato ha lucrato con il sistema degli affidamenti esterni dei servizi”. Già perché non è solo questione di emergenza ma di ribaltamento di fronti. Qui non sono gli ex detenuti riuniti in cooperative finanziate a rimboccarsi le maniche, ma detenuti con la pena ancora da scontare, guidati dallo stesso ministero e dalle sue articolazioni a lavorare per il pubblico e praticamente senza costi aggiuntivi. A questo servono le convenzioni. Il servizio giardini, pur con qualche riluttanza, ha dovuto fornire alcuni mezzi più impegnativi come i decespugliatoli, qui Autostrade metterà a disposizione la materia prima e i mezzi per il trasporto, oltre all’abbigliamento. Il protocollo giardini è già stato esteso ad altre città e dopo Roma è stata già siglata un’intesa analoga anche a Palermo. Ora la capitale torna a fare da apripista in nome di un’emergenza che ha già valicato i confini di notorietà nazionale, autorizzando cronache e ironie anche dei media stranieri. In via Arenula, più con la cautela dei ministeriali, serpeggia un certo ottimismo che un po’ se ne infischia delle convenienze della politica e un po’ le sfida. “Qui - confidano - non si tratta solo di mettere al lavoro i detenuti che è già una cosa sacrosanta per stemperare le tensioni nelle carceri, ma immaginarsi un modello diverso. Far produrre i detenuti, formandoli, è dargli ima possibilità. Soprattutto per chi ha da scontare ancora poco”. Lavori forzati? “Non è questo lo spirito. C’è una convenienza economica anche per loro. In futuro gli si potrebbero abbuonare le spese di giustizia che si dovrebbero esigere da tutti e che la gran parte non paga. Anche se trova un lavoro, preferisce restare in nero per evitare di restituire la retta della detenzione”. Sondrio: opportunità per il “dopo”, Torre apprezza la pasta che nasce dietro le sbarre di Filippo Tommaso Ceriani La Provincia di Sondrio, 31 luglio 2018 “Non c’è santo senza passato, non c’è peccatore senza futuro”. Con questa frase di papa Francesco ha concluso mercoledì sera un interessante dibattito Stefania Mussio, direttrice della Casa Circondariale di Sondrio, al centro polifunzionale “Tec de tucc” di Torre di Santa Maria sulla funzione del carcere oggi. Il gruppo Aido Valmalenco, grazie al presidente Giorgio Nana, ha voluto invitare la direttrice per far conoscere sia la pasta senza glutine “1908”, prodotta nel pastificio all’interno del penitenziario, che le attività di rieducazione messe in atto dal carcere. In rappresentanza della Comunità pastorale della Valmalenco hanno portato i saluti i due collaboratori, don Mariano Margnelli e don Andrea Del Giorgio, mentre per il comune di Torre è intervenuto il sindaco Mauro Decio Cometti. Non poteva mancare alla serata anche il cappellano, don Ferruccio Citterio, che ancora una volta la direttrice ha voluto ringraziare pubblicamente per l’impegno e il supporto nei confronti dei detenuti e di tutta la realtà penitenziaria. La testimonianza, dal titolo “Carcere: quale futuro”, ha avuto luogo al termine della cena con la pasta “1908”. Pasta di cui Mussio più volte ha fatto riferimento nella sua relazione, ricordandola come un esempio molto positivo di recupero delle persone detenute. “Questa sera sono qui per assolvere ad uno dei miei incarichi, previsti dal codice penitenziario, ossia far conoscere il mio lavoro e la realtà in cui opero” ha dichiarato la direttrice, aggiungendo che due sono le parole più importanti da mettere in gioco nel suo lavoro: differenziazione e individualizzazione. A questo proposito ha ricordato la Legge sull’Ordinamento Penitenziario del 1975, nello specifico l’articolo 1, che sottolinea l’importanza di chiamare i detenuti per nome perché sono persone e non numeri, facendo così riferimento ad uno stereotipo molto comune nei film, specialmente americani, quando la guardia penitenziaria chiama il recluso per il momento del colloquio. La direttrice ha quindi spiegato ai presenti quanto sia importante, all’interno di un ambiente così complesso quale è il carcere, il concetto di individualizzazione: “non tutti sono dentro per lo stesso motivo, ogni storia, nella sua particolarità, è differente dalle altre”. L’intervento della direttrice Mussio mercoledì scorso ha permesso a diverse persone di conoscere la realtà della Casa Circondariale, obiettivo su cui l’Europa sta spingendo molto. “Visto che l’Unione Europea ribadisce che “il carcere ha senso se è coinvolta la comunità locale”, anche a Sondrio ci diamo da fare perché il carcere non sia più soltanto un edificio, ma un luogo per il reinserimento delle persone detenute nel mondo del lavoro”. Stefania Mussio ha quindi ringraziato i tanti enti, imprese e associazioni di volontariato, che contribuiscono e si fanno carico delle necessità di questa realtà. Dall’arrivo in città di Mussio, che ha ricordato di essere “il primo direttore stabile (e non reggente) del carcere di Sondrio in 110 anni”, in Casa Circondariale sono state molte le iniziative intraprese. “A quattro mesi dal mio arrivo - ha ricordato - il carcere di Sondrio ha aperto le porte a 150 persone in una serata con l’Accademia del Pizzocchero di Teglio”. Quindi, fin da subito, Mussio ha voluto concludere i lavori già avviati dalle precedenti direzioni, sistemando e convertendo diverse stanze inizialmente pensate per altro uso (“luoghi con molte postazioni computer, ma nell’istituto non c’è la rete”). La biblioteca dell’istituto, inaugurata lo scorso anno alla presenza di Andrea Vitali, ha ricevuto tantissime donazioni di libri e facendo riferimento alla frase di don Milani “Ogni parola non imparata oggi è un calcio in culo domani” che campeggia sopra gli scaffali delle librerie, la direttrice ha ricordato anche l’importanza dei corsi scolastici con i docenti del Cpia, il centro di istruzione per adulti. Molto orgogliosa, poi, la direttrice Stefania Mussio della “stanza della familiarità”, l’ultimo spazio del carcere in ordine cronologico sistemato: questo locale, caldo e accogliente, per le visite dei figli dei detenuti, è stato realizzato - ha ricordato Mussio - grazie alla grande generosità di molti, come il falegname che ha regalato il parquet o la sarta che ha cucito le tende. E come dimenticare l’inaugurazione della palestra insieme a