La svolta di Bonafede: fuori le toghe rosse, il potere va a destra di Liana Milella La Repubblica, 2 luglio 2018 Il Guardasigilli cambia quasi tutti i capi degli uffici ministeriali e stoppa il rientro in organico di Finocchiaro e Lo Moro. La domanda, con i relativi dubbi, serpeggia in questi giorni tra i magistrati. E suona così: “Ma Bonafede, il nostro neo Guardasigilli, ha deciso di partecipare attivamente all’ultima settimana di campagna elettorale per il rinnovo del Csm? Magari favorendo Unicost e i davighiani?”. Sabato 8 e domenica 9 luglio 9.500 toghe al voto per scegliere i 16 componenti togati del futuro Consiglio. Che certo non sarà come l’attuale, a guida Pd, ma forse in mano a un vicepresidente leghista. Un confronto infuocato con una guerra tra le quattro correnti della magistratura che va avanti da almeno sei mesi. Un verdetto che dirà se anche i giudici, dopo l’esito politico del 4 marzo, si sono spostati a destra. Perché se la sinistra delle toghe, il gruppo di Area, dovesse ridurre i suoi consensi e ci fosse all’opposto un exploit di Autonomia e indipendenza, il gruppo di Piercamillo Davigo, a cui si addebitano, pur se sempre smentite, simpatie grilline, più di un osservatore potrebbe dire che i magistrati si sono definitivamente lasciati alle spalle la storica sintonia con la sinistra. Ma perché Alfonso Bonafede, il nuovo ministro della Giustizia, starebbe giocando una partita proprio contro la sinistra? Ecco il giudizio di una toga di grande esperienza che chiede però, considerato l’argomento, rigorosamente l’anonimato: “E che dubbio c’è? Certo che Bonafede sta giocando questa partita. Basta vedere le nomine che ha appena fatto in via Arenula, uno spoils system che non s’era mai visto, un ricambio a 360 gradi, via il vecchio dentro il nuovo, altro che continuità...”. È l’argomento del giorno, il ministero che in pochi giorni cambia faccia, via bruscamente l’eredità dell’ex ministro Andrea Orlando, via tutta la sua squadra, Beppe Grillo in visita a Bonafede nella storica stanza che fu di Togliatti. Un ministro che stoppa l’ingresso nei suoi uffici di due figure della sinistra, l’ex ministro Pd Anna Finocchiaro e l’ex senatrice bersaniana Doris Lo Moro che chiedono al Csm di rientrare in magistratura ma subiscono l’altolà del Guardasigilli che frena anche sul via libera a Felice Casson, anche lui ex senatore di Mdp come Lo Moro, nel ruolo di magistrato di collegamento tra l’Italia e la Francia. Tutto casuale? L’ansia di costruirsi intorno uno staff su misura? Oppure l’indiretta influenza sulle elezioni per il Csm? Stiamo ai fatti. Bonafede arriva al ministero e subito incontra i dipendenti. La prima parola d’ordine sembra essere continuità. Lo dichiara, “non butterò alle ortiche quello che è stato fatto finora”. Ma nemmeno 24 ore dopo, al primo piano, comincia la sfilata dei possibili candidati per sostituire praticamente tutte le figure apicali. All’esterno trapela che Bonafede abbia selezionato una cinquantina di candidati, sentendoli uno per uno. Ma il risultato è lì, nell’elenco inviato al Csm, dove non figurano magistrati di Area, la corrente che riunisce le toghe rosse di Magistratura democratica e quelle del Movimento per la giustizia, il gruppo fondato da Falcone che annovera tra i suoi esponenti di punta il procuratore di Torino Armando Spataro e quello di Napoli Gianni Melillo. Nello staff di Bonafede non ci sono neppure giudici di Magistratura indipendente, la sigla più a destra. Tant’è che protesta Pierantonio Zanettin, che ha lasciato il Csm per tornare a essere deputato di Forza Italia, e che di Mi è stato per quattro anni un buon alleato assieme ad Elisabetta Casellati, oggi presidente del Senato. Per quale corrente ha giocato dunque Bonafede? A guardare l’organigramma le sigle che spiccano sono quelle di Unità per la costituzione, il gruppo moderato e di centro, e di Autonomia e indipendenza, i davighiani. Entrano nomi che non sono noti alle cronache per il loro passato e quindi in alcun modo possono fare ombra allo stesso ministro, come avrebbe potuto fare l’ex pm di Palermo Nino Di Matteo. Di certo è vicino a Unicost il nuovo capo di gabinetto Fulvio Baldi, ex sostituto procuratore generale in Cassazione, che ha sostituito Betta Cesqui, da sempre toga rossa di Md. Di Unicost anche il nuovo capo delle carceri, Francesco Basentini, ex procuratore aggiunto a Potenza e titolare dell’inchiesta Tempa rossa, che dall’oggi al domani ha preso il posto di Santi Consolo, il cui rapido benservito nel giro di 24 ore lo ha costretto alla pensione. A precisa domanda i vertici di Unicost sostengono però che tra loro e Bonafede non ci sarebbe stata alcuna trattativa, né tantomeno un pour parler. Idem per i davighiani, da cui proviene Giuseppe Corasaniti, ex pg in Cassazione, che diventa capo degli Affari di giustizia, il Dag. Avrà come vice Marco Nassi, un pm di Grosseto. Non entrano però nomi di punta della corrente di Davigo, come Sebastiano Arditta e Alessandro Pepe. Del passato di Orlando è rimasto pochissimo in via Arenula. Resistono per ora Barbara Fabrini, toga di Area, a capo della direzione del personale e reggente dell’organizzazione giudiziaria, ma giusto perché sarebbe in buoni rapporti con Leonardo Pucci, nuovo vice capo di gabinetto, ex giudice del lavoro ad Arezzo, amico personale di Bonafede e suo compagno di studi, tant’è che c’è chi assicura che sia stato anche suo testimone di nozze. Resiste pure Donatella Donati, direttore degli Affari penali, l’ufficio che fu di Falcone, ma le voci dicono che anche la sua poltrona sarebbe in bilico. Né a rassicurarla basta la nomina recente, perché Bonafede ha rimandato a Milano Renato Bricchetti, l’ex pm che Orlando aveva scelto come capo dell’ufficio legislativo, affidato adesso a Mauro Vitiello, un altro sostituto procuratore generale della Cassazione. Stessa storia per un’altra poltrona strategica, quella del capo degli ispettori, gli 007 di via Arenula: via Marco Dall’Olio, di Area, giunto da pochi mesi dal Csm, e al suo posto Andrea Nocera, giudice del Massimario della Cassazione e vice Liborio Fazzi, giudice a Palmi. Ma chi sarebbe stato il grande suggeritore del ricambio? Suggerimenti sarebbero arrivati da Fabrizio Di Marzio, un buon amico del premier Giuseppe Conte, un civilista della Cassazione in prestito alla commissione che a palazzo Chigi valuta le entrate dei partiti. Poi Bonafede non ha certo tradito le sue pregresse amicizie toscane. Il bilancio e il suo segno politico sono comunque evidenti, perché Area esce penalizzata dal suo spoils system. E se tra una settimana dovesse perdere consensi potrebbe addebitare una parte della colpa al nuovo ministro. Di cui sicuramente non parla male il presidente dell’Anm ed esponente di Unicost Francesco Minisci, pm a Roma: “Il primo incontro con lui è stato positivo, su intercettazioni e prescrizione si muove in sintonia con i magistrati”. Davanti al Guardasigilli, al Csm, Luca Palamara, toga di punta di Unicost, è stato prudente e ribadisce: “Non abbiamo pregiudizi, ma non siamo neppure degli sponsor, come lo sono altri, vediamo quali saranno le sue riforme”. Gli sponsor sarebbero quelli di Davigo che, sostengono i malevoli, sarebbero pronti a sostenere Bonafede in cambio di un nuovo spostamento in avanti dell’età pensionabile, da 70 a 72 anni, giusto quelli che mancano allo stesso Davigo per non andare in pensione a metà mandato se sarà eletto al Csm, anche se lui nega che problemi di questo genere lo riguardino. La Corte europea dei diritti dell’uomo nel mirino della ruspa di Rocco Todero Il Foglio, 2 luglio 2018 Dopo l’ennesima sentenza di condanna dell’Italia per violazione dei diritti e delle libertà fondamentali, Salvini ha trovato la soluzione: demolire la Corte. La ruspa ha sgasato un’altra volta. A dovere avere paura dell’impennata minacciosa della benna sovranista, assisa pro tempore al Ministero dell’interno italiano, a questo giro, niente meno che la Corte Europea dei diritti dell’uomo. L’Istituzione, diretta emanazione della relativa Convenzione internazionale sottoscritta nel 1950 e divenuta vincolante per una cinquantina di paesi europei, ha condannato l’Italia per avere il nostro Bel Paese calpestato (ancora una volta) i diritti fondamentali di alcuni incolpevoli cittadini, nonostante l’impegno di tutte gli organismi giudiziari interni. Per questo motivo il capo ruspa leghista ne avrebbe auspicato, sebbene fugacemente, l’abbattimento per indegnità nazionale. Sono gli effetti della peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che sono state sperimentate finora (copyright Winston Churchill), che consente ad un uomo dotato esclusivamente di buona volontà di essere completamente digiuno dell’alfabeto istituzionale del mondo occidentale e ciononostante di assurgere ad uno degli scranni più importanti dell’architettura repubblicana e godere (a quanto pare) dell’attrazione estatica di circa il 30% di coloro che esercitano il diritto di elettorato attivo. L’investitura popolare non obbliga, infatti, il Ministro dell’interno ad avere consapevolezza della necessità storica che ha reso indispensabile la creazione di un organismo come la Corte che ha sede a Strasburgo; la necessità, cioè, di assicurare all’individuo, nella sua desolante solitudine di fronte allo Stato, la facoltà di potere chiamare un’istituzione indipendente dai poteri della Nazione cui appartiene a giudicare del trattamento che gli è stato riservato dall’ordinamento giuridico interno in materia di tutela di diritti e libertà fondamentali. Il fine, dunque, è stato quello di considerare l’essere umano, prima ancora che cittadino sottomesso all’esclusiva sovranità di un apparato pubblico all’interno del quale nessuna ingerenza è consentita, titolare di diritti e libertà che possono essere rivendicati anche davanti ad un giudice sovranazionale, il quale possa sanzionare le violazioni che gli organi statali commettono nel tentativo (connaturato all’essenza stessa del potere pubblico) di perseguire interessi politici a discapito degli spazi di libertà e autonomia dell’individuo. Una necessità che si è resa evidente nel corso dei decenni in paesi come Russia, Turchia, Ungheria e molti altri che hanno tentato di raggiungere lo status di democrazie liberali (senza peraltro ancora esserci riusciti del tutto) grazie soprattutto al contributo determinante della Corte Europea dei diritti dell’uomo, la quale ha sanzionato decine di violazioni messe in atto dagli apparati pubblici in materia di diritto alla vita, alla libertà d’espressione, alla libertà religiosa, di diritto d’associazione, di famiglia, di diritto alla difesa ed al contraddittorio processuale e via discorrendo. Con il vento elettorale in poppa il titolare del Viminale si sente autorizzato oggi al rutto libero contro quell’Istituzione che solo in Italia ha sanzionato in ordine sparso: 1) la violazione da parte dello Stato (e quindi anche delle autorità giurisdizionali) del diritto di proprietà nei procedimenti espropriativi all’esito dei quali il diritto dell’individuo veniva liquidato in misura inferiore al valore di mercato del bene espropriato; 2) la violazione da parte dello Stato del diritto dei detenuti di godere di almeno tre metri quadrati di spazio e di luce e servizi igienici adeguati all’interno delle carceri dove scontano la pena; 3) la violazione da parte dello Stato del diritto degli imputati di non essere condannati per fattispecie criminali non in vigore al momento della commissione dei fatti; 4) la violazione da parte dello Stato del diritto dei cittadini a non vedersi confiscati la proprietà allorché l’abuso edilizio commesso sia stato realizzato con il contributo determinante della pubblica amministrazione; 5) la violazione da parte dello Stato del diritto dei cittadini a non vedersi malmenati notte tempo, senza alcuna ragione e fuori dal contesto della guerriglia urbana, da parte delle forze di polizia; 6) la violazione da parte dello Stato del diritto degli individui a vedersi riconosciuta la legittimità di libere ed innocue relazioni omosessuali; 7) la violazione da parte dello Stato del diritto dei cittadini a che gli organi di polizia e la magistratura si facciano effettivamente carico delle denunce penali presentate a tutela di beni di rilievo costituzionale. Se l’ordinamento giuridico nazionale oggi ha maggiore riguardo per l’individuo e per le sue libertà, tanta parte del merito è da ricondurre, conclusivamente, al lavoro con il quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dovuto correggere nel corso degli anni il percorso non sempre liberale intrapreso dalle istituzioni statali e dalle giurisdizioni nazionali. Nello stesso tempo il futuro Ministro dell’interno italiano si allenava evidentemente a ruttare alla guida della ruspa populista. Via D’Amelio: patto tra mafia e istituzioni deviate “il più grave depistaggio della storia” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 2 luglio 2018 Dall’agenda rossa, al falso pentito, al ruolo di La Barbera. Chiesto giudizio per 3 poliziotti. A 26 anni dalla strage è la prima volta che una sentenza certifica la fabbricazione di prove false e l’occultamento della verità nelle inchieste degli anni 90. Il mistero della morte di Paolo Borsellino si fa ancora più