Lo storytelling del rancore e le comunità concrete resilienti di Aldo Bonomi Il Manifesto, 29 luglio 2018 Le rappresentanze e la forma partito sono state sostituite nell’agone del consenso più che dalla visione della società che viene, dall’Adattivismo. Il salto d’epoca, il salto di paradigma, l’epoca dei flussi, muta profondamente le culture, le società e le economie dei luoghi e scompagina la composizione sociale. Lasciando sul territorio tanti che subiscono il cambiamento in un’anomia che altro non è che l’incapacità di tradurre la modernità in valori socialmente condivisi per ricostruire comunità. Nella composizione sociale prende corpo una moltitudine che altro non è che la dimensione di massa senza più il sistema ordinatorio delle classi, nella crisi del welfare senza ascensore sociale o conflitto per cambiare, nell’epoca dell’individualismo compiuto e dell’egologia dove “uno vale uno”. Un sociologo ben più autorevole di me l’ha definita la “società liquida”. Direi oggi liquidità al mercurio, simbolo chimico del rancore sfuggente e molecolare, visti i tempi che attraversiamo. A questa dimensione pre-politica occorre guardare per capire la crisi della politica, delle rappresentanze e della forma partito nate nel secolo breve. Forme sostituite nell’agone del consenso più che dalla visione della società che viene, dall’Adattivismo. Ci si adatta acriticamente al rancore spalmandosi come benzina propedeutica del consenso, troppo spesso, a proposito di Salvini, con il cerino in mano per mobilitarlo contro l’altro da sé o agendo sulle paure di diventare ultimi, senza porre la questione del come risalire nella scala delle disuguaglianze. Ci si adatta alla moltitudine senza scomporre e ricomporre il magma sociale del mercurio da cui è composta con uno storytelling suadente sull’iper-modernità che avanza verso community da democrazia diretta a proposito di Casaleggio, senza interrogarsi su cosa resta delle comunità concrete in divenire. Per prosciugare il rancore più che la benzina occorrerebbe una visione della politica che io auspico nell’interagire della comunità operosa delle economie che assieme alla cura, che rimanda al welfare di comunità e di territorio, può attenuare paure, solitudine e diseguaglianze che producono rancore. Occorrerebbe una politica di visione. Non vorrei essere frainteso, nessuna nostalgia dell’autonomia del politico in nome dell’ideologia, ma auspico un’eterotopia del possibile partendo dal fare “comunità che viene” verso il fare società ed economia. Non viceversa, come praticato oggi anche dal narcisismo delle élite convinte che basti affermare ed imporre la potenza dei mezzi, dei flussi sui luoghi e sulle vite minuscole, senza interrogarsi sull’incertezza dei fini, come se il dispiegarsi del general intellect non dovesse fare i conti con le lunghe derive della storia e con l’intelletto collettivo sociale depositato nell’archeologia dei saperi sociali. Sedimentati nel tessuto della società che ha metabolizzato grandi trasformazioni e cicli di discontinuità, dall’agricoltura all’industria, da questa al fordismo della città-fabbrica e dal postfordismo dei distretti e delle piattaforme produttive sviluppando saperi, competenze, conflitti, forme di rappresentanze sociali, economiche, politiche adeguate ai tempi delle dissonanze. Oggi qui siamo, con un adattivismo senza visione della politica e con un narcisismo delle élite che cercano di presentarsi con una retorica dall’alto (il compianto Luciano Gallino l’aveva definita “lotta di classe dall’alto”) che offre la conoscenza globale in rete soprattutto a base urbana e le città-stato di Parag Khanna come destino e come traccia di un futuro che verrà. Anche oggi ragionare d’intelletto collettivo sociale significa mettersi in mezzo alla grande trasformazione leggendola nelle sue ambivalenze con Karl Polany e con Claudio Napoleoni rimettendo in mezzo all’economia, in preda al narcisismo delle élite e alla politica con il suo adattivismo da consenso, la società. A pensarci bene nel salto d’epoca che dal latifondo e dalla mezzadria ci ha portato all’industrializzazione la comunità aveva i suoi interpreti in figure anche distanti per ruolo come Danilo Dolci e Adriano Olivetti o come Giuseppe Di Vittorio. Se poi arriviamo al fordismo lo abbiamo analizzato e raccontato come “mosche del capitale” per dirla con Paolo Volponi, e con analisi e conflitti che partono dall’operaismo di “Quaderni Rossi” dal sindacalismo dell’operaio massa facendo anche letteratura della comunità operaia. Siamo addirittura riusciti a raccontare il primo postfordismo con i suoi distretti industriali attraverso il racconto di Giacomo Becattini, Giuseppe De Rita, Enzo Rullani e come pure ho provato a fare io con “Il capitalismo molecolare”. Oggi siamo alla ricerca di un nuovo intelletto collettivo sociale, adeguato alla nostra epoca. In questo senso occorre ripartire dalle tante comunità concrete resilienti ed altre rispetto all’ideologia dell’adattivismo e allo storytelling del rancore. Occorre cercare oasi che rimandano all’attraversamento del deserto. La sabbia è tanta e l’esodo verso l’altrove incerto. L’augurio per i prossimi anni a venire, è che questa proliferazione di resistenza sociale allo stato presente delle cose riesca a fare condensa. Che questi luoghi di resilienza che hanno incorporato un’altra visione, un altro modello di sviluppo e tracce di speranza di un altro mondo possibile, riescano a mettersi in mezzo per far crescere un intelletto collettivo sociale capace di essere rappresentanza che chiede reddito e senso contro le diseguaglianze. La violenza, le denunce e gli stupri in Italia. I numeri e la propaganda di Cristina Da Rold Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2018 Nei giorni scorsi Istat ha pubblicato il Rapporto SDGs 2018. Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia. Prime analisi che propone un aggiornamento e un ampliamento degli indicatori diffusi per il monitoraggio degli obiettivi dello sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, fra cui il goal 16 che impone di mettere in atto misure per ridurre la violenza, inclusa quella sessuale. A quanto pare in Italia le cose non stanno migliorando granché, o meglio: aumentano leggermente le condanne, ma la violenza sulle donne è stabile e ancora molto diffusa, la percentuale di chi denuncia è bassa e solo per la metà degli iscritti in procura si avvia un’azione penale. Parliamo qui di quattro aspetti della violenza, che non sono certo gli unici: violenza sessuale, stalking, maltrattamenti in famiglia e percosse. Quanta violenza sessuale? - Nel biennio 2015-16 Istat stima che il 4,1% delle ragazze che oggi hanno meno di 30 anni abbia subito violenza sessuale quando erano minorenni, ed e` purtroppo in aumento la percentuale dei figli che hanno assistito a episodi di violenza sulla propria madre (dal 60,3% al 64,8% tra il 2006 e il 2014) e di quelli che sono stati direttamente coinvolti (dal 15,9% al 23,7%). Nonostante si assista dal 2006 al 2014 a una leggera riduzione della violenza nel suo complesso, restano stabili le quote di donne vittime di violenza estrema (stupri e tentati stupri) e delle forme piu` efferate di violenza (uso o minaccia di usare una pistola o un coltello) e soprattutto è aumentata la gravita` delle violenze sessuali