Le carceri non sono “discariche sociali”. Per una giustizia rieducativa e riparativa di Francesco Occhetta Vita Pastorale, 30 luglio 2018 “Vogliamo giustizia, è stata fatta giustizia, promettiamo giustizia…”. Quante volte nelle cronache mediatiche ricorrono espressioni di questo genere per delitti, litio per la percezione di aver subìto un’ingiustizia? Ci dividiamo tra giustizialisti (che fondano la loro idea di giustizia sulla vendetta) e permissivisti (che minimizzano l’accaduto), fino a quando la giustizia non ci tocca nella carne. L’universo giustizia ci impone di riflettere. Per farlo basta partire da tre premesse: 1) le sentenze non riducono il conflitto tra le parti; 2) torna a compiere un reato il 69 per cento dei detenuti; 3) le vittime sono le grandi dimenticate dall’Ordinamento. Per il mondo della giustizia penale rimane una domanda antica: in quale modo è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione? Nei 195 istituti penitenziari italiani, a metà del 2018 erano presenti circa 58.000 detenuti (circa 9.700 sono in attesa di giudizio), a fronte di una capienza regolamentare di 50.069. Un detenuto costa circa 200 euro al giorno, ma lo Stato spende solo 95 centesimi per la rieducazione. Insomma, la crisi della giustizia penale dipende dal modello di riabilitazione. Circa 29.000 detenuti scontano la pena non in carcere, 12.400 sono in affidamento ai servizi sociali. L’alternativa al carcere funziona. Non certo per i detenuti di grandi reati, che sono circa 10.000, ma per i rimanenti 48.000, molti dei quali espiano pene di lieve entità. Ma c’è di più: al modello vigente di “giustizia retributiva”, basato sui principi della certezza della pena e della proporzionalità del danno, si sta affiancando quello della giustizia riparativa, un “prodotto culturale” che pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo. Centrale per questo modello è l’incontro della vittima con il reo, che è 1chiamato a ripristinare l’oggetto o la relazione che ha rotto. Servono mediatori penali e civili e una società che non consideri le carceri come delle discariche sociali, per utilizzare l’immagine di Bauman. Si tratta di un modello adulto che non fa sconti sulla pena, ma umanizza la sua espiazione, chiede di riconoscere la verità, condanna il male, restituendo dignità a chi ha sbagliato e un senso al dolore delle vittime. In molte parti del mondo il modello funziona, in Italia è applicato nel diritto penale minorile e vissuto in tante singole esperienze, come quella di Agnese Moro, Lina Evangelisti, Bruno Vallefuoco e altre vittime che hanno avuto la forza di cambiare la vita ai loro rei. Occorre non politicizzare il tema, le parole infuocate che creano paura premiano elettoralmente, ma sono come gocce che spaccano la roccia su cui si fonda la società. Quando gli Usa, negli anni Novanta, buttarono via le chiavi dei loro istituti di pena e presero a costruirne nuovi altri, i detenuti aumentarono di 5 volte e arrivarono a due milioni. Parlando di populismo penale, il Papa chiede alla cultura della giustizia di “non cercare capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, [altrimenti c’è] la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici”. Questo modo di fare, ha aggiunto, “permise l’espansione delle idee razziste”. Siamo davanti a una scelta: rendere fertile il terreno culturale. Quando si macchia di sangue il terreno su cui viviamo è responsabilità di tutti bonificarlo, altrimenti non cresce frutto per nessuno. La scuola, le famiglie, le associazioni, le comunità ecclesiali, insomma la società civile, devono credere e aprire pratiche condivise di giustizia riparativa. Dal seme buono riconosceremo i frutti. Suicidi in carcere: le morti silenziose di cui nessuno parla di Carmelo Sardo malgradotuttoweb.it, 30 luglio 2018 Ci sono morti silenziose, di cui nessuno parla. Non fanno “cassetta”, come si dice. Scivolano nell’indifferenza e vengono seppellite nell’oblio. Quello stesso oblio in cui gli uomini che sono stati, annaspavano nelle loro vite inutili, prima che decidessero di farle sfumare per sempre. Sono le morti nelle nostre carceri. I suicidi dei detenuti, che non leggerete in nessun giornale, non ascolterete in nessun tg. A meno che il detenuto non fosse “famoso”. Sono giovani e sono anziani, senza nomi né storie roboanti; sepolti da ergastoli, o con qualche decina d’anni da scontare, che la prigione sfianca e logora. L’ultimo a decidere di “andarsene” per sempre è stato ieri un detenuto di Torre del Greco, condannato per droga: avrebbe finito di scontare la pena nel 2024: non ha saputo aspettare. Si è impiccato nel carcere di Poggioreale dov’era recluso. E se non fosse per il sindacato Sappe, non lo avremmo saputo. Dall’inizio dell’anno sono già 24 i detenuti che si sono uccisi in cella e addirittura 585 quelli che sono stati salvati in tempo dai poliziotti penitenziari. La necessità di una riforma che metta i detenuti nelle condizioni di scontare meno obbrobriosamente la loro condanna è impellente; anche per garantire carceri più adeguati e maggiore sicurezza, nel tentativo di arginare questa strage silente di cui oggi non leggerete una riga da nessuna parte. “Meno custodia cautelare”. Da Cirielli un Progetto di Legge per criteri più rigidi Adnkronos, 30 luglio 2018 Giro di vite sulla custodia cautelare in carcere, per rendere più rigidi i criteri necessari per applicare tale misura. A chiederlo è il deputato di Fratelli d’Italia Edmondo Cirielli, con una proposta di legge sottoscritta anche dal capogruppo, Francesco Lollobrigida, e da altri colleghi dello stesso partito. In particolare il testo prevede di integrare e far diventare più severi i tre presupposti in base ai quali attualmente un soggetto può essere preventivamente privato della libertà personale: pericolo di inquinamento delle prove, pericolo di fuga e pericolo di reiterazione del reato. “La legge -spiega Cirielli- non si riferisce all’eventualità in astratto che questi comportamenti vengano messi in atto, ma a un rischio concreto e dimostrabile”. “Purtroppo, nella realtà, tali criteri orientativi sono liquidati con leggerezza dalla magistratura o dallo stesso legislatore che per prassi, la prima, o per scelte di ordine pubblico, il secondo, omettono di valutarli adeguatamente”. “Il risultato - lamenta ancora l’esponente di Fdi - è che la maggior parte dei detenuti presenti nelle nostre carceri vi è perché sottoposta a custodia cautelare, quindi in attesa della sentenza definitiva. Il tema della custodia cautelare è, pertanto, tristemente ed inevitabilmente collegato con il problema del sovraffollamento dei nostri istituti di pena”. Così “a causa della superficialità nella valutazione dei presupposti, troppo spesso la magistratura cade in una sorta di automatismo nell’applicazione della custodia cautelare, tralasciando di riflettere adeguatamente sulla possibilità di applicare, nei casi specifici, altre misure restrittive meno lesive della libertà personale”. Per Cirielli occorre quindi evitare “l’abuso della custodia cautelare” ed “eliminare gli automatismi punitivi o, al contrario, prevederli quando la persona viene colta in flagranza di reato”. Di qui la proposta di rendere più stringenti i requisiti che giustificano la custodia cautelare. In particolare, il presupposto del pericolo di inquinamento delle prove dovrebbe essere “sottratto alla valutazione discrezionale del magistrato”, che dovrebbe “accertare la condotta concretamente tenuta dall’indagato o imputato”, basandosi “non solo sulle circostanze di fatto, ma anche su condotte concrete della persona indagata o imputata”. Quanto invece al secondo criterio che giustifica la custodia cautelare, Cirielli chiede che venga eliminato il “generico e opinabile ‘pericolo di fugà”, ma che si debba verificare “che l’imputato non solo si sia dato alla fuga, ma abbia tentato o tenti di darsi alla fuga”. “Da quando è entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale del 1989, le carceri italiane - lamenta ancora Cirielli - sono colme di persone ingiustamente detenute, e su questo dato incidono non solo i molti stranieri presenti nelle nostre carceri, ma i moltissimi, troppi cittadini in attesa di giudizio: quattro detenuti su dieci, nelle 206 carceri italiane, sono in cella per un ordine di custodia cautelare, quello che prima della riforma del 1989 si chiamava più onestamente Ordine di carcerazione preventiva”. Occorre quindi “impedire l’uso distorto della custodia cautelare”, mentre al contrario si “preferisce usare una maggiore clemenza nei confronti di chi è colpevole, piuttosto che aumentare le garanzie per gli innocenti. Nelle prigioni italiane sono ristretti quasi 30.000 persone presunte innocenti, e di loro, statisticamente, circa un terzo si rivelerà innocente oltre ogni ragionevole dubbio dopo i tre gradi di giudizio e verrà liberato, dopo mesi o anni di carcere, con le scuse del nostro sistema giudiziario e un indennizzo proporzionato alla durata dell’ingiusta carcerazione. Per rimborsare il danno provocato da queste ingiuste detenzioni, lo Stato italiano ha già dovuto corrispondere quasi 600 milioni di euro”. “Sebbene il nostro Paese registri un tasso di criminalità inferiore a quello delle grandi nazioni europee, il tasso di detenuti in custodia cautelare - cita ancora Cirielli - è decisamente più alto della media: con il nostro 42 per cento siamo secondi solo alla Turchia (60 per cento), e ben al di sopra della Francia (23,5 per cento), della Spagna (20,8 per cento), del Regno Unito (16,7 per cento), e della Germania (16,2 per cento)”. Infine, per quanto riguarda la pericolosità sociale, “si richiede l’ulteriore requisito dell’esistenza di elementi di prova, che, unitamente al concreto e attuale pericolo, possano portare il magistrato a ritenere con sufficiente certezza” che il soggetto destinatario della misura “commetterà i gravi delitti” che la rendono applicabile. “Decreto Sicurezza”, gli slogan sconfitti dalla realtà di Carlo Bonini e Fabio Tonacci La Repubblica, 30 luglio 2018 Come un consumato Fregoli, il ministro dell’Interno Matteo Salvini da due mesi ripropone un identico canovaccio. Spararne ogni giorno una, possibilmente più grossa di quella precedente. Per ingrassare la paura. La legge slitta a settembre. La riduzione della protezione umanitaria si scontra con le regole Ue, lo stop alle richieste d’asilo con la Costituzione Come un consumato Fregoli, il ministro dell’Interno Matteo Salvini da due mesi ripropone un identico canovaccio. Spararne ogni giorno una, possibilmente più grossa di quella precedente. Per ingrassare la paura, carburante del suo consenso, ma, soprattutto, per testare il grado di resistenza del sistema di garanzie costituzionali, la tenuta delle burocrazie della sicurezza, l’umore del Paese. Oggi i migranti, domani la legittima difesa, dopodomani i rom, un giorno che verrà il poliziotto o il carabiniere che dovessero abusare di un inerme. E tuttavia il gioco comincia a farsi complicato. Il “decreto Sicurezza”, la pietra angolare delle nuove politiche d’ordine del governo Conte a trazione leghista, darà infatti la misura della forbice tra propaganda e governo. Riscriverà l’istituto della protezione umanitaria, prolungherà i termini di detenzione nei Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr), introdurrà nuovi presupposti per l’espulsione immediata e la decadenza dal diritto di asilo già riconosciuto, fisserà nuove cause ostative alle richieste di protezione internazionale. Un passaggio, appunto, complesso. Dimostrazione ne siano la fatica del parto (il provvedimento doveva essere un disegno di legge e arrivare prima della pausa estiva dei lavori parlamentari, e invece, verosimilmente, arriverà in settembre, forse come decreto legge) e la natura omnibus delle nuove nonne, dal momento che riguarderanno anche il regime dei beni confiscati alle mafie, la sicurezza urbana, gli enti locali e la prevenzione antiterrorismo. I due Matteo Salvini Soprattutto, a ben vedere, il decreto è lo specchio di due Matteo Salvini. Quello in maniche di camicia che, feroce, eccita folle virtuali su Twitter e folle sudate in piazza, o che festeggia, nel suo lounge, la riapertura dell’Old Fashion, discoteca storicamente frequentata dalla destra milanese (era stata chiusa perché teatro dell’aggressione a colpi di lama al figlio di Simona Ventura e Stefano Bettarini). E il compassato neofita di governo, che - raccontano - se ne sta seduto alla scrivania che fu di Giolitti, ascolta con attenzione da scolaretto i tecnici del Viminale e non tocca palla nei vertici internazionali, dove finge di aver capito l’opposto di quel che è davvero