fitto guardando a ciò che accadde dopo la strage di via D’Amelio. La scomparsa dell’agenda rossa (dove probabilmente il magistrato aveva annotato ipotesi e sospetti sull’attentato a Giovanni Falcone e le trame mafiose che l’avevano pianificato e realizzato) e le successive dichiarazioni di falsi pentiti istruiti dalla polizia, sono fatti collegati tra loro e compongono “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. Che deve avere un movente, forse connesso alle bombe esplose fra il 1992 e 1993, la stagione del terrorismo mafioso. Così hanno scritto i giudici della corte d’assise di Caltanissetta che nell’aprile 2017 ha decretato due condanne all’ergastolo nel quarto processo sulla strage del 19 luglio ‘92, e altre due per calunnia. Facendo in parte giustizia delle storture verificatesi nei giudizi precedenti, quando furono condannati degli innocenti proprio a causa del “depistaggio”. A ventisei anni dall’eccidio, e dopo dieci di indagini avviate con le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza che ammise la sua partecipazione all’attentato sconfessando le precedenti ricostruzioni, è la prima volta che una sentenza certifica la fabbricazione di prove false e l’occultamento (almeno parziale) della verità nelle inchieste degli anni Novanta. È la storia del falso pentimento di Vincenzo Scarantino, piccolo malavitoso elevato al rango di boss che contribuì a una ricostruzione “minimalista” circoscrivendo i colpevoli a un nucleo di mafiosi (alcuni dei quali innocenti). Spalleggiato da alcuni poliziotti che non solo ne raccolsero le prime dichiarazioni ma poi lo aiutarono a confermarle e correggerle per renderle credibili nei successivi dibattimenti. Nonostante le contraddizioni e anomalie rilevate da pubblici ministeri come Ilda Boccassini e Roberto Saieva. “Una trama complessa - annota ora la corte d’assise - che riuscì a trarre in inganno anche i giudici dei primi due processi”. L’anello di congiunzione tra i due principali momenti della trama - la scomparsa dell’agenda rossa, presumibilmente sottratta subito dopo l’esplosione della bomba da mani rimaste ignote, e le bugie di Scarantino - per gli ultimi giudici è Arnaldo La Barbare, esperto e stimato investigatore che all’epoca guidava la Squadra mobile di Palermo e in seguito salì molti gradini fino a diventare questore di Roma e responsabile dell’antiterrorismo. I giudici ne sottolineano “il ruolo fondamentale assunto nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia”, e lo considerano “intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda”. Tuttavia La Barbera, deceduto nel 2002, non ha mai potuto difendersi da sospetti e accuse che hanno preso corpo solo dopo la sua morte prematura. Le indagini sulle responsabilità e il movente del depistaggio non si sono fermate, e la scorsa settimana la Procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio di tre poliziotti che parteciparono all’inchiesta muovendosi agli ordini di La Barbera: Mario Bo (posizione già archiviata e riaperta), Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. E la corte d’assise nota che gli ulteriori accertamenti non possono prescindere sia dalle reali finalità dell’eliminazione di Borsellino (nemico storico di Cosa nostra, che però avrebbe deciso l’esecuzione della condanna a morte solo dopo “sondaggi con persone importanti appartenenti al mondo economico e politico”, come ha detto un pentito considerato attendibile come Nino Giuffrè) sia dalle drammatiche confidenze dello stesso Borsellino alla moglie Agnese: “Il giorno prima di morire Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere; in precedenza mi disse testualmente che “c’ era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”“. Così si ritorna al nocciolo della questione: i contatti tra pezzi di criminalità e di istituzioni che s’intravedono anche alla luce di questa sentenza, per un’ipotetico patto occulto di complicità e reciproca copertura. La mafia uccide Borsellino per vendetta e per ciò che può scoprire dopo la morte di Falcone, dentro e fuori Cosa nostra; poi arriva qualcuno che fa sparire le tracce dei suoi sospetti (l’agenda rossa) e si adopera per chiudere il cerchio sui boss (alcuni dei quali individuati a tavolino), nel tentativo di ridurre i danni al minimo. Per tutti. Mafie. Una Corleone controvento di Attilio Bolzoni La Repubblica, 2 luglio 2018 La voglia di scrivere qualcosa su Corleone che andasse un po’ controvento mi era venuta qualche mese fa. Un anno prima, era stato deciso lo scioglimento “per mafia” del Comune. Sicuramente il ministero dell’Interno avrà avuto validissime ragioni ma faceva una certa impressione scoprire che quell’ente fosse entrato nelle attenzioni del Viminale praticamente a tempo scaduto, cioè quando i Corleonesi - intesi come famiglia mafiosa - contavano ormai come il due di briscola. Tutto secondo copione, uno Stato lento ma implacabile. E poi mi aveva colpito anche una raffica di articoli giornalistici dove alcuni vecchi pastori quasi centenari e legati a Totò Riina - tutti intercettati dalle microspie - se la prendevano con il ministro dell’Interno Angelino Alfano paragonandolo addirittura al Presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy (assassinato il 22 novembre del 1963 a Dallas) che prima aveva preso i voti degli “amici” e poi agli “amici” aveva voltato le spalle. A parte l’accostamento - diciamo umoristico - fra Kennedy ed Alfano, il procuratore capo della Repubblica di Palermo Francesco Lo Voi aveva riportato la vicenda nelle sue reali dimensioni precisando saggiamente che si trattava “più di una critica che di un progetto di attentato”. Qualcuno però se l’è subito venduta altrimenti. Anche questo, tutto secondo copione. Tornando alla voglia di scrivere su Corleone. Sotterrati i suoi Padrini più famosi e sanguinari, lo “zio Totò” e Bernardo Provenzano, stavo rintracciando un “filo” per raccontare in una chiave diversa questa città siciliana tanto famigerata in Italia e nel mondo (alla fine degli anni ‘50 i boss americani la chiamavano Tombstone, pietra tombale), quando ho incontrato per caso i ragazzi del C.I.D.M.A, il Centro Internazionale di Documentazione sulle Mafie e del Movimento Antimafia di Corleone. Eravamo a Catania, invitati il 5 maggio scorso dai professori e dagli studenti del liceo “Boggio Lera” e dall’avvocato Riccardo Trovato. Dovevamo parlare delle mafie dopo le stragi. Per il C.I.D.M.A c’erano Walter Bonanno e Maria Elena Saltaformaggio. C’era anche Massimiliana Fontana. Questi ragazzi mi hanno molto incuriosito per come parlavano di Corleone, per la loro voglia di vivere là, per la spontaneità con la quale entravano nelle pieghe della storia della loro città. Mezz’ora di chiacchiere ed eccoci tutti insieme qui sul blog “Mafie”. Gli argomenti li hanno proposti loro, gli autori degli articoli li hanno scelti loro, anche la cadenza giorno dopo giorno delle riflessioni è stato il risultato di una loro scelta. N’è venuto fuori un ritratto di Corleone molto lontano da quello che l’Italia ha conosciuto dopo almeno tre decenni di cronache, dedicate al crimine di questo luogo cresciuto ai piedi della Rocca Busambra. Un “interno” Corleone che riserva non poche (piacevoli) sorprese. Ne ha riservate anche a me, che a Corleone ho messo piede per la prima volta il 26 settembre del 1979. Il giorno prima avevano ucciso a Palermo il consigliere istruttore Cesare Terranova - insieme al maresciallo di polizia Lenin Mancuso -, il magistrato che aveva “scoperto” i Corleonesi venticinque anni prima portandoli - inutilmente, furono assolti per insufficienza di prove - tutti a processo. Quel pomeriggio la piazza principale di Corleone era deserta e spazzata dal vento. Su una panca c’era soltanto la fotografa Letizia Battaglia, che aveva esposto su grandi pannelli di cartone i suoi scatti dei “morti di mafia”. Intorno a Letizia nessuno. E, all’improvviso, da un vicolo era apparso anche Joe Marrazzo, l’inviato della Rai che inseguiva con il microfono in mano alcuni cittadini di Corleone chiedendo “Ma qui esiste la mafia?”. Nessuno gli rispondeva, tutti fuggivano. Scene che oggi si vedono solo in alcuni paesi dell’Agro Pontino, alla periferia di Roma, nell’hinterland milanese. A Corleone lo sanno che c’è, che c’è ancora. Ma sanno che c’è anche dell’altro. E sta venendo fuori. Mafie. Un luogo speciale che si chiama Cidma di Lorena Pecorella La Repubblica, 2 luglio 2018 A Corleone, a casa nostra, c’è un posto insolito e affollato che si chiama C.I.D.M.A. Il giorno della sua inaugurazione, il 12 dicembre del 2000, io avevo appena nove anni e un compito importante per l’occasione: ero stata scelta tra i miei compagni per omaggiare il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, venuto a Corleone per il grande evento, di un dono e una poesia da parte dell’Istituto “Camillo Finocchiaro Aprile”. Le maestre mi avevano preparato bene, nel caso in cui mi avesse rivolto qualche domanda e, anche se di mafia avevo sempre sentito parlare e i nomi dei boss corleonesi li conoscevo a memoria, dovetti informarmi su cosa significasse “Centro Internazionale di Documentazione sulle Mafie e del Movimento Antimafia” e su cosa offrisse. Ero piccola, ma capì lo stesso che l’apertura del C.I.D.M.A. significava tanto per noi e dovevo dare il meglio. La pressione fu così tanta che, unita ad un’insolazione, mi fece svenire proprio nel momento in cui il Presidente poggiò la sua mano sul mio capo e mi chiese cosa volessi fare da grande. Feci appena in tempo a rispondere “il magistrato”, che caddi tra le braccia della maestra di matematica. La mia risposta non era stata casuale: credevo (e ho creduto fino a pochi anni fa) che per combattere la mafia bisognava stare nelle aule di un tribunale e stabilire sentenze. Quindi, dopo il diploma, intrapresi gli studi di Giurisprudenza a Palermo per portare a termine la mia missione. Solo dopo due anni capì che stavo percorrendo la strada sbagliata e decisi di cambiare corso di laurea. Oggi sono una studentessa magistrale di Comunicazione e quello strano posto di cui parlavo e che ho ammirato da sempre e fatto conoscere a parenti ed amici in visita a Corleone, oggi è diventato un po’ casa mia. Sono entrata a far parte dello staff del C.I.D.M.A. a luglio 2016, prima accompagnando soltanto visitatori italiani e poi anche visitatori stranieri in lingua inglese. Ricordo ancora il mio primo tour: Emiliano, veterano del centro, mi ha accompagnato durante tutto il percorso per assicurarsi che tutto procedesse bene e per soccorrermi qualora dimenticassi qualche dettaglio importante. Il sostegno e i consigli di altre guide con maggiore esperienza è stato fondamentale per ognuno di noi. È difficile parlare della mia esperienza al C.I.D.M.A. nello spazio di un articolo di giornale, perché le giornate sono caratterizzate da così tanti incontri, così tante storie, così tanti confronti, che non basterebbe un giorno intero per parlare di tutto. Inoltre, solo chi è passato da lì può capire fino in fondo quello che sto per raccontare. Vengono a trovarci, tutto l’anno, persone da tutto il mondo e il motivo è prevalentemente lo stesso: la mafia. Arriva l’americano con la coppola comprata al negozietto di souvenir cinquanta metri prima che chiede indicazioni per la casa di Don Vito Corleone e quando gli spieghi che “Don Vito is a cinematographic invention and the movie wasn’t shoot here, but in Savoca”, lui, deluso, quasi vorrebbe andar via (e, a volte, va via veramente). Arriva il siciliano che quella storia, raccontata attraverso le nostre testimonianze e le foto di Letizia Battaglia che documentano stragi, atteggiamenti e messaggi mafiosi, la conosce bene e ne porta ancora addosso residui e ferite e alla frase pronunciata davanti ai Faldoni “il Maxiprocesso è la più grande vittoria della giustizia italiana”, si commuove e si sente, come noi, pervaso da un sentimento di estremo orgoglio. Arriva il giornalista che sa già tutto, ma vuole approfondire e sapere come si vive nella città che ha dato i natali ai peggiori boss della storia siciliana. Arriva lo straniero che ha sentito parlare qualche volta del pool antimafia, ma vuole capire meglio perché dei giudici che svolgevano semplicemente il loro lavoro, finiscono per essere considerati eroi, visto che in Sicilia anche compiere il proprio dovere diventa pericoloso e ti costa la vita. E poi arrivano i ragazzi. Il C.I.D.M.A. infatti, ogni anno, apre le porte a centinaia di studenti da tutta Italia e questa è l’occasione di crescita più bella. All’inizio catturare la loro attenzione è un po’ difficile: si aspettano il racconto di storie sentite e risentite. Dopo pochi minuti, però, li vedi attenti e pieni di interrogativi, a volte increduli, a volte emozionati e, quando alla fine ti sorridono e ti dicono “proveremo ad essere dei cittadini migliori perché il sacrificio di molti non resti vano”, ti rendi conto di avere veramente gettato un seme e che quel seme germoglierà e farò frutto. Trent’anni fa era quasi impossibile parlare di mafia a Corleone. Prevalevano paura, rassegnazione, omertà e la mentalità secondo cui meno parlavi meglio vivevi, se non addirittura quella secondo cui la mafia proteggeva la gente e offriva opportunità a tutti, per cui ci si sentiva quasi in dovere