e fisiche. Nel complesso (dato Istat 2014) quasi una donna su tre (31,5%), ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 3% (652mila donne) ha subito stupro e il 3,5% (746mila) tentato stupro. Più dell’80% degli stupri sulle donne italiane è stato commesso da un italiano. Gli stupratori stranieri sono il 15,1%. Quanti omicidi? - Alla fine del 2017 l’Audizione del Presidente dell’Istituto nazionale di statistica Giorgio Alleva intitolata “Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonche´ su ogni forma di violenza di genere”, si pone una domanda preliminare: “Secondo le nostre elaborazioni sui dati del Ministero dell’interno, sono state 149 le donne vittime di omicidi volontari nel 2016 in Italia. Di questi, quanti sono stati femminicidi?” Non essendoci a livello europeo una definizione univoca di femminicidio, l’unica cosa che possiamo dire è che quasi 3 su 4 di questi delitti sono stati commessi nell’ambito familiare: 59 donne sono state uccise dal partner, 17 da un ex partner e altre 33 da un parente. Quante denunce? - Troppo poche. Secondo le stime Istat (2014) ha denunciato solo l’11,4% delle donne italiane e il 17% delle straniere che dichiarano di aver subito violenza. I dati estratti dal sistema informativo del Ministero dell’interno, il Sistema di indagine (SDI) parlano di 4046 reati di violenza sessuale commessi nel 2016. Erano 4257 nel 2014 e 4000 nel 2015. Le persone denunciate per violenza sessuale nel 2016 sono state 7633. 9723 per percosse, 11425 per stalking e 13813 sono state le denunce/segnalazioni per maltrattamenti in famiglia. Il sistema SDI raccoglie informazioni sia sui delitti denunciati dai cittadini presso gli uffici competenti (Commissariati di Polizia, Stazioni dei Carabinieri ecc.), sia sui delitti che le Forze di Polizia accertano autonomamente. Le informazioni riguardano, inoltre, anche le segnalazioni di persone denunciate e/o arrestate che le Forze di Polizia trasmettono all’Autorità giudiziaria . Ma il dato allarmante è che una vittima italiana su tre ha dichiarato che il personale sanitario a cui si è rivolta ha fatto finta di niente di fronte alla violenza subita. Fa inoltre pensare il fatto che in un caso su 3 alle italiane è stato consigliato di sporgere denuncia, cosa che invece è stata consigliata al 63% delle straniere. Forse - si chiede Istat - perché si ritiene che le straniere abbiano una rete sociale meno solida alle spalle. Intendendo dunque la denuncia come un’alternativa al supporto della famiglia. Quante condanne? - Una delle parole chiave di questo sedicesimo goal delle Nazioni Unite è “strong institutions”, istituzioni forti. Ma quanti vengono realmente puniti dopo una denuncia? Secondo i dati del Ministero della Giustizia, i detenuti maschi che sono in carcere per avere commesso violenza sessuale sono 2977 (di cui 1828 italiani), per avere commesso stalking 691 (di cui 540 italiani) e 186 (di cui 130 italiani) per percosse. A questi si aggiungono i denunciati. Per quanto riguarda il reato di stalking, nel 2015 sono state 15.733 le persone adulte iscritte nei registri delle procure, ma l’azione penale ha avuto luogo per il 51% dei casi. Le condanne sono fortemente cresciute dal 2009 al 2015: 35 sentenze nel 2009, 1.601 nel 2016, di cui 1.309 con condannato italiano e 292 straniero. Per quanto riguarda i maltrattamenti, sempre nel 2015, sono stati 21.305 gli iscritti per almeno un reato e nel 42,5% dei casi si e` intrapresa l’azione penale. Le condanne sono passate della 1.320 del 2000 alle 2.923 del 2016. Infine, 6.196 sono gli autori iscritti alle procure per violenza sessuale per i quali e` stata presa una decisione nel 2015, e anche in questo caso la tendenza è all’aumento. Per il 64,1% degli autori italiani iscritti è iniziata l’azione penale per violenza sessuale, mentre nel caso della violenza di gruppo l’azione penale è iniziata nel 41,6% dei casi. Di fatto però le condanne definitive con almeno un reato di violenza sessuale sono cresciute leggermente, dalle 1.124 del 2000 alle 1.419 del 2016. La Consulta sul diritto degli avvocati a scioperare di Paolo Bonacini Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2018 “Legge incostituzionale: incide sulla restrizione della libertà personale”. Tutto è nato dal processo Aemilia, dove si era creato un paradosso. Tra maggio e giugno del 2017 due sedute erano saltate per lo stato di agitazione dei legali iscritti alle Camere Penali: proprio in base all’articolo di legge incriminato, gli imputati avevano dato il loro consenso, vincolante, all’astensione dei legali. Determinando così la sospensione delle udienze e il prolungamento dei termini di carcerazione preventiva. Per gli ermellini è “costituzionalmente illegittimo”, perché il codice di autoregolamentazione che governa i criteri del diritto di sciopero per gli avvocati ha una falla poiché autorizza un arbitrio. La Corte Costituzionale si è pronunciata: l’articolo 2 bis della legge del 1990 che fissa le norme sul diritto di sciopero degli avvocati a salvaguardia dei diritti fondamentali della persona “è costituzionalmente illegittimo” perché il codice di autoregolamentazione che ne governa i criteri ha una falla, autorizza un arbitrio. Consente in sostanza di “incidere sulla restrizione della libertà personale” degli imputati in regime di custodia cautelare, affidando al consenso individuale il potere di eludere un principio sovrano. Che la Suprema Corte richiama a chiare lettere: “È la legge che stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva” perché la “tutela della libertà personale è un valore unitario e indivisibile che non può subire deroghe o eccezioni”. In sostanza al processo Aemilia, processo alla ‘ndrangheta in Emilia Romagna, si era creato un paradosso, tra maggio e giugno del 2017, quando due sedute erano saltate per sciopero degli avvocati iscritti alle Camere Penali. Saltate proprio perché in base all’articolo di legge incriminato gli imputati avevano dato il loro consenso, vincolante, all’astensione dei legali. Determinando così come effetto secondario la sospensione delle udienze e il prolungamento dei termini di carcerazione preventiva. Un piccolo danno per sé, in cambio di un sostegno convinto alle rivendicazioni dei propri legali. Sta proprio in questa scelta il conflitto costituzionale sul quale la Corte si è finalmente pronunciata. Un conflitto sollevato dopo quelle giornate di sciopero dal collegio giudicante, composto dal presidente Francesco Maria Caruso e dai magistrati Cristina Beretti e Andrea Rat, attraverso due ordinanze del 23 maggio e del 13 giugno. Il collegio si rivolgeva alla Suprema Corte chiedendo di valutare la legittimità dell’art. 2 bis in riferimento a ben 9 articoli della Carta Costituzionale, sostenendo che le norme sulla ragionevole durata del processo e sulla tutela dei diritti, a partire da quelli degli imputati, non potevano ammettere “alcuna interferenza”, neppure per volontà degli imputati stessi. Diritto di sciopero da un lato, regolato dalla legge del 1990, diritto al limite massimo della carcerazione preventiva, stabilito dall’art. 13 della Costituzione dall’altro. Due principi sacrosanti a tutela delle libertà individuali e collettive che entravano in conflitto generando scintille e polemiche nell’aula del Tribunale. Un anno dopo, con la