accaduto (ultimo esempio, il vertice dei ministri dell’Interno a Innsbruck). Lo stesso che ha scelto di entrare al ministero con un seguito non di scalmanati: un capo di gabinetto competente e incline alla mediazione, il prefetto ed ex vicecapo della Polizia Matteo Piantedosi; l’esperto social media manager Luca Morisi; il capo della segreteria Andrea raganella; l’ex giornalista di Libero Matteo Pandini alla comunicazione; una pattuglia di quattro sottosegretari politicamente mansueti. Dal primo giugno, giorno del suo insediamento, il Salvini di propaganda e di governo ha imparato un po’ di cose. Non è possibile procedere a rimpatri forzati di massa dei migranti. I suoi alleati europei, il blocco nazional-populista di Visegrad, non sono disposti a prendere uno solo dei profughi che sbarcano sulle nostre coste. Per il ministro dell’Interno tedesco, il falco Horst Seehofer, la priorità è ricollocare in Italia i migranti che qui sono arrivati e sono stati registrati. La legge e le convenzioni internazionali del mare hanno un limite invalicabile che è la responsabilità di non consegnare alla morte i naufraghi. Le navi militari della missione europea Sophia non rispondono al ministro dell’Interno italiano. La magistratura non prende ordini dal Viminale (vedi caso Diciotti). Le commissioni amministrative che decidono sulle domande di asilo non sono una cinghia di trasmissione delle sue direttive ministeriali. La Libia non è ancora, e a lungo non lo sarà, un paese classificabile come “place of safety”, dove riportare chi vi fugge. La “strategia della tensione” Non potendo, dunque, raccontare al proprio elettorato di aver messo insieme in campagna elettorale una montagna di frottole a cui non potrà tener fede - una su tutte, “cacceremo mezzo milione di immigrati” (gennaio 2018) - e non potendo “spezzare le reni all’Europa”, Salvini è stato costretto a scegliere un’altra strategia. Da una parte, far credere agli italiani di essere in piena emergenza sbarchi, nonostante i numeri dicano il contrario (da quando è al Viminale, 4.677 arrivi, P86 per cento in meno dello stesso periodo di un anno fa), facendogli contestualmente dimenticare i 1.500 morti annegati nel Mediterraneo nei primi sette mesi del 2018. Dall’altra, aggiustandosi negli angusti spazi concessi dalle leggi nazionali e internazionali, introdurre col decreto Sicurezza “norme manifesto” che, nelle intenzioni, dovrebbero consentirgli di lucrare al mercato della propaganda qualche altro punto percentuale di consenso, millantando di aver finalmente messo mano al “lassismo” sui migranti. Le “norme manifesto” Nel dettaglio. Nel famigerato decreto, se le cose non cambieranno, verranno radicalmente modificati i presupposti che consentono il riconoscimento del permesso di soggiorno per “seri motivi” umanitari. Al momento, cosa debba intendersi con questo termine, è lasciato alla discrezionalità delle commissioni territoriali e, eventualmente, ai giudici investiti dai ricorsi. Le nuove norme, al contrario, tipizzeranno in senso restrittivo i “seri motivi” (le gravi condizioni di salute saranno uno di questi), e moduleranno i permessi di soggiorno in diverse fasce temporali (oggi sono tutti di durata biennale, rinnovabile). È un modo per grippare un principio umanitario (riconosciuto in 24 Stati d’Europa, come ha incordato al ministro il deputato radicale Riccardo Magi) di cui Salvini non sa che farsene, ma che non può cancellare unilateralmente. L’effetto collaterale sarà gonfiare a dismisura il contenzioso legale, già oggi oltre il limite di guardia, di chi il permesso non lo ottiene. Una “norma manifesto”, appunto. Molto simile, se non identica, a quella che ha annunciato su Twitter: “Bloccare la domanda di asilo agli stranieri che commettono reati”. In questo caso, e Salvini lo sa, la trovata sbatte contro la Costituzione italiana (vige il principio di innocenza fino al terzo grado di giudizio e la pena viene scontata nel paese in cui il reato è stato commesso) e contro le direttive europee che premiano il riconoscimento del diritto di asilo rispetto ad altri diritti, che non per questo vengono cancellati, ma che non possono diventare ostativi al primo. Contrordine: il piano Minniti è ok - C’è dell’altro. Sarà portato da 90 a 180 giorni il termine massimo di permanenza nei Cpr degli immigrati destinati al rimpatrio. Il motivo: ottenere più tempo, necessario ai Paesi di provenienza per riconoscere il proprio cittadino e concedere il nullaosta al suo rientro. Peccato - e anche questo Salvini lo sa - che i Cpr siano solo 6 (Brindisi, Torino, Roma, Bari, Palazzo San Gervasio e Caltanissetta) per una capienza di 880 posti già raggiunta da mesi. Detto altrimenti, ad oggi, non c’è modo di ospitarne di più. E, quindi, il prolungamento del termine di detenzione non farà altro che ridurre ulteriormente una ricettività già al collasso. Dice dunque il ministro: “Di Cpr ne aprirò altri quattro entro l’anno, per un totale di altri 400 posti. A Modena, Macomer, Gradisca di Isonzo e Milano”. Ammesso che ci riesca, non basteranno. E, il Salvini di propaganda non può fare l’unica cosa che dovrebbe fare quello di governo. Spiegare agli amministratori e ai cittadini dei comuni in cui la Lega fa da asso pigliatutto che c’è un contrordine: il no opposto fino a ieri al piano dell’ex ministro dell’Interno Minniti (i Cpr sono stati voluti da lui, e li prevedeva in ogni Regione) ora deve diventare un sì per tutti. I Governatori alfieri del leghismo (Zaia in Veneto, Fedriga in Friuli) si sono già allineati, contrabbandando davanti al proprio elettorato l’apertura dei Cpr con la promessa della chiusura di alcuni centri di accoglienza. È evidente come Salvini capovolga la prospettiva del governo dei flussi migratori. Anziché lavorare a monte, con i paesi di origine e con l’Europa per contenere i numeri di un fenomeno epocale, freneticamente traffica a valle per rendere impossibile la vita a chi, sulle nostre coste, comunque è già sbarcato o continuerà a sbarcare. Il ministro dell’Interno ha chiesto infatti che nel decreto si preveda la cancellazione del diritto di asilo per chi, avendolo acquisito, dovesse tornare nei paesi di origine per un periodo troppo lungo (li chiama, con tono sprezzante, “profughi vacanzieri”). O che, qualunque sia la gravità del reato commesso in Italia, questo automaticamente comporti la decadenza della protezione internazionale già ottenuta. O che, dopo sei mesi di permanenza in una struttura di accoglienza per rifugiati, non vi sia più l’iscrizione alle liste anagrafiche dei comuni e il conseguente rilascio di carta d’identità. Il rischio di dare un alibi all’odio di Antonio Polito Corriere della Sera, 30 luglio 2018 La favola di “italiani brava gente” non regge: non c’è un vaccino che ci metta al riparo dai problemi di razzismo che ancora affrontano Paesi di più antica immigrazione. Il pericolo del razzismo in Italia esiste, e non è una “invenzione della sinistra”, come dice il ministro Salvini. Se lo fosse, viste le condizioni attuali della sinistra, sarebbe facilmente scongiurato. E invece anche nel nostro Paese c’è il rischio concreto che i “nativi” sviluppino sentimenti di discriminazione o addirittura di odio nei confronti di chi è arrivato dopo. La favola di “italiani brava gente” non regge: non c’è un vaccino che ci metta al riparo dai problemi che ancora affrontano Paesi di più antica immigrazione, come la Germania, la Francia e la Gran Bretagna. Salvini invita a considerare le frequenti aggressioni agli immigrati come un reato e basta. Ma quando un gruppo di ragazzi ne pesta un altro al grido di “sporco negro”, come è successo a Partinico, è la stessa norma penale a prevedere l’aggravante dell’”odio razziale”. Non è un reato e basta. Perché dovremmo chiudere gli occhi? A chi gioverebbe non vedere il clima di violenza in cui nascono episodi come l’inseguimento di Aprilia, finito con la morte di un marocchino sospettato di essere un ladro? Se il ministro dell’Interno vuole solo rassicurarci sul fatto che non c’è un’emergenza sul piano dell’ordine pubblico, fa il suo mestiere. Ma sbaglierebbe a sottovalutare il rischio emulativo. E soprattutto non può far finta di non capire che oggi spetta proprio a lui tenere alta la guardia contro il rischio che qualcuno fraintenda la sua campagna come una legittimazione al “fai-da-te”, una specie di “legittima difesa” preventiva contro tutti gli immigrati. Proprio perché il leader leghista è impegnato in un’azione severa e per molti versi giusta per controllare i fenomeni migratori, deve saperla accompagnare con una pedagogia di rispetto e accoglienza verso chi non è nato nel nostro Paese ma ha diritto a viverci. Per un ministro dell’Interno non può valere il detto mussoliniano, ieri fatto suo da Salvini, “tanti nemici, tanto onore”. La coesione nazionale e il senso di comunità contano di più: se la sua azione diventasse un alibi per l’odio, a pagarne il prezzo sarebbero innanzitutto legge e ordine. Salvini: “Il razzismo? Unico allarme sono i reati degli immigrati” La Repubblica, 30 luglio 2018 Il vicepremier, in un’intervista al Sunday Times, accusa la sinistra di voler favorire l’immigrazione con la scusa della bassa natalità. E suggerisce alla premier britannica di tenere un atteggiamento più inflessibile nei confronti dell’Unione europea. Poi sui social scrive “tanti nemici tanti onore”. E scoppia il caso. Parlare di razzismo in Italia, per Matteo Salvini, è una follia. Non c’è nessun allarme, secondo il ministro dell’Interno. Nelle ore di due nuove aggressioni a migranti - una a Partinico e l’altra a Latina, finita con la morte di un cittadino marocchino - Salvini prima definisce il razzismo una invenzione della sinistra. Poi aggiunge che il problema in realtà è un altro. “Ricordo che i reati commessi ogni giorno in Italia da immigrati sono circa 700, quasi un terzo del totale, e questo è l’unico vero allarme reale contro cui da ministro sto combattendo”, dice il leader leghista. E aggiunge: “Aggredire e picchiare è un reato, a prescindere dal colore della pelle di chi lo compie, e come tale va punito. Ma accusare di razzismo tutti gli italiani ed il governo in seguito ad alcuni limitati episodi è una follia”. Dall’opposizione fioccano le repliche. Il presidente Pd, Matteo Orfini: “Il ministro dell’interno, commentando l’aumento di violenze razziste, dichiara che l’emergenza razzista non esiste ed è un’invenzione della sinistra. Confermando così che un’emergenza razzista c’è. E che il ministro dell’interno ne è la causa”. Ma c’è un’altra frase, pronunciata da Salvini nelle ultime ore, che fa discutere. “Tanti nemici, tanto onore!”, scrive postando un articolo che riporta gli attacchi nei suoi confronti da parte di intellettuali, sinistra, cattolici, riviste. L’espressione “tanti nemici tanto onore” appartiene storicamente alla retorica propagandistica di Benito Mussolini, ricorda in una nota il capogruppo alla Camera di Liberi e uguali, Federico Fornaro. Mentre Nicola Fratoianni definisce Salvini “razzista e nostalgico del Duce”. E per il Pd interviene il governatore del Lazio e candidato alla segreteria, Nicola Zingaretti: “Mussolini ha distrutto e umiliato l’Italia con un drammatico prezzo di sangue. Se questo è l’obiettivo di Salvini, i suoi nemici sono gli Italiani. Ma forse fa queste boutade per nascondere la verità: il governo, a parte le chiacchiere, è un fallimento”. E Matteo Orfini: “Chi ha giurato sulla Costituzione nata dalla lotta antifascista non si deve permettere di rendere omaggio a Mussolini. Salvini si scusi. O se ne vada a fare il fascistello lontano dal ministero”. Così il falso profilo è reato: punita la “vanità” in rete di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2018 Cassazione 34800/2016. La “vanità” nella rete non perdona e può costare caro. Fingere di essere un’altra persona, spacciarsi per single quando si è invece sposati, usare come fotografia del proprio profilo sui social network quella di un’altra persona, magari nota. Sono alcuni esempi delle nuove falsificazioni digitali che negli ultimi anni sono finite sotto la lente dei giudici, dando vita a una giurisprudenza fatta di fake, finti status e identità inesistenti. L’obiettivo degli autori è quello di avere più visibilità, ingannare gli utenti o estorcere denaro. Il reato presupposto è sempre lo stesso: la sostituzione di persona, punita con la reclusione fino a un anno e procedibile d’ufficio. Eppure, gli autori sembrano non temere le conseguenze delle attività ingannatorie online, soprattutto se si muovono con un nickname o usano falsi account. Tutti accorgimenti che, da soli, non scongiurano l’eventualità di un processo