nei suoi confronti. Oggi è tutto diverso e noi corleonesi siamo testimoni di una rivoluzione culturale partita dalle scuole, dalle famiglie, dalle parrocchie, in cui è maturata la consapevolezza che la mafia, invece, non porta a nulla di buono e solo conoscendone azioni, motivazioni, atteggiamenti e limiti è veramente possibile scegliere da che parte stare. Spesso mi chiedono cosa si faccia al C.I.D.M.A. e quando rispondo qualcuno pensa che ripetere sempre le stesse cose, dopo un po’ possa stancare. Ma la noia è un sentimento impossibile da sperimentare quando interagisci con persone sempre diverse, perché saltano fuori un’incredibile varietà di domande, una serie di curiosità mai scontate e crei con ognuno dei legami fatti di stima e ammirazione reciproca. Conosci culture diverse come se ogni giorno viaggiassi senza sosta e invece sei sempre nello stesso luogo. Si crea come una catena umana fatta di coscienze pulite. Sai che ognuno che passa di lì racconterà poi un po’ della sua esperienza e si sentirà partecipe di un progetto. È così che si vive dentro quell’ex convento di San Ludovico: dei ragazzi incontratisi per caso, ognuno con qualcosa da offrire, ognuno coi propri talenti, ognuno coi propri limiti, sono parte fondamentale di questa grande famiglia. Si condividono ansie, sogni, speranze, ci si supporta a vicenda, ci si scambia idee quasi mai del tutto concordanti, si condivide così tanto che alla fine nessuno crede che sia stato un caso incontrarsi. La mia esperienza al C.I.D.M.A. mi ha ricordato chi sono e mi ha ridato la speranza, persa da molto tempo, che la mia Corleone può veramente cambiare e sradicare una volta per tutte la sua etichetta. Quando alla fine di un tour, davanti al portone di Via Valenti n. 7, abbracci i visitatori e li ringrazi mentre stanno per andar via, senti proprio il desiderio di guardarli allontanarsi, girare l’angolo e proseguire per la loro strada, perché sai che da quel momento cammineranno con più consapevolezza e con più speranza. E allora smetti di maledire il posto in cui sei nato, quella terra disgraziata che tanto ti dona e tanto ti toglie e inizi ad apprezzare la bellezza attorno a te. Senti come un soffio di vento accarezzarti il viso, forse quel “fresco profumo di libertà”, e inizi a sentirti esattamente dove dovresti essere. L’avvocato può criticare la composizione della giuria di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2018 Corte di giustizia europea, affare Ottan contro Francia. Un freno alle sanzioni disciplinari nei confronti degli avvocati che esprimono critiche alla giuria nel corso di un’intervista. È la Corte europea dei diritti dell’uomo a fissarlo con la sentenza Ottan contro Francia con la quale Strasburgo amplia il perimetro della libertà di espressione del legale e dell’“immunità” da concedere agli avvocati nelle aule di giustizia. Anche quando le dichiarazioni sono rese alla stampa. Il caso - A rivolgersi alla Corte europea era stato un avvocato francese destinatario di una sanzione disciplinare dopo aver affermato che un verdetto di assoluzione di un gendarme, accusato di aver sparato a un giovane nel corso di alcuni controlli, era scontato in ragione della composizione della giuria costituita solo da bianchi. Era scattata una sanzione disciplinare. Contraria alla Convenzione europea, per Strasburgo. La Corte Ue - Il diritto alla libertà di espressione - scrive la Corte - non copre l’attività del legale unicamente all’interno delle alle di giustizia, ma anche quando l’avvocato esprime delle dichiarazioni alla stampa legate al caso e all’interesse del cliente. Tra l’altro, la dichiarazione serviva a spingere il procuratore a fare appello contro l’assoluzione. La dichiarazione, poi, pur facendo riferimento all’origine etnica, non era particolarmente animosa e non era rivolta direttamente verso un giurato o un giudice. L’affermazione dell’avvocato - osserva Strasburgo - pur richiamando l’origine etnica o il colore della pelle dei giurati, mirava ad accendere i riflettori su una questione di interesse per la collettività ossia la composizione delle giurie. Di qui la conclusione che le autorità nazionali, nel prevedere un ammonimento per il legale, hanno violato il suo diritto alla libertà di espressione. L’accompagnamento non entra nella soglia del gratuito patrocinio di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2018 Corte di cassazione, sentenza 26302/2018. Sì al gratuito patrocinio se il reddito supera la soglia di legge solo per il “peso” dell’indennità di accompagnamento. Il sussidio, infatti, proprio perché teso a consentire al disabile condizioni di vita compatibili con la dignità umana, esula dal conteggio del reddito. Lo puntualizza la Corte di Cassazione, con lasentenza 26302 depositata lo scorso 8 giugno. Il caso - A sollecitare l’intervento dei giudici di Piazza Cavour è il ricorso promosso da un indagato avverso l’ordinanza con cui il gip del tribunale di Roma gli aveva negato l’accesso al patrocinio a spese dello Stato. Motivo principe, tra i tre formulati, quello per cui la decisione impugnata sarebbe stata contraria a quanto sancito dal terzo comma dell’articolo 76 del testo unico sulle spese di giustizia (Dpr 115/2002). Se è vero, marca il legale dell’uomo, che per la determinazione dei limiti di reddito vanno valutati anche i redditi esenti dall’Irpef o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, è pur vero che se ne dovrebbe vagliare la concreta incidenza sul superamento del tetto previsto per poter fruire del gratuito patrocinio. E al riguardo, conclude, andrebbe seguito il principio espresso dalla pronuncia di Cassazione 31591 del 2002 (rafforzato dalla giurisdizione contabile della Corte dei conti n. 71141/1994 nonché da quella amministrativa del Tar di Trento n. 179/1993) ferma ad escludere tali emolumenti dalla nozione di reddito delineata dall’articolo 6 del Dpr 917/1985. Stessa soluzione per l’indennità di accompagnamento, sussidio non assimilabile alle altre fonti di entrata, non derivandone per il beneficiario alcun incremento patrimoniale. La Cassazione - La Suprema corte concorda con la tesi difensiva e accoglie il ricorso. In materia di gratuito patrocinio - ricorda richiamando quanto già affermato da Cassazione n. 24842/2015 (occupatasi della vicenda di un’imputata cui era stato negato il beneficio a causa dell’indennità percepita per la figlia minorenne, portatrice di handicap) - le somme incassate a titolo di indennità di accompagnamento a favore degli invalidi totali non fanno reddito, nel senso che restano fuori dalla nozione di reddito di cui al citato articolo 76 del testo unico sulle spese di giustizia. Si tratta, del resto, di sussidi destinati “a fare fronte agli impegni di spesa indispensabili per consentire alla persona disabile, condizioni di vita compatibili con la dignità umana”. Ecco che, l’accesso del soggetto al patrocinio a spese dello Stato, appunto perché subordinato alla titolarità di un reddito imponibile ai fini dell’imposta personale sul reddito risultante dall’ultima dichiarazione - non superiore all’importo aggiornato ogni biennio con decreto del ministero della Giustizia (oggi la soglia è stabilita in 11.528,41 euro annui ed elevata di 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi) - non potrà essere negato a chi, invalido al 100% e incapace di compiere autonomamente gli atti della vita quotidiana, superi il limite massimo soltanto in ragione del computo degli importi percepiti come indennità di accompagnamento. Si spiega così, il percorso seguito dalla Cassazione che, sancita la fondatezza del ricorso e annullato il provvedimento di diniego contestato, ha rinviato gli atti al tribunale per un nuovo esame. Patteggiamento: sul difetto di motivazione non è ammesso ricorso per cassazione di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 31 maggio 2018 n. 24514. In tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, in forza del comma 2-bis dell’articolo 448 del Cpp, introdotto dalla legge n. 103 del 2017, in vigore dal 3 agosto 2017, il ricorso per cassazione contro la sentenza di patteggiamento è proponibile solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza. Da ciò deriva - spiegano i supremi giudici penali con la sentenza 24514/2018 - che, in relazione alla sentenza di patteggiamento, il difetto di motivazione - persino quello in ordine alla insussistenza delle condizioni per la pronuncia del proscioglimento ai sensi dell’articolo 129 del Cpp - non rientra più tra i casi per i quali è ammesso il ricorso per cassazione (la Corte ha comunque precisato che la nuova disciplina sulle impugnazioni, non avendo inciso sulla struttura della sentenza di patteggiamento, non esclude la persistenza dell’obbligo per il giudice di accertare l’insussistenza delle condizioni per pronunciare il proscioglimento, ma l’eventuale omissione della motivazione sul punto, comunque, non è più censurabile in cassazione: è una scelta normativa non irragionevole, secondo la Corte, alla luce dell’implicito riconoscimento di responsabilità insito nella richiesta di applicazione della pena concordata, che rende poi contraddittorio e superfluo un giudizio di impugnazione sullo svolgimento dei fatti). In termini, sezione II, 11 gennaio 2018, Oboroceanu, secondo cui, ai sensi dell’articolo 448, comma 2-bis, del Cpp, introdotto con la legge 23 giugno 2017 n. 103, è inammissibile il ricorso per cassazione, avverso la sentenza di patteggiamento, con il quale si deduca l’omessa valutazione da parte del giudice delle condizioni per pronunziare sentenza di proscioglimento: in tal caso, la corte provvede a dichiarare l’inammissibilità con ordinanza de plano. Nello stesso senso, sezione V, 20 febbraio 2018, Murolo e altro, che, in termini più generali, si è espressa nel senso che il ricorso per cassazione contro la sentenza di patteggiamento è proponibile solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza; da queste premesse, in particolare, la Corte, dopo avere osservato che la disciplina limitativa dei motivi di impugnazione dovesse trovare applicazione nella vicenda in esame poiché le richieste di applicazione di pena erano state presentate posteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 103 del 2017 (in vigore dal 3 agosto 2017), secondo quanto precisato dall’articolo 1, comma 50, della stessa legge, ha quindi dichiarato inammissibili i ricorsi dei due imputati: per il primo, mettendo in evidenza che non emergeva il preteso difetto di correlazione tra la richiesta di applicazione della pena e la sentenza, perché la subordinazione dell’efficacia della richiesta alla concessione della sospensione condizionale della pena era stata formulata a condizione che al riconoscimento del beneficio della sospensione stessa non fosse di ostacolo una precedente condanna subita dallo stesso imputato; per il secondo, mettendo in evidenza, invece, l’insussistenza della pretesa illegalità della pena, prospettata sostenendo la violazione del disposto dell’articolo 444, comma 1-bis, del Cpp, laddove si esclude l’applicabilità del patteggiamento nei confronti dei recidivi ai sensi dell’articolo 99, comma 4, del Cp qualora la pena richiesta superi i due anni di reclusione, valorizzando in senso contrario che il giudice aveva ritenuto che il reato in concreto commesso non fosse espressione della particolare pericolosità dell’interessato, così escludendo la recidiva e l’applicabilità della disciplina ostativa. Per completezza di informazione, deve ricordarsi che, contestualmente all’intervento sull’articolo 448 del Cpp, limitativo dei casi di ricorribilità della sentenza di patteggiamento, la legge n. 103 del 2017 ha provveduto all’inserimento del comma 5 bis nel corpo dell’articolo 610 del Cpp, con la previsione di una procedura semplificata per la declaratoria di inammissibilità del ricorso: la Corte di cassazione, infatti, dichiara in tali casi l’inammissibilità “senza formalità di procedura”, nel senso che, con finalità evidentemente deflattiva del carico delle udienze dinanzi al giudice di legittimità, il provvedimento è emesso de plano, ossia in assenza di contraddittorio (non è neppure necessario acquisire il parere del procuratore generale e senza alcun obbligo di dare avvisi alle parti). Ricorso immediato per cassazione: regime applicabile dopo la riforma del processo penale Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2018 Processo penale - Impugnazioni penali - Sentenza di non luogo a procedere - Udienza preliminare - Impugnazione - Ricorso per saltum - Modifica della disciplina ex L. 103/2017 - Appellabilità - Regime applicabile. A seguito della riforma del processo penale attuata con la L. 103/2017, la sentenza di non luogo a procedere emessa nell’udienza preliminare ex art. 425 c.p.p. è appellabile. In assenza di disciplina transitoria, le nuove disposizioni trovano applicazione solo ai provvedimenti emessi successivamente all’entrata in vigore del nuovo testo normativo (3 agosto 2017), mentre deve ritenersi ancora impugnabile mediante ricorso per cassazione, secondo il previgente regime, la sentenza che sia stata emessa anteriormente a tale data. (Nel caso di specie i giudici di legittimità hanno così escluso il ricorso per saltum, qualificando come appello l’impugnazione della decisone del Gup di prosciogliere un imputato accusato del reato di falsificazione delle dichiarazioni sostitutive di certificazione perché non era stato accertato il dolo, trattandosi di sentenza emessa il 25 ottobre 2017). • Corte di cassazione, sezione IV penale, ordinanza 15 giugno 2018 n. 27526. Impugnazioni penali - Art. 569 c.p.p. - Ricorso immediato per cassazione - Riforma processo penale - Nuova disciplina. Il ricorso cosiddetto “per saltum”, ovvero il ricorso immediato per cassazione disciplinato dall’art. 569 c.p.p., dopo la modifica al testo dell’art. 428 c.p.p. recata dalla L. 103/2017, che ha esteso l’area del giudizio di secondo grado ripristinando l’appello, continua a esistere solo per la fase di cognizione, nella quale al giudice sono attribuiti pieni poteri di cognizione e non invece quando la pronuncia di proscioglimento sia stata emessa nel corso dell’udienza preliminare. • Corte di cassazione, sezione IV penale, ordinanza 15 giugno 2018 n. 27526. Sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. - Impugnazione - Ricorso per cassazione - Persona offesa-parte civile. La L. 23 giugno 2017, n. 103 ha modificato la norma di cui all’articolo 428 c.p.p., che disciplina l’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere emessa dal giudice all’esito dell’udienza preliminare. Il novellato articolo 428 c.p.p., comma 1 e 2, non prevede più che la persona offesa costituita parte civile possa ricorrere per cassazione. Si tratta di un intervento ripristinatorio di quanto era stabilito anteriormente alla L. 20 febbraio 2006, n. 46 che non contemplava il ricorso per cassazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice per l’udienza preliminare. