Il 4bis per i minori è contrario alla Legge Delega e alla Costituzione di Maria Brucale* Il Dubbio, 28 luglio 2018 La Commissione per l’Ordinamento penitenziario minorile aveva elaborato un testo coerente. Dopo 40 anni di silenzio legislativo c’era l’esigenza di rispondere alle condotte criminose con strumenti che traducano la tensione punitiva in aspirazione educativa e di recupero. La riforma dell’ordinamento penitenziario è morta. La vocazione della Legge Delega era dare finalmente attuazione all’art. 27 della Costituzione improntando la pena non più al mero aspetto retributivo bensì alla restituzione dell’individuo alla società e ad una reintegrazione ovvero integrazione nel tessuto sociale. Tale tensione finalistica comportava la rimozione di qualunque automatismo che si traducesse in una vanificazione degli sforzi di recupero del sé della persona detenuta e della sua partecipazione ai programmi trattamentali ed alle offerte formative degli istituti penitenziari. In particolare, con riferimento ai minori, la delega prevedeva, al punto 6) dell’art. 85, “l’eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento”. La vocazione astratta dei propositi ministeriali, dunque, permaneva e si rafforzava riguardo alla necessità di dare vita, dopo 40 anni di silenzio legislativo, ad un ordinamento penitenziario minorile ovvero ad una griglia di disposizioni che costituisse una base normativa autonoma che tenesse conto delle necessarie diversificazioni richieste dalla particolare vulnerabilità dei minori che commettono reati e dalla opportunità di rispondere alle condotte criminose con strumenti che traducano la tensione puniti- va in aspirazione educativa e di recupero. In tale ottica, infatti, (del rispetto di una particolare condizione di vulnerabilità, della necessità di educare la persona che sia incorsa da minorenne nel crimine e di determinarne la adesione a modelli sociali alternativi e positivi, di sanzionare con intelligenza prospettica ed indulgenza il minore il cui ricorso al crimine può essere stato determinato da condizionamenti esterni - sociali o familiari - cui non è stato in grado di contrapporre una resistenza matura e consapevole) il carcere deve essere considerato come extrema ratio e rispondere a criteri di inevitabilità. Gli studi ed i progetti di legge elaborati negli ultimi anni, le indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale, dalle direttive europee, dalle circolari ministeriali, tutti assecondano tale medesima intenzione: relegare la pena in carcere ad un ambito del tutto residuale e prediligere l’esecuzione penale “aperta” o extramoenia tesa alla integrazione sociale ed alla responsabilizzazione di soggetti ancora da “educare”, non da rieducare. In tale ottica, coerentemente con il lavoro dei tavoli V e XII degli Stati Generali sull’esecuzione Penale, la Commissione per l’Ordinamento Penitenziario Minorile aveva elaborato un testo che, in piena coerenza alla Delega, prevedesse una pena che rifugge il carcere, “strumento desocializzante e contrario ad ogni logica educativa”, conciliando l’aspetto punitivo con la preminente necessità collettiva di tutelare la formazione del reo ed il suo inserimento nel tessuto sociale. A tal fine e in aderenza ai pronunciamenti della Corte Costituzionale (sent. 90/2017), si era stabilita la eliminazione di ogni ostacolo normativo relativo al titolo di reato ed alla pena da espiare, per consentire al reo già in libertà con in corso un proficuo percorso di formazione, di evitare il trauma dell’ingresso in carcere, sempre interruzione violenta del cammino intrapreso e traumatica sospensione delle relazioni familiari ed affettive. Si vorrebbe ora introdurre specificamente, per i minori che abbiano commesso le più gravi fattispecie di reato, automatismi di preclusione e sbarramenti normativi alle misure alternative al carcere, al grido scomposto di “sicurezza” e di “certezza della pena”. Un grido che asseconda spinte populiste irragionevoli e incolte, rasserenate dalla ferocia ottusa del punire e mai dalla consapevole verifica della proiezione di risanamento di una pena giusta (anche una misura alternativa al carcere è una pena!) sul tessuto sociale, ché lo stolto guarda il dito e non la luna. Si tratta di contenuti vistosamente contrari ai propositi della Delega e in chiaro conflitto con le statuizioni della Corte Costituzionale, troppo spesso costretta a sostituirsi a un Legislatore indolente quando non indifferente ai dettami della Carta