penale. L’attribuirsi uno status fittizio - Per la Corte di cassazione è reato anche spacciarsi per single quando si è sposati. Lo ha stabilito con la pronuncia 34800 del 15 giugno 2016, che mette in guardia gli utenti dall’uso di falsi status sui social network. Così come integra il reato anche soltanto utilizzare come foto del proprio profilo Facebook l’immagine di un’altra persona, come ha stabilito la Suprema Corte con la sentenza 4413 del 10 ottobre 2017. Si tratta di un reato contro la fede pubblica: a essere tutelata è la fiducia che gli altri utenti della rete devono poter riporre nelle identità altrui. A pesare sono non soltanto le falsificazioni delle identità ma anche le false attribuzioni di qualità alle quali la legge attribuisce effetti giuridici, come lo stato civile o l’età. Già da tempo, poi, i giudici avevano sottolineato che la finalità non deve essere necessariamente economica: il vantaggio descritto dalla norma può essere dato anche semplicemente dalla visibilità, nuovo patrimonio degli utenti della rete. Per la legge, il profilo digitale costituisce oggi una proiezione di diritti della personalità nella comunità virtuale. Il nickname altrui - Non salva nemmeno usare un nickname o un fake di un personaggio famoso. Ad avviso dei giudici, anche gli pseudonimi utilizzati in rete hanno una dimensione concreta, in grado da sola di produrre effetti reali nella sfera giuridica altrui. Per questo, quando non ci sono dubbi sulla riconducibilità del nickname a una persona fisica, questo ha natura di “contrassegno identificativo” e può condurre a una responsabilità penale. La falsa identità per truffe - Più spesso le falsificazioni delle identità passano attraverso la commissione di altri reati, come la truffa. È il caso di chi crea falsi account per accedere al car sharing (e poi si tradisce usando un’utenza realmente nella sua disponibilità) oppure per godere di un buon rating online per ottenere un credito da privati, il cosiddetto peer landing. È pacifica ormai la giurisprudenza delle sostituzioni di persona che si aggiungono alle estorsioni. L’autore si finge un’altra persona per attirare a sé virtualmente un possibile partner al quale chiede fotografie o video erotici per poi ricattarlo se si rifiuta di pagare una certa somma di denaro. La tecnologia ha poi modificato le possibili modalità esecutive del reato, ad esempio in tutti i casi in cui l’autenticazione dell’interessato avvenga attraverso tecniche biometriche o di identificazione facciale. L’identità digitale è ormai espressamente tutelata dalla legge 119/2003, che ha inserito nell’articolo 640-ter del Codice penale l’aggravante per l’ipotesi in cui il fatto sia commesso “con furto o indebito utilizzo dell’identità digitale”. Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy (2016/679) ha, tra gli obiettivi, anche quello di rendere meno attaccabili i database e, di conseguenza, ridurre la possibilità di sostituzioni di persona e accessi abusivi in generale. Importante motivare e spiegare le modalità del singolo contributo concorsuale di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2018 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 1 giugno 2018 n. 24742. In tema di concorso di persone nel reato, la circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso) non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’articolo 110 del codice penale, con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà. Lo hanno detto i giudici penali della Cassazione con la sentenza n. 24742del 1 giugno 2018. L’orientamento riprende quello delle sezioni Unite, 30 ottobre 2003, Andreotti, quando la Corte, definendo “pigro” e fondato su una errata interpretazione dei criteri normativi applicabili in tema di concorso di persone il ragionamento della Corte di appello, ha annullato con rinvio la sentenza che aveva ravvisata la responsabilità concorsuale degli imputati ricorrenti rispetto a quantitativi di sostanza stupefacente, rinvenuti nella disponibilità di altri coimputati, e ciò lo aveva fatto senza spiegare convincentemente le ragioni del ravvisato coinvolgimento concorsuale. L’affermazione della Corte, che richiama l’importanza di spiegare le modalità del singolo contributo concorsuale, è di particolare rilievo ove si consideri la difficoltà probatoria che, di volta in volta, può esistere nei casi in cui deve dimostrarsi se si verte in ipotesi di mera connivenza non punibile ovvero se la presenza accertata sul luogo del reato può assurgere o no a vero e proprio contributo concorsuale. Sotto il primo profilo, come è noto, vi è la connivenza non punibile ove l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, mentre si ha concorso nel reato, penalmente rilevante, ogni qualvolta l’agente partecipa in qualsiasi modo alla realizzazione dell’illecito e, quindi, anche quando con la propria presenza agevola o rafforza il proposito criminoso altrui (tra le tante, sezione V, 24 giugno 2008, Venuto). Sotto l’altro profilo, è affermazione costante quella secondo cui la sola presenza fisica di un soggetto allo svolgimento dei fatti non assume univoca rilevanza, allorquando si mantenga in termini di mera passività o connivenza, risolvendosi, invece, in forma di cooperazione delit­tuosa allorquando la medesima si attui in modo da realizzare un rafforzamento del proposito dell’autore materiale del reato e da agevolare la sua opera, sempre che il concorrente morale si sia rappresentato l’evento del reato ed abbia partecipato ad esso esprimendo una volontà criminosa uguale a quella dell’autore materia­le (tra le altre, sezione V, 5 ottobre 2007, Congiu e altro). Più in generale, in tema di concorso di persone, la giurisprudenza è univoca nel ritenere che l’attività costitutiva del concorso può essere rappresentata da qualsiasi comportamento esteriore che fornisca un apprezzabile contributo - in tutte o alcune delle fasi di ideazione, organizzazione ed esecuzione - alla realizzazione collettiva, anche soltanto mediante il rafforzamento dell’altrui proposito criminoso o l’agevolazione dell’opera dei concorrenti. Da ciò consegue che, mentre rimane estranea alla figura del concorso l’attività diretta a favorire gli autori del reato posta in essere dopo che questo fu commesso, la preventiva promessa o prospettazione di tale aiuto, che abbia rafforzato l’altrui proposito criminoso, integra già a pieno titolo una condotta rilevante ai sensi dell’articolo 110 del codice penale, cosicché il concorrente che abbia svolto il compito assegnatogli risponde non solo del reato o dei reati alla cui commissione abbia materialmente partecipato, ma anche di quelli eseguiti dai complici nell’ambito dell’unitario programma criminoso nel quale le singole condotte dei concorrenti risultino, con giudizio di prognosi postuma, integrate in funzione del medesimo obiettivo perseguito in diversa misura dai correi (cfr., di recente, Sezione I, 27 aprile 2017, Proc. gen. App. Torino e altri in proc. Spagnolo e altri). È poi altresì pacifico che la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, essendo sufficiente che la coscienza del contributo fornito all’altrui condotta esista unilateralmente, con la conseguenza che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo concerto o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all’opera di un altro che rimane ignaro; mentre il contributo acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato (sezione II, 15 febbraio 2107, Squillante). Inoppugnabilità dei provvedimenti aventi natura ordinatoria. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2018 Impugnazioni penali - Provvedimenti impugnabili - Provvedimento di natura interlocutoria - Controversia su proprietà beni sequestrati - Inoppugnabilità. In tema di inoppugnabilità del provvedimento con il quale il giudice penale rimette le parti innanzi al giudice civile per la risoluzione della controversia sulla proprietà delle cose poste sotto sequestro, in assenza di una previsione espressa di legge e dunque al di fuori dell’ambito delineato dall’articolo 568, comma 1, c.p.p., per stabilire se i controlli impugnatori siano oggetto di tacita previsione, occorre fare riferimento alla natura dell’atto e alla sua capacità di incidere sui diritti, e, in generale, sulle posizioni soggettive delle parti. Gli atti meramente ordinatori, che non provvedono sulle pretese delle parti e che si limitano a collocare secondo un diverso ordine processuale il momento di valutazione e quindi di decisione delle richieste, non sono impugnabili. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 9 luglio 2018 n. 31088. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Sequestri - Restituzione - Procedimento - Controversia sulla proprietà delle cose sequestrate - Provvedimento di rimessione al giudice civile - Impugnabilità - Esclusione - Fattispecie. È inoppugnabile il provvedimento con cui il giudice penale (nella specie il Tribunale del Riesame), investito della richiesta di restituzione di beni sequestrati, rimette le parti dinanzi al giudice civile per la risoluzione della questione sulla proprietà, in quanto esso non ha contenuto decisorio, né formale, né sostanziale, ma ha natura interlocutoria e non pregiudica i diritti delle parti che possono essere fatti valere nel giudizio civile. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 13 agosto 2014 n. 35665. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Sequestri - Restituzione - Procedimento - Controversia sulla proprietà delle cose sequestrate - Provvedimento di rimessione al giudice civile - Impugnabilità - Esclusione. Il provvedimento con il quale il giudice penale, investito della richiesta di restituzione di beni sequestrati, rimette le parti davanti al giudice civile per la risoluzione della questione sulla proprietà, non ha contenuto decisorio, né formale né sostanziale, ma ha natura interlocutoria e, non pregiudicando l’interesse delle parti che potranno far valere le loro ragioni davanti a giudice civile, è inoppugnabile. Per identità di ratio, deve ritenersi inoppugnabile il provvedimento con il quale il predetto provvedimento di rimessione sia stato emesso in sede riesame, in primis per il principio di tassatività delle impugnazioni - non essendone espressamente prevista l’impugnabilità, e comunque per il suo carattere meramente interlocutorio, che lo rende non assimilabile al provvedimento che abbia deciso in ordine ad una richiesta di riesame. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 18 giugno 2010 n. 23662. Esecuzione - Impugnazioni - Provvedimenti giurisdizionali - Aventi contenuto ordinatorio e non decisorio - Impugnabilità - Esclusione. Poiché le conseguenze pregiudizievoli del provvedimento giurisdizionale, la necessità della cui eliminazione integra il requisito indefettibile dell’impugnazione costituito dall’interesse ad impugnare, possono scaturire solo dai provvedimenti che abbiano un contenuto decisorio - e cioè che incidano sui diritti di libertà o patrimoniali, ovvero sulla pretesa punitiva della Stato - esulano dall’ambito dell’impugnazione tutti quei provvedimenti che in vario modo non presentano sul piano formale e sostanziale tale contenuto, ma assumono una veste meramente interlocutoria o rinviano ad altro momento processuale o ad altra sede la decisione sul “petitum”, sì da non determinare di per sé soli alcun effetto sulle posizioni soggettive delle parti. (Nella specie la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la decisione del giudice dell’esecuzione il quale, investito della richiesta di restituzione di beni sequestrati, rilevata la possibilità di una controversia sulla loro proprietà, aveva rimesso le parti dinanzi al giudice civile ai sensi dell’articolo 676, comma secondo, cod. proc. pen.). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 13 ottobre 1995 n. 3724. Napoli: detenuto suicida a Poggioreale; giallo sulla morte, c’è l’inchiesta di Ciro Formisano Metropolis, 30 luglio 2018 Il 34enne Michele Chierchia ritrovato cadavere in carcere. Era stato condannato a 6 anni di reclusione nel processo ai pusher torresi. È stato trovato morto in carcere, a Poggioreale, nella sua cella del padiglione Avellino, sabato mattina. Dalle prime indagini pare che si tratti di un suicidio. Una tesi ribadita anche dal Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria che ieri ha diramato un comunicato ufficiale sulla vicenda. La tragedia sarebbe avvenuta, sempre secondo la ricostruzione degli agenti, durante l’ora d’aria all’interno della struttura penitenziaria nel braccio di alta sicurezza. Approfittando dell’assenza dei compagni di cella - usciti nel cortile - Chierchia si sarebbe tolto la vita. Il suo corpo è stato ritrovato diverso tempo dopo il decesso. La Procura della Repubblica di Napoli ha avviato subito un’inchiesta per far luce sulla vicenda. Nelle prossime ore potrebbe essere disposta l’autopsia e verranno ascoltati anche alcuni detenuti. Pochi giorni fa un altro detenuto si è suicidato, sempre all’interno del penitenziario napoletano. Si trattava di un pregiudicato originario dell’area nolana. Il personaggio - Chierchia stava scontando una condanna non definitiva a 6 anni di reclusione per spaccio di droga. Il 34enne, nel gennaio del 2015, fu uno degli indagati coinvolti nel maxi-blitz “Free Tower”, la mega-inchiesta che ha decapitato il sistema spaccio tra Torre del Greco e Torre Annunziata. In tutto 54 arresti. In primo grado Chierchia è stato condannato a 7 anni di reclusione. Pena poi ridotta, il 28 novembre del 2017, dalla Corte d’Appello di Napoli. Una sentenza della quale non sono ancora state depositate le motivazioni, come confermato da alcuni dei legali del collegio difensivo. Anche se quasi tutti gli imputati hanno già annunciato ricorso in Cassazione. Secondo quanto riferito dal Sappe, Chierchia sarebbe tornato un uomo libero nel 2024. L’allarme - Una vicenda che - aspettando i risvolti delle indagini - riaccende i riflettori sulle condizioni di disagio con cui sono costretti a fare i conti i detenuti nelle carceri italiane. Secondo il Sappe, nel primo semestre del 2018 ci sono stati 5.157 atti di autolesionismo, 46 morti per cause naturali, 24 suicidi e 585 tentativi di suicidio sventati in tempo. Solamente in Campania i suicidi sventati sono stati 48 in sei mesi. “Da tempo - secondo Donato Capece, segretario generale Sappe - la sicurezza interna delle carceri è stata annientata da provvedimenti scellerati”. Nell’ultimo anno, sempre in Campania, sono 5 i suicidi accertati e 77 i tentativi di suicidio evitati dagli uomini della polizia penitenziaria. Il precedente - Una vicenda che comunque riporta alla mente la tragedia del febbraio del 2017. Quando, sempre nel carcere di Poggioreale, venne ritrovato il corpo senza vita di un altro pregiudicato di Torre del Greco. Si chiamava Vincenzo Panariello, 38 anni. Anche in quella circostanza il cadavere dell’uomo venne ritrovato all’interno della sua cella. L’uomo, arrestato perché considerato organico a un’organizzazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga, aveva chiesto, poco prima, il trasferimento in un diverso padiglione del penitenziario napoletano. Latina: ad Aprilia muore immigrato inseguito e pestato perché ritenuto un ladro di Valeria Costantini Corriere della Sera, 30 luglio 2018 La vittima è un marocchino, aveva con sé una borsa con attrezzi da scasso. Due persone denunciate per omicidio preterintenzionale. Indagano i carabinieri. Inseguono un’auto sospetta, la raggiungono e poi picchiano quello che ritengono un potenziale ladro, che alla fine muore. Una notte di violenze ad Aprilia, comune di Latina a pochi chilometri dalla Capitale. Un episodio ancora da chiarire nei dettagli, ma che ha portato alla denuncia per omicidio preterintenzionale di due italiani. Erano di “ronda” intorno alle 2 di sabato, una “passeggiata di legalità” con tanto di bambini al seguito, quando il gruppo di abitanti della residenziale via Guardapasso hanno notato una vettura sospetta aggirarsi per il quartiere, già oggetto di furti. La Renault Megane con a bordo due uomini (che si sono resi conto di non essere passati inosservati), ha improvvisamente accelerato e, sgommando, ha cercato di allontanarsi nella notte. Tre uomini, tutti quarantenni, sono però saliti in auto e hanno iniziato l’inseguimento. Pochi chilometri a forte velocità e la Renault è uscita di strada, schiantandosi sulla via Nettunense. Il conducente si è dato alla fuga nei campi mentre il passeggero, un marocchino di 43 anni, appena sceso è stato raggiunto dagli italiani: non si sa se sia rimasto ferito per l’incidente, ma è certo che è stato raggiunto da un pugno e da più di un calcio, almeno stando alla prima ricostruzione dei carabinieri che indagano sul decesso dello straniero. Il nordafricano ha piccoli precedenti per documenti falsi e nel veicolo è stato ritrovato uno zaino con arnesi da scasso. Uscito dal veicolo ha anche provato a difendersi dagli aggressori. I due, incensurati, sono finiti nei guai soprattutto per i filmati di alcune telecamere di videosorveglianza dei negozi della zona e il racconto di diversi testimoni presenti: uno degli indagati era rimasto sul luogo del fatto, l’altro era fuggito ma si è presentato nella caserma dell’Arma dopo aver saputo che lo stavano cercando. La sua testimonianza potrebbe essere fondamentale per ricostruire i movimenti nella prima fase della vicenda, quando l’auto si aggirava nella strada in cui poi l’hanno “intercettata” i residenti. Gli investigatori hanno anche sentito gli aggressori su quello che era avvenuto. Uno di loro ha detto di essersi limitato a difendersi quando “ha visto il marocchino infilare le mani nel marsupio” e, temendo che avesse un’arma, ha reagito, colpendolo. Il terzo italiano salito in macchina non è stato denunciato perché contro di lui non ci sarebbe alcun sospetto: secondo i carabinieri non ha partecipato al presunto pestaggio e, da quanto ricostruito, non conosceva i due denunciati. Inoltre, è stato lui a chiamare il 112 per dare l’allarme sull’inseguimento. Sarà comunque l’autopsia che verrà eseguita nelle prossime ore a chiarire le cause del decesso del marocchino. Se siano stati insomma i colpi sferrati dagli italiani a causarne il decesso oppure se le eventuali ferite riportate nell’incidente abbiano avuto un ruolo decisivo per la sua morte. L’unico elemento che finora sembra emergere con chiarezza è che dietro alla vicenda non ci sia alcun motivo razziale. È stato invece questo il motivo scatenante per l’aggressione di venerdì scorso al diciannovenne senegalese di Partinico, in provincia di Palermo. La vittima ha riconosciuto il suo picchiatore in fotografia: è un operaio di 34 anni ad aver insultato (“Sporco negro”) e picchiato il giovane Dieng Khalifa. L’uomo è stato denunciato per lesioni personali aggravate dall’odio razziale. La tensione è alta in Sicilia anche dopo un altro episodio avvenuto alla stazione dei pullman di Catania: un autista della Etna Trasporti avrebbe chiuso le porte in faccia a cinque donne di colore con biglietto pagato, partendo senza farle salire. Un fatto registrato via Facebook da alcuni testimoni, ma contraddetto dal direttore della società, Mario Nicosia, che parla di equivoco. Palermo: le botte a Partinico, dove Dolci insegnava la non violenza di Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 30 luglio 2018 Il sociologo aveva fondato la comunità “Borgo di Dio” per promuovere manifestazioni e digiuni per combattere le resistenze della tradizione feudale. Si può purtroppo commentare come uno dei tanti casi di razzismo, ma l’episodio di Partinico ha un retrogusto particolare. Perché Partinico è il paese tra Palermo e Trapani in cui dal 1954 si impegnò il sociologo, scrittore, poeta, attivista della non violenza Danilo Dolci, che a Trappeto aveva fondato una comunità chiamata “Borgo di Dio” pronta a promuovere manifestazioni e digiuni per combattere sul campo le resistenze della tradizione feudale e del potere. Oltre all’animazione sociale e al lavoro sul fronte educativo in una zona culturalmente depressa, sarebbero state le denunce contro la pesca di frodo attuata dal banditismo a rendere sempre più sgradito il “sovversivo” Dolci alle istituzioni: specie quando la popolazione si mobilitò per uno “sciopero alla rovescia” con centinaia di disoccupati impegnati a riattivare le strade comunali abbandonate. Da quell’esperienza, nel novembre 1955, sarebbe uscito per Laterza un libro eccezionale, “Banditi a Partinico” (riproposto nel 2009 da Sellerio), che fece conoscere anche fuori dai confini italiani le pietose (e illegali) condizioni di vita in certe zone della Sicilia. Le prime trenta pagine sono un referto sociologico sulla comunità (le scuole, le parrocchie, il lavoro dei braccianti, lo stato della sanità, il “luridume”, la vigilanza) con la proposta di soluzioni pratiche quali, per esempio, la costruzione di una diga sul fiume Jato per avere un’”acqua democratica”. Segue un corpo centrale in cui i racconti “bruti” in prima persona dei poveri di Partinico si alternano con le considerazioni crude dell’autore: i “banditi” non sono solo i fuorilegge dei “motopescherecci” ma sono anche i “vinti” messi al bando dallo Stato. Nella prefazione, Norberto Bobbio illustrava la “rivoluzione dal di dentro” di Dolci, rendendo omaggio al combattente che denunciava la fame, la follia e la protervia in un angolo d’Italia non ancora sfiorato dal boom economico. In prima edizione, il volume avrebbe dovuto contenere le fotografie di Enzo Sellerio, che per un problema tecnico-editoriale furono eliminate. L’uscita del libro-inchiesta colpì intellettuali stranieri, come Sartre, l’Abbé Pierre e Bertrand Russel, ma la lotta di Dolci culminò nell’arresto e nel rinvio a giudizio degli altri organizzatori. Il recente episodio di razzismo non può che rimandare a quella battaglia non violenta di Dolci e della sua comunità intesa a debellare il sopruso e la povertà. Sessant’anni dopo scopriamo che gli stessi strumenti evocati allora, istruzione e autocoscienza civile, sarebbero indispensabili oggi per garantire convivenza e armonia sociale. Non meraviglia che oggi sono gli immigrati africani a subire la violenza degli eredi diretti di quei disgraziati che Dolci voleva “salvare” dall’emarginazione. Colpisce eccome, invece, che il giovane cameriere senegalese aggredito abbia usato parole che sembrano suggerite da Danilo Dolci: “Non ho reagito perché non alzo le mani, mi potevo difendere ma gli educatori della comunità mi hanno insegnato che non si alzano le mani”. Roma: sgomberi facili, il piano del Viminale. Raggi frena Salvini: serve umanità di Federico Capurso e Franco Grignetti La Stampa, 30 luglio 2018 Il ministro dell’Interno velocizza le procedure. La sindaca di Roma: garantire alternative. È un problema che si trascina da tempo e che rischia di diventare deflgrante: in Italia si stima che ci siano 48mila appartamenti occupati abusivamente (restando alle case popolari). A volte c’è dietro la criminalità, altre volte semplici furbetti. Ora il ministro Matteo Salvini annuncia un’accelerazione degli sgomberi: “La proprietà privata è un diritto intangibile”. E anche se il tema era già nel contratto del governo gialloverde (“È necessario velocizzare le procedure di sgombero attraverso l’azione ferma e tempestiva qualora non sussistano le condizioni di necessità certificate”), si rischia di innescare l’ennesima frizione con i grillini, specie l’ala più di sinistra. Già si sentono i primi scricchiolii. Dal Campidoglio, ad esempio, emerge la posizione della sindaca Raggi: il Comune è per la legalità, ma sia componente maggioritaria nella decisione i diritti umani e le fragilità. “Dobbiamo evitare uno sgombero senza che ci sia una alternativa abitativa. Piuttosto meglio aspettare”. Per evitare che ci sia un bis dello sgombero violento di piazza Indipendenza, si cercherà sempre più il coordinamento con la prefettura. Gli effetti - Già questa settimana si dovrebbero vedere i primi effetti delle direttive politiche di Salvini con una circolare alle prefetture. Marco Minniti aveva voluto subordinare il pugno duro allo spirito solidaristico (in pratica, non si sgombera se prima un Comune non è in grado di garantire un alloggio alternativo). Salvini, invece, forte della sentenza della Corte europea dei diritti sui rom del camping occupato, proprio quella che tanto lo aveva irritato, è pronto a inserire la frasetta “ove possibile” davanti all’obbligo di assistenza. E quindi, “ove possibile” si darà un letto agli sgomberati. E se si farà uno sforzo in più per i casi più vulnerabili, cioè per donne e bambini, gli altri si arrangino. Un problema enorme. Clamoroso è il caso delle occupazioni di Ostia, guidate dal clan Spada. A Milano, il racket controlla le case di Niguarda. A Palermo, sono occupati abusivamente 4000 appartamenti al quartiere Zen. Migliaia le occupazioni abusive anche a Napoli. Il sintomo di un enorme disagio sociale, un segno della crescente povertà, ma anche l’effetto della poderosa spallata dell’immigrazione clandestina. Per questi ultimi, il programma del governo non lascia adito a speranze. “Gli occupanti abusivi stranieri irregolari vanno rimpatriati”. Finora invece aveva prevalso la politica del rinvio. “Un grande rimpallo