sentenza n.180 depositata il 27 luglio 2018, la Corte presieduta da Giorgio Lattanzi ha dato ragione al Tribunale presieduto dal dottor Caruso. Non solo nel merito della questione di legittimità costituzionale, ma anche sulla scelta di proseguire il processo senza fermare le udienze in attesa del pronunciamento dal Palazzo della Consulta. Lo stop alle udienze era stato richiesto il 27 maggio 2017 in un ricorso per Cassazione presentato da uno dei legali del processo Aemilia, l’avvocato Luca Andrea Brezigar, facendo riferimento alla legge del 1953 che stabilisce la sospensione del giudizio qualora si evidenzino questioni di legittimità costituzionale. La Cassazione aveva di recente dato ragione all’avvocato Brezigar, ritenendo che le udienze successive al maggio 2017 sarebbero da considerarsi nulle essendo venuta meno la “potestat decidendi”, cioè la capacità di decidere del Tribunale. “Sarebbero” al condizionale, spiega ora la Suprema Corte, solo “nella ipotesi che le sollevate questioni di costituzionalità non fossero accolte da questa Corte”, perché la Cassazione non può annullare né impugnare atti che pongono questioni di legittimità riguardanti la Carta Fondamentale. Taglia la testa al toro il passaggio nel quale la sentenza della Corte Costituzionale dice: “Il principio della ragionevole durata del processo non esclude che il giudice possa sospendere il singolo momento processuale senza arrestare l’intero processo”. La questione dello svolgimento dell’udienza, in occasione di uno sciopero, non interessa quindi tutte le altre udienze, nelle quali “l’attività processuale è del tutto estranea alla questione di costituzionalità e non è influenzata da essa”. Come a dire: il processo va sospeso solo nelle udienze in cui lo sciopero solleva il dubbio del conflitto costituzionale. Quelle di Aemilia che interessano sono due: il 23 maggio e il 13 giugno 2017. Tutte le altre non sono in discussione. La sentenza della Corte Costituzionale segna una nuova tappa della battaglia legale e giurisprudenziale che si combatte dentro e fuori l’ala bunker di Aemilia. Un maxi processo molto complesso alla ‘ndrangheta emiliano romagnola, che si avvicina alla sentenza di primo grado nel rito ordinario e abbreviato di Reggio Emilia prevista tra settembre ed ottobre. A tre anni e mezzo di distanza dai 117 arresti del gennaio 2015, ad oltre due anni dall’inizio del processo che vede alla sbarra complessivamente 240 persone, sul Tribunale pendeva la spada di Damocle del possibile annullamento di oltre un anno di udienze. La sentenza della Corte Costituzionale che pare scongiurare questa ipotesi è definita “oscura” dall’avvocato Gaetano Pecorella che siede sul banco dei difensori mentre appare molto chiara alla Direzione Distrettuale Antimafia. Di certo segna un punto a favore del rigore e dell’intuizione di un Collegio Giudicante che ha incassato in silenzio le tante accuse alle proprie autonome scelte nella gestione del dibattimento e che oggi può appuntarsi una legittima medaglia al petto: se la Consulta scopre e sancisce che una norma del diritto di sciopero nei processi penali è incostituzionale, il merito è suo. La Corte del miracolo: salva il processo e salva il diritto camerepenali.it, 29 luglio 2018 La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 180 2018, salva forse un processo da esiti altrimenti demolitivi, ma lascia sul campo i problemi più spinosi. La posizione dell’Unione. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 180 2018, nel decidere sulla legittimità delle astensioni dei penalisti dalla celebrazione di processi con detenuti, ha affermato che solo il legislatore (e non dunque un codice di autoregolamentazione) può intervenire in una materia che, come quella, incide sulla libertà personale dei cittadini, in questi limitati termini accogliendo la questione rimessa dal Tribunale Reggio Emilia davanti al quale si sta svolgendo (in quanto non sospeso) il cd. maxiprocesso Aemilia. La Corte, così facendo, salva forse il processo da esiti altrimenti demolitivi, ma lascia sul campo i problemi più spinosi. Se, infatti, il giudice delle leggi chiude in maniera ragionevole il cerchio dei rapporti fra la norma che riconosce il diritto di sciopero (art. 2 bis legge 146/1990), la norma regolamentare (il codice di autoregolamentazione del 2007) e l’art. 13 della costituzione, restano fuori del suo intervento troppi nodi irrisolti. Se il sistema dell’autoregolamentazione dell’astensione degli avvocati nei processi con detenuti aveva, forse, bisogno di un intervento ortopedico che raddrizzasse alcune possibili deviazioni, l’intervento chirurgico della Corte sembra più volto ad esorcizzare un pericolo, che a dare una risposta definitiva al problema dei rapporti fra i diversi diritti costituzionali in campo. E, anzi, è proprio la soluzione chirurgica adottata a dimostrare come l’assetto normativo e giurisprudenziale, formatosi nell’ambito del dialogo delle Corti, di questo delicato strumento di azione politica dell’avvocatura, non potesse essere oggetto di aggressione o di manipolazione. Resta infatti definitivamente chiarito che quello di astensione dalle udienze sia un pieno diritto dei penalisti, cui il giudice - come avevano ben ribadito le SS.UU. del 2014 - non può porre limitazioni. E resta evidente che neppure potrà il legislatore limitare, oltre quanto non facciano già le severe cadenze del nostro codice di autoregolamentazione, l’esercizio di quel diritto costituzionalmente garantito. Ma ciò che resta purtroppo in ombra, in questa attesa decisione, è proprio la peculiarità dei rapporti fra astensione collettiva dei penalisti ed altre analoghe legittime proteste di contenuto sindacale. La specificità delle motivazioni, che hanno sempre determinato le delibere di astensione dalle udienze dell’Ucpi, è di aver sempre tutelato i diritti degli imputati e le garanzie di tutti i cittadini e non propri interessi corporativi o di categoria. Si tratta di una mancanza grave che ha condizionato di fatto la scelta della Corte. È infatti proprio questo tratto distintivo che rende eticamente e politicamente alta la posizione di Ucpi, e che, come sottolineato dal Presidente Migliucci nel suo intervento davanti alla Corte, rende bilanciabile il diritto di libertà tutelato dall’art. 13 cost. con l’interesse alla promozione e la tutela del “giusto processo”, anche con l’eventuale consapevole ed informato consenso di chi di quel proprio diritto intende disporre, consentendo il rinvio dell’attività processuale. Ed occorre anche ricordare che i penalisti italiani hanno sempre fatto un uso assolutamente sobrio, attento e scrupoloso di questo strumento, nella consapevolezza della sua delicatissima natura e del fatto che ogni astensione in processi con detenuti incrocia ed intreccia due diritti costituzionali di altissimo valore, che assumono senso e significato solo e soltanto se l’uno serve a salvaguardare l’altro. Quando il giudice rimettente emiliano afferma, dunque, che interesse indeclinabile dell’imputato detenuto è quello di essere giudicato nel più breve tempo possibile, non coglie nel segno, perché l’imputato, specie quando è detenuto, ha interesse ad essere giudicato in un processo giusto, nell’ambito del quale siano rispettate le garanzie della costituzione e del giusto processo. Se è dunque