molti sportivi valtellinesi o la convenzione con il comune di Sondrio che prevede l’uscita tutti i giorni di due detenuti, muniti di biciclette e mezzi di lavoro, che sistemano le aree verdi del capoluogo. Franca Leosini: “Chi trova un ladro in casa ha diritto di sparare” La Repubblica, 31 luglio 2018 Fa discutere l’intervista rilasciata dalla regina del noir al quotidiano “Libero”. E sulla discrezionalità dei giudici un altro affondo: “Non capisco la differenza delle sentenze su casi molto simili”. Franca Leosini, la signora del noir, instancabile intervistatrice di mostri e serial killer, ideatrice e conduttrice della trasmissione cult Storie Maledette, sulla legittima difesa non ha dubbi. Intervistata dal quotidiano “Libero”, su uno degli argomenti più caldi delle ultime settimane ha risposto: “È una questione controversa. Premetto che avere armi da fuoco in casa è sempre pericoloso (anche se gli omicidi avvengono con le forbici, o i coltelli...). Ma credo che chi si ritrovi un ladro in casa e spari, abbia il diritto di farlo, specie se in pericolo di vita. E l’idea che chi ha sparato per difendersi possa essere processato per omicidio, mi terrorizza. Certo, se il ladro scappa e gli spari alle spalle cambia tutto. Ma in genere mi inquieta la discrezionalità del giudice”. Una posizione, ha spiegato Franca Leosini nell’intervista, maturata soprattutto nei suoi tanti anni di carriera è quella sulla discrezionalità dei giudici. “Mi inquieta”, spiega. “Nei 24 anni di Storie Maledette mi ha colpito la disparità di valutazione dei giudici a parità di reato”. Un esempio? “È vero che i crimini non sono mai sovrapponibili, però non capisco perché a Parolisi, che ha ucciso la moglie con 29 coltellate, hanno ridotto la pena a 18 anni, mentre a Cosima e Sabrina Misseri, che hanno ucciso Sarah Scazzi senza premeditazione né vilipendio di cadavere, sia stato dato l’ergastolo”. Ovviamente le parole della giornalista sono subito rimbalzate nei social accendendo il dibattito - ma spesso è molto più che uno scontro - fra giustizialisti e contrari in ogni caso alla difesa fai-da-te. Franca Leosini, l’icona intellettuale della tv del dolore di Eleonora Voltolina linkiesta.it, 31 luglio 2018 Ormai è un culto: il suo italiano barocco e autocompiaciuto, i suoi dettagli pecorecci, il suo distacco ironico da storie tragiche: c’è chi la adora, fino a farne un oggetto di culto. Ma siamo sicuri non sia solo vanagloria? Se le stesse cose uscissero dalle bocche di Matteo Salvini o Vittorio Feltri, sarebbe roba da “seminatori d’odio” o beceri sessisti. Se le dice - come ha fatto - Franca Leosini, sono cool. Perché lei è donna, ha proprietà di linguaggio, ha la messa in piega perfetta ed è oggetto di un culto cieco e adorante. Ogni volta che la “Signora Omicidi” va in onda con Storie Maledette su Raitre, Twitter impazzisce; i “Leosiners” sbavano per il suo italiano barocco, per “gli ardori lombari”, i “questuante dell’amore”, godono quando umilia e ridicolizza gli intervistati, e va anche bene perché sono degli omicidi e avanzi di galera; chissà se apprezzano anche il Leosini-pensiero su faccende politiche, come quelle trattate nell’intervista che la loro eroina ha rilasciato a Libero sulla legittima difesa. “Credo che chi si ritrovi un ladro in casa e spari, abbia il diritto di farlo - risponde - specie se in pericolo di vita. E l’ idea che chi ha sparato per difendersi possa essere processato per omicidio, mi terrorizza. Certo, se il ladro scappa e gli spari alle spalle cambia tutto. Ma in genere mi inquieta la discrezionalità del giudice”. Se l’avesse detto Salvini, ci sarebbe la fila dei Saviano, Cecilia Strada, e Rolling Stone pronti a urlare allo scandalo. Ma se lo dice Franca è figo. È pur sempre una conduttrice della Rai e, nonostante sia normale sentirsi il Padreterno dopo tanta adulazione, dovrebbe limitare i suoi interventi su questioni politiche. La conduttrice di Storie Maledette, 69 anni, laurea in filologia romanza, un marito finanziere e due figli, non risparmia nell’intervista particolari morbosi e pecorecci, anzi proprio pornografici, che ha trattato in tv. Parlando del delitto di Avetrana, ricorda la sua memorabile puntata, dettagli zozzi che hanno nutrito il mito-Leosini: “Quando penso al ragazzo di Sabrina Misseri, Ivano, che fa sesso, io vedo proprio il sedere che fa tuc tuc, e la parola evocata è “ardori lombari”. Per spiegare il lieve sfaldamento epiteliale - scusa la brutalità - nella vagina di Meredith Kercher ho usato “dito birichino” riferito a Guede, che è diventato virale”. Ora. Se Vittorio Feltri parla di “leccatine” di Harvey Weinstein ad Asia Argento è uno schifoso e merita orde di attiviste che urlano #metoo; invece quella di Franca è letteratura. Se un quotidiano racconta i dettagli violenti e raccapriccianti (contenuti nei verbali della polizia) dello stupro di gruppo Rimini, interviene l’Ordine dei giornalisti contro il cronista e il direttore della testata; se la Leosini parla della vagina di una ragazza morta, vince un Oscar della tv e un’altra mezza dozzina di premi. Punti di vista. Non so voi, ma io vedo l’orrore nel fare dell’ironia su casi di omicidi in cui ci sono famiglie distrutte e minorenni stuprate e uccise. Perché Franca cerca la risatina del pubblico, e nemmeno lo nasconde, quando si trova davanti a Sabrina Misseri, in carcere per l’omicidio di Avetrana, che dice di aver studiato ed essersi diplomata come estetista e la Leosini ribatte: “Adesso anche per spremere un foruncolo sembra che ci voglia un master”. Immaginiamo se l’avesse detto Barbara d’Urso, accusata (giustamente, eh) in ogni occasione di fare tv del dolore. Non vedo cosa ci sia di eccitante (per i fan) quando a Luca Varani, l’avvocato che ha fatto sfregiare in volto la sua ex, Lucia Annibali, domanda: “Le leggerò una poesia di Wislawa Szymborska, conosce?”