di competenze, al limite dello scaricabarile”, protesta Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia. “Forse ora si cambia marcia. Noi ci speriamo”. Le sentenze. A cambiare la carte in tavola, il tribunale civile di Roma ha appena condannato il ministero a risarcire un privato per 28 milioni di euro, effetto dei danni di una lunga occupazione. Un altro caso è del dicembre scorso: altri 15 milioni di euro da sborsare. Sentenze che rischiano di dissanguare le casse del ministero. Ravenna: viaggio dentro, la vita quotidiana nel carcere di Port’Aurea di Andrea Alberizia ravennaedintorni.it, 30 luglio 2018 Più di ottanta detenuti, metà stranieri, età media circa 35 anni. Celle aperte 10 ore al giorno, una telefonata da 10 minuti a settimana. Spaccio e rapine i reati più frequenti. Per aprire il cancello ci vuole una chiave lunga così, che sta appesa alla bacheca della piccola guardiola, talmente grossa che non abbisogna di portachiavi: l’agente di turno la fa girare nella toppa e il rumore metallico è proprio quello che hai in testa se hai visto almeno un film con una scena in carcere. Siamo entrati nella casa circondariale di Port’Aurea il 20 luglio scorso, accolti da Carmela De Lorenzo, direttrice dal 2009 dopo otto anni nelle vesti di vice. Spaccio e rapine. Il giorno della nostra visita erano detenuti 85 uomini (in Romagna l’unica sezione femminile è a Forlì) di cui 57 stranieri (67 percento) suddivisi nella quasi totalità fra albanesi, tunisini e marocchini. “Il totale dei carcerati, la percentuale di stranieri e le loro nazionalità sono in buona sostanza delle costanti da ormai qualche anno”, spiega De Lorenzo. Sono lontani i tempi in cui, nella stessa struttura, le presenze sfioravano quasi il doppio mettendo tre detenuti per cella invece dei due di oggi. La suddivisione in base alle pendenze con la giustizia dice che 46 sono imputati in attesa di giudizio, 19 stanno scontando una pena definitiva (droga, rapine e furti) e gli altri sono nel mezzo. Circa la metà ha o ha avuto problemi di abuso di stupefacenti. Il nonno di tutti. Ad alzare l’età media attorno ai 35 anni c’è sicuramente quello che ormai è diventato il nonno di tutti, un 85enne che tre anni fa a Lugo uccise la moglie. Per lui fine pena nel 2021. Vista l’età potrebbe beneficiare immediatamente della detenzione domiciliare a casa di un familiare o di una struttura di accoglienza: nel primo caso non c’è nessuno disponibile e nel secondo è l’uomo a non voler andare. E così ha trovato la sua dimensione in cella. La struttura. Le camere detentive - dicitura ufficiale per le celle - sono distribuite su tre piani, ognuna di 13-14 mq con due letti a castello, due armadietti, un tavolino, una tv e un lavandino con water separati da una porticina. Ogni piano ha quattro postazioni doccia. “Per legge le porte delle celle devono restare aperte non meno di otto ore al giorno - dice la direttrice -. A Ravenna si aprono alle 8.30 e si chiudono alle 18.30, durante le dieci ore i detenuti possono muoversi all’interno della propria sezione. E dalle 9 alle 11.30 e dalle 13 alle 15.30 possono occupare gli spazi esterni di passeggio”. Le porte delle celle vengono chiuse nei momenti di distribuzione pasti e al cambio di ogni turno degli agenti di polizia penitenziaria quando si svolgono le procedure di conta e battitura: vengono contati i presenti e si fa sbattere un oggetto metallico sulle sbarre per verificarne l’integrità. La macchina organizzativa. Per mandare avanti la struttura sono impiegate circa ottanta persone: una cinquantina di agenti di polizia penitenziaria per coprire tre turni giornalieri, una decina tra amministrazione e contabilità, otto fra medici e infermieri dipendenti dell’Ausl per l’assistenza sanitaria interna (a cui si aggiungono gli specialisti psicologo, psichiatra, dermatologo, infettivologo che intervengono solo con cadenze fissate). Un conto corrente per ogni carcerato. Chi viene arrestato e portato in carcere viene perquisito e lascia tutti gli effetti personali in custodia, varcando il cancello solo con i propri abiti. Nessuna divisa uguale per tutti: “Cose da film”, dice la direttrice. Poi visita medica immediata (una seconda viene fatta entro le 24 ore) e colloquio con uno dei due educatori: “Serve per raccogliere informazioni sulla persona e sulle sue esigenze - spiega De Lorenzo - e al tempo stesso gli viene spiegato il regolamento interno e viene assistito se vuole compilare la domanda per l’attività domestica: per lo più si tratta di attività di manutenzione ordinaria del fabbricato, cucina e pulizie. Mansioni che vengono retribuite”. Anche per questo motivo per ogni detenuto viene aperto un conto corrente: “Viene usato per accreditare le retribuzioni dei lavori oppure le famiglie possono versare soldi che servono al detenuto per fare la spesa facendo gli ordini nei giorni stabiliti o pagare le telefonate”. Se telefonando. Il telefono è sempre a disposizione dei detenuti ma ognuno ha una tessera magnetica con il proprio numero di matricola su cui viene caricato il credito e permette di chiamare un solo unico numero per raggiungere un familiare per una chiamata a settimana di al massimo dieci minuti e poi la linea cade. Ogni detenuto ha poi diritto a sei ore di colloquio al mese: “Abbiamo una sala con sette postazioni sorvegliate da un agente. Gli incontri di un’ora vanno prenotati al telefono dall’esterno. Nel periodo estivo abbiamo allestito un piccolo spazio all’aperto con un gazebo. In entrambi i contesti abbiamo anche un piccolo angolo con qualche gioco per i genitori che vogliono incontrare i figli”. Casa circondariale: pene fino a 5 anni - Il carcere, o istituto penitenziario, nell’ordinamento giuridico italiano, è la sede in cui sono detenuti i condannati ad una pena detentiva (ergastolo, reclusione o arresto), nonché i destinatari di misure cautelari personali coercitive (custodia cautelare in carcere) o di misure pre-cautelari (arresto in flagranza di reato). Si può distinguere tra: casa circondariale (come quella di Ravenna), in cui sono detenute le persone in attesa di giudizio e quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni, o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni; casa di reclusione, in cui sono detenuti coloro che abbiano riportato una condanna definitivi ad una pena non inferiore ai cinque anni; carcere speciale, in cui sono reclusi i condannati per delitti di criminalità organizzata. Ancona: la scuola e il carcere, un progetto per incontrarsi tra studenti e detenuti qdmnotizie.it, 30 luglio 2018 Uno scritto può permettere di uscire dalle proprie “quattro mura” per incontrarsi. Questo è il progetto realizzato da alcuni detenuti del carcere di Montacuto di Ancona con gli alunni delle classi prime della scuola secondaria di primo grado Lorenzini e le classi quinte delle primarie Cappannini e Collodi dell’Istituto Comprensivo San Francesco di Jesi. “Sono architetture - dichiarano le insegnanti - che abbattono virtualmente le loro barriere e diventano luoghi per scambiarsi idee, per conoscere l’altro, per arricchire e sviluppare nuovi modi di relazione, per accettare il diverso e crescere proiettandosi avanti liberi nelle idee e sgombri da pregiudizi” Un carcere e una scuola, luoghi che insegnano e segnano la vita. Uomini reclusi che scrivono un libro, “Fiabe in libertà” in cui raccontano di un lupo bianco che liberano dalla sua vita accidentata. Bambini che, con l’aiuto delle loro insegnanti, leggono la fiaba, la modificano facendola propria, cambiando i sentieri che il lupo percorre, che cade e poi si rialza. Un viaggio, quello del lupo, che rappresenta un’esperienza di vita reale che si trasforma in un percorso di crescita. L’errore e la stessa pena possono e devono essere superati e non stigmatizzati, il tragitto non è sempre semplice, ma ci si rialza aiutandosi e aiutando. Le porte si sono aperte il 17 giugno quando alcune insegnanti coinvolte nel progetto sono state ricevute dalla direttrice del carcere, Santa Lebboroni e da alcuni suoi collaboratori presso la sede di Montacuto. L’occasione è stata il momento per un confronto, per presentare i lavori realizzati dai bambini e dai ragazzi all’interno dei Progetti di Lettura e Continuità, poi raccolti in un libro che è stato donato alla direttrice che ha espresso grande soddisfazione per l’attività svolta. Volterra (Pi): Compagnia della Fortezza, la sfida iniziata 30 anni fa può diventare teatro stabile di Paolo Falconi Il Tirreno, 30 luglio 2018 È il sogno del regista Armando Punzo per concretizzare il lungo e paziente lavoro col gruppo di detenuti del Maschio di Volterra che ha “rivoluzionato” il carcere. Trent’anni fa Armando Punzo ha concepito e battezzato una rivoluzione culturale e sociale: trasformare il carcere di Volterra in luogo di cultura. Ancora oggi la cavalca senza scendere a patti, fermamente intenzionato a non lasciarsi distrarre da chi è incapace di andare oltre quello che vede con gli occhi e a non lasciarsi tentare da strade più facili. Così quella fortezza sulla sommità del colle etrusco è divenuto meno chiusa almeno per qualche pomeriggio di luglio di ogni anno. Con i detenuti della Compagnia della Fortezza che diventano attori e deliziano il pubblico (circa 200 persone) che hanno avuto l’autorizzazione a varcare i cancelli della casa di reclusione. È un piacere vedere questo gruppo, è un piacere veder muovere e recitare gli ospiti del Maschio, con un passato non esemplare (errare è umano... ecc.) dediti a una passione a cui mai, prima, avevano pensato. Senza mai accontentarsi di quello già fatto, senza badare a premi e riconoscimenti, senza cedere alle lusinghe, il carcere di Volterra è per il regista Armando Punzo la sua casa, per quello che è un esilio volontario, un ergastolo voluto, una scelta di vita. Con tutte le sue energie, sta oggi lavorando per realizzare un sogno: creare il primo Teatro Stabile in un carcere. Sogno e necessità, lucida follia e concretizzazione di un’altra impossibilità: quello che da sempre ha segnato la storia di Armando Punzo. Il traguardo dei trent’anni della Compagnia della Fortezza è quello di un percorso di crescita e affermazione che ai più sembrava utopia, oggi felicemente realizzata. E, allo stesso tempo, è uno spartiacque, occasione di celebrazione e riflessione per una esperienza che ha fatto tanto, ma che ha ancora tanto da dire. È il 1988 quando Punzo entra in carcere per condurre un breve laboratorio teatrale. Ritrova in esso il sud del mondo. Rimane folgorato e non va più via. Comincia così una lunga storia di passione teatrale fatta di momenti entusiasmanti, di sfrenata creatività e rigorosa ricerca ma costellata da difficoltà e ostacoli in apparenza insormontabili, che solo la tenacia, la caparbietà e l’assoluta e quotidiana dedizione di Punzo riescono giorno dopo giorno ad abbattere. È così che ha avuto inizio l’avventura di Punzo in carcere con la Compagnia della Fortezza. C’era ben poco da scommettere: un carcere tra i più duri d’Italia, nell’isolamento di Volterra e nell’invivibilità del quotidiano per via dei continui episodi di violenza tra i detenuti. Un carcere come tanti altri allora, come tanti altri nell’immaginario dell’uomo qualunque. Che senso poteva avere fare teatro in un luogo così lontano da ogni prospettiva culturale? Che pretesa quella di lavorare con gente che aveva ben altri immaginari sociali e prospettive. Una vera sfida, in cui si lanciarono Armando Punzo, l’allora illuminato direttore del carcere Renzo Graziani e gli agenti di polizia penitenziaria (prima dubbiosi e poi divenuti i più strenui sostenitori) e che oggi è già storia: più di trenta spettacoli in trent’anni di vita; migliaia di persone che ogni anno chiedono di poter assistere alle repliche estive degli spettacoli in carcere; dal 2003 anni la possibilità di fare lo spettacolo (grazie all’applicazione dell’art. 21 dell’ordinamento penitenziario) nei maggiori teatri, festival e rassegne di tutta Italia. Gli appelli non risolvono la tragedia dei migranti di Luca Ricolfi* Il Mattino, 30 luglio 2018 A giudicare dalla crisi di “appellite” in corso da qualche tempo, sembrano possibili due sole posizioni. L’“appellite” è quella che da qualche tempo ha colto diversi personaggi pubblici, con particolare veemenza nel mondo degli scrittori (Veronesi, Saviano, finalisti Strega). E sembrerebbe, appunto, che in Italia siano possibili solo due posizioni. Da una parte i sinceri democratici, preoccupati dell’involuzione “autoritaria, xenofoba e razzista” degli italiani, nonché decisi a schierarsi dalla parte del Bene. Dall’altra parte tutti gli altri, che ignorano gli appelli dei maestri