certo che, a seguito di questa decisione, con la dichiarazione di illegittimità dell’art. 2-bis della legge 146 del 1990, non potranno prolungarsi i termini di custodia cautelare in danno del pur consenziente imputato, è anche certo che il diritto di astensione del difensore resta un innegabile principio giuridico e di altissimo significato civile, che nessuna legge potrà comprimere nel suo corretto esercizio. La questione appare dunque delicata perché tocca i principi, ma non per le ricadute concrete, atteso che le astensioni con detenuti costituiscono un dato statisticamente assai modesto, proprio in quanto i difensori hanno sempre informato correttamente i propri assistiti delle ragioni delle astensioni e delle relative conseguenze in termini di sacrificio della libertà, così che la tutela dei relativi diritti ne risultasse in ogni caso rispettata. Una strada, questa, che l’avvocatura penale continuerà a percorrere con convinzione. Sarebbe davvero grave se qualcuno pensasse, nel mondo della politica, che sia questa la strada da seguire per limitare la forza dell’avvocatura in un momento in cui si affacciano all’orizzonte preoccupanti iniziative di riforma che investono, e rischiano di devastare, proprio il processo penale ed il sistema sostanziale, ponendo l’intera avvocatura e l’intero Paese di fronte a scelte di campo a tutela delle libertà e delle fondamentali garanzie costituzionali, che troveranno nelle astensioni un ineliminabile strumento di contrasto politico e civile. La Giunta dell’Ucpi Napoli: detenuto suicida a Poggioreale, seconda morte in pochi giorni Comunicato Sappe, 29 luglio 2018 Nel primo semestre del 2018 abbiamo contato nelle carceri italiane ben 5.157 atti di autolesionismo, 46 morti naturali, 24 suicidi e 585 tentati suicidi sventati in tempo dagli uomini e dalle donne del Corpo di Polizia Penitenziaria. Solamente in Campania i suicidi sventati sono stati 48 in soli sei mesi. Ha deciso di togliersi la vita uccidendosi nella sua cella della Casa circondariale Poggioreale di Napoli dov’era detenuto perché condannato per vari reati. Emilio Fattorello, segretario nazionale per la Campania del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, commenta: “L’uomo, M.C., italiano di Torre del Greco, si è suicidato ieri. Era appellante con fine pena 2024 per reati legati alla legge stupefacenti, ristretto in regime di Alta Sicurezza: ha approfittato che i compagni di stanza erano al passeggio. L’Autorità Giudiziaria competente ha avviato tutti gli accertamenti che il caso impone con la collaborazione della Polizia Penitenziaria ivi in servizio. Purtroppo è il secondo caso di suicidio in pochi giorni nell’Istituto di Poggioreale, oltre a due morti naturali di altrettanti detenuti nelle carceri di Avellino e S. Maria Capua Vetere, ove un detenuto ricoverato è deceduto l’altro ieri in ospedale. La tragedia continua”. E aggiunge: “Questo nuovo drammatico suicidio di un altro detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria (che purtroppo non ha potuto impedire il grave evento) a gestire queste situazioni di emergenza. Il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti. Per queste ragioni un programma di prevenzione del suicidio e l’organizzazione di un servizio d’intervento efficace sono misure utili non solo per i detenuti ma anche per l’intero istituto dove questi vengono implementati. È proprio in questo contesto che viene affrontato il problema della prevenzione del suicidio nel nostro Paese. Ma ciò non impedisce, purtroppo, che vi siano ristretti che scelgano liberamente di togliersi la vita durante la detenzione”. Torino: muore in commissariato, malore forse dovuto a precedente assunzione cocaina Ansa, 29 luglio 2018 Un italiano quarantaduenne è morto ieri sera a Torino negli ufficio del Commissariato Barriera Milano, dove si trovava per accertamenti. Lo rende noto la Questura di Torino. L’uomo è stato colto da un improvviso malore. L’intervento del 118, con un medico, è stato immediato ma per lui non c’è stato nulla da fare. Sul luogo è intervenuto anche il medico legale. I primi accertamenti svolti dalla polizia, riferisce la Questura, “inducono a ritenere che il decesso sia riconducibile alla pregressa assunzione di cocaina da parte del deceduto”. Verona: Open Day, il carcere al lavoro veronasera.it, 29 luglio 2018 “Un evento che punta ad accrescere l’attenzione - ha sottolineato l’assessore agli Affari legali Edi Maria Neri - sulle problematiche relative alla vita in carcere e sulle effettive possibilità di reinserimento lavorativo dei detenuti al termine della loro reclusione”. L’assessore agli Affari legali Edi Maria Neri ha partecipato ieri mattina all’evento “Open-Day: il carcere al lavoro” alla Casa Circondariale di Montorio. L’iniziativa, finalizzata alla sensibilizzazione dell’imprenditoria locale sul tema del carcere-lavoro tramite visite guidate alla struttura penitenziaria, è stata organizzata dal Comune in collaborazione con la Camera Penale Veronese. Grazie a questo progetto, attraverso la collaborazione con le aziende, i detenuti potranno dedicarsi alla produzione di articoli di vario genere, dalla pelletteria ai gadget; per le imprese che aderiscono all’iniziativa sono inoltre previsti sgravi fiscali e contributivi. “Un evento che punta ad accrescere l’attenzione - ha sottolineato l’assessore Neri - sulle problematiche relative alla vita in carcere e sulle effettive possibilità di reinserimento lavorativo dei detenuti al termine della loro reclusione. Il lavoro rappresenta un mezzo fondamentale per ridare dignità ai reclusi e per farli allontanare da future scelte di vita sbagliate”. “Le statistiche dimostrano che il carcerato che lavora è meno propenso a commettere ulteriori reati una volta scontata la pena. - ha quindi concluso l’assessore Neri - Per questo consideriamo estremamente importante un intervento di questo tipo, che facilita la rieducazione ed il reintegro nella società del condannato attraverso misure concrete e definitive”. Ferrara: il carcere si apre alla cittadinanza durante il festival di Internazionale estense.com, 29 luglio 2018 Il 5 e 6 ottobre previsti una mostra, un incontro con i redattori del giornalino dei detenuti e uno spettacolo teatrale. Con l’arrivo del festival di Internazionale a Ferrara si apriranno al pubblico anche le porte del carcere di via Arginone, perché “in condizione ristretta si trovano anche persone dalle potenzialità inespresse, abilità e sensibilità che per ragione sovente del tutto fortuite non sono riuscite ad esprimersi a pieno”. È in quest’ottica infatti che il 5 e il 6 ottobre si terrà l’iniziativa “La città incontra il carcere” il cui scopo è quello di far conoscere alcune delle attività formative che vengono svolte all’interno del penitenziario estense e che per quest’anno ha organizzato una mostra con incontro con la redazione del giornale intramurario ‘Astrolabio’ e uno spettacolo della compagnia dei detenuti attori. “Di quanto avviene all’interno delle mura delle carceri sappiamo poco: per larga parte della società libera, il carcere rappresenta semplicemente un deterrente e in pochi vedono la finalità trattamentale di questo luogo, le opportunità che può offrire a chi vi è destinato”, scrivono gli organizzatori dell’iniziativa rimarcando come “l’ottica con cui