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 30 marzo 2018 n. 14674. Impugnazioni - Impugnazioni penali - Sentenza di non luogo a procedere - Disciplina - Novum normativo - Impugnazione della parte civile. (Cpp, articolo 428; legge 23 giugno 2017 n. 103). Con la legge 23 giugno 2017 n. 103, entrata in vigore il 3 agosto 2017, è stata modificata la disciplina dell’impugnazione della sentenza di non luogo a procedere, contenuta nell’articolo 428 del C.p.p., nel senso che il ricorso per cassazione è stato sostituito dall’appello, alla cui proposizione sono legittimati il procuratore della Repubblica, il procuratore generale e l’imputato, salvo il caso, per quest’ultimo, che la sentenza abbia dichiarato che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’abbia commesso. Mentre, per quanto riguarda la persona offesa - cui la norma di cui all’articolo 428, comma 2, del C.p.p., nel testo anteriormente vigente, riconosceva, se costituita parte civile, il potere di proporre ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 606 del C.p.p., e quindi anche agli effetti penali - la citata disposizione, siccome novellata, consente soltanto di proporre appello per far valere la nullità nei casi di cui all’articolo 419, comma 7, del c.p.p., vale a dire quella relativa all’omesso avviso dell’udienza preliminare. In questa prospettiva, in assenza di specifiche disposizioni transitorie, il regime normativo da applicare ai ricorsi per cassazione presentati dalla parte civile ai sensi del dettato previgente dell’articolo 428, comma 2, del c.p.p, deve trovare la sua disciplina tenendo conto che trattasi di successione di norme processuali relative al regime delle impugnazioni, onde, ai fini dell’individuazione del regime applicabile, allorché si succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, è applicabile il principio tempus regit actum che impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 9 ottobre 2017 n. 46430. Bari: la città senza tribunale, dalla giustizia in tenda al fermo fino a ottobre di Marco Demarco Corriere del Mezzogiorno, 2 luglio 2018 Bari, smontate le tensostrutture allestite il 26 maggio per celebrare le udienze di rinvio dei processi penali: ma non c’è una sede alternativa. Si accumuleranno 70mila notifiche. Via i tavoli e le poche sedie in formica e alluminio da arredo scolastico. Via i fogli di carta con la scritta, frettolosa ma ugualmente evocativa, “la legge è uguale per tutti”. E via anche i gazebo provvisori utilizzati dai Carabinieri per i controlli. L’ordine del ministro Bonafede è stato dunque eseguito: la Protezione civile ha smantellato l’accampamento allestito nel parcheggio del Palagiustizia di via Nazariantz a Bari, dichiarato inagibile e di conseguenza sgomberato. Le tre tensostrutture, una da 200 metri quadri e due più piccole, erano state tirate su a fine maggio per celebrare le udienze di rinvio dei processi penali senza detenuti, ma sono poi apparse inadeguate all’amministrazione della giustizia nella cosiddetta Terza Repubblica. Giurisdizione sospesa - Ora se ne può fare a meno. Ma non perché sia stata già trovata una nuova sede in cui trasferire gli uffici giudiziari. Bensì, perché con decreto legge si è deciso, tra le proteste degli avvocati e dei magistrati, di risolvere diversamente - e anche radicalmente - il problema. Come? Semplicemente, sospendendo la giurisdizione fino a ottobre. In altre parole: niente processi, prescrizione sospesa, e atti relativi a oltre 70mila procedimenti da notificare daccapo. Nel frattempo, la sede sostitutiva, e comunque mai definitiva, perché a Bari si aspetta da tempi immemorabili una cittadella giudiziaria mai vista neanche nei rendering, sarà cercata sul mercato, attraverso i canali ordinari. E sempre che qualcuno abbia interesse a offrirla in fitto a un ministero in passato risultato anche moroso. Bari non è Parigi - Tutto questo - perizie, allarmi, inchieste, polemiche, sgomberi, tendopoli e paradossi vari - conferma almeno due cose. Che Bari, come si sospettava, non è Parigi. E che in Italia si sta facendo avanti uno strano modo di risolvere i problemi. La prima. Bari non è Parigi non solo per via del mare. Ma ora anche per via del Tribunale. Per una strana coincidenza, infatti, di quelle che dovrebbero far riflettere sulla qualità e l’efficienza degli apparati politico-amministrativi, mentre nel capoluogo pugliese magistrati e avvocati venivano invitati a starsene a casa, a Parigi succedeva questo: che Renzo Piano, architetto di fama internazionale ma anche senatore a vita in Italia, annunciasse il completamento del nuovo Palace de Justice, 180 metri d’altezza, aule con tre vie di accesso per ragioni di sicurezza, un boulevard interno, col tetto trasparente, che sarà frequentato da ottomila persone al giorno e un parco esterno intitolato a Martin Luther King. I ritardi - Ulteriore particolare, anche questo riportato ieri da Fulvio Irace sul Sole 24 Ore: il progetto parigino è stato immaginato e chiuso in sette anni. Il caso del Tribunale di Bari si trascina invece da quasi un quarto di secolo: anni, come si è visto, in cui è successo di tutto. Ma mai nulla di buono. Ed ecco la seconda conferma. Se in Italia c’è un’emergenza immigrazione e si chiudono i porti; se c’è un’emergenza Giustizia e si cancellano i processi; cosa si potrebbe mai fare con le liste di attesa negli ospedali? Si congeleranno le malattie? A Bari, polemicamente, c’è chi ne parla. Genova: le carceri sovraffollate e il “trionfo” del giustizialismo di Alessandra Ballerini La Repubblica, 2 luglio 2018 Non ci si crede. Quando provi a spiegare, a chi non lo sa, che nella medesima casa circondariale, dietro le stesse sbarre, sebbene ovviamente in sezioni differenti, stanno ristrette a scontare la loro pena, 72 donne di diversa nazionalità e 66 uomini, i quali, tutti, sono li ad espiare una condanna per reati a “riprovazione sociale”, vale a dire reati sessuali, la reazione immediata è di incredulo stupore. Questi uomini accusati, a torto o a ragione, di reati infamanti, quelli che nel gergo penitenziario vengono chiamati “sex offender”, rischiano di essere vittime, all’interno del circuito carcerario, di violenze indicibili da parte degli altri detenuti e per tale ragione vanno assolutamente “protetti”. A Genova stanno protetti nel carcere, una volta solo femminile, di Pontedecimo. Questa singolare scelta logistica comporta che tutti gli sforzi per rendere il tempo dolente della detenzione meno inutile e penoso a Pontedecimo devono duplicarsi cosi come devono essere raddoppiate le attività trattamentali e gli spazi per svolgerle, oltre agli ambulatori medici, le piccole palestre, le aule scolastiche ed il luogo di preghiera. Gli educatori devono sdoppiarsi e così anche i medici che pure sono numericamente carenti. I due blocchi, quello per gli uomini e quello per le donne dovrebbero essere identici, ma qui non vige la par condicio e cosi le donne, sebbene più numerose, subiscono una notevole carenza di luoghi di socialità. Eppure gli spazi, almeno quelli esterni qui non mancherebbero ma sono scarsamente utilizzati. Anche il progetto, attuato anni fa grazie alla lungimiranza della ex direttrice Maria Milano e alla generosità dell’associazione Terra!, di fare coltivare ai ristretti degli orti sinergici, è rimasto ormai solo un prezioso ricordo. Anche a Pontedecimo, va detto, uomini e donne, con o senza divisa, si spendono ben oltre l’orario e il mandato lavorativo per rendere meno insopportabile l’afflizione dei detenuti e per dare un senso al precetto costituzionale che prevede la rieducazione di chi è ristretto. Ma le carceri restano sovraffollate, il personale è sempre insufficiente ed è molto difficile immaginare che le persone che vi stanno detenute possano uscirne migliorate. Eppure chi auspica “la galera” per qualunque reato, confondendo il giustizialismo con la giustizia, crede, stoltamente, che moltiplicare i detenuti ed i tempi di detenzione possa portare sicurezza e pace sociale, senza riflettere sul fatto che queste persone, private della libertà e costrette a covare rabbia e dolore in spazi angusti da condividere con altri “colpevoli”, prima o poi usciranno e si mescoleranno con noi, “uomini liberi” e dunque sarebbe bene, per noi, oltre che per loro, che scontassero la loro pena in modo da migliorarsi e non da abbruttirsi, possibilmente anche fuori dalle mura carcerarie. Filippo Turati, alla Camera nel 1904, pronunciava queste attualissime parole: “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale...noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuola di perfezionamento dei malfattori”. Oggi è pieno di politici e commentatori che invocano il carcere come fosse un balsamo contro i mali del mondo. Costoro dovrebbero, prima di parlare, trascorrervi dentro un bel po’ di ore. Come suggeriva Pietro Calamandrei “bisogna vederle, bisogna esserci stati per rendersene conto”. Lanciano (Ch): dal carcere a un impiego nelle biblioteche Il Centro, 2 luglio 2018 In due anni i detenuti che frequentano la biblioteca del carcere sono passati da 10 a 189. E il giornalino della casa circondariale di Villa Stanazzo, “L’Arcobaleno”, ha raggiunto il settimo numero. Sono i due progetti, nati dalla sinergia tra Comune e casa circondariale (diretta da Lucia Avantaggiato), che hanno coinvolto i detenuti in esperienze di formazione, condivisione e didattica, in un percorso che punta al loro reinserimento sociale. “Il progetto “Biblioteche fuori le mura” è nato nel 2016 e quest’anno la convenzione con l’amministrazione di Lanciano è stata rinnovata per altri tre anni”, spiega la responsabile Gianvincenza Di Donato, “siamo partiti con numeri bassissimi, appena 10 persone, mentre oggi su circa 280 detenuti l’83%, ben 189, frequenta abitualmente la biblioteca del carcere e prende un libro in prestito. Abbiamo fatto seguire ad alcuni corsi di biblioteconomia e catalogazione, con il risultato che due detenuti lavorano nelle biblioteche di Lanciano e Mozzagrogna”. A gonfie vele anche il giornalino redatto dai detenuti, progetto seguito da Rosetta Madonna e giunto alla settima edizione. “La cultura ha il dovere di offrire un’altra opportunità, di restituire la libertà attraverso la lettura, la scrittura, i libri, i giornali, la parola, le varie forme di comunicazione”, sottolinea l’assessore alla cultura Marusca Miscia. Firenze: 3 anni di DanzaMovimentoTerapia nella sezione femminile di Sollicciano di Manuela Giugni perunaltracitta.org, 2 luglio 2018 Nei tre anni del percorso “Tempi e spazi danzati: il limite e la libertà nel luogo della negazione del tempo” rivolto alle donne detenute e a volontari/e di Sollicciano, sono state organizzate 4 performances che racchiudevano in sintesi il cammino consapevole, lungo e doloroso verso la propria consapevole libertà. 