. E sfodera un sorriso compiaciuto quando lui risponde “no”. O fare battute alla Selvaggia Lucarelli quando il contesto non lo consiglierebbe: “Ivano è talmente bello che Brad Pitt al confronto sembra un bipede sgualcito”. A cosa serve? Ma Franca può tutto, perché va su Raitre, fa tv di qualità, lavora 10 ore al giorno e ai detenuti, per invitarli in trasmissione, scrive lettere di suo pugno e non email mandate al computer. “Quando scrivo ai miei interlocutori (non li chiamo “detenuti”) per chiedere l’intervista, ogni lettera è manoscritta e sulla busta ometto la parola “carcere” o “casa circondariale”; il pc è freddo, e l’ interlocuzione è empatia, è una questione di rispetto”. Franca è ormai un’icona intoccabile. Non nasconde più quanto si piace, quanto pettini l’ego a ogni ghirigoro lessicale, a ogni “inforcamento di mutanda”. “Io le parole non le uso, le posseggo. Sono state fatte anche tesi di laurea sul mio lessico”, gongola. Dobbiamo dare ragione alla non sempre simpatica Roberta Bruzzone, che parlando della Leosini ha afferrato il punto: “Dopo il “ditino birichino” di Rudy Guede, mi aspettavo una maggiore sobrietà. Alcuni passaggi e alcune scelte lessicali le ho trovate discutibili, considerato che è morta una ragazzina di 15 anni”. E riguardo al faccia a faccia con Sabrina Misseri: “Perché andare a sbandierare una cultura che questa persona non ha? Perché metterla in difficoltà? Qual è l’obiettivo?”. Vantarsi non è molto elegante. Chi la paragona a una Lady Violet di Downton Abbey versione partenopea, smorzi gli entusiasmi. Nasce “Diritti alla follia” per riformare il Tso di Valentina Stella Il Dubbio, 31 luglio 2018 L’associazione di Radicali Italiani ha l’obiettivo di modificare il trattamento sanitario obbligatorio. È stata costituita l’Associazione “Diritti alla Follia”: l’avvocato Michele Capano è stato eletto segretario, Antonella Nobile sarà la tesoriera. L’associazione, nata nell’alveo di Radicali Italiani, è il naturale prosieguo della campagna “La libertà è terapeutica - per una riforma del Tso”, portata avanti proprio da diverso tempo in primis dall’avvocato Capano: a 40 anni dalla rivoluzionaria legge Basaglia, che segnò la fine dell’era degli ospedali psichiatrici in Italia, ovvero la chiusura dei manicomi, per Capano, membro del Comitato di Radicali Italiani, “il trattamento sanitario obbligatorio deve essere riformato per garantire maggiori diritti ai pazienti”. Vicende come quella di Francesco Mastrogiovanni, morto nel 2009 a Vallo della Lucania dopo 87 ore di analoga ininterrotta contenzione, riprese integralmente da una telecamera all’interno del reparto, evidenziano per Capano, che è anche il legale della famiglia di Mastrogiovanni “come sia nella fase dell’avvio del Tso che nel corso della concreta esecuzione dello stesso, si consumino violazioni dei diritti fondamentali, consacrate in prassi consolidate, divenute emblema della “banalità del male” in ambito sanitario”. Michele Capano spiega le proposte per la riforma del Tso che prevede “il ruolo di garanzia che nella legge era immaginato soprattutto a carico del Sindaco che emette l’ordinanza si è rivelato di fatto inconsistente ed illusorio perché egli non fa altro che controfirmare burocraticamente la proposta dei medici. Nella legge era prevista una autorità terza che potesse in qualche modo avere anche una interlocuzione diretta con il soggetto prima di decidere per l’internamento nel reparto. Ma così non è stato. Noi crediamo che in questa fase applicativa sia cruciale stabilire dei momenti in cui il soggetto possa avere ufficialmente voce in capitolo, possa effettivamente partecipare ad un contraddittorio all’interno del quale difendersi. Oggi incredibilmente non è prevista una informativa per la persona soggetta al Tso dove vengono esplicitati il motivo del trattamento, i diritti che si hanno e le possibilità di ricorso. Paradossalmente, chi è sottoposto ad un Tso si trova in una condizione peggiore dell’arrestato. Poi noi prevediamo che ci debba essere una udienza, simile a quella di convalida dell’arresto, in cui il soggetto possa essere difeso, quindi auspichiamo l’obbligo della difesa tecnica. Ci auguriamo di avere insieme a noi in questa battaglia quanti più avvocati possibili, come già in passato il segretario dell’Unione delle Camere Penali Francesco Petrelli. Poi nella fase esecutiva stabiliamo alcuni punti fermi che ad oggi non sono previsti come il rifiuto della contenzione e il rifiuto della natura chiusa dei reparti, per cui i degenti possano ricevere visite”. L’associazione “Diritti alla Follia” si occuperà, spiega sempre Michele Capano “oltre che del Tso la nostra mozione parla di almeno altre due grandi aree: la prima è quella delle misure di sicurezza per le persone non imputabili. Quando una persona, dichiarata incapace di intendere e di volere e quindi assolta pur avendo commesso il reato, è ritenuta socialmente pericolosa riceve la misura di sicurezza: o nelle Rems, o nelle articolazioni psichiatriche delle carceri ordinarie, o in libertà vigilata. Noi denunciamo che, nonostante nel 2014 sia stato stabilito un tetto massimo per le misure di sicurezza detentive, esse vengono prolungate in modo indeterminato. La secondo area di intervento è quella che riguarda l’istituto dell’ amministrazione di sostegno, diffusosi in modo abnorme ed esercitato spesso in modo da svolgere un ruolo non di ausilio ma di sostituzione del beneficiario, che viene espropriato di qualsiasi voce in capitolo riguardo la sua situazione sanitaria”. Su tutti i temi trattati verranno costituiti gruppi di lavoro che elaborino progetti di riforma della disciplina relativa. Franco Grillini e il giustizialismo di governo di Luigi Manconi Il Manifesto, 31 luglio 2018 Per più motivi: perché il provvedimento di cui parlo solleva, effettivamente, questioni di giustizia; perché, in particolare, propone un’idea della stessa giustizia fortemente deformata e sostanzialmente autoritaria. E perché, infine, a motivare un mio atteggiamento sufficientemente disinteressato c’è la convinzione che la pensione degli ex senatori (e io sono un ex senatore) assai difficilmente verrà ricalcolata ed è altrettanto probabile che - per il demenziale meccanismo del ricalcolo proposto - io potrei rientrare tra coloro che ne risulteranno addirittura avvantaggiati (!). In ogni caso, sono un privilegiato e, di conseguenza, non dirò alcuna ulteriore parola sulla mia vicenda personale. Voglio parlare, piuttosto, di quella di Franco Grillini, nato a Pianoro (Bologna), 63 anni fa, parlamentare per due legislature (dal 2001 al 2008). Grillini ha avuto un ruolo assai