ci si volge a queste persone è per lo più assistenziale, di supporto, legata in qualche modo ad un senso di carità”, mentre cambiare punto di vista “significa per la società iniziare a riappropriarsi di risorse umane utili per il suo funzionamento. Il benessere dei detenuti serve innanzitutto a chi sta fuori”. E così, venerdì 5 ottobre, il pubblico sarà accompagnato a partire dalle 18 alla mostra di pittura e fotografica il cui materiale è stato prodotto dai detenuti stessi - alcuni dei quali presenti all’iniziativa - per poi partecipare ad un incontro con il cdr di Astrolabio, composto di detenuti e curatori, per discutere di comunicazione. Per sabato 6 ottobre invece l’appuntamento è alle 20.30 con “Ascesa e caduta degli UBU”, spettacolo della compagnia detenuti attori che dopo l’esperienza fatta al teatro Comunale si rifà “con nuovi attori ed una scenografia tagliata su misura, oltre ad aumentate consapevolezze, proponendo grazie alla giocata in casa un rapporto più stretto con lo spettatore, ritagliando all’interno dell’istituto di pena una stanza che per un’ora vivrà in un altro tempo ed in un altro spazio”. Per partecipare alle serate è necessario registrarsi entro il 5 settembre specificando nome, cognome, luogo e data di nascita ed allegando una scansione della carta d’identità. Per la visita alla mostra e per l’incontro con i redattori di Astrolabio l’email con i dati va spedita all’indirizzo info@giornaleastrolabio.it mentre per lo spettacolo teatrale del giorno successivo bisogna fare riferimento all’indirizzo teatroccferrara@gmail.com. Reggio Calabria: da domani mostra di dipinti realizzati dai detenuti di Locri larivieraonline.com, 29 luglio 2018 La Pro Loco per Marina di Gioiosa Jonica oltre ad occuparsi di valorizzare il territorio, di gastronomia e di enogastronomia, si occupa anche di cultura e di arte. Infatti dal 30 luglio al 5 agosto ha organizzato una mostra collettiva di pittura dal titolo “Marina in Arte” nei locali del centro sociale “Egidio Gennaro”, ex sala del Consiglio Comunale, Via dei Mille. La Mostra sarà inaugurata lunedì 30 luglio alle ore 18,00 e rimarrà aperta tutti i giorni dalle ore 18,00 alle ore 24,00. Esporranno di versi artisti nostrani tra cui Corrado Armocida, Mariella Larona, Tiziana Zimbalatti, Domenico Lupis, Assunta Ierace e Natalia Albanese. È una mostra molto importante anche perché ha per tema “La Donna”, la donna vista sotto diversi aspetti nella sua naturalezza e nella sua interiorità. Uno spazio particolare è dedicato ai dipinti realizzati dai detenuti nel laboratorio artistico della Casa Circondariale di Locri nell’ambito del progetto “Terre di Ginestre - Quando l’Arte scardina i preconcetti” ideato e coordinato dall’Associazione Culturale Zefiroart di Carmela Salvatore di concerto con la Direttrice del Carcere Dott.ssa Patrizia e patrocinato dal Comune di Gioiosa Jonica. Di questi lavori inediti siamo particolarmente orgogliosi anche perché è molto importante dare a tutti un’altra possibilità, e l’arte può essere anche una via di sbocco, un modo per realizzarsi, un modo per farsi conoscere. Il progetto “Terre di Ginestre” realizzato con la collaborazione dell’Associazione Culturale Zefiroart di Carmela Salvatore, ha coinvolto 41 detenuti della Casa Circoscrizionale di Locri, impegnati in questi corsi di ceramica e di pittura. Questi dipinti sono un messaggio preciso che gli autori hanno voluto lanciare. È il “no” alla violenza sulle donne e questo ci tengo a dirlo perché con questi quadri loro hanno voluto manifestare il “no” forte alla violenza sulle donne. Alcuni dipinti sono veramente notevoli, ma quello che di più mi ha colpito sono le considerazioni, le motivazioni del dipinto. Ci sono delle cose che mi hanno veramente commosso. Queste attività artistiche riescono a far emergere la parte buona dell’individuo, ma in questi dipinti c’è qualcosa in più che va oltre il “no alla violenza sulle donne”: qui c’è quella passione, quel benessere interiore, quella parte buona dell’uomo, ciò quasi in un forma di “emenda” di voler rivedere i propri schemi di vita intatti. E avere sbagliato, essere stato condannato da un tribunale della Repubblica non vuole dire essere feccia, essere irrecuperabili, assolutamente no. Ecco perché rivolgo un grande apprezzamento a chi organizza queste mostre perché fanno vedere la parte buona dell’essere umano”. Beatitudo, la scommessa vinta dal teatro nel carcere di Volterra di Alessandro Agostinelli globalist.it, 29 luglio 2018 Da 30 anni Armando Punzo, creatore, animatore e regista della Compagnia della Fortezza, porta la sua arte tra i detenuti dietro le sbarre. Quest anno con uno spettacolo bellissimo dedicato a Borges. “Beata solitudo, sola beatitudo”, scriveva quello che io chiamo Sua Lungimiranza, cioè Lucio Anneo Seneca. Vuol dire che la felice solitudine è la sola beatitudine. Chissà se lo sanno quelli della Compagnia della Fortezza, quelli che ci ostiniamo a chiamare attori-detenuti, per far capire a chi non conosce ancora questa storia, cosa accade ogni anno nel carcere di Volterra. Accade che dopo un lavoro lungo tutto l’anno, fatto di incontri, ginnastiche fisiche e mentali, libri e poesie mandate a memoria, litigi col regista, scazzi tra un caffè e una sigaretta, un gruppo di persone si raduna in una stanzuccia del Mastio volterrano con un pazzo (che io conosco dal 1992) che si chiama Armando Punzo. E in un pomeriggio estivo, un pomeriggio fatto così e così, si dicono: “anche quest’anno si va in scena”. Lavorano tutti i giorni, da trent’anni e passa, tra celle aperte, doppi maglioni invernali, ciabatte infradito estive, docce e dialetti di tutto il Mediterraneo, quello di sopra e quello di sotto. E ogni anno, quando noi profani saliamo la ripida ascesa al paradiso del teatro (che per un caso fortuito si trova dentro un carcere), li vorremmo maledire tutti quanti per la loro dedizione alla scena - che se anche noi avessimo la loro costanza avremmo senz’altro fatto qualcosa di meglio e in più nella nostra esistenza. E poi li vorremmo abbracciare tutti per le emozioni che sulla scena sanno dare e dire, in tante lingue del mondo, con tanti gesti di gioia e dolore mescolati assieme. E ancora oggi, che sto uscendo da questa prigione, dopo aver ripreso il mio smartphone e lo zaino con dentro le cose che mi serviranno a scrivere questo articolo, è come se fosse la prima volta. Non perché ci sia particolare emozione a entrare ancora una volta qui, per l’ennesima volta, vale a dire in un carcere, ma soltanto perché i miei occhi hanno visto ancora il mistero dell’andare in scena per dire tante verità una appresso all’altra che quel pazzo di regista e attore e divinità tra le sbarre chiamato Armando, sa tirare fuori (la primizia di un contatto, l’accensione di una scintilla) da queste perle di attori, che navigano ogni giorno tra le spesse muraglie e le rigide e solide sbarre di questa Fortezza cinquecentesca che loro fanno diventare a volte tuono, a volte fulmine, a volte mare, a volte giaciglio e culla. Si badi bene, non c’è in me nessuna giustificazione per il detenuto, e neppure alcuna volontà di fare la retorica contro-culturale di un mondo migliore senza carceri: la nostra vita è fatta anche di violenza, la nostra vita è fatta anche di pena e responsabilità. Piuttosto mi affascina ancora