1- Il tempo danzato, 13 giugno 2016 2- Il tempo danzato, 8 marzo 2017 3- La luna nel pozzo, 16 giugno 2017 4- La svolta, ovvero Le dee vulnerabili, 14 giugno 2018 1- Il tempo danzato, 16 giugno 2016: la rabbia e la resilienza. Il Cambiamento “La performance di danzamovimentoterapia del Progetto “il Tempo Danzato” si è tenuto in 2 turni (ore 13/15, ore 21) presso il Teatro di Sollicciano, il 16 giugno 2016. Si tratta di un evento frutto del laboratorio di DMT, in collaborazione con Pantagruel, vissuto con le donne detenute da gennaio a giugno di quell’ anno e condotto dalle Maestre danzaterapeute Manuela Giugni, Enrica Ignesti, Maria Colangelo, con la partecipazione di Letizia Santoni. Lo spettacolo che cerca di rappresentare le difficili esperienze di vita delle nostre ragazze (punto di partenza/ viaggio/perdita/identità) si articola in 3 Quadri danzati e recitati: Passato: il cammino elastico Presente: il mondo interiore Futuro: le ali della libertà 2- 8 marzo 2017 - Ripetiamo con altre protagoniste la performance del giugno 2016 3- La luna nel pozzo 16 giugno 2017 Ideato e realizzato da Diamanta, Elena, Enrica, Erika, Manuela, Maria, Melissa e Shakira (dal progetto dell’Associazione Pantagruel “Laboratori al fresco: animazione culturale in favore della popolazione carceraria fiorentina”, finanziato dal Comune di Firenze). Dalla creatività irritata del limite alla consapevolezza della propria dignità. Percorso danzato attraverso la risorsa vitale della creatività: una possibilità per immaginarsi e re-inventare se stesse portando suggestioni e cambiamenti all’interno della istituzione totale. con Diamanta Bancuta, Maria Colangelo, Elena Cojocaro, Melissa Esposito, Enrica Ignesti, Cristea Garofita (Erika), Manuela Giugni, Maria Andrea Mitoc (Shakira). Lo spettacolo comprende 5 quadri: La piazza, Il viaggio, Il groviglio, Il pozzo, La luna, Il gran finale. Musiche di Nino Rota, Alan Silvestri, Goran Bregovich, Ezio Bosso, Handel, Raquel Portman, Strauss, Bogdan Artistu. Poesie di Garcia Lorca, Wilde, Saramago,Saba, Oliver, Merini, Neruda, Ungaretti, Saffo, Proust Perché questo titolo, La luna nel pozzo? Volere la luna nel pozzo. Volere l’impossibile. Promettere (vedere, cercare) la luna nel pozzo è un’espressione che letteralmente vuol dire far credere che il riflesso della luna in fondo al pozzo, che pare così a portata di mano, sia veramente la luna, una sorta di illusione ottica che però si infrange non appena si cerca di tirare fuori dal pozzo la luna riflessa. Nel 2017 siamo partite dall’esperienza dell’8 marzo cercando di valorizzare alcune conoscenze delle allieve danzatrici: il canto e la danza delle 4 donne Rom e l’abilità circense dell’unica donna italiana. Abbiamo raccolto i loro desideri infantili, raccontato le loro storie che si svolgono spesso e s’intrecciano nelle piazze delle nostre città. Abbiamo identificato il desiderio di un buon cambiamento nella loro vita attraverso la simbologia del viaggio. Ma anche il loro perdersi nella spirale di un labirinto oscuro e minaccioso. Abbiamo raccontato la fiaba della luna che illumina, ma che può anche dare l’illusione del lieto fine. L’attività si è conclusa con lo spettacolo La luna nel pozzo del 15 giugno (2 repliche + una replica) Nel corso dei mesi son passate più utenti di diverse nazionalità. Alcune sono uscite prima della conclusione del lavori. A fine corso erano presenti 4 donne Rom-rumene e 1 italiana. Problemi: - La presenza di 4 donne Rom ha allontanato dal laboratorio le altre donne di altra nazionalità. La verifica di questa constatazione è stata la scarsa partecipazione del pubblico pomeridiano composto da rumene e da pochissime italiane, amiche della ragazza italiana. - La collaborazione con il personale del carcere non continuativa: l’assistente delle attività educative, seppur gentile, è spesso assegnata ad altre mansioni nell’ambito scolastico; l’educatore (nostro riferimento era il coordinatore), è una persona competente in una situazione difficile ha dimostrato tutta la sua bravura nel risolvere un problema che si era creato improvvisamente. Punti qualità - La partecipazione in prima persona delle allieve alla costruzione del copione dello spettacolo: con le loro parole, i loro racconti verbali, grafici, danzati, recitati. - La partecipazione del Presidente di Pantagruel agli incontri laboratoriali (brevi, ma importanti visite che ci facevano sentire meno sole). E degli altri volontari: Leonardo Coppola è riuscito a risolvere un problema con leggerezza e senso del dovere; Antonia Ruggieri che ha contribuito a destinare una piccola somma alle danzatrici. - La partecipazione del pubblico esterno allo spettacolo, che ha accolto con amore il nostro cammino. Le ragazze Rom erano felicissime di veder danzare gli autoctoni con la loro musica: “Allora vi piace la nostra musica!”. 4- La svolta, ovvero Le dee vulnerabili Performance di DanzaMovimentoTerapia contro la violenza alle donne proposta alle donne che stanno fuori e alle donne che stanno dentro unendo tutte le donne in un gemellaggio a distanza. Prima rappresentazione: venerdì 25 maggio ore 18,15 a sostegno del Giardino dei Ciliegi in Via dell’Agnolo 5, con danzatrici e danzatori esterni al carcere. Seconda rappresentazione: giovedì 4 giugno ore 18,30 Teatro di Sollicciano con danzatrici interne al carcere. Le dee vulnerabili - Definiamo le dee Era, Demetra e Persefone, dee vulnerabili. Era, nota ai romani come Giunone, era la dea del matrimonio e la consorte di Zeus, sovrano degli dèi dell’Olimpo. Demetra, la romana Cerere, era la dea delle messi. Nel mito principale che la riguarda viene esaltato il suo ruolo di madre. Persefone, in latino Proserpina, era sua figlia, chiamata dai greci anche Kore: ‘fanciulla’. Le tre dee vulnerabili rappresentano i ruoli tradizionali di moglie, madre e figlia. Sono archetipi dell’orientamento al rapporto, quelle dee, cioè, la cui identità e il cui benessere dipendono dalla presenza, nella loro vita, di un rapporto significativo; esprimono il bisogno di appartenenza e di legame tipico delle donne; sono sintonizzate sugli altri e sono vulnerabili. Vennero tutte e tre violentate, rapite e dominate o umiliate da divinità maschili. La violenza è un’epidemia, un cancro metastatico, una degenerazione infausta: intorno e dentro le nostre vite. La violenza è in crescita. Siamo una società che si sta ammalando in modo esponenziale, di violenza. Ogni tipo di violenza: da quella verbale a quella fisica; da quella di matrice politica o religiosa a quella di tipo privato; dall’abuso costante di potere, divenuto sistema, alla violenza digitale, fino al cyberbullismo, fino all’induzione al suicidio per via virale sui social. Sconvolgente e nuovo è lo sfoggio sfrontato e impudente che si fa di questi crimini pubblicizzati su internet. Del tutto impreparati o impotenti risultano, alla resa dei fatti, i luoghi educativi tradizionali, investiti come sono da questa ondata di mediocrità dilagante. Saturata la violenza ideologica, quella attuale cambia pelle di continuo, si camuffa, prende nuove e molteplici forme, sempre più presenti e striscianti: diventa mezzo di comunicazione, di pressione, di discriminazione, di addestramento (pensiamo a quanti bambini passano ore al giorno nella violenza di buona parte dei videogiochi più comuni). In un paese dove ogni 2 giorni viene uccisa una donna quasi sempre per mano di uomini di famiglia, è necessario affrontare la fenomenologia della violenza dei “piccoli atti”, che è destinata, in una spirale senza fine, a culminare spesso in gesti clamorosi. Nel mondo una donna su tre (dati ONU) subirà violenza fisica (che è sempre il punto finale di tutte le altre forme di violenza,da quella verbale a quella economica). “Penso alla velocità folle a cui si moltiplicano nuovi e grotteschi metodi per mercificare e profanare i corpi delle donne in un sistema in cui ciò che è più vivo, sia esso la terra o le donne, deve essere ridotto a oggetto e annichilito per aumentare i consumi, la crescita, l’amnesia (…) la guerra contro di noi infuria ogni giorno più metodica, più sfacciata, brutale, psicotica.” Eve Ensler. La DanzaMovimentoTerapia come contributo per il recupero della dignità e integrità della donna nell’ambito delle violenze: dall’infanzia all’età avanzata. E allora La svolta, le dee vulnerabili, dedicata a Rossella Casini, fiorentina, uccisa dalla ‘ndrangheta 35 anni fa e a Mariam Moustafa ammazzata 3 mesi fa a Londra da una banda di giovani bulle. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un’impennata di fenomeni di violenza domestica. Sempre più spesso si leggono o odono notizie di soprusi e violenze sia fisiche che psicologiche ad opera di uomini nei confronti delle loro compagne. Un dato che rende ancora più inquietanti e agghiaccianti questi eventi è l’emersione di un ulteriore elemento che spesso emerge dall’analisi di questi casi: le donne hanno subito o subiscono per anni in silenzio questi soprusi, sopportano stoicamente le violenze domestiche a cui sono quotidianamente sottomesse, senza denunciare colui che si è trasformato in un vero e proprio aguzzino Una storia ci appartiene - E’ quella di una fiorentina vittima della ‘ndrangheta calabrese, di cui solo grazie a Libera si è parzialmente recuperata la memoria. Si tratta di una giovane fiorentina, Rossella Casini, una studentessa di psicologia che nel 1981 abitava in Borgo la Croce n.2 (proprio qui vicino al Giardino dei Ciliegi). Se non le avessero rubato il futuro, se 37 anni fa - il 22 febbraio 1981 aveva 25 anni - e se non l’avessero rapita, violentata, fatta a pezzi e gettata nella tonnara di Palmi, Rossella Casini, oggi avrebbe compiuto 62 anni il 29 maggio scorso. A Scandicci le è stato intitolato un Istituto comprensivo. Ma I tre imputati dell’uccisione di Rossella sono stati assolti. La dea Persefone, che i romani chiamavano Proserpina o Kore, fanciulla, divenne la regina degli Inferi. Kore-Persefone era una giovane dea slanciata, bellissima, associata ai simboli della fertilità: il melograno, il grano, i cereali e il narciso, il fiore che la adescò. Era una fanciulla spensierata, che raccoglieva fiori e giocava con le amiche. Poi all’improvviso Ade, dio degli Inferi emerse sul suo carro da una fenditura della terra, ghermì la fanciulla piangente e la portò nel mondo sotterraneo per farne la propria riluttante sposa. In seguito Persefone divenne regina degli Inferi. Valutiamo anche la violenza delle donne su altre donne - La notizia della morte di Mariam Moustafa, è rimbalzata dai media inglesi a quelli italiani ed egiziani. La ragazza di 18 anni, italo egiziana, è morta dopo tre settimane di agonia in un letto di ospedale a seguito del pestaggio avvenuto su un bus alla fermata di Parliament Street a Londra da parte di una banda di bulle inglesi. La studentessa di ingegneria si era trasferita a Nottingham con tutta la famiglia, i genitori, la sorella e il fratello minore, dopo aver vissuto fino ai 14 anni ad Ostia. Il papà aveva un negozio di mobili e aveva lavorato come pizzaiolo, ma la crisi economica l’ha spinto a scegliere di partire per assicurare un futuro più certo e un’istruzione di alto livello per i tre figli. Infine valutiamo la libertà delle donne - Il corpo e l’anima della danzatrice del futuro saranno cresciuti insieme così armoniosamente che il linguaggio naturale dell’anima sarà diventato il movimento del corpo. La danzatrice non apparterrà a una nazione, ma all’umanità intera; non danzerà in forma di ninfa, o di fata, o di seduttrice, ma in forma di donna nella sua espressione più alta e pura. Ella realizzerà la missione del corpo femminile e la santificazione di tutte le sue parti. Danzerà il mutare della vita nella natura, mostrando come ogni elemento si trasformi nell’altro. Da ogni parte del suo corpo si irradierà l’intelligenza splendente, che comunicherà al mondo i pensieri e le ispirazioni di migliaia di donne. Ella danzerà la libertà della donna. (Isadora Duncan) Ultime considerazioni - Non sappiamo se il laboratorio verrà confermato. Ma se così fosse, bisognerebbe valorizzare di più questo percorso. E’ una scelta educativa che affianca l’opera dei volontari. Quindi la strategia del laboratorio andrebbe costruita con i volontari. Ringraziamo Pantagruel. In particolare il Presidente, Salvatore Tassinari che ci ha seguito con la saggezza e la forza della sua età, Antonia Ruggieri, vice-presidente e sostegno psicologico delle danzaterapeute e il solerte segretario Alessandro Corsini (quest’anno è andato tutto bene con le iscrizioni alla partecipazione degli spettatori). Possiamo dire che il laboratorio di questo anno 2018 è stato sostenuto in pieno dal coordinatore degli educatori Gianfranco Politi che ci ha corrisposto passo passo cercando di rispondere efficacemente alle nostre esigenze e mediando con le nostre allieve in alcuni momenti più difficili. Il futuro? (da Salvatore Tassinari) - Il giorno 14 giugno si è tenuto nel teatro del carcere di Sollicciano uno spettacolo di danzaterapia, condotto da Manuela Giugni, e gestito dalla nostra associazione, nel quadro delle attività dei Laboratori al fresco. Si è trattato del quarto spettacolo proposto in questi ultimi due anni. Protagoniste sono state 10 donne detenute e una trans, oltre che un tecnico delle luci e del suono, anche lui detenuto. Hanno assistito allo spettacolo un centinaio di spettatori dall’esterno e un gruppo di detenute, che hanno applaudito con grande convinzione. In effetti la rappresentazione offerta dalle danzatrici è stata commovente e condotta in maniera esemplare. Il tema conduttore dello spettacolo è stato quello della violenza sulle donne e tra donne, con riferimento a figure del mito antico (Core-Proserpina, rapita dal Dio degli Inferi) e a vicende reali, come quella recente della ragazza italo-egiziana uccisa a Londra da un gruppo di bulle. Le danzatrici hanno reso queste vicende con grande spessore e hanno suscitato nel pubblico forti emozioni. Mi