rilevante nella storia culturale e politica del nostro paese. È stato il primo esponente pubblico dichiaratamente omosessuale, ed è stato capace di fare della propria condizione una risorsa di dignità personale e di promozione collettiva. Oggi dice: “Col taglio della pensione io, affetto da tumore, non potrò più avere l’assistenza, che fino a oggi mi pagavo. Sia ben chiaro, come tutti i cittadini. Ma io ho seguito le leggi e, così come tanti altri, non ho pensato a crearmi delle garanzie alternative”. La condizione e la parola di Franco Grillini spiegano forse meglio di qualunque altro esempio cosa sia davvero il giustizialismo. Ascoltiamolo ancora: “Passerò il tempo che mi resta a fare ricorsi, che potranno durare anche dieci anni. Chissà se ci arriverò”. Quale idea di giustizia comunque intesa o malintesa potrebbe giustificare la riduzione della pensione per Grillini? E quale vantaggio, da quel taglio e dal taglio delle pensioni dei suoi colleghi, riceveranno le miserabili pensioni e pensioni sociali di tanti italiani? Come si vede, sorvolo sulle ragioni storiche e giuridiche della indennità e della pensione dei parlamentari, perché davvero non voglio entrare nel merito dell’opportunità o meno di questi tagli nella loro dimensione generale. E proprio perché vi sono direttamente coinvolto. Tuttavia non posso non sottolineare come la tanta foga e la tanta furia oggi dispiegate contro “la casta” si concentrino, in via esclusiva, sulle pensioni degli ex parlamentari. E non una riga e non un’invettiva (e non una deliberazione della presidenza di Camera o Senato) si proponga di ridurre gli stipendi degli attuali deputati e senatori. La ragione, nella sua elementare evidenza, appare strepitosa: i parlamentari decidono del destino (del reddito) degli ex e non vogliono decidere del destino (del reddito) di sé stessi. E questo è già un dato assai interessante di sociologia della politica. Ma dietro tutto ciò, va da sé, si profila quel rancore sociale che è l’autentico e più diffuso senso comune del nostro tempo. In altre parole mi sembra che tutte le energie e tutti i sentimenti, le passioni e le aspirazioni, la domanda di equità e quella di redistribuzione del reddito e del potere finiscano con il concentrarsi in un bisogno di giustizia interamente volto all’indietro. Regressivo e repressivo. Viene alla mente quella massima evangelica dove la Provvidenza “rovescia i potenti e innalza gli umili” (Lc 1,52), ma in una versione oscenamente mutila. Nel clima attuale i potenti (gli ex potenti) seppure non vengono rovesciati vanno umiliati e mortificati. Ma a questo sembra limitarsi l’equità sociale che sarebbe propiziata dalla volontà divina o da una rivoluzione dal basso o da una politica di egualitarismo imposta autoritativamente. In questo modello di relazioni sociali, la giustizia sta solo in quell’arretramento generalizzato. E in quel processo di livellamento verso il basso. È questo il solo fine perseguito e l’unico obiettivo di equità prospettato. Ancora è questa, a ben vedere, la radice più profonda e l’interpretazione più vera del giustizialismo: una volontà di rivalsa, che prevede sanzioni uguali al fine di una perequazione obbligata e non di una libera competizione per l’eguaglianza capace di “innalzare”. Emancipare, cioè. Un giustizialismo di governo e per questo ancora più odioso. Il traffico di bambini “rubati” corre nei nostri cieli di Barbara Millucci Corriere della Sera, 31 luglio 2018 Secondo l’Onu i trasferimenti illegali di minori avvengono prevalentemente in aereo. Da passeggeri è possibile vigilare e indicare casi sospetti. Cuore blu. È il nome del progetto umanitario volto a combattere il traffico di esseri umani nel mondo, in particolare di bambini. A metterci la faccia come testimonial nella Blue Heart campaign delle Nazioni Unite sono tre celebri attrici: Monica Bellucci, Claudia Cardinale e Mira Sorvino. “Annientare i trafficanti è possibile”, sostiene Felipe de La Torre, responsabile dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) in Messico, durante l’ultimo summit Iata (Associazione trasporto aereo) a Sydney dove è stata illustrata l’iniziativa. “Siamo qui per sensibilizzare le compagnie aeree sull’importanza di porre un freno alla tratta di esseri umani”. Secondo l’Onu, “il principale veicolo che i trafficanti di esseri umani utilizzano per rapinare donne e bambini sono i collegamenti aerei” si legge in un report. “Il 60% delle vittime che finiscono nel mercato delle tratte di esseri umani viene quindi costretto a oltrepassare le frontiere in volo”, aggiunge de La Torre. Secondo un’altra stima, questa volta dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), questo terribile mercato che schiavizza i piccoli e rende impotenti i grandi, coinvolge quasi 25 milioni di persone (il 75% donne e bambini), l’equivalente della popolazione dell’intera Australia. Anche il giro d’affari dei trafficanti di persone ha numeri da capogiro: oltre 150 miliardi di dollari l’anno. L’appello - Per tentare di arginare il problema l’associazione mondiale delle compagnie aeree ha lanciato la campagna EyesOpen su cosa fare nel caso in cui ci si capisce che un bambino viaggia contro la propria volontà. “Occhi sbarrati dunque, perché chiunque oggi ha la possibilità di aiutare a stoppare il fenomeno, denunciando al personale di bordo eventuali stranezze”, prosegue de La Torre. Ognuno può dare il proprio contributo: dal passeggero al personale di terra e denunciare così questi abusi che sono sempre più sotto gli occhi di tutti e su cui però si fa ben poco, visto che rimangono sempre più impuniti. “L’anno scorso, solo il 15% degli Stati del mondo sono stati condannati per non aver prontamente arginato il fenomeno della tratta di esseri umani”, si legge in un report Iata. Secondo la legislazione corrente, a differenza del traffico di migranti, la tratta di persone avviene senza il consenso degli individui ed è finalizzata non al trasporto in un altro Stato, ma bensì al loro sfruttamento. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nel suo report annuale Trafficking in Persons Report, da poco pubblicato, spiega che l’attività criminale legata alla vendita di bambini nel mondo è in crescita, seconda, in termini di redditività, solo allo spaccio di droga. Associare la tratta di esseri umani al finanziamento di organizzazioni terroristiche diventa così inevitabile. Secondo la Henry Jackson Society, l’Isis avrebbe guadagnato dal mercato della tratta di esseri umani tra i 10 e i 30 milioni di dollari. Denaro usato poi per finanziare il terrorismo internazionale. Scrive il Dipartimento di Stato Usa: “I bambini affidati agli istituti, incluse le strutture gestite dal governo, possono essere facili bersagli per i trafficanti”. Nel documento si aggiunge che anche nel migliore dei casi, gli istituti non sono in grado di soddisfare il bisogno di sostegno emotivo che un bambino riceve generalmente da familiari o da assistenti in gamba con i quali il bambino solitamente sviluppa un attaccamento. “È proprio negli orfanotrofi o nelle residenze temporanee mal gestite che i trafficanti riescono ad operare impunemente. Orfanotrofi in Nepal, Cambogia e Haiti - secondo quanto si legge - sono spesso complici o direttamente coinvolti nella tratta di esseri umani”. I finti volontari - Nella maggior parte dei casi i trafficanti approfittano dei pochi controlli e, fingendosi volontari, partecipano ai programmi di volontariato a pagamento. Una volta introdotti nelle strutture, per i mercanti di bambini avvicinare i bambini traumatizzati è un gioco da ragazzi. Spesso i trafficanti scelgono e sfruttano i bimbi più vulnerabili e bisognosi di legami affettivi. Portarli con sé dall’altro capo del mondo diventa facilissimo. Sono 22 gli stati del mondo finiti nella black list del traffico internazionale. Tra questi: Russia, Bielorussia, Iran, Turkmenistan, Birmania, Cina, Nord Korea, Syria e Venezuela. Migranti. Mattarella: “Sono i nuovi schiavi, non si può guardare altrove” La Repubblica, 31 luglio 2018 Dichiarazione del presidente della Repubblica per la Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani: “Nessun Paese è immune da questa sistematica violazione della dignità”. “Ogni giorno migliaia di persone pongono a rischio la propria vita e quella dei propri cari per mare e per terra, in condizioni disperate; una tragedia figlia delle guerre, della povertà, dell’instabilità dello sviluppo precario, alimentata e sfruttata da ignobili trafficanti di esseri umani, che li avviano a un futuro di sopraffazioni: sfruttamento lavorativo, adozioni illegali, prelievo di organi, reclutamento da parte della criminalità organizzata, sfruttamento sessuale”. Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un passaggio della sua dichiarazione in occasione della Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani, “che ci impone di ribadire la condanna e la battaglia della comunità internazionale contro ogni forma di schiavitù, vecchia e nuova”. “Nessun Paese - sottolinea il capo dello Stato - è immune da questa sistematica violazione della dignità umana che interpella la responsabilità della comunità internazionale nella sua interezza, rifuggendo la tentazione di guardare altrove”. Per Mattarella “soltanto la cooperazione può sconfiggere questo fenomeno, con una Unione Europea consapevole dei propri valori e delle proprie responsabilità”. Sono circa 40 milioni le persone vittime” delle nuove schiavitù. “Numeri impressionanti - sottolinea ancora il presidente della Repubblica - che hanno spinto le Nazioni Unite ad adottare l’obiettivo di eliminare il traffico di esseri umani entro il 2030. Si tratta di degenerazioni della nostra società, piaghe da eradicare con fermezza che interrogano le nostre coscienze e ci chiamano a una reazione morale, a una risposta adeguata con un maggiore impegno culturale e civile”. Nave italiana soccorre e riporta in Libia 108 migranti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 31 luglio 2018 L’atto in violazione della legislazione internazionale che garantisce il diritto d’asilo e che non riconosce la Libia come un porto sicuro. Per la prima volta una nave italiana ha riportato in Libia migranti soccorsi nel Mediterraneo. La Asso 28, nave di supporto a una piattaforma petrolifera, è stata coinvolta nelle operazioni di soccorso di un gommone con 108 persone a bordo. Come avviene ormai da settimane, la sala operativa di Roma ha dato indicazioni di coordinarsi con la Guardia costiera libica e, prese a bordo le persone, la Asso 28 ha seguito le indicazioni e le ha sbarcate nel porto di Tripoli. Un fatto senza precedenti in violazione della legislazione internazionale che garantisce il diritto d’asilo e che non riconosce la Libia come un porto sicuro in cui, secondo la convenzione di Ginevra, devono essere sbarcati i migranti soccorsi. Nessuno dei migranti riportati a Tripoli, infatti, ha avuto la possibilità di chiedere asilo come garantito dalla legge. Nelle scorse settimane la portavoce del Consiglio d’Europa aveva ribadito che “nessuna nave europea può riportare migranti in Libia perché contrario ai nostri principi”. Venti giorni fa, un’altra nave di supporto a una piattaforma petrolifera, la Vos Thalassa, dopo aver soccorso dei migranti stava per consegnarli ad una motovedetta libica quando un tentativo di rivolta di alcuni dei soccorsi ha convinto il comandante ad invertire la rotta e a chiedere l’aiuto della Guardia costiera italiana che prese poi a bordo della nave Diciotti i migranti sbarcandoli a Trapani dopo l’intervento del presidente della Repubblica Mattarella. Ieri è stata una nuova giornata di soccorsi nel Mediterraneo. Sei i gommoni avvistati dall’aereo della Ong francese Pilotes Volontaires con almeno 600 persone a bordo, 350 quelle di cui si ha notizia perché riportate in Libia dalla Guardia costiera libica ma anche dalla nave italiana. Un episodio su cui chiede spiegazioni il deputato di Liberi e Uguali Nicola Fratoianni, in questi giorni a bordo della nave della Ong spagnola Open Arms tornata in zona Sar. “Non sappiamo ancora se questa operazione avviene su indicazione della Guardia Costiera Italiana, ma se così fosse si tratterebbe di un precedente gravissimo, un vero e proprio respingimento collettivo di cui l’Italia e il comandante della nave risponderanno davanti a un tribunale. Il diritto internazionale prevede che le persone salvate in mare debbano essere portate in un porto sicuro e quelli