oggi quello che Armando forse sa da tanto tempo e che io ho sempre intuito, ma non sono mai riuscito a dirmi e a raccontare nelle tante volte che ho scritto di Carte Blanche. E Armando lo dice bene in questo spettacolo che si intitola “Beatitudo”: “Queste mura, a loro modo, mi proteggono da me stesso, dalla stanchezza e dagli allori. Qui ho sempre a disposizione la realtà, al massimo della sua espressione, violenta, limpida e inequivocabile”. La scena di “Beatitudo” è una confessione costruita nel cortile principale della Fortezza, ed è già da sola un terzo dello spettacolo, del fatto che questo funzioni per tutta la durata delle sue due ore (a parte un po’ troppo lungo monologo in inglese). C’è una piscina, c’è un musicista che suona seduto davanti a un pianoforte verticale, ci sono quattro tra batteristi e percussionisti, ci sono i soldati di un esercito con i costumi da battaglia orientali, con in mano della lunghissime aste di bambù, ci sono il regista in scena e un bambino al suo fianco, entrambi con i piedi nell’acqua della piscina. La musica suona mentre il pubblico entra e prende posto sulla tribuna o seduto su cuscini di fronte alla piscina, e si interrompe solo a spettacolo finito: è un tappeto sonoro continuo che segna il ritmo e la melodia emotiva dello spettatore. La musica è il secondo terzo dello spettacolo. Poi ci sono le parole di Armando e quelle di Jorge Luis Borges, potenti, piene, parole che attraversano il mondo, quello di oggi e quello di ieri, le religioni quelle primitive e quelle monoteiste, le filosofie, la storia, i movimenti degli insetti e quelli delle fronde del bosco, gli eserciti che danzano e l’artista che beve la creatività dell’umanità intera, il principio e quel che c’è dopo la fine, perché alla fine forse non c’è il nulla, ma ancora - mi piace pensarlo - le parole che parlano del tutto e dell’uno di Borges, appunto. E insieme a queste parole che costruiscono il Mondo, ci sono i corpi e i costumi, i movimenti e le smorfie di sorriso degli attori, la loro presenza in scena, il loro solido icastico esserci, stare sul fronte della scena come sul ciglio di un baratro che non sappiamo quanto profondo sia, né noi né loro - possiamo solo intuirlo con le emozioni. E queste due cose sono il terzo terzo dello spettacolo. C’è il padre in croce e Gesù Cristo (una vera prova fisica d’attore), c’è Armando-ora e Armando-ieri, ci sono gli altri registi che nuotano nel mare del senso senza conoscere il non-senso della realtà irreale del carcere, cioè senza conoscere la rappresentazione della rappresentazione irrapresentata. Ci sono le donne e ci sono i libri che sono anche gli spettacoli di trent’anni, ci sono le forme e i direttori, l’esercito degli attori e quello dei piccioni che continuano a far parte di tutti gli spettacoli, alzandosi in volo di quando in quando. E ci sono pure le bizze di qualche detenuto che non ha il permesso di uscire dalla cella e starnazza proprio quando c’è più silenzio. Ma tutto questo è spettacolo, tutto sta dentro a questo utero fluido e ricorrente di “Beatitudo”. A chi vedesse questo lavoro pensando di assistere a uno spettacolo teatrale dico subito che questo non è uno spettacolo teatrale, o almeno non solo. È cinema, è arte contemporanea, è musica e concerto, è lettura e poesia. È Wagner e Sorrentino, è lampo e brezza. È la solitudine di tante solitudini incarcerate che il lavoro del teatro mette insieme ed erutta in un momento, come immediata percezione di bellezza. Era il 1985. In una gelida sera di dicembre, quello che per me è un Nobel della letteratura, Jorge Luis Borges, salì le strade che lo separavano dall’inclita città di Volterra. Due giorni dopo se ne andò e poi morì. Durante la cerimonia del Premio Etruria che lo incensava, disse: “Volterra è viva e segreta, presente e lontana, fatta di pietre e respiri. Mi è parso di udire dei passi, delle voci, e dunque qualcosa di inafferrabile perdura nella città: un parlottio misterioso, un arcano trascorrere di forme, un paesaggio d’ombre”. Per decenni, da qualche parte qui, è rimasto il suo fantasma, per resuscitare alla vita, per brulicare dentro questa beatitudine della Compagnia della Fortezza. La Rete sa tutto di voi. Siete tranquilli? di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 29 luglio 2018 I social hanno raggiunto il picco e stanno scendendo? Probabilmente sì. Ma sarà una discesa complicata. Ogni tanto tale signor Learco mi riempie il telefono di messaggi, link, notizie d’agenzie, strilli e proteste. Non su Twitter o Facebook, dove ormai abbiamo fatto l’abitudine agli esagitati e agli apostoli di tutte le mattane. Trovo i messaggi su Whatsapp, tra quelli di mia moglie, degli amici e dei colleghi: il signor Learco, evidentemente, possiede il mio numero di cellulare. Gli ho chiesto di smettere, per favore; e lui ha reagito con “Basta tv di Stato!”. Avrebbe potuto rispondere “Forza Udinese!” o “Grazie, con poco zucchero”. La logica di certi personaggi non va indagata: c’è il rischio delle vertigini. Qualcuno dirà: ma siamo ancora qui a parlare di questi stroleghi? Certo: perché contano. La loro somma planetaria sta azzoppando Facebook e Twitter. Il recente, doppio scivolone dei titoli azionari non è un episodio: è la presa d’atto di qualcosa che sta sotto gli occhi di tutti. Internet doveva essere l’immenso attico del mondo, da cui vedere meglio le cose. A causa dei social, rischia di diventare lo scantinato. Facebook, che possiede anche Instagram e Whatsapp, vive sulla pubblicità mirata e la pubblicità vive sul traffico. Le cautele, le riserve e le ipocrisie cui abbiamo assistito arrivano di qui. Twitter ha provato a ripulire la piattaforma, rimuovendo i troll, i bot e gli account fasulli che s’attaccano come zecche ai nostri profili. Secondo il Washington Post, il numero degli account sospesi tra maggio e giugno è 70 milioni (dal profilo @beppesevergnini sono scomparsi 50mila follower in poche settimane). I social hanno raggiunto il picco e stanno scendendo? Probabilmente sì. Ma sarà una discesa complicata. È difficile gestire quello che abbiamo creato; ma qualcosa dobbiamo inventare. Siamo rimasti colpiti dall’uso dei dati sottratti da Cambridge Analytica e dai rischi che corre la democrazia. Giustamente: le stesse forze, credetemi, sono al lavoro per condizionare il voto europeo del 2019. Ma restiamo a qualcosa di più intimo e vicino: quanti di voi hanno guardato un video porno online? Non siate ipocriti: molti. Ebbene: qualcuno lo sa. Sa chi, cosa, dove, quando, per quanto. Oggi quei dati non servono: stanno lì. Ma domani? Cannabis terapeutica. “Solo un miraggio per i nostri malati” di Giovanni Stinco Il Manifesto, 29 luglio 2018 L’era voglio. La denuncia del Comitato dei pazienti. La ministra Grillo (5Stelle) annuncia acquisti dall’Olanda. Ma per la Lega è “l’erba della morte”. La legge prevede che sia fornita dal sistema sanitario, ma in molte regioni manca del tutto. “La cannabis medica tornerà in tutte le farmacie? Bene, i malati di tutta Italia saranno felici certo, ma tanto io i soldi per comprarla non ce li ho”. Ugo, 40 anni, è uno dei tanti pazienti che non possono accedere alle cure a base di cannabis terapeutica. Il motivo è molto semplice: non tutte le Regioni garantiscono a chi ne ha bisogno le cure gratuite. E così, dopo la soddisfazione