di virtù per viltà, ignavia, opportunismo, o semplicemente in quanto popolo rozzo e insensibile, stregato dalla propaganda leghista. Eppure, a quanti non hanno deciso di rinunciare completamente a usare la ragione, dovrebbe essere chiaro che, per chi deve governare l’Italia, non ci sono - in materia di immigrazione - due sole opzioni, di cui una feroce e l’altra umana. No, purtroppo per chi deve decidere, ieri come oggi, ci sono solo alternative tragiche. La scelta non è fra il bene e il male, ma fra due (e forse anche più di due) differenti specie di male. Ecco perché, a mio modo di vedere, il primo dovere di chi studia e di chi informa non è quello di schierarsi risolutamente a favore di uno dei due mali, ma quello di raccontare il lato oscuro di ogni scelta, quel lato che, proprio perché occulta una tragedia, i politici si ostinano a non vedere, ma soprattutto a non dire. Oggi quel lato oscuro è innanzitutto l’inferno libico. I morti nella traversata nel deserto, di cui non si saprà mai il numero. Le decine di migliaia di persone detenute in campi legali (sotto l’autorità del governo libico), in condizioni disumane. Ma, ancora più terribile, le decine di migliaia di persone ammassate in campi illegali per ottenere un riscatto in denaro o per essere vendute e rivendute come schiavi. E poi c’è l’altro lato oscuro (ma forse è solo la punta dell’iceberg), le migliaia di morti in mare per raggiungere l’Europa, fra traversie e drammi di cui pochi sanno. Chi volesse avere un’idea vivida di tutto ciò può leggere Non lasciamoli soli, un bellissimo libro di testimonianze che Francesco Viviano e Alessandra Ziniti hanno da poco pubblicato con Chiarelettere. E con questo lato oscuro che ogni politica migratoria, quale che sia il suo orientamento, si trova a fare i conti. Può cercare di occultarlo, e spesso ci riesce anche, ma non può cancellarlo. Vale per le politiche di chiusura, ma anche per quelle di apertura. Prendiamo, ad esempio, la linea Minniti-Salvini. So benissimo che fra Minniti e Salvini ci sono differenze, che la visione del problema migratorio è radicalmente diversa ma, nel breve periodo e sul piano concreto, i capisaldi sono sostanzialmente i medesimi. Ostacolare le partenze, con l’aiuto della guardia costiera libica. Frenare il flusso dal Niger alla Libia meridionale, con l’aiuto delle tribù locali. Aumentare i controlli dei campi legali da parte dell’Onu. Aprire corridoi umanitari direttamente dall’Africa. Incentivare i rimpatri assistiti di chi non ha diritto alla protezione internazionale. Il prezzo è che migliaia di migranti che cercano di entrare in Europa via mare restano intrappolati nell’inferno libico, o vi vengono riportati dalle vedette libiche. Secondo le mie stime, negli ultimi mesi quasi metà dei partenti vengono intercettati e riportati indietro dalla guardia costiera libica. E, anche se è vero che ad attenderli c’è “personale internazionale con le pettorine azzurre”, resta il fatto che la destinazione sono i campi di detenzione governativi, controllati da militari non di rado corrotti e in combutta con i trafficanti di uomini. Questo è il lato imbarazzante della linea dura, inaugurata dal governo Gentiloni (con Minniti) e sostanzialmente confermata dal governo Conte (con Salvini). Vediamo l’alternativa, ovvero la linea seguita dai governi di Letta e Renzi (ricordo che è stato Enrico Letta a lanciare l’operazione Mare nostrum). Questa linea non si preoccupava né di frenare gli ingressi dal Niger alla Libia, né di imporre la presenza delle organizzazioni internazionali in Libia, né di aprire canali umanitari in Africa, né di rafforzare la guardia costiera libica. Il nucleo era: lasciamoli partire, e aiutiamoli a non morire in mare. I benefici sono sempre stati chiari, e ampiamente sottolineati: centinaia di migliaia di persone hanno avuto la possibilità di entrare in Europa, perlopiù sbarcando in Italia. Ma i costi? Vediamoli. Il primo, il più evidente, è stato di moltiplicare i morti in mare. Nel biennio 2012-2013, ovvero subito prima di Mare nostrum, il numero di morti in mare era relativamente basso, negli anni dell’apertura (2014-2016) è quasi decuplicato. Oggi torna a scendere, ma solo perché è crollato il numero delle partenze (la rischiosità dei viaggi sta invece aumentando). È il dramma della linea dell’apertura: riesce a portare più persone in Europa, ma moltiplica anche i morti. Ed è terribile che, in tutti gli anni del regno di Renzi, non una sola riflessione si sia sentita su questo prezzo dell’apertura. C’è però anche un altro lato oscuro della linea dell’apertura, ed è il tributo che, senza volerlo, essa paga ai sequestri di persona e allo schiavismo: più persone si mettono in viaggio, più persone attraversano il confine meridionale della Libia. Lì la norma è essere catturati, rinchiusi in un campo illegale gestito da miliziani senza scrupoli, essere umiliati, torturati, stuprati, finché le famiglie (informate via telefono dalle urla strazianti dei prigionieri) non pagano il riscatto richiesto; altrimenti il destino è essere venduti come schiavi, o uccisi perché ormai invendibili come schiavi. Questo business, forse, è ancora più redditizio di quello dei trasferimenti via mare in Europa. La linea dell’apertura verosimilmente lo alimenta, perché il tam-tam corre veloce e, se si sa che ci sono buone possibilità di partire via mare, più persone tentano di raggiungere la Libia dall’Africa centrale, per la gioia dei trafficanti di uomini che controllano buona parte del territorio libico. Ecco perché dicevo che, purtroppo, la scelta che sta di fronte alla politica non è fra il bene e il male, ma fra due mali diversi. Perché le azioni hanno conseguenze, e spesso le conseguenze sono diverse dalle finalità che si perseguono. Anche se volessimo ignorare del tutto il punto di vista dei ceti popolari, convinti da anni di accoglienza anarchica che in Italia non c’è più posto, e volessimo invece preoccuparci solo del bene dei migranti, il dilemma resterebbe. Non è evidente che il male che facciamo chiudendo sia più grande di quello che facciamo aprendo; così come non è evidente il contrario. Per questo le scelte della politica, almeno finché l’Europa resterà ignava come ha fatto fin qui, non possono che essere tragiche. Non c’è modo di perseguire il bene senza provocare il male. Per chi non vuole auto-accecarsi, come fece Edipo, non c’è “la cosa giusta” da fare, ma solo la scelta fra due corsi d’azione entrambi tragici nelle catene di conseguenze che mettono in moto. E precisamente per questo gli appelli accorati al nostro “lato umano” mi sembrano quanto meno fuori bersaglio, un logoro esercizio di ostentazione etica, forse buono per rassicurare qualche coscienza, ma incapace di farci fare un solo passo nella comprensione del dramma dei migranti. *Fondazione Hume Europa. Carceri incubatrici del terrorismo islamico Washington Post, 30 luglio 2018 In tutta Europa, le prigioni sono l’ultimo campo di battaglia nella lotta in evoluzione contro il terrorismo islamico. A partire da cinque anni fa, i paesi occidentali hanno visto migrare migliaia di cittadini in Iraq e in Siria per unirsi allo Stato islamico o ad altri gruppi islamici. Dal 2016 ne sono tornate centinaia, ma traumatizzati da attacchi terroristici i paesi europei dal 2016 attuano una linea dura nei confronti dei rimpatriati. Per chiunque si sia recato in Medio Oriente o abbia cercato di sostenere gruppi islamici all’estero sono previste accuse pesanti, arresti e pene detentive. E da quando sono scattati gli arresti dei foreign fighter, l’Europa ha visto un minor numero di morti per attacchi terroristici. Ma ora i funzionari europei sono alle prese con un nuovo problema: come impedire che le prigioni diventino centri di addestramento e di reclutamento per i futuri terroristi? Dal Belgio e dai Paesi Bassi alla Germania e alla Francia, i funzionari delle forze dell’ordine stanno sperimentando approcci molto diversi al problema, compresi i programmi di rieducazione e l’isolamento quasi totale dei detenuti più radicalizzati. Gli sforzi sono una corsa contro il tempo, poiché molti dei rimpatriati in carcere riacquisteranno la loro libertà in meno di due anni. “Arrivano alla fine della loro pena e non abbiamo altra scelta che rilasciarli”, ha detto un funzionario belga che aiuta a sorvegliare il trattamento dei detenuti islamici nelle prigioni più grandi del paese. “Alcuni di loro”, ha aggiunto il funzionario, “potrebbero essere bombe umane”. Citazioni e parole come “Ben-Laden”, “Jihad”, “AK-47” e “Allahu Akbar” sono scritte sulla finestra di una stanza isolata vicino alla sezione DeRadex della prigione di Ittre a sud-ovest di Bruxelles. Ittre, un carcere di massima sicurezza a sud-ovest di Bruxelles, è conosciuta come una delle due prigioni belghe con speciali unità di isolamento per trattare con i più radicali islamisti carcerati. Chiamato DeRadex, l’unità ospita uomini ritenuti particolarmente pericolosi. I detenuti nella sezione sono autorizzati a socializzare con gli altri all’interno dell’unità di isolamento solo durante determinate ore e sotto stretta supervisione. In Belgio l’isolamento è, infatti, l’ingrediente essenziale del nuovo approccio per trattare con i prigionieri radicalizzati: sebbene possano non essere in grado di separare i detenuti dalle loro idee estremiste, i funzionari della prigione possono almeno impedire loro di contaminare gli altri. Gli “ospiti” della sezione DeRadex sono stati condannati per accuse di terrorismo o per violenze. Ma sono conosciuti e temuti soprattutto per le loro personalità carismatiche e la capacità di attirare altri alla causa radicale islamista. In diverse celle, i detenuti hanno graffiato i graffiti islamici su muri e finestre, compreso il nome “Bel Kacem”, un riferimento a Fouad Belkacem, fondatore dell’organizzazione estremista Sharia Belgium che ha reclutato e inviato in Siria numerosi combattenti dello Stato Islamico. Alcuni detenuti prendono lezioni di botanica in un giardino nella prigione. “Ogni volta che li mettiamo con il resto dei detenuti, si impegnano in attività di reclutamento”, ha detto Valérie Lebrun, una criminologa belga di 49 anni Diettrice di Ittre. I funzionari offrono consulenza sulla nonviolenza, ma non fanno nessuno sforzo per cambiare l’estremismo dei prigionieri e le loro opinioni sulla religione. Osservano cambiamenti nel comportamento che suggeriscono che la radicalizzazione è in corso, come quando i detenuti modificano le loro uniformi carcerarie in stile jihadista, o insistono a indossare biancheria intima quando fanno la doccia, un riflesso delle opinioni islamiste conservatrici sulla copertura del corpo. In tali casi, i funzionari incoraggiano i detenuti a incontrare imam moderati e consiglieri che lavorano con le prigioni su base volontaria. Ma la nonviolenza, non la deradicalizzazione, rimane l’obiettivo primario, ha affermato Valérie Lebrun. Alcuni in Belgio sostengono che i funzionari della prigione semplicemente non fanno abbastanza. “Le prigioni stanno cercando di mettere in quarantena il virus, ma in realtà non affrontano il problema “, sostiene Ilyas Zarhoni, un imam di Bruxelles che gestisce programmi comunitari che cercano di contrastare l’ideologia estremista. “Abbiamo bisogno di esperti in ideologia, esperti in psicologia. I costi saranno alti, ma non è nulla in confronto a quello che potremmo avere quando usciranno queste persone”. Diverso il contesto tedesco. In Germania, l’JVA l’istituto di pena a poche ore di auto a sud-est di Francoforte i funzionari del penitenziario dello Stato tedesco centrale dell’Assia stanno provando un approccio, una sorta di esperimento di modificazione del comportamento che si sta svolgendo in tempo reale. A JVA Frankfurt, non ci sono unità di isolamento dove gli estremisti sono tenuti insieme. Invece, tutti i prigionieri condividono lo stesso spazio, sotto un regime di sorveglianza e di intervento ravvicinati da parte di un gruppo di guardie appena addestrate a individuare i segni di radicalizzazione. I funzionari tedeschi, dotati di bilanci più grandi e di personale professionale più ampio rispetto ai loro colleghi del Belgio, stanno cercando di neutralizzare la minaccia di radicalizzazione di un detenuto alla volta, con una gestione intensa - e talvolta aggressiva - di ciascun caso. Le guardie vengono colgono segnali di avvertimento nell’aspetto, nel comportamento e negli oggetti personali dei detenuti. Ispezionando la sacca da viaggio di un prigioniero, un ufficiale ha messo da parte un filo di rosari e una stuoia - entrambi considerati come oggetti accettabili per un musulmano praticante - ma poi si è soffermato