libici, nonostante la mistificazione della realtà da parte del governo italiano, non possono essere considerati tali”, afferma Fratoianni. Conte chiede una cabina di regia Italia-Usa per la Libia di Ilario Lombardo La Stampa, 31 luglio 2018 C’è tanta Libia nelle aspettative di Giuseppe Conte al suo primo viaggio a Washington, due mesi dopo l’inattesa nomina a Palazzo Chigi. La Libia come terra di transito e di partenze dei migranti verso l’Italia. Ma la Libia anche come crocevia di importanti business. Atterrato ieri sera negli Stati Uniti, il presidente del Consiglio italiano varcherà il portone d’onore della Casa Bianca con una short list di richieste per Donald Trump. La più importante: una “cabina di regia permanente per il Mediterraneo”, così definita dal premier, tra Usa e Italia, da attuarsi attraverso i reciproci ministri degli Esteri e della Difesa, per unire le forze contro il terrorismo e rafforzare la sicurezza nell’area. Conte chiederà esplicitamente a Trump di legittimare l’Italia come “interlocutore privilegiato” degli americani sulla Libia e punto di riferimento in Europa. Una partita che si gioca sulla stabilizzazione del Paese nordafricano e sulla sfida con la Francia dell’attivissimo Emmanuel Macron, deciso a portare i libici alle urne il 10 dicembre, come stabilito durante il vertice di primavera a Parigi, nel pieno del vuoto di potere post-elettorale a Roma. È anche e soprattutto per contrastare le mire geopolitiche del presidente francese e per neutralizzare i risultati di quel summit, che Conte chiederà di formalizzare questo ruolo dell’Italia attraverso l’appoggio dell’amministrazione Trump alla Conferenza sulla Libia che si terrà nel nostro Paese, proprio allo scopo di studiare un percorso di maggiore sicurezza verso le elezioni. Servirà più tempo, più uomini, più soldi, per far sedere allo stesso tavolo le tribù e le fazioni in lotta tra di loro, da Tripoli fino al vasto territorio dell’ex Cirenaica in mano al generale Haftar. L’intesa con il presidente americano Donald Trump, o la “simpatia”, come la definisce Conte, è nata subito, al G7 degli inizi di giugno in Canada, su una comune base populista e la percezione di una distanza di fondo dagli altri leader mondiali. Conte era stato scelto appena qualche giorno prima dai grillo-leghisti come portavoce di un contratto che anche sulla politica estera cerca una difficile sintesi. L’Italia dei sovranisti ha molte questioni aperte, con l’Europa, con la Russia, sul Mediterraneo. La strategia di Palazzo Chigi sembra sempre più prediligire l’alleanza a due con Washington, anche a scapito della famiglia europea. Anzi, Conte si considera un “facilitatore” in grado di mediare tra gli Stati Uniti e Bruxelles, in un momento non proprio esaltante dei loro rapporti. L’Italia sembra muoversi da sola, come a marcare una differenza dai partner del Vecchio Continente, senza troppo preoccuparsi dei rischi di isolamento. Anche sul fronte commerciale, il governo gialloverde era pronto, e lo è ancora, a cercare una scorciatoia per mettersi al riparo dai dazi Usa. Con Trump, Conte si dichiarerà “soddisfatto dell’accordo raggiunto” con la Casa Bianca dal presidente della commissione europea Jean Claude Juncker, che a Washington la scorsa settimana è riuscito a strappare una tregua nella guerra commerciale. Ma il premier chiederà anche ulteriori “garanzie perché non vengano toccati gli interessi delle aziende italiane” in particolare “nell’agroalimentare e nel settore delle auto di lusso”. Insomma, Conte vorrebbe continuare a muoversi su un parallelo canale bilaterale con gli Usa, pur sapendo che gli americani vorranno in cambio qualcosa. Una o più prove di fedeltà e di amicizia. Sulle missioni internazionali (vedi Afghanistan), sulle armi (vedi F35), sugli interessi energetici (vedi il gasdotto Tap, che per la Casa Bianca va completato, senza troppi ripensamenti). Internet, perché le bugie in rete possono costare anche il carcere di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2018 La “vanità” nella rete non perdona e può costare caro. Fingere di essere un’altra persona, spacciarsi per single quando si è invece sposati, usare come fotografia del proprio profilo sui social network quella di un’altra persona, magari nota. Sono alcuni esempi delle nuove falsificazioni digitali che negli ultimi anni sono finite sotto la lente dei giudici, dando vita a una giurisprudenza fatta di fake, finti status e identità inesistenti. L’obiettivo degli autori è quello di avere più visibilità, ingannare gli utenti o estorcere denaro. Il reato presupposto è sempre lo stesso: la sostituzione di persona, punita con la reclusione fino a un anno e procedibile d’ufficio. Eppure, gli autori sembrano non temere le conseguenze delle attività ingannatorie online, soprattutto se si muovono con un nickname o usano falsi account. Tutti accorgimenti che, da soli, non scongiurano l’eventualità di un processo penale. L’attribuirsi uno status fittizio - Per la Corte di cassazione è reato anche spacciarsi per single quando si è sposati. Lo ha stabilito con la pronuncia 34800 del 15 giugno 2016, che mette in guardia gli utenti dall’uso di falsi status sui social network. Così come integra il reato anche soltanto utilizzare come foto del proprio profilo Facebook l’immagine di un’altra persona, come ha stabilito la Suprema corte con la sentenza 4413 del 10 ottobre 2017. Si tratta di un reato contro la fede pubblica: a essere tutelata è la fiducia che gli altri utenti della rete devono poter riporre nelle identità altrui. A pesare sono non soltanto le falsificazioni delle identità ma anche le false attribuzioni di qualità alle quali la legge attribuisce effetti giuridici, come lo stato civile o l’età. Già da tempo, poi, i giudici avevano sottolineato che la finalità non deve essere necessariamente economica: il vantaggio descritto dalla norma può essere dato anche semplicemente dalla visibilità, nuovo patrimonio degli utenti della rete. Per la legge, il profilo digitale costituisce oggi una proiezione di diritti della personalità nella comunità virtuale. Il nickname altrui - Non salva nemmeno usare un nickname o un fake di un personaggio famoso. Ad avviso dei giudici, anche gli pseudonimi utilizzati in rete