dovuta ai recenti annunci della ministra della sanità Giulia Grillo (“compreremo altri 250 kg di prodotto dai Paesi Bassi”), tutti sono ritornati con i piedi per terra. Perché se è vero che con gli sforzi del Ministero le farmacie dovrebbero evitare nel futuro di non poter rifornire i malati armati di regolare ricetta - come successo a gennaio e nel 2017 -, è anche vero che sono centinaia in Italia le persone che, anche con la prescrizione del medico in mano, alla tanto agognata cannabis terapeutica non potrebbero comunque mai arrivarci. Perché, molto semplicemente, non possono permettersela. Capita al signor Ugo, con una grave patologia circolatoria, e così a tanti altri. C’è chi si espone, e sono pochi, tanti altri per pudore e dignità non vogliono esporsi. Chi ci mette la faccia racconta sempre la stessa storia, dal Trentino alla Sicilia. “Ho una fibromilagia che mi impedisce di lavorare e per tenere sotto controllo i sintomi tra cui il dolore acuto avrei bisogno della cannabis, ma per avere la cannabis dovrei lavorare. È un cane che si morde la coda”, spiega la signora Debora Minutella, 49 anni della provincia di Trento. Situazione simile per Simona Pagano, trentenne messinese con una diagnosi di artrite psoriasica. Simona per seguire la terapia a base di cannabis medica dovrebbe spendere circa 400 euro al mese. “In famiglia abbiamo un solo stipendio e dobbiamo mantenere nostra figlia”, spiega. Il risultato, spesso, sono terapie interrotte, il dolore che si rifà sotto e con lui la stanchezza, l’insonnia e la mancanza di appetito. Oppure la cannabis medica che dovrebbe durare un mese la si fa durare un mese e mezzo, o due, a seconda dei soldi disponibili per l’acquisto e della capacità di sopportazione del dolore. “E dire che c’è una legge nazionale chiara, purtroppo per il momento nessuna Regione la sta applicando davvero”, dice Simonetta Biavati, portavoce del Comitato pazienti cannabis medica. La legge a cui fa riferimento Biavati è la n. 172 del 4 dicembre 2017 con il suo articolo 18 quater, una sorta di miraggio per i malati italiani. Al comma 6 si dice chiaramente che per “la terapia contro il dolore” e per una serie di altri casi “la cannabis sarà a carico del Servizio Sanitario Nazionale”. Ma al momento nessuna Regione si è preoccupata di reagire alle indicazioni nazionali e così la situazione resta a macchia di leopardo. Ci sono le Regioni che hanno approvato un proprio testo (Puglia, Toscana, Veneto, Liguria, Marche, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Sicilia, Umbria, Emilia-Romagna e Lombardia), ma le varie leggi sono disomogenee e a volte con lacune e gravi problemi, e così ogni paziente ha diritti e possibilità differenti a seconda della sua residenza. Non va benissimo in Lombardia (che con i suoi 10 milioni di abitanti fa da sola un sesto della popolazione italiana), senza una legge che permetta di curarsi gratuitamente se non passando prima dagli ospedali. Situazione simile in Sicilia. Il Comitato Pazienti Cannabis Medica segnala grandi difficoltà per i pazienti di Marche, Abruzzo e Veneto. In Emilia-Romagna, invece, le cose sembrano funzionare bene. Claudia Facchinetti ha 50 anni ed è di Bologna. Per anni ha dovuto affrontare la sclerosi multipla (e altre patologie) con terapie a base di farmaci tradizionali. Nulla di risolutivo, un calvario di dolore durato tre anni. “Poi con l’aiuto di uno specialista e del mio medico di base che si è informato assieme a me - racconta - ho iniziato una terapia a base di cannabis terapeutica e ora posso vivere degnamente”. Il che vuol dire, per persone a volte costrette dal dolore a rimanere per giorni a letto, mangiare e dormire quanto più normalmente possibile, e la possibilità magari di cercare di nuovo un lavoro. Per Claudia, la decisione della ministro Grillo di comprare altri quantitativi di cannabis medica dall’Olanda è un’ottima notizia perché, spiega, “in Emilia-Romagna la Regione ha già provveduto tempo fa con una sua legge, non devo pagare nulla e mi devo solo preoccupare di trovare una farmacia con il prodotto”. Cosa non semplice visto che nelle farmacie dell’Emilia-Romagna l’anno scorso si sono visti pellegrinaggi da un po’ tutta Italia. Uno dei problemi, segnalano i pazienti, è proprio la produzione interna che lo Stato ha affidato all’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze e che, al momento, non è assolutamente in grado di fare fronte alle crescenti richieste. Da qui l’esigenza di acquistare all’estero. Ma non ci sono solo questioni legate all’armonizzazione delle varie legislazioni regionali. All’orizzonte c’è un problema politico pronto ad esplodere da un momento all’altro. Se l’anima pentastellata del governo è favorevole alle esigenze dei malati, e la Ministra Grillo nei giorni scorsi lo ha dimostrato scrivendo direttamente al Comitato dei pazienti, a preparare le barricate è la Lega di Salvini. Non c’è solo il ministro Lorenzo Fontana, che si occuperà di cannabis ma dal punto di vista repressivo. Sono tanti i segnali che dicono che tra i salviniani la cannabis è vista come una droga alla stregua dell’eroina. Lunedì a Piacenza lo ha dimostrato un’iniziativa a trazione leghista, più che un convegno una fake news dal titolo “L’erba della morte, la cannabis”. A partecipare anche il senatore del Carroccio Simone Pillon, capogruppo in Commissione giustizia. Le argomentazioni proibizioniste sono state contestate da 200 persone e da un sit-in, ma Pillon ha messo le cose in chiaro: “I profeti sinistri - ha scritto il senatore - vorrebbero chiudere i nostri giovani nei cessi dei centri sociali a fumarsi le canne. Noi vogliamo che i ragazzi e le ragazze tornino a godersi le nostre splendide città”. Cannabis a uso ricreativo quella presa di mira da Pillon, diversa da quella medica della ministra della salute M5s Giulia Grillo. Ma come possano coesistere sotto lo stesso governo due approcci così differenti sul tema, resta davvero difficile da capire. “Oltre 20 mila pazienti usano già la cannabis terapeutica, ma i medici non sono formati” di Giovanni Stinco Il Manifesto, 29 luglio 2018 “Con i nuovi acquisti di cannabis medica annunciati dal Ministero della sanità possiamo tirare un sospiro di sollievo fino a settembre, forse ottobre. Le farmacie saranno rifornite ma il problema resta apertissimo, ci sono tante questione ancora non affrontate”. Leonardo Fiorentini è da anni impegnato sul tema cannabis, è autore del libro La cannabis fa bene alla politica (Ed. Reality Book) ed è il direttore del sito di informazione sulle droghe Fuoriluogo.it. Sulla cannabis terapeutica molti pazienti lamentano di doversi pagare le cure, cosa sta succedendo? Quel che bisogna capire da subito è che si potrebbe fare già tantissimo con gli strumenti che già ci sono. Il Ministero dovrebbe coordinarsi con tutte le Regioni e rendere così effettivo quanto per ora scritto sulla carta, e cioè che la cannabis terapeutica deve essere a carico del sistema sanitario nazionale. Invece ogni Regione è un caso a se stante, con regole diverse e a volte disattese. Purtroppo da molti punti di vista siamo ancora in pieno Far West. Eppure la legge italiana parla di terapie a carico del sistema sanitario nazionale. Intanto premetto che l’attenzione sul tema della ministra Grillo è qualcosa da non dare per scontato, visto