ad esaminare una copia del Corano. “Un Corano, normalmente non è affatto un problema”- dice l’ufficiale -”tuttavia, questa è una edizione di Lies Stiftung, che è stata bandita e non possiamo quindi permetterlo. I corani di Lies Stiftung contengono commenti associati al salafismo, una forma conservatrice di islam sunnita abbracciata da membri dello Stato islamico. “Questo suggerisce che il prigioniero potrebbe essere stato radicalizzato”, spiega l’ufficiale. “Dobbiamo osservarlo attentamente - i suoi contatti, quello che legge - e cercare di ottenere quante più informazioni possibili su di lui”. Il programma dell’Assia, chiamato Network for Deradicalization in the Penal System, o NeDiS, cerca di cambiare il pensiero dei detenuti. Coloro che sono etichettati come radicali - siano essi islamisti o membri di gruppi estremisti di destra - si trovano sotto un attento esame. Sono offerti diversi tipi di consulenza o terapia, compresi incontri con un imam o cappellano mentre sono in prigione, e programmi di sensibilizzazione dopo il loro rilascio. “Ogni detenuto islamico radicale sarà prima o poi rilasciato “ spiega Eva Kühne-Hörmann, Ministro della giustizia dell’Assia - “se non usiamo il periodo della detenzione per influenzarli attuando contromisure e promuovendo la deradicalizzazione, corriamo il rischio di rilasciare nella società tedesca islamisti radicali, che sono privi di qualsiasi prospettiva personale”. “Siamo agli inizi”, ammette la guardia Stefan Schürmann. I funzionari carcerari riconoscono che alcuni detenuti rimarranno radicalizzati e il meglio che possono sperare è di impedire loro di diffondere messaggi di odio agli altri. Nessuno degli approcci può fare la differenza? In tutta Europa, i funzionari della giustizia penale riconoscono che stanno cercando di progettare soluzioni a un problema per il quale non ci sono dati scientifici e nessuna garanzia di successo. Ciò che è noto è che gli approcci precedenti sono falliti, disastrosamente. E la portata del problema negli ultimi anni è peggiorata. Dalla fondazione dello Stato islamico nel 2014, molti dei maggiori attacchi terroristici in Europa sono stati guidati da ex detenuti, alcuni dei quali sono diventati radicali dietro le sbarre. Stati Uniti. Prigionieri per finta? L’esperimento di Zimbardo è stato forse una menzogna di Gian Vittorio Caprara e Gilberto Corbellini Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2018 Due riferimenti sperimentali della psicologia dei comportamenti umani in contesti costrittivi sono in questi anni sotto attacco: l’esperimento di Stanley Milgram del 1961 sull’autorità, e quello di Philip Zimbardo del 1971 sugli effetti del contesto carcerario nel causare deresponsabilizzazione personale e disumanizzazione. L’esperimento di Milgram è inattaccabile, essendo stato replicato in diversi contesti: persone del tutto comuni possono essere portate dalla soggezione all’autorità a far del male ad altri. La psicologa australiana Gina Perry sembra avere un conto personale con Milgram e da anni cerca di smontarne il lavoro e la dignità scientifica: in realtà manipola i documenti ma soprattutto le interviste, per far apparire il più importante studioso di psicologia dell’autorità un imbroglione. Il suo libro (Behind the shock machine, 2012) trasuda pregiudizi che prevalgono sull’obiettività storico-scientifica. L’esperimento della prigione di Stanford, condotto nell’agosto del 1971 dallo psicologo Zimbardo è stato più volte criticato, ma negli ultimi mesi in modi particolarmente accaniti. Un libro in francese (Thibault Le Textier, Histore d’un mensogne) e un lunghissimo blog (Ben Blum, The Lifespan of a Lie, https://medium.com/s/trustissues/the-lifespan-of-a-lie-d869212b1f62) sostengono che si sarebbe trattato di una menzogna. L’uso di toni insultanti e definire fake news quell’esperimento, implicherebbe la scoperta di fatti assolutamente nuovi e incontrovertibili. Dato che sono diretti a uno psicologo dai modi forse un po’ da primadonna, ma che attraverso le ricerche, l’insegnamento e i manuali è stato un protagonista della psicologia, al di là dell’esperimento della prigione di Stanford. Trattandosi di un esperimento che è parte integrante del processo di naturalizzazione delle scienze sociali, diventato ancor più famoso dopo la testimonianza di Zimbardo al processo per gli abusi nelle prigioni irachene di Abu Grhaib e dopo la pubblicazione del libro “L’Effetto Lucifero. Cattivi si diventa?” (Raffaello Cortina 2008), è utile capire quanto le critiche siano giustificate, in modo da evitare confusioni culturali. L’esperimento dimostra che episodi di abusi e violenze in contesti carcerari o bellici non sono dovuti a poche “mele marce” individui già tarati che perpetrano angherie o torture), ma avvengono in quanto particolari situazioni fanno marcire mele altrimenti sane. L’esperimento consisteva nella simulazione di una detenzione. Un gruppo di 24 studenti reclutati con annunci e pagati 15$ al giorno per partecipare, era sottoposto a test psicologici e controlli per attestare che non fossero mentalmente instabili o con precedenti penali, e quindi in modo casuale una parte fu assegnata al ruolo di prigionieri e una parte al ruolo di guardie carcerarie organizzate in turni di 8 ore. I partecipanti erano invitati a immergersi nei loro ruoli e l’esperimento fu studiato in modo che tutti gli aspetti, i comportamenti, i tempi, i riti, etc. della dinamica carceraria si producessero in quel setting; tranne la violenza che era esplicitamente vietata. L’esperimento sarebbe dovuto durare 2 settimane. Dopo circa 6 giorni fu interrotto perché nel frattempo un detenuto dovette essere rilasciato per una grave crisi nervosa e altri ebbero crisi analoghe, oltre che per i comportamenti delle guardie sempre più lesivi delle dignità dei detenuti. Quell’esperimento non sarebbe approvato oggi, in quella forma, da alcun comitato etico dal momento che non si accorda con le linee guida che l’American Psychological Association ha stabilito successivamente per evitare danni ai soggetti che partecipano a esperimenti di psicologia. Potrebbe risultare disturbante trovarsi nella parte della vittima, ma potrebbe essere destabilizzante scoprire in sé una parte di aguzzino. Peraltro, cosa discutibile metodologicamente e abbastanza grave, Zimbardo scelse di non rimanere estraneo ritagliando per sé il ruolo di soprintendente della “prigione”. È difficile stabilire quanto ciò possa avere influenzato i comportamenti di guardie e prigioniero ed ostacolato una più obiettiva comprensione di quanto accadeva. Su questo Zimbardo rende merito a Cristina Maslach, la fidanzata che sarebbe poi diventata sua moglie, di averlo indotto a considerarne le conseguenze imprevedibili ed indesiderabili, e quindi a sospendere l’esperimento. Perché si dice che quell’esperimento sarebbe stato una sceneggiata non scientifica? Fondamentalmente su tre basi: a) alcuni dei partecipanti hanno rilasciato interviste dalla quali si evincerebbe che Zimbardo disse loro, in particolare alle guardie, cosa fare (questo significherebbe che i comportamenti di abuso non erano spontanei e indotti dal contesto) e che la crisi nervosa di uno dei detenuti era finta; b) i risultati dell’esperimento non furono pubblicati su riviste scientifiche ma diffusi attraverso i media e in particolare in un articolo sul “New York Times” nel 1973; c) l’esperimento non fu mai replicato e l’unico tentativo fatto nel 2002 con il supporto della BBC, lo confuterebbe. Nessuna di queste critiche è fondata. Un “detenuto” che per oltre trent’anni ha detto che la sua crisi psicologica era autentica, con tanto di registrazioni e quindi prove, improvvisamente ha cambiato versione? Sarebbe più giusto chiedersi il perché questo cambiamento. Quale interesse poteva avere Zimbardo a manipolare un esperimento dal quale doveva ricavare informazioni utili per diverse agenzie federali che l’avevano finanziato? Da quel momento fu chiamato più volte come esperto e perito da varie agenzie federali nel contesto di progetto di riforme carcerarie o per spiegare le cause delle rivolte nelle prigioni. Poiché l’esperimento fu sospeso i risultati di cui si è dato conto sono stati soltanto parziali. Essi tuttavia hanno avuto notevole risonanza anche su diverse riviste specialistiche, prima e dopo l’articolo sul “New York Times”: i fatti, l’impatto dell’esperimento e la bibliografia si possono trovare in “American Psychologist” 1998; 7: pagg. 709-727. Da molti l’esperimento è ritenuto un classico ed un modello esemplare della ricerca psicologica che mostra quanto possano essere importanti le circostanze nell’indurre a comportamento che violano la dignità delle persone. Quanto alla replica, nel 1979 tre ricercatori australiani pubblicavano i risultati di un esperimento analogo a quello di Zimbardo, con tre diversi ambienti carcerari da cui emergevano gli stessi fatti, e la prova che l’organizzazione sociale delle prigioni conta più delle personalità dei partecipanti nel produrre le dinamiche di ostilità. La BBC, infine, ha sponsorizzato un reality televisivo (ripreso da telecamere e trasmesso) ispirato all’esperimento di Stanford (The Experiment, 2002), ma è discutibile quanto possa essere ritenuto una replica o soltanto confrontabile con quello di Zimbardo. Per quali ragioni l’esperimento di Zimbardo come altri esperimenti di psicologia sociale sono sotto attacco? Probabilmente chi coltiva idee umanistiche vaghe e soprattutto in tempi di postmodernismo e post-verità non si accetta che il comportamento sociale umano sia predicibile su basi psicologiche, sia pure entro certi e anche ampi limiti. In realtà la ricerca ha fatto notevoli progressi nel mostrare che le circostanze che inducono a comportamenti riprovevoli operano tramite processi di depersonalizzazione, di disimpegno morale, e di esclusione che si possono prevenire o contrastare. Israele. Libera Ahed Tamimi, per lei il murale di Jorit, arrestato e poi scarcerato La Repubblica, 30 luglio 2018 La giovane attivista palestinese era in cella da otto mesi per avere schiaffeggiato un soldato. “La resistenza continuerà”. Mobilitazione internazionale, tra cui l’opera dell’artista italiano fermato in un primo momento ieri a Betlemme. È uscita di prigione Ahed Tamimi, l’adolescente palestinese diventata un simbolo della protesta dopo il video che la riprende mentre colpisce alcuni soldati israeliani. Ha scontato quasi otto mesi di prigione. Insieme alla madre Mariman, anche lei scarcerata, Ahed Tamimi ha raggiunto il suo villaggio di Nabi Saleh, in Cisgiordania, accolta dalla famiglia e da una folla di sostenitori. “Dalla casa di questo martire io dico: la resistenza continuerà finché la occupazione sarà stata rimossa”, sono state le prime parole di Tamimi davanti all’abitazione di una vittima delle forze israeliane. “Tutte le prigioniere in carcere sono forti, e ringrazio tutti quanti mi hanno sostenuto mentre io stessa ero incarcerata”. Per la sua liberazione si era creata una mobilitazione internazionale che ha coinvolto anche un artista italiano, il napoletano di origini olandesi Jorit Agoch, inizialmente fermato a Betlemme insieme a un amico italiano e a un palestinese, con l’accusa di danneggiamento aggravato. Jorit è stato poi liberato nel pomeriggio. I due stavano realizzando un murale con il volto di Ahed Tamimi. In questa intervista a Repubblica, Jorit spiegava poche ore prima dell’arresto come già i militari avessero tentato di fermare l’opera. I tre sono stati arrestati, dicono le autorità israeliane, “mentre avevano il volto coperto e disegnavano illegalmente sul muro. Quando agenti della Guardia di frontiera hanno agito per fermarli, hanno tentato la fuga con un veicolo che è stato bloccato dai militari”. Saranno adesso sottoposti ad un’inchiesta della Guardia di frontiera. “Riteniamo molto grave - ha precisato il portavoce della polizia all’AnsaMed - ogni tentativo di danneggiare e di deturpare la Barriera, sia che si tratti di disegni sia che si tratti di danni fisici concreti. Agiremo per quanto sarà necessario per l’arresto dei trasgressori e per la piena applicazione della legge nei loro confronti”. La Farnesina ha reso noto di stare seguendo il caso, il console italiano ieri notte è andato in carcere a Gerusalemme per incontrare i due connazionali. Nel video del dicembre 2017 diventato rapidamente virale, l’allora sedicenne Tamimi aveva schiaffeggiato e preso a calci alcuni soldati nel vialetto di casa sua. Fu arrestata e con il patteggiamento ottenne una pena a maggio di otto mesi. Il rilascio in anticipo è stato giustificato con motivi amministrativi. “Ho desiderato questo momento