hanno una dimensione concreta, in grado da sola di produrre effetti reali nella sfera giuridica altrui. Per questo, quando non ci sono dubbi sulla riconducibilità del nickname a una persona fisica, questo ha natura di “contrassegno identificativo” e può condurre a una responsabilità penale. La falsa identità per truffe - Più spesso le falsificazioni delle identità passano attraverso la commissione di altri reati, come la truffa. È il caso di chi crea falsi account per accedere al car sharing (e poi si tradisce usando un’utenza realmente nella sua disponibilità) oppure per godere di un buon rating online per ottenere un credito da privati, il cosiddetto peer landing. È pacifica ormai la giurisprudenza delle sostituzioni di persona che si aggiungono alle estorsioni. L’autore si finge un’altra persona per attirare a sé virtualmente un possibile partner al quale chiede fotografie o video erotici per poi ricattarlo se si rifiuta di pagare una certa somma di denaro. La tecnologia ha poi modificato le possibili modalità esecutive del reato, ad esempio in tutti i casi in cui l’autenticazione dell’interessato avvenga attraverso tecniche biometriche o di identificazione facciale. L’identità digitale è ormai espressamente tutelata dalla legge 119/2003, che ha inserito nell’articolo 640-ter del Codice penale l’aggravante per l’ipotesi in cui il fatto sia commesso “con furto o indebito utilizzo dell’identità digitale”. Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy (2016/679) ha, tra gli obiettivi, anche quello di rendere meno attaccabili i database e, di conseguenza, ridurre la possibilità di sostituzioni di persona e accessi abusivi in generale. Stati Uniti. Black Panther, in carcere da 50 anni di Alberto C. Ferro italiastarmagazine.it, 31 luglio 2018 Jalil Muntaqim ha trascorso 47 anni in prigione. Ex membro del Black Panther e della sua organizzazione segreta, il Black Liberation Army, era stato accusato di avere avuto un ruolo nell’omicidio di due poliziotti di New York nel 1971. Una delle vittime era Giuseppe Piagentini, padre di Diane. Oggi lei non ne vuole sapere di dare un parere favorevole alla sua liberazione: “È un tradimento, un oltraggio alla memoria di mio padre”, ha ribadito recentemente in tv. Anche in Italia è in corso un dibattito simile, a proposito degli ultimi prigionieri delle Brigate Rosse del periodo storico e, anche in questo caso, i detenuti italiani per reati politici non si sono mai dissociati dai loro crimini. Così come le Black Panther. Muntaqim è uno dei 19 radicali, tra cui due donne, ancora in carcere 40 o più anni dopo essere state arrestati per atti violenti legati a quella che veniva definita “guerra di liberazione”. Nel 2019 il detenuto più anziano delle Black Panther, Romaine “Chip” Fitzgerald, “festeggerà” 50 anni di galera. La detenuta più anziana, Sundiata Acoli, ha 81 anni. Dal 2000, altri 10 detenuti politici sono morti in carcere per cause naturali, forse aggravate anche dalla condizione carcerarie. I 19 militanti incarcerati sono stati condannati per avere ucciso - anche se molti professano la loro innocenza - e per molti vale lo slogan “fine pena mai”. Negli Usa è in corso una specie di battaglia, etica e morale, per restituire l libertà a queste persone. Robert Seth Hayes, come Muntaqim ex membro del Black Panther e del Black Liberatione Army, che in allora teorizzava la lotta armata, è stato liberato, all’età di 69 anni, dalla stessa prigione di massima sicurezza di New York dove ha trascorso gran parte della sua vita, 45 anni in cella per l’omicidio di un poliziotto, Sidney Thompson, durante uno scontro in una stazione del Bronx nel 1973. Nel 1998 aveva ottenuto la libertà sulla parola, ma ogni due anni gli è stata detta la stessa cosa: nonostante la buona condotta tenuta in carcere, agli occhi della commissione, Hayes continuava a rappresentare una minaccia per la società. Fu solo all’undicesimo tentativo, 20 anni dopo, e con la sua salute in rapido declino, si convinsero che era degno di essere riabilitato. Scrive il Guardian: “La libertà di Hayes innalza ulteriormente la posta in gioco, costringendo le autorità di New York e di tutto il paese a considerare questioni fondamentali: esiste la possibilità d una riabilitazione per coloro che sono stati giudicati colpevoli di aver ucciso agenti di polizia a causa della rivoluzione nera? Devono rinunciare alle loro idee per meritare il rilascio? Oppure il sistema di giustizia penale statunitense li indica per un trattamento particolarmente duro e per una prigionia senza fine come prigionieri politici, come sostengono gli stessi uomini e le stesse donne in carcere?”. Nessuno di loro ha rinunciato alle proprie idee sui concetti-base del pensiero di Malcolm X, sulla “Black Liberation”. Sarà per questo che Muntagin, nonostante abbia maturato i diritti per la condizionale libertà, si vede sistematicamente respingere, ogni due anni, il sospirato ritorno a una vita normale. I tempi non sono maturi, suggeriscono i giudici, Ma quando lo saranno? Spagna. Femministe in rivolta, un’altra sentenza shock di Marina Turi Il Manifesto, 31 luglio 2018 Il caso Juana Rivas. Il movimento contro la condanna a 5 anni di carcere: “È la giustizia patriarcale”. Anche l’Amje, l’Associazione delle donne giudici, critica il verdetto. “Il governo del Psoe, il più femminista della storia, è lo stesso che ci chiede di rispettare la condanna di Juana Rivas o la messa in libertà della #manada. Non abbiamo cacciato il Pp per rimanere allo stesso punto. Continueremo a lottare fino a raggiungere le condizioni di vita che ci spettano. Non ci calpesteranno! Libertà per #JuanaRivas”. Si legge sulla pagina facebook del collettivo femminista di Madrid Libres y Combativas. Tutto il movimento femminista spagnolo si è subito autoconvocato di fronte al ministero di Giustizia a Madrid, e in tante altre città, per manifestare contro quella che chiamano giustizia patriarcale. È la reazione alla sentenza, non definitiva, della settimana scorsa, che condanna Juana Rivas a 5 anni di carcere per sottrazione di minori, a pagare 30mila euro al suo ex-marito come risarcimento, al pagamento di tutte le spese processuali e all’interdizione per 6 anni dalla potestà genitoriale, per non aver