l’atteggiamento del suo predecessore Lorenzin che di fronte alle proteste dei malati si era limitata a dire che le piantine avevano bisogno di tempo per crescere. Resta però ancora tantissimo lavoro da fare sul piano culturale, sia tra i politici che tra i medici. Ad esempio sempre la legge prevedrebbe l’organizzazione di corsi destinati ai medici sul tema cannabis medica. Non mi risulta che stia avvenendo. La verità è che in Italia sono ancora pochissimi i medici, di base e non, con un’adeguata conoscenza professionale sulla questione. Se questa è la situazione chiaramente anche la politica arranca. Ma ripeto, la ministra Grillo sembra attenta alla questione. Resta da vedere quali passi avanti saranno concretamente fatti. Quanti sono i pazienti che in Italia fanno uso di cannabis medica? Difficile dirlo con esattezza. Dati ufficiali non ne abbiamo, alcune regioni lo comunicano, altre no. Possiamo dire, ma si parla di stime, che siano 20 mila le persone che in Italia fanno uso di cannabis medica con regolare prescrizione. Attenzione, però, è solo la punta dell’iceberg. Molti altri potrebbero beneficiare della cannabis terapeutica, ad esempio nelle terapie contro il dolore. Ma il problema è che ne ignorano l’esistenza perché i loro medici, a loro volta, non sono formati sul tema. C’è ancora chi è costretto a informarsi su internet o col passa parola. Non va bene, perché girano leggende metropolitane che parlano di cannabis capace di curare il cancro. Non c’è nessuna ricerca che lo provi, eppure molti pazienti si scambiano l’informazione. Anche qui, come detto, siamo nel Far West. Se lo Stato si facesse carico dei costi, cosa succederebbe? Attenzione anche qui, non è assolutamente detto che lo Stato vada a spendere di più di quanto già spende, visto che spesso la cannabis medica è una terapia che ne sostituisce altre. Negli Stati Uniti ad esempio, dove va detto che la cultura degli oppiacei è molto “diffusa” nella medicina, diversi studi hanno dimostrato che i programmi di cannabis terapeutica sono stati in grado di generare risparmi per il servizio sanitario. Egitto. Al-Sisi condanna a morte 75 fratelli musulmani di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 luglio 2018 Ora le sentenze passano al gran muftì. In uno dei tanti processi di massa post-golpe, gli imputati accusati di proteste dopo la deposizione dell’islamista Morsi. Ieri la Corte penale del Cairo ha condannato a morte 75 persone, ritenute colpevoli di proteste contro il golpe dell’allora generale al-Sisi nei giorni e le settimane successive al 3 luglio 2013. Tra i condannati ci sono figure di spicco dei Fratelli Musulmani, coinvolti nelle manifestazioni a piazza Rabaa, dove nell’agosto di cinque anni fa il neonato regime massacrò circa mille dimostranti. Ora la sentenza di pena capitale sarà trasferita al gran muftì, la più alta autorità legale islamica, che dovrà dare il suo parere in merito. Il parere non è vincolante ma generalmente è ascoltato dalla magistratura (è stato il muftì a salvare Mohamed Badie, leader della Fratellanza Musulmana egiziana e suo ideologo, più volte condannato a morte dal 2013 a oggi). Il verdetto finale sulle sentenze emesse ieri è atteso per il prossimo 8 settembre. Non c’è Shawkan: per il fotoreporter anche lui imputato nelle stesso processo di massa l’udienza è di nuovo rinviata al 9 settembre. Sentenze emesse nell’ennesimo processo di massa, ormai la normalità nel sistema giudiziario egiziano, strumento utilizzato per i casi aperti contro gli oppositori (molto spesso infilandoci dentro soggetti politicamente lontani, da giornalisti ad attivisti di sinistra fino agli islamisti). Di per sé simili processi violano il diritto internazionale e quelli dei singoli imputati che, come raccontano gli egiziani che ci sono passati, sono privati di una difesa efficace ed effettiva: gli imputati non vedono i propri legali (e se ne hanno occasione sono tenuti d’occhio da poliziotti o funzionari del carcere), seguono le udienze in gabbie di vetro, non hanno accesso ai file sul proprio caso. E poi c’è la pena di morte. Se tra il 2007 e il 2013 (dagli ultimi anni dell’era Mubarak al golpe di al-Sisi) sono state condannate a morte 12 persone, dal 2014 il numero è schizzato alle stelle: secondo Reprieve, tra il gennaio 2014 e il febbraio 2018 sono state comminate 2.159 condanne a morte, di cui 83 già eseguite. Più alti i numeri di Amnesty International: dal gennaio 2014 al 25 luglio 2018 sono stati giustiziati almeno 128 prigionieri. Israele. Jorit, street artist italiano: “mi hanno arrestato a Betlemme” Corriere della Sera, 29 luglio 2018 L’artista napoletano stava realizzando sul muro che separa Israele dalla Cisgiordania l’immagine della giovane diventata simbolo della resistenza. Appello di de Magistris per la liberazione. “Siamo stati arrestati a Betlemme dall’esercito israeliano. Chi può aiutarci per favore lo faccia”. Lo scrive sul suo profilo Facebook lo street artist napoletano, Jorit Agoch. Da una settimana sta lavorando a quel volto alto quanto il muro grigio che corre lungo le strade di Betlemme e separa gli israeliani dai palestinesi. Jorit Agoch è un graffitaro napoletano di origini olandesi, nella sua città ha ricoperto le facciate dei palazzi anche con il sorriso malinconico di Massimo Troisi. A Betlemme ha scelto di raffigurare Ahed Tamimi, la ragazza palestinese condannata a otto mesi di carcere per aver schiaffeggiato due soldati e che viene rilasciata oggi. E il consolato generale a Gerusalemme e l’Ambasciata d’Italia a Tel Aviv, in stretto raccordo con la Farnesina, seguono con la massima attenzione il caso dei due italiani fermati a Betlemme ai quali stanno fin d’ora prestando ogni possibile assistenza, in contatto con le autorità locali e le famiglie. “Jorit deve tornare subito a Napoli. La sua libertà è questione di democrazia, riguarda tutti. Lo aspetto anche perché abbiamo del lavoro programmato da portare a termine a San Giovanni a Teduccio”: è l’appello del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, perché sia liberato l’artista partenopeo arrestato a Betlemme. Il murale simbolo - Il muro che separa la Cisgiordania da Israele è ricoperto di graffiti che sostengono la causa palestinese. Accanto all’immagine di Ahed, c’è il volto di un’altra donna, la giovane dottoressa con il velo rosso uccisa a giugno dall’esercito israeliano durante gli ultimi giorni di proteste della Marcia del ritorno. Tamimi, 17 anni, è diventata il simbolo della protesta anti-israeliana dei palestinesi quando a dicembre era stata filmata dalla madre mentre prendeva a calci e pugni, insieme a sua cugina, due soldati israeliani per allontanarli dalla sua abitazione. Il video era diventato virale. Tamimi era stata arrestata il 19 dicembre 2017 e condannata a otto mesi di reclusione da una Corte militare israeliana. Per il suo rilascio, si sono battute associazioni e difensori dei diritti umani. La ragazza, secondo quanto dichiarato dal padre all’agenzia di stampa turca Anadolu, potrebbe uscire dal carcere domenica 29 luglio, nonostante la data prevista di scarcerazione sia il 19 agosto. “Le autorità israeliane non informano il detenuto o la sua famiglia sulla data del rilascio ma penso che sarà presa una decisione” per ridurre la detenzione di 21 giorni, ha detto il padre Bassem Tamimi.