perché mi mancavano molto” ha detto il padre di Tamimi, Bassem. La sua famiglia sta ora cercando di “continuare la vita normale” e ha interrotto le proteste settimanali contro l’occupazione a Nabi Saleh, dove gli scontri con i soldati israeliani sono comuni. Tuttavia, ha aggiunto, a volte “l’occupazione ti costringe a resistere perché non c’è altro modo”. La ragazza, diventata il simbolo della resistenza del popolo palestinese, è stata scarcerata domenica mattina dopo che l’Autorità carceraria israeliana ha fatto sapere di poter ridurre i termini carcerari dopo una “valutazione speciale”. Israele. La sfida di Jorit: “il mio murale per la causa palestinese” di Anna Laura De Rosa La Repubblica, 30 luglio 2018 Arrestato a Betlemme lo street artista napoletano: poche ore prima aveva parlato con “Repubblica”. E nel comune napoletano di Quarto scatta la mobilitazione per la sua liberazione. Lo street artist napoletano Jorit Agoch è stato arrestato dall’esercito israeliano a Betlemme, dove si trovava per realizzare il murale che ritrae Ahed Tamimi, la 17enne palestinese arrestata per aver schiaffeggiato un soldato israeliano. Immediata la solidarietà del sindaco Luigi de Magistris. Poche ore prima di essere arrestato, l’artista aveva rilasciato un’intervista a Repubblica in cui aveva raccontato di un precedente contatto con l’esercito israeliano. “Avevo iniziato a disegnare il volto della giovane attivista palestinese vicino al gate, dove c’è il varco nel muro di separazione israeliano”, racconta Jorit. “Ma i soldati ci hanno visto dalla torretta, sono usciti con i mitra e ci hanno inseguito. Siamo scappati e abbiamo ricominciato il murale in un luogo meno sorvegliato. Qui non dovremmo avere problemi”. L’ultimo contatto telefonico con Repubblica c’è stato sabato in tarda serata. Jorit si trovava in una caserma a pochi chilometri dal gate e poi è stato trasferito in una stazione di polizia per essere interrogato. La ragazza ritratta da Jorit è diventata il simbolo della nuova Intifada: venne filmata nel giardino di casa mentre contestava due militari per allontanarli. Il video in cui schiaffeggia uno dei soldati è diventato virale, e Ahed è stata condannata a otto mesi di carcere da una Corte militare israeliana. Attivisti e associazioni di tutto il mondo hanno chiesto il suo rilascio, che potrebbe essere imminente. L’artista ha dedicato alla 17enne sette metri di colori spray. Un murale in cui lo sguardo di Ahed restituisce “forza di volontà e rabbia di un popolo”, spiega Jorit. “Sono sempre stato attivo su questo fronte, provo a sostenere una lotta che ritengo giusta con quello che so fare: la street art. È nato tutto in poco tempo. Una settimana fa sono riuscito ad arrivare a Betlemme, volevo portare questa ragazza all’attenzione dell’opinione pubblica”. Sul volto di Ahed ci sono due graffi rossi: è la firma di Jorit che con quel segno preso in prestito dalle tribù ricorda alle persone l’appartenenza a alla stessa umanità. A Betlemme, lo street artist ha lavorato su due scale di legno sovrapposte e poggiate sulla barriera di muro e reticolato. Il volto coperto con un panno nero, gli auricolari e la bomboletta nella destra. Le immagini hanno fatto il giro del mondo ma lui quasi non se ne è accorto, “visto quello che c’è intorno, sembra di stare in un altro mondo. È atroce, ammazzano persone ogni giorno: a poca distanza da noi hanno ucciso un ragazzino a sangue freddo con un colpo dritto al cuore. Non stava lanciando pietre, era solo nel cortile di casa. Ho solo cercato - prosegue Jorit - di dare il mio piccolo contributo alla lotta del popolo palestinese che resiste in tutti i modi. Lo schiaffo di Tamimi esprime la rabbia e il senso di impotenza di persone che si trovano in una condizione di inferiorità su tutti i fronti. Questi sentimenti hanno dato a una ragazzina la forza di reagire. Lo schiaffo è un gesto significativo, fatto col cuore e la forza di chi vede che sta andando tutto a rotoli. Se nessuno interverrà, non resterà più niente della Palestina”. Il muro che divide la Cisgiordania da Israele è ricoperto di graffiti a sostegno della causa palestinese: qui ha dipinto anche lo street artist britannico Banksy. E ora, grazie all’artista che si è laureato all’Accademia di belle arti di Napoli, si è aggiunto un pezzo d’Italia. Accanto al volto di Tamimi c’è quello di un’altra donna diventata un simbolo della resistenza: la giovane dottoressa con il velo rosso uccisa a giugno dall’esercito israeliano, negli ultimi giorni di proteste della “Marcia del ritorno”. La donna è ritratta poco prima di essere colpita, mentre corre ad aiutare un giovane ferito in camice bianco e con le mani alzate”. Intanto l’amministrazione di Quarto flegreo (Napoli) con il sindaco, Antonio Sabino, si è mobilitata per la scarcerazione di Jorit Agoch che risiede da alcuni anni nel comune flegreo. Un appello è stato lanciato per rilasciarlo. Il vicesindaco, Giuseppe Martusciello, è in costante contatto con la famiglia e la Farnesina per conoscere gli sviluppi della situazione. Jorit nel comune alle porte di Napoli ha eseguito un murales sulla facciata di un edificio del centro storico in cui ha ritratto il capitano del Napoli, Hamsik. Egitto. Processo ai Fratelli Musulmani, 75 condanne a morte di Paolo Vites ilsussidiario.net, 30 luglio 2018 Il più alto numero di condannati a morte, 75, in un solo processo: sono appartenenti ai Fratelli Musulmani processati insieme ad altri quasi mille detenuti. Continua, ad anni di distanza, il pugno di ferro del generale al-Sisi presidente dell’Egitto dopo il colpo di stato da lui guidato che cacciò i Fratelli Musulmani dopo la loro vittoria alle elezioni. Centinaia di appartenenti al movimento fondamentalista islamico si trovano ancora in carcere e processo dopo processo arrivano le sentenze. L’ultima, di ieri, è clamorosa, sono state condannate a morte 75 persone, il più alto numero di condannati a morte in un solo processo che si ricordi (a parte ovviamente le grandi purghe di regimi come quello stalinista o di Mao in Cina). Un numero che però va comparato a quello degli accusati, quasi mille, 739 imputati, la sentenza per loro arriverà l’8 settembre prossimo. Si tratta di aderenti Fratelli Musulmani arrestati nel 2013 durante una manifestazione di protesta a favore dell’allora deposto presidente egiziano, Morsi, appena cacciato da al-Sisi. Durante quel sit-in si registrarono violenze e vittime, il processo era in corso da due anni. Tra i condannati a morte molti leader del movimento islamista, mentre in attesa di giudizio anche casi molto discussi come quello del giornalista Mahomoud Aboud Zeid “Shawkan”, in prigione ormai da quasi cinque anni. Il trentenne si trovava a svolgere il suo lavoro di fotografo per una agenzia inglese durante quella manifestazione e per qualche ragione venne arrestato anche lui. Da allora il giovane vive in isolamento in una cella di pochi metri quadri nel carcere di Torah al Cairo, considerata una delle peggiori prigioni del mondo. La manifestazione si tenne il 14 agosto 2013, le forze di polizia uccisero quasi mille manifestanti. Adesso i condannati a morte hanno diritto di chiedere la grazia al Gran Mufti d’Egitto, la principale autorità sunnita del paese. Nicaragua. Mi vista tanta violenza da cinque secoli di Adolfo Miranda Sáenz* La Stampa, 30 luglio 2018 Da quando, nel 1550, il vescovo Valdivieso venne pugnalato dal genero del governatore denunciato per corruzione e crudeltà verso gli indigeni. Nessuna delle lettere pastorali scritte nel corso della nostra storia, neppure quelle che prendevano di mira Somoza e il regime sandinista degli 80, è stata così forte ed esplicita come il recente messaggio pastorale della Conferenza episcopale del Nicaragua. I vescovi chiariscono nella lettera che la loro missione come mediatori e testimoni del Dialogo nazionale non esclude la dimensione profetica del loro ministero, e che si vedono nell’urgenza di recarsi sui luoghi del conflitto per difendere la vita degli indifesi, consolare le vittime e mediare per raggiungere una soluzione pacifica della situazione. I vescovi scrivono che i paramilitari stanno intensificando la repressione e la violenza verso le persone che protestano civicamente, e sono addolorati per il gran numero di morti e la sofferenza che viene inflitta al popolo; dicono che sono afflitti per i feriti, gli ingiustamente perseguitati, minacciati, sequestrati e detenuti arbitrariamente. Affermano che oggi “come mai prima d’ora” - così lo sottolineano gli stessi presuli - i diritti umani sono violati in Nicaragua. Assicurano di essere testimoni della mancanza di volontà politica del Governo per dialogare sinceramente e individuare processi reali che incamminino il paese verso una vera democrazia, negandosi ripetutamente ad affrontare gli argomenti posti in agenda per la democratizzazione del sistema politico, e non osservando le raccomandazioni della Commissione interamericana per i diritti umani, soprattutto quella di disarmare i paramilitari filogovernativi, fermare gli attacchi della polizia, dei gruppi paramilitari e degli squadroni incitati ad aggredire e seminare il terrore tra il popolo. I vescovi fanno riferimento anche agli atti sacrilegi commessi da gruppi mandati esplicitamente ad attaccare con grida, pugni e coltelli i fedeli cattolici e i sacerdoti. Nel corso di questi attacchi il vescovo ausiliare è rimasto ferito, il cardinale e il nunzio di Papa Francesco, sono stati oltraggiati. Hanno anche sparato ad un altro vescovo che passava con la sua automobile e l’hanno aggredito con insulti e minacce; hanno invaso armati diverse chiese, le hanno saccheggiate e hanno bruciato i loro beni; hanno profanato il Santissimo Sacramento. E quando gli studenti dell’Unan, Universidad Nacional Autónoma de Nicaragua - che l’avevano occupata per protesta - l’hanno abbandonata rifugiandosi in una chiesa, per quindici ore la polizia ha sparato con armi da guerra verso quel piccolo tempio dove si trovavano circa 200 persone tra cui studenti, fedeli cattolici, giornalisti e sacerdoti. Ci sono stati morti e feriti. Nella storia del Nicaragua non si era mai visto un Governo attaccare a colpi d’arma da fuoco persone disarmate in una università e, peggio ancora, in una chiesa. È qualcosa che tutt’alpiù ci si poteva immaginare che potesse essere perpetrato dai criminali terroristi dell’Isis o in qualche paese africano dove ancora si commettono barbarie, ma non dal Governo di un paese civilizzato. È vero che nel 1981 l’Esercito sandinista obbligò 8.500 indigeni miskitos a lasciare le loro comunità stanziate sulle rive del fiume Coco, rilocalizzandoli in accampamenti, e mentre il loro vescovo monsignor Salvador Schlaefer li accompagnava nel doloroso esodo, ricevette una pallottola nel bacino; e che nel 1986 il vescovo di Juigalpa, monsignor Pablo Antonio Vega, è stato sequestrato dal governo sandinista, buttato su un elicottero e scaricato in Honduras, accusato di essere un “criminale” per le sue critiche. In quell’occasione Papa Giovanni Paolo II disse: “L’azione contro la Chiesa in Nicaragua, un fatto quasi incredibile, mi ha reso profondamente triste, poiché evoca epoche oscure che si potrebbe ragionevolmente credere superate. Innalzo, con la mia più viva deplorazione, una forte preghiera all’Altissimo perché visiti con la sua grazia monsignor Vega”. In precedenza, lo stesso Giovanni Paolo II era stato oltraggiato da gruppi sandinisti in Nicaragua; ma il fatto non era stato così grave come gli attuali numerosi attacchi in una vera e propria campagna di odio contro la Chiesa cattolica, dove si chiamano assassini i suoi ministri e dove persone in combutta con il Governo li stigmatizzano sui mezzi di comunicazione e le reti sociali. Sono tutti fatti che portano alle conseguenze tristi che sono sotto i nostri occhi e a cui si riferisce il recente messaggio pastorale dei vescovi del Nicaragua. In Nicaragua non si era mai vista una situazione così grave da quasi cinque secoli, quando nel 1550 il vescovo Antonio de Valdivieso venne assassinato a pugnalate da Pedro de los Ríos, genero del governatore Rodrigo de Contreras, che il vescovo aveva denunciato per atti di corruzione e maltrattamento crudele degli indigeni. Allora come oggi, la Chiesa alzò la sua voce profetica. Il vescovo Valdivieso denunciò: “In questa provincia abbonda un agire disonesto, e se non si trova una soluzione, la colonia sarà completamente persa. L’unica causa è colui che ha governato male e il genero, e con entrambi insieme in Nicaragua nessuno può venerare Dio senza mettere la propria vita in pericolo”. *Avvocato, scrittore e giornalista per El Nuevo Diario