auguro che Pantagruel si impegni nel prossimo futuro per rendere l’attività di danzaterapia spettacolo permanente nella vita del carcere femminile di Sollicciano, al pari del teatro condotto nel carcere maschile dalla regista Elisa Taddei della Compagnia Krill. Nota Finale: Speriamo di poter realizzare spettacoli al di fuori del carcere con le nostre protagoniste. Santa Maria Capua Vetere (Ce): sport e solidarietà per i detenuti della Casa circondariale di Anna Ansalone contattolab.it, 2 luglio 2018 Si terrà domani presso la circondariale di Smcv, un iniziativa sportiva promossa dall’ufficio del Garante Regionale dei Detenuti Prof. Samuele Ciambriello e dall’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, una partita di calcio tra gli studenti della Facoltà di Giurisprudenza ed i detenuti Media Sicurezza del reparto Volturno di questa Casa Circondariale. La partita inizierà alle ore 10.00, a seguito dell’iniziativa sportiva, sarà previsto presso l’area verde adiacente al settore colloqui interni, una festa di solidarietà a favore dei pazienti dell’Articolazione Psichiatrica del Reparto Nilo. Alle due iniziative vi saranno le volontarie dell’associazione la Mansarda e la squadra universitaria capeggiata dalla professoressa Mena Minafra. Iniziative queste tese all’inclusione sociale per le persone in esecuzione penale al fine di supportare le attività tratta mentali della circondariale. Sport per tutti, attività di socializzazione tese alla riabilitazione dei ristretti della circondariale casertana. Terni: film ideato e girato dai detenuti verrà presentato alla Camera dei Deputati umbriajournal.com, 2 luglio 2018 “Fuori fuoco” il film ideato e girato dai detenuti del carcere di Terni sarà presentato e proiettato il prossimo 17 luglio alla Camera dei Deputati. L’iniziativa è stata promossa del parlamentare umbro del Pd Walter Verini, della Commissione Giustizia di Montecitorio. Prima della proiezione, alla quale assisterà anche il Presidente della stessa Camera Roberto Fico, ci saranno interventi della direttrice del carcere di Terni Chiara Pellegrini, del Garante dei detenuti per l’Umbria e il Lazio Stefano Anastasia e di Andrea Orlando, Ministro della Giustizia fino a un mese fa. “Si tratta - annuncia Verini - di una iniziativa che vuole valorizzare una esperienza concreta di pena certa, ma tesa alla rieducazione, al reinserimento sociale dei detenuti”. Coloro che hanno realizzato il film si chiamano Erminio Colanero, Rosario Danise, Thomas Fischer, Rachid Benbrik, Alessandro Riccardi e Shimane Tali. “Nella scorsa legislatura - aggiunge il deputato - purtroppo non si è riusciti a portare fino in fondo la riforma dell’ordinamento penitenziario, che rappresenta un punto alto per rendere davvero la pena più umana, le carceri più civili, le pene alternative una concreta modalità per lavorare, apprendere un mestiere, ridefinire un percorso di reinserimento, dopo il quale quasi mai si torna a delinquere e a compiere reati”. “Oggi - prosegue Verini - si deve andare avanti, anche se tira un’aria non favorevole per queste riforme. È anche per questo che abbiamo promosso questa iniziativa, che ha visto protagonisti persone che hanno sbagliato e che hanno pagato o stanno pagando il proprio debito verso la società”. “Infine - conclude il deputato - l’appuntamento sarà utile per tenere accesa l’attenzione anche sulla situazione delle carceri umbre, sui problemi esistenti, sul tema degli organici”. Riformare il Tso è battaglia di civiltà di Mariano Paolozzi Cronache di Napoli, 2 luglio 2018 Dal caso Mastrogiovanni, la proposta dei Radicali per il trattamento sanitario obbligatorio. La diversità intesa come devianza, la devianza come reato o peccato da espiare, da punire. La presunzione dell’infallibilità scientifica come strumento ed esercizio del potere, la mortificazione della libertà fatta passare come cura necessaria. La coercizione innalzata a metodo di cura. Sono temi profondi che s’intrecciano, si legano e si slegano attorno al più specifico tema del Trattamento sanitario obbligatorio, il Tso, alla legge Basaglia (o presunta tale) e alle battaglie di libertà, battaglie culturali ed etico-politiche condotte per monitorare, riformare e ripensare completamente tutto il sistema. E’ questo il tema cardine dell’incontro organizzato dall’associazione Radicali per la Grande Napoli ieri all’Hotel Terminus. Partendo dal caso specifico di Francesco Mastrogiovanni, dalla sentenza della Corte di Cassazione e dal processo, Giuseppe Alterio, Michele Capano, Giuseppe Ortano, Giuseppe Nardini, Paola Lobina, Rosa Criscuolo, Enrico De Notaris, Ugo Clemente, insieme alle testimonianze dirette di Luca Trimarchi, Osvaldo Esposito e Sandro Riccio, hanno dato vita ad un dibattito per lanciare delle prime proposte di riforma dell’intero sistema del Tso. Prima del dibattito, è stato il direttore editoriale di Cronache di Napoli, Ugo Clemente, a ricordare una delle più autorevoli figure della cultura italiana e radicale, l’architetto e studioso Aldo Loris Rossi, scomparso tre giorni fa: “Colgo l’occasione per ricordare l’opera e l’impegno civile e politico di Aldo Loris Rossi, già presidente dell’associazione Radicali per la Grande Napoli, che deve il nome proprio alle sue opere immortali”. “Partiamo - continua Clemente - da un caso che si è concluso in sedi giudiziarie da poco e dai temi che a questo caso sono collegati. Siamo qui dopo la sentenza di fine giugno sul caso di Francesco Mastrogiovanni, che si è trovato a vivere una situazione kafkiana: preso e strappato dalla sua vita, rinchiuso e legato al letto. Sottoposto a trattamento e lasciato lì a morire per 4 giorni. La Sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato i medici e i responsabili è storica. Del caso del maestro elementare, durante il processo e dopo la sentenza, i radicali ne hanno fatto una battaglia per promuovere la riforma del Tso. Ed è una battaglia non solo di diritto, ma di umanità, giustizia e di libertà”. Bisogna subito fugare un dubbio: la legge cosiddetta Basaglia, è chiamata così impropriamente. Come ha spiegato lo psichiatra Nardini: “Legge Basaglia, è la testimonianza di mistificazione e cancellazione, di contraffazione: perché Basaglia così non l’ha mai voluta. Chiamiamola 180”. Il problema del legislatore, all’epoca, era evitare i referendum sul tema proposto dai Radicali di Marco Pannella, e fu promulgata con caratteristiche molto diverse da come l’aveva intesa Basaglia stesso. “Legge voluta non solo per la chiusura dei manicomi, ma per affermare che la persona non deve essere curata senza il suo volere o consenso, deve avere una serie di garanzie. Nella legge è anche previsto, ma poi accade che i migliori principi che tutelano i diritti delle persone vengano declinati sotto principi di semplificazione che negano infine i diritti stessi. Come il diritto alla salute e all’autodeterminazione”, conclude Nardini. Dopo il puntuale intervento di Michele Capano, legale di parte civile nel processo Mastrogiovanni e di Paola Lobina, è stato Ortano, psichiatra e consulente del pm nello stesso processo, a parlare: “La legge non l’abbiamo mai chiamata Basaglia: siamo i difensori di Mastrogiovanni ma siamo basagliani. Abbiamo chiuso i manicomi, ma fatta la legge trovato l’inganno: c’è un manicomio più grande di quello chiuso, si chiama medicina, ospedale. Chiuso un recinto, se ne è aperto un altro: dai carceri ai manicomi. Dalle catene alla contenzione. “E mi, no firmo”, quello che disse Basaglia all’assistente che gli portava le pratiche di contenzione. Che ha poi portato alla legge 180, che è diversa da quanto voleva Basaglia, che immaginava la cura nei territori, quella che si chiama h 24. Io credo che sia importantissimo che la politica si riappropri di questo argomento”. Poi, l’intervento di Rosa Criscuolo, tesoriere dell’associazione Redicali per la Grande Napoli, a spiegazione delle proposte e delle battaglie che si stanno combattendo: “Innanzitutto, bisogna monitorare. La questione è complicata. Non ci sono dati, quando dobbiamo presentare una proposta di legge ci troviamo di fronte alla difficoltà di avere pochi dati, tra l’altro del 2015. Manca quindi un monitoraggio sulle persone, sulle strutture e sul personale. Insieme ad Alterio e Ciambriello il nostro primo obiettivo è quello di avviare un monitoraggio puntuale e costante”. Criscuolo ha poi posto un secondo e, forse, più importante obiettivo: “Quello di una rivoluzione culturale anche tra gli operatori. Lo Stato ha abbandonato chi prima si trovava nei manicomi poi chiusi, dov’è lo stato rispetto a questo? Noi dobbiamo cercare di colmare il vuoto dello stato di diritto, per restituire a chi è sottoposto a cure di essere curato e non ammazzato”. Di vera e propria rivoluzione, poi, ha parlato De Notaris, psichiatra e membro della consulta del Comune di Napoli per la salute: “Il Tso comincia appena si mette piede lì: il paziente è già soggetto a un trattamento obbligatorio. Ed è uno scandalo. Il vero trattamento sanitario obbligatorio, spersonalizzazione, totale rinuncia a caratteristiche storiche, personali, emotive, culturali, politiche. Questa persona viene poi ad affrontare un percorso e il suo mondo diventa la sua cameretta (per i ragazzi, ad esempio). Naturalmente sto molto generalizzando, ma c’è cultura che crede che ci siano delle malattie mentali astratte, che sembra non abbiano cause. Quando invece bisognerebbe capire i collegamenti che esistono tra il macro sociale e la situazione particolare”. C’è poi un discorso più ampio, che abbraccia tutta la società e le logiche che la governano. Un potere che su presunte valutazioni oggettive, su presunti dati oggettivizzanti, vuole cronometrare le esistenze, banalizza la dimensione della complessità, in un’ottica di riduzionismo e controllo sociale contro cui bisognerebbe sempre combattere. E se i casi sono tutti diversi tra loro, la metodologia che li causa è sempre la stessa. Foucault parlava di microfisica del potere, Edgar Morin di riduzionismo. La cultura più spiccatamente radicale e liberale, quelle veramente laica, parlava di soppressione e mortificazione della libertà. A guidarci, dovrebbe essere quindi sempre uno e un solo faro: quello della libertà, che si declina, in fondo, nella continua lotta storica per la libertà stessa. Muri ed egoismi nazionali. Il 1915 e una profezia per l’oggi di Claudio Magris Corriere della Sera, 2 luglio 2018 Muri che si innalzano e il fiorire di egoismi nella profezia di Friedrich Naumann. Anche l’editoria, come l’edilizia, ha le sue strutture profonde e le sue facciate attraenti, i muri maestri e i balconi. I muri maestri non si vedono, ma reggono il tutto e permettono pure i fiori sui balconi. Vi è certo qualche editore, grande o piccolo, che lavora come un palazzinaro i cui redditizi edifici si sbriciolano presto e vi sono editori, grandi o piccoli, che pubblicano testi fondamentali o minori ma comunque necessari alla cultura di un Paese, come il calcio alle ossa di un individuo. Talora ciò avviene non senza difficoltà da parte dell’editore. Ad esempio le Edizioni Lavoro hanno pubblicato una splendida versione di un capolavoro come Il quarto secolo di Édouard Glissant, che non trova facilmente posto tra le pile dei volumi del giorno nelle librerie. Un altro esempio fra i molti è la casa editrice Marietti, che anni fa ha mediato alla cultura italiana opere fondanti della letteratura jiddish, della mistica ebraica e araba e della narrativa mitteleuropea, che ha contribuito a scoprire e a far conoscere in Italia. È proprio la Mitteleuropa che ora si può conoscere ancor più a fondo, oltre il fascino della sua grande letteratura, del suo mosaico plurinazionale e ribollente di odi nazionali. A farla conoscere al di là di ogni mito è un libro muro maestro dell’editoria sostanziale e meno appariscente, l’editore Aragno, cui si devono pubblicazioni fondanti, ad esempio la raccolta di saggi Attraverso il nichilismo di Tito Perlini, altra pietra angolare per capire le trasformazioni del mondo che stiamo vivendo, di cui tutti parlano ma andando raramente a fondo. Il titolo è laconico: Mitteleuropa, di Friedrich Naumann. Quando uscì, nel 1915, ebbe un grande successo. Per tanti anni l’abbiamo dimenticato o accantonato in qualche fuggevole menzione parlando di Francesco Giuseppe o di Joseph Roth. Un libro di cento anni fa che oggi ritrova - forse purtroppo - una straordinaria attualità per quel che riguarda ciò che sta accadendo oggi nell’Europa centrale e di conseguenza nell’Europa tout court. L’editore ripubblica la versione italiana del 1918 di Gino Luzzatto, il grande storico dell’economia, con una sintetica e felice premessa di Giuseppe Di Leo, che aiuta a cogliere subito la portata del libro. Friedrich Naumann era un grande studioso di politica e di economia, deputato al Reichstag per dieci anni e, dopo la sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale, partecipe dei lavori dell’Assemblea di Weimar e della stesura della Costituzione repubblicana tedesca. Il suo pensiero decisamente tedesco-nazionale, nutrito di profondi interessi sociali, si era arricchito nel tempo di elementi liberali assorbendo pure l’influenza di Max Weber, una delle più grandi menti del Novecento, le cui intuizioni - ad esempio sul disincanto - sono ancora oggi un pilastro della comprensione del nostro mondo. Al centro dell’interesse e della passione di Naumann sono certamente la Germania, il suo ruolo egemone nell’Europa centrale e continentale, i suoi rapporti con l’Austria asburgica, particolarmente complessi per quel che riguarda l’Ungheria e i vari popoli compresi nella Duplice Monarchia. Consapevole dell’impossibilità di un’unione politica tra Germania e Austria-Ungheria, da lui auspicata, Naumann vedeva nella Germania l’elemento predominante in Europa e ha analizzato superbamente i suoi rapporti con gli altri Stati d’importanza mondiale, dall’Impero britannico a quello zarista, dall’indebolita ma sempre fondante potenza della Francia a quella nascente degli Stati Uniti. Fautore di un’Europa gravitante intorno alla Germania ma nel pieno rispetto dei singoli Stati e dei diritti delle varie minoranze nazionali, Naumann era profondamente tedesco, sentiva le esigenze di spazio della Germania e cercava di conciliarle con una politica pacifica, consapevole com’era della complessità geopolitica dell’Europa e dei suoi rapporti col resto del mondo. Nei più di cent’anni intercorsi fra il libro di Naumann e la realtà di oggi sono avvenuti rivolgimenti epocali che hanno sparigliato le carte della Storia universale come un uragano: nascita e morte di fascismo, nazismo, comunismo e di tanti altri regimi e sistemi politici; sfacelo dell’Impero zarista e degli imperi centrali e declino strisciante di quello britannico; formazione e dissoluzione dell’universo sovietico, avvento di potenze mondiali come Stati Uniti e più tardi Cina; biblici esodi e spostamenti di popoli e di frontiere, rigidi muri di confine spostati, abbattuti, ricostruiti; trasformazioni radicali di vita sociale, ideologie, costumi, valori morali e della stessa identità umana, fisica e psicologica. È sconcertante - pure inquietante - che il libro di Naumann riemerga ora non quale maestoso monumento della cultura del passato bensì, cosa che sarebbe stata impensabile per lo stesso autore, quale inquietante ritratto del presente. È il ritratto di un’Europa non quale vorremmo fosse e per la quale continueremo a lottare perché divenga come la vogliamo e come deve essere, bensì è un ritratto dell’Europa di come oggi sostanzialmente è, delle lacerazioni che la disgregano e delle mine politiche disseminate dovunque, a insidiare il processo di una sua democratica unità. La Mitteleuropa di questo libro non è quello straordinario continente culturale che abbiamo scoperto e amato nei Musil e nei Roth, negli Svevo, nei Kafka e nei Krleza, nei Klimt e negli Schönberg. Non è l’Europa plurinazionale (hinternazionale, scriveva Johannes Urzidil, dietro le nazioni) con la sua grande cultura che coglieva ed esprimeva il disagio della Storia, la fine del mondo di ieri e forse non solo di quello di ieri; una cultura che era stata pure un baluardo umano contro i totalitarismi fascisti e comunisti. Naumann non poteva conoscere quella Mitteleuropa, perché essa ha vissuto la propria straordinaria stagione culturale soprattutto dopo l’uscita del suo libro. Ma - inquietante paradosso - la Mitteleuropa di oggi è quella che lui descrive e analizza, con muri che vengono rialzati di nuovo, con feroci dissidi o ambigue alleanze che dissolvono l’humanitas sovranazionale e quella apertura temeraria al futuro e alle nuove forme di conoscenza, di arte e di scienza che caratterizzavano i Musil, i Broch, i Wittgenstein, i Loos, i Kiš. Un lievito spirituale che sarebbe una nostra possibile salvezza in una vera Unione Europea. La probabile estraneità di Naumann alle nuove forme delle arti e della filosofia gli ha paradossalmente permesso di indagare con lucidità impareggiabile le strutture profonde del mondo mitteleuropeo, distruttive e oggi tanto più forti delle aperte e creative visioni del mondo. Ma se vogliamo capire meglio ciò che succede oggi in Ungheria o in Polonia, nella Repubblica Ceca o in Slovacchia, nell’atteggiamento dei Paesi occidentali nei loro confronti e il continuo alternarsi di passi avanti e passi indietro, il riemergere di torvi nazionalismi e di antichi rancori, dobbiamo leggere questo vecchio e purtroppo attuale libro di Naumann. Nel Richiamo della foresta di Jack London, Buck, il cane, torna all’esistenza atavica del branco, ma solo dopo la morte del suo amatissimo padrone-compagno, assassinato nel bosco. Cerchiamo di impedire che l’anchilosata e divisa Unione Europea non muoia e che la nostra Mitteleuropa non sia una foresta selvaggia, pur mimetizzata in una educata ipocrisia. Emergenza immigrazione, la cultura europea tace di Gian Arturo Ferrari Corriere della Sera, 2 luglio 2018 Il modo di affrontare l’ondata migratoria non è più un problema politico, è un problema culturale e finché non si affronta questo secondo sarà difficile risolvere il primo. L’Homo sapiens, cioè noi, è una specie irrequieta. E molto adattabile. Invece di starsene buona nella sua culla africana si è sparsa dovunque. Giunta all’estremo nord-est dell’Asia è passata sui ghiacci in Alaska e da lì in circa diecimila anni - un tempo brevissimo - attraverso tundre, praterie, deserti, foreste pluviali e vertiginose montagne è arrivato ai ghiacci opposti della Terra del Fuoco. Inseguiva più cibo e più spazio. Benessere e libertà, se vogliamo, proprio come gli odierni migranti, maldestramente definiti economici. Per quale altro motivo infatti si dovrebbe emigrare? Profughi, rifugiati, esuli non c’entrano, sono una faccenda diversa. Dunque la storia delle migrazioni è la storia dell’umanità, o la sua parte maggiore, come dovremmo ben sapere noi italiani che abbiamo smesso di migrare - a milioni - negli anni Cinquanta del secolo scorso. La presente ondata migratoria (non sarà l’ultima, mettiamoci il cuore in pace) ha ragioni chiare: la crescita della pressione demografica in Africa, dovuta anche, per grazia di Dio, al crollo della mortalità infantile. E il fatto che chiunque disponga di un telefonino può vedere con i propri occhi quanto si viva meglio nel mondo occidentale e segnatamente, nonostante tutte le nostre lamentazioni, in Europa. Ma se le ragioni sono chiare le soluzioni sono oscure: l’idea di bloccarli a casa loro richiede muraglie o cannoniere, quella di aspettare che in Africa si stia come in Europa apre orizzonti secolari. Comunque sia, si tratta sempre di soluzioni dell’hic et nunc: pratiche, amministrative, politiche. Importantissime certo, come si vede dagli effetti elettorali, ma che non toccano il nodo centrale: qual è l’atteggiamento giusto, la posizione ragionevole, degna di persone civili, rispettosa delle esigenze di tutti? Non è più un problema politico, è un problema culturale e finché non si affronta questo secondo sarà difficile risolvere il primo. Ora il fatto davvero stupefacente è il silenzio tombale della cultura non solo italiana ma europea di fronte al tema che l’attualità ci spinge sotto gli occhi ogni giorno. Questa è una novità assoluta. Nel troppo deprecato secolo scorso la cultura è sempre stata legata, si è alimentata del rapporto con la realtà. Dall’intervento nella Prima guerra mondiale, alla nascita del comunismo, del fascismo, al nazismo, alla guerra fredda, alla decolonizzazione, al Vietnam, al terrorismo, al crollo dell’Unione sovietica, all’islamismo, la cultura europea si è furiosamente e spesso chiassosamente accapigliata su ogni spunto che l’attualità offrisse. Sbagliando, molte volte, identificandosi con la politica, tradendo la propria stessa ragion d’essere e giungendo, non di rado, a eccessi ridicoli. Sempre meglio però di questo mutismo inarticolato. Come se decenni di divagazioni deboli e liquide, di astrazioni strutturaliste, di melanconie nichiliste avessero finito per togliere all’Europa il suo maggior vanto, cioè la forza del suo pensiero, la capacità di guardare senza timori e senza pudori nel fondo delle cose. Oggi di fronte al problema dell’emigrazione la cultura europea gira la testa dall’altra parte, non vuole abbassarsi a questioni così spicciole, in realtà non sa che cosa dire. Certo, non è facile, ma quando mai ha affrontato prove facili? Il lato peggiore è che dopo tanto sgolarsi e sbracciarsi per cause spesso dubbie tace davanti a quel che la gente comune avverte più acutamente, si rifugia in giaculatorie per esorcizzare la paura di non saper rispondere. Forse mai nella storia recente si è aperto un abisso così profondo tra comune sentire ed elaborazione intellettuale. L’unica voce che ha risuonato è stata quella del cardinal Ravasi, il quale ha citato un versetto del Vangelo. Nulla da eccepire, per carità, ma forse l’orgogliosa cultura europea un ulteriore segno di vita avrebbe potuto darlo. Migranti. Altri 60 morti nel Mediterraneo. Sos dalla Libia: mandateci subito i mezzi di Fabio Albanese La Stampa, 2 luglio 2018 Assenti le navi delle Ong. Il capo di Stato maggiore della Marina libica: vorrei che gli aiuti arrivassero il prima possibile, per il bene dei migranti. C’è stato un altro naufragio ieri nel mare della Libia: un gommone di migranti si sarebbe rovesciato e in 63 risultano dispersi, altri 41 salvati dalla Guardia costiera libica e portati a Zuara. Ne ha dato notizia ieri sera l’Unhcr Libia. In precedenza, i libici avevano recuperato altre 220 persone (115 consegnati da un mercantile turco che li aveva in precedenza salvati) ma anche 6 cadaveri, probabilmente del naufragio di venerdì con 100 morti. Nel Mediterraneo centrale non ci sono più navi di volontari. Partita per Barcellona, con i 59 migranti recuperati sabato, la Open Arms, il salvataggio è affidato alla sola Guardia costiera libica. Le navi militari di Eunavformed e di Frontex navigano ormai più arretrate. Secondo quanto riferisce l’Unhcr, nella settimana tra 21 e 28 giugno sono stati riportati in Libia 2425 migranti; diecimila nei primi 6 mesi dell’anno e la metà tra maggio e giugno. Una situazione che per Oim e Unhcr “è drammatica”. La portavoce dell’Oim in Libia, Christine Petrè, denuncia il sovraffollamento dei 20 centri in cui i migranti vengono portati, con situazioni igieniche insostenibili per le alte temperature. L’allarme di Sea Watch - Ora però la Guardia costiera libica chiede aiuto all’Italia. Dopo che sabato il portavoce della Marina, Ayob Amr Ghasem, aveva detto che “le 12 motovedette che Roma vuol mandarci sono propaganda”, ieri ha aggiustato il tiro il capo di Stato maggiore della Marina, Salem Rahuma: “Vorrei che gli aiuti arrivassero il prima possibile, per il bene dei migranti”. Con la Open Arms verso la Spagna, la Aquarius di Sos Mediterranee e Msf a Marsiglia per rifornimenti e le 3 navi di Sea Watch, Sea-Eye e Lifeline ferme nel porto della Valletta, al momento le Ong sono fuori gioco, come raramente accaduto in passato. Oggi il comandante della Lifeline, Carl Peter Reisch, sarà interrogato dai giudici maltesi. La nave non può muoversi perché sotto indagine. Situazione diversa, ma poco chiara, per le altre due, la Sea Watch 3 e la Seefuchs: “Siamo fermi a Malta per manutenzione programmata da prima di questa crisi - spiega la portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi -; poi, certo, anche noi abbiamo appreso dalla stampa della volontà del governo di bloccare i porti maltesi, ma a noi non è stato notificato nulla. Se al momento di ripartire, verso metà settimana, dovesse esserci impedito, ci difenderemo, ma noi con il governo di Malta vogliamo dialogare”. Turchia. Tra i rifugiati siriani di Kilis: “andremmo in Europa anche a nuoto” di Giordano Stabile La Stampa, 2 luglio 2018 In centinaia di migliaia sono scappati dalla guerra civile in Siria. Quasi nessuno pensa a rientrare. Se esercito e polizia allentassero i controlli in molti sarebbero pronti a prendere il mare per fuggire. Al posto di frontiera di Kilis c’è un traffico che non si era visto da anni. Per la festa dell’Aid al-Fitr migliaia di rifugiati siriani sono tornati a visitare i famigliari rimasti in Siria. Ora stanno rientrando quasi tutti. La cittadina a sessanta chilometri da Aleppo è ormai una “piccola Siria”. All’ingresso, sulla strada da Gaziantep, un cartello del partito nazionalista Mhp tiene il conto “dell’invasione”: 91.185 abitanti turchi contro 137.652 profughi. Ma i siriani non ci fanno caso, la maggior parte non conosce il turco, i più piccoli, mai andati a scuola, non sanno neppure leggere. A ridosso del valico c’è il campo profughi di Kilis, migliaia di casette-container, considerato un modello. I meno fortunati si sono piazzati nelle casupole lungo la strada. Un carretto tirato da un mulo passa a raccogliere carta e plastica dai negozietti. I siriani si sono specializzati in questo riciclaggio informale, che impiega anche migliaia di bambini. Anche Ammar Jello si è buttato nel commercio. È in Turchia dal 2013, ad Aleppo era avvocato. Per campare vende vestiti a basso costo, jeans attillati e corpetti che stonano con la sua fede musulmana, sottolineata dalla barba in stile salafita che si alliscia di continuo. “Che ci vuoi fare, questo non è un Paese religioso, mi fanno ridere quando dicono che Erdogan lo vuole islamizzare”. La vittoria del presidente turco è stata comunque una vittoria per i siriani. “Ormai abbiamo un secondo Dio”, scherza Ammar. In