restituito i figli a Francesco Arcuri, l’ex-marito italiano, da lei accusato di maltrattamenti. Difficile un riassunto delle tante puntate precedenti e la storia non manca di colpi di scena. Come accade in molti matrimoni ad un certo punto non tutto fila liscio. Dopo un primo figlio c’è una denuncia a Francesco Arcuri per maltrattamenti, la condanna, una separazione, ma poi i due tornano insieme. Poi nasce un secondo figlio, vivono sull’isola di Carloforte, in Sardegna, dove gestiscono un b&b. Ma Juana Rivas non ce la fa, torna in Spagna con i due figli, con il pretesto di una visita alla sua famiglia, vorrebbe restare lì con loro. Qui denuncia di nuovo Arcuri per maltrattamenti. Si susseguono problemi di competenze giuridiche tra la Spagna e l’Italia, troppi ritardi nelle traduzioni degli atti giudiziari. La giustizia italiana, chissà perché, ancora oggi non si pronuncia su quei maltrattamenti. Intanto l’ex-marito rilancia e sporge denuncia per sottrazione di minori e i figli, dopo un tira e molla legale, tornano in Italia dal padre che continua a negare qualsiasi abuso e sostiene di essere vittima di una campagna mediatica ostile. Ora c’è la sentenza del giudice Manuel Piñar, ma duramente criticata da più parti. È stato facile per lui decidere se ci sono stati maltrattamenti o se Juana Rivas è una donna bugiarda che ha sottratto i figli al padre. Per lui Juana Rivas è una bugiarda e una cattiva madre. La sentenza nega l’esistenza di violenza di genere, ma le denunce non sono state analizzate, forse spetta all’Italia farlo o forse le prove presentate non sono credibili. Ci vorrebbero indagini ulteriori. La giustizia spagnola ha unità di indagine forense specializzate sulla violenza di genere e l’Andalusia, il foro competente, ne vanta una tra le più operative. Ma Juana Rivas e i suoi figli non sono mai stati interrogati. Dire che non c’è violenza senza indagare abbastanza diventa allora un sopruso, un messaggio per tutte. I collettivi femministi spagnoli hanno fatto della vicenda di Juana Rivas una battaglia contro quella giustizia misogina che applica le leggi ignorando l’obbligo di integrare la prospettiva di genere. In questo caso il giudice Piñar ha volutamente ignorato la prima condanna per maltrattamenti e addossa a Rivas la responsabilità di non aver denunciato il marito negli anni vissuti in Italia. Quindi, se non c’è una denuncia, non esistono neanche vessazioni, abusi, minacce, pericoli. Come se fosse facile denunciare, in più con due figli piccoli, quando c’è un clima costante di paura e ricatto, come quello descritto da Juana Rivas. Anche la Amje, l’Associazione delle donne giudici di Spagna, in un comunicato, critica la sentenza e avverte della “persistenza di stereotipi nel lavoro giudiziario”. Le giudici spagnole parlano del “rischio di consacrare un’ingiustizia manifesta”. E aggiungono “dobbiamo smettere di essere eredi di una giustizia patriarcale che la società non tollera e la comunità internazionale condanna”. In Spagna, anche questa volta, sembra una giustizia che condanna una donna per educare tutte le altre. Camerun. Assalto armato a carcere di Ndop, in fuga oltre 160 detenuti Nova, 31 luglio 2018 Oltre 160 detenuti sono fuggiti dalla prigione di Ndop, nella regione anglofona del Nord-ovest del Camerun, in seguito ad un attacco alla struttura da parte di uomini armati sospettati di essere separatisti. Secondo quanto riporta l’emittente televisiva statale “Crtv”, l’attacco è avvenuto la notte scorsa fronti dopo che gli aggressori hanno fatto irruzione nella struttura rompendo forzando i cancelli della prigione prima di dare fuoco all’intero edificio servendosi di combustibile. Le regioni anglofone del Camerun sono da mesi teatro di tensioni tra separatisti e forze governative, riesplose lo scorso ottobre in concomitanza con la festa dell’indipendenza nazionale. Da allora si è registrata un’escalation di rapimenti di funzionari camerunesi e scontri, che hanno spinto oltre 7.500 persone a varcare il confine con la Nigeria. La popolazione locale è da mesi in agitazione, con i movimenti separatisti che denunciano la discriminazione della comunità anglofona da parte del governo centrale. La scorsa settimana le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per le presunte violazioni dei diritti umani nelle due regioni anglofone del Camerun. “L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Raad Al Hussein, ha espresso la sua profonda preoccupazione per le denunce di violazioni dei diritti umani e abusi nelle regioni anglofone del Nordovest e del Sudovest”, nel quadro delle ostilità in corso tra governo centrale e separatisti, si legge in un comunicato. L’Alto commissario si è detto preoccupato anche per le violazioni denunciate nell’ambito della lotta al gruppo jihadista Boko Haram nella regione dell’Estremo Nord. Nelle zone anglofone, denuncia l’Onu, le violenze fondate su una “discriminazione strutturale” sono in crescita dal 2016. I rapporti “parlano di rapimenti, omicidi mirati contro la polizia e le autorità locali, distruzione di scuole da parte di uomini armati” e denunciano anche violazioni da parte delle forze di sicurezza, come “omicidi, uso eccessivo della forza, incendi di abitazioni, detenzioni arbitrarie e tortura”. L’Alto commissario, prosegue il comunicato, “chiede al governo di Yaoundé di lanciare un’inchiesta indipendente sulle violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di sicurezza e dagli elementi armati”. La denuncia delle Nazioni Unite segue la recente pubblicazione di uno studio dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw), che in un rapporto pubblicato il 19 luglio ha denunciato il livello di violenza nel paese e chiede al governo di concedere a osservatori indipendenti e organizzazioni umanitarie accesso alla regione anglofona per monitorare la situazione e fornire assistenza alle migliaia di sfollati interni. Da dicembre 2017, riferisce l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti umanitari (Ocha), le violenze hanno provocato 160 mila sfollati nelle due regioni anglofone del paese. Secondo l’Unhcr tra le 20 mila e le 50 mila persone hanno attraversato il confine con la Nigeria, cercando rifugio negli stati di Benue e Cross River.