Siria, i miliziani dell’Esercito libero hanno omaggiato il raiss con un ritratto gigante su un fianco del Monte Darmik. Ammar, un “rivoluzionario” della prima ora, respinge però i trionfalismi. “Con i turchi - precisa - non è cambiato nulla. Ormai ci sono solo gruppi che si combattono fra loro e si vendono al migliore offerente, compreso il regime”. Ammar non tornerà mai più in Siria. “Potevo emigrare in Canada, ma non ho voluto perché i miei figli non sarebbero cresciuti da musulmani. Ma ora, se avessi un’altra occasione, partirei, subito”. E lui, per via della fede religiosa, è fra i più tiepidi. Gli altri, se solo esercito e polizia allentassero i controlli, “in Europa andrebbero anche a nuoto”. Erdogan si è guadagnato la riconoscenza eterna con la sua politica di accoglienza ma la vita qui “è troppo dura”. Nella provincia di Gaziantep un quarto degli abitanti sono siriani, 700 mila su 2,8 milioni. Manodopera a basso costo nei campi, fabbriche tessili, alimentari, che sono spuntate come funghi per sostituire l’industria di Aleppo distrutta dalla guerra. Lavorano soprattutto i ragazzini, pagati una miseria, persino 40 lire turche a settimana, otto euro. Orfani e piccoli abbandonati vivono in tuguri alla periferia di Kilis e Gaziantep, come Abdelrahman, 13 anni, con i suoi due fratellini più piccoli Mahmoud e Ahmed, 10 e 9 anni, la sorella Daha di 14. La madre, è stata abbandonata dal marito che si era fatto passare per morto. “Abbiamo sofferto ancora di più quando abbiamo scoperto che si era rifatto una vita a Marsin, qua in Turchia”. Il padre si è detto poi disposto a riprendersi i figli, purché lo aiutassero a cucire vestiti nel suo piccolo laboratorio. Abdelrahman, ormai capofamiglia, ha detto no. Preferisce alzarsi tutte le mattine alle cinque, andare in fabbrica dopo un’ora di cammino. I fratelli minori raccolgono cartone e plastica dai cassonetti, la sera. Per fortuna di loro si occupa una piccola Ong locale, Qaus quzar, “Arcobaleno”, e vanno a lezione al mattino. Anche Abdelrahman sogna di poter tornare a scuola, “diventare ingegnere” ed “emigrare in Germania”. O più concretamente di potersi aprire un laboratorio o un negozio tutto suo. “È il massimo a cui possono aspirare i bambini siriani a Gaziantep”, conferma Selim Selim, ex attore e insegnante di teatro ad Aleppo, ora direttore di “Arcobaleno”: l’Europa è “solo un miraggio, non riaprirà le porte, tanto vale diventare turchi: noi vecchi non possiamo più, loro forse sì”. Russia. Repressione di Stato della memoria di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 2 luglio 2018 Concentrati sulle conseguenze geopolitiche del neo-imperialismo russo, non facciamo neanche caso alla cupa damnatio memoriae perseguita dall’autocrazia putiniana per cancellare persino il ricordo degli orrori del Gulag. Sul “Corriere” Fabrizio Dragosei ha raccontato di come Juri Dmitriev, lo storico più importante del Memorial, l’organizzazione fondata da Sacharov e che raccoglie le testimonianze sul Gulag, è stato incarcerato con accuse grottesche: difficilmente potrà proseguire le sue ricerche che sinora hanno condotto alla scoperta in Karelia di fosse comuni in cui sono stati seppelliti oltre novemila morti ammazzati dagli aguzzini di Stalin. Inoltre nei musei e negli archivi stanno sparendo persino i documenti della storia del Gulag e i ricercatori non trovano più le schede per catalogare il numero mostruoso di vittime della repressione comunista, per risalire ai nomi, ai luoghi, alle tecniche del terrore di massa. Lo stesso Memorial è entrato più volte nel mirino di Putin, un ex funzionario del Kgb, sarebbe il caso di non dimenticarlo mai. Nei manuali russi di storia per le scuole le dimensioni apocalittiche della repressione di Stalin vengono oramai sistematicamente edulcorate e minimizzate e Stalin viene ricordato esclusivamente come il grande condottiero della guerra patriottica. La Rivoluzione d’ottobre viene salutata nel suo centenario insieme al recupero dei simboli dell’ortodossia religiosa e persino della grandezza dei tempi degli Zar. Ma la cancellazione della memoria di uno dei regimi più dispotici della storia viene attuata senza che stavolta si levi la benché minima protesta del mondo. Pensiamo a cosa, giustamente, accadrebbe se la Germania si adoperasse con gli strumenti più biechi di intimidazione nei confronti degli storici e dei ricercatori indipendenti nella repressione e nella riduzione al silenzio di chi racconta i crimini perpetrati dal nazismo. In Russia, ora, è il passato di milioni di persone che rischia di essere cacciato nell’oscurità. Non per un recupero “ideologico” di quel passato, ma per non offuscare, e macchiare con la verità storica, i simboli della grandezza della storia russa. Uno sciovinismo culturale che passa sopra ogni crimine commesso. La rivendicazione di un ruolo neo-imperiale che deve recuperare tutta intera la storia della Grande Russia. La repressione di Stato della memoria. Egitto. In arrivo nuove leggi per colpire ulteriormente la libertà d’espressione online di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 luglio 2018 In un paese, l’Egitto, tra i più oppressivi nei confronti della libertà di stampa, come illustra tra le altre la vicenda del fotogiornalista Shawkan, il parlamento si appresta ad approvare una raffica di leggi che porrebbero ancora di più sotto lo stretto controllo delle autorità l’attività editoriale online. Un’ulteriore legge sui crimini informatici è dal 5 giugno all’esame del presidente al-Sisi, che potrebbe firmarla da un momento all’altro. Questa legge consentirebbe alla magistratura e alla polizia di controllare e bloccare siti per reati definiti in modo del tutto vago, come ad esempio la pubblicazione di contenuti che potrebbero incitare a commettere reati o danneggiare la sicurezza nazionale. Le autorità egiziane sostengono che “c’è bisogno di organizzare le piattaforme digitali che pubblicano notizie”. In realtà, se venissero approvate, le leggi all’esame del parlamento non farebbero altro che incrementare i già ampi poteri di controllo, censura e blocco nei confronti dei social media e dei blog e criminalizzerebbero contenuti genericamente definiti contrari alle norme politiche, sociali o religiose. Nel corso dell’ultimo anno le autorità egiziane hanno bloccato oltre 500 siti, tra cui portali indipendenti di notizie e pagine di organizzazioni per i diritti umani. Lo hanno fatto senza una base giuridica, sostenendo che stavano pubblicando “informazioni false” o “dannose per la sicurezza nazionale”. Le leggi sistemerebbero il problema, legalizzando la censura di massa. In base alle nuove leggi, un organismo istituito nel 2017 - il Consiglio supremo dei media, che già si è fatto notare per aver sollecitato provvedimenti disciplinari nei confronti di giornalisti autori di articoli “scomodi” - potrebbe bloccare siti e promuovere indagini contro piattaforme e singoli utenti per reati formulati in modo del tutto vago come “istigazione a violare le leggi” e “diffamazione contro singole persone ed esponenti religiosi”. Inoltre, i portali di notizie non potrebbero creare applicazioni per smartphone senza un permesso speciale del Consiglio supremo, sarebbero autorizzati a vendere spazi pubblicitari solo se registrati presso il il medesimo organismo e potrebbero aprire un canale video solo se dimostrassero di essere in possesso di un capitale di due milioni e mezzo di sterline egiziane. Arabia Saudita. Per le donne non basta la patente di Valeria Palumbo Corriere della Sera, 2 luglio 2018 Ammetto che, di 400 pagine densissime e tutte da leggere di “Nonostante il velo. Donne dell’Arabia Saudita£ (Morellini editore), la prima cosa che mi viene in mente è: “Ti ho amato al primo twit”. Perché è forse l’espressione che, nell’indagine di Michela Fontana, matematica, saggista e giornalista, riassume meglio le contraddizioni e le difficoltà delle saudite (e, in parte, dei sauditi). Ovvero l’assurdità di una segregazione totale che non solo rende impossibili i rapporti tra i giovani (in un Paese giovanissimo) ma, di fatto, complica perfino la possibilità di sposarsi, obiettivo per il quale le ragazze vengono ancora educate. Al tempo stesso la diffusione di Twitter svela la scappatoia formidabile offerta, pur tra mille ostacoli, da Internet. Orgoglio e pregiudizio - La situazione è paradossale perché ricorda incredibilmente quella dell’Inghilterra georgiana di Jane Austen, unita all’ossessione per “l’onore” di pirandelliana memoria e all’abbigliamento delle donne sarde ancora negli anni Sessanta. “Ricorda” non vuol dire che la situazione è uguale ma la somiglianza smonta un pregiudizio (loro e nostro). Ovvero che il mondo islamico non può vivere la progressiva conquista dei diritti umani e civili dell’Occidente, in particolare per quanto riguarda le donne, perché è “diverso”. Le donne Occidentali hanno subito gran parte dei soprusi che oggi opprimono le saudite. Fuori tempo massimo: secondo il World Economic Forum l’Arabia Saudita è al 138esimo posto su 144 nell’indice mondiale delle pari opportunità. Il peso del guardiano - Così, se è vero che anche le italiane hanno avuto, fino al 1919, la tutela maritale, che non potevano testimoniare nelle cause di diritto civile fino alla riforma post-unitaria del 9 dicembre 1877, voluta da Salvatore Morelli, e che le antiche romane avevano un tutore per qualsiasi atto, proprio come le saudite oggi (teoricamente, le matrone dovevano pure uscire di casa velate), è anche vero che 2mila anni, come pure cento fanno la differenza. E un istituto surreale come quello del wali al-amr, del guardiano (padre, marito, fratello, figlio, zio...), che fino a qualche tempo fa autorizzava persino una donna ad andare in ospedale a partorire, appare fuori dal tempo in quasi tutto il mondo musulmano. E se è vero che una certa segregazione vale anche nel maggior e avversario dell’Arabia Saudita, l’Iran (dove le donne si battono ancora per andare allo stadio, al contrario delle saudite che possono farlo dal gennaio 2018), la totale divisione dei sessi è un ricordo a Teheran. E una realtà a Riad. Un mondo di sole donne - Michela Fontana ha passato due anni e mezzo, dal luglio 2010 al dicembre 201,2 a intervistare saudite di classi, età, istruzione, idee, inclinazioni diversissime. Ha potuto farlo proprio in quanto donna. Come già notava la scrittrice statunitense Edith Wharton in Harem, moschee e cerimonie (nella traduzione italiana di Editori Riuniti) gli uomini occidentali non sanno nulla degli harem e ci fantasticano su (con un buon grado di perversa fantasia) semplicemente perché non possono entrarci. In Arabia Saudita nemmeno le sale d’attesa degli ospedali sono miste. La segregazione è ossessiva ma, a spiega Fontana, così interiorizzata che spesso le saudite non ci fanno caso. Almeno le più anziane. Perché le giovani appaiono sempre più diverse: rappresentano, non a caso, il 58% della popolazione universitaria. Paradossalmente sono oggi spesso i padri a spingerle a studiare: una donna istruita può valere di più sul mercato matrimoniale. Internet piace a progressisti e conservatori - Quello che appunto rende prezioso Nonostante il velo è il tempo che Michela Fontana ha dedicato agli incontri e anche la sua totale “laicità”, nel senso che ha accettato senza ribattere qualsiasi risposta (soprattutto i giudizi tranchant sulle donne occidentali), ha insistito davanti alle ritrosie, ha cercato di capire anche gli atteggiamenti più contraddittori. Che non mancano: la poligamia, molto diffusa, è sostenuta sul web da alcune ragazze istruite. La religione, onnipresente, non ha eliminato le credenze magiche. I social piacciono ai progressisti come ai conservatori. I divorzi sono diffusissimi e le single sono sempre di più. Ma spesso a rendere impossibile un matrimonio è il radicato razzismo tra tribù. La segregazione rende gli abiti sexy e i discorsi sul sesso ben più diffusi che tra noi. La maternità è un totem, ma il numero di figli è crollato. L’inglese è diffuso, come pure la tendenza di studiare all’estero. Ma alla fine i progressi che la società sta facendo, con la concessione della guida alle donne, la riapertura dei cinematografi e la nomina di alcune donne in posti di rilievo, sono dovuti a un principe ereditario, Mohammad bin Salman Al Saud, che ha studiato in patria. Vision 2030 - Condensare qui le 400 pagine di Michela Fontana senza banalizzare le risposte delle donne intervistate e senza dimenticare aspetti importanti (per esempio la violenza familiare, l’ipocrisia dei matrimoni “a termine”, la povertà diffusa, non soltanto tra vedove e divorziate) è impossibile. Una cosa è certa: rispetto al periodo della sua indagini anche l’Arabia Saudita è cambiata. Vision 2030, il programma reale di sviluppo, pur viziato da una caratteristica di fondo (il Paese è una monarchia assoluta ed è proprietà della famiglia regnante), sta imponendo mutamenti rapidi, anche in opposizione con una potentissima classe religiosa, quella degli ulema, che garantiscono da quasi cent’anni l’esistenza stessa del Regno. Per questo le saudite sanno che tutto può cambiare. O tutto può tornare indietro all’improvviso. È successo, in Iran, ma non solo. E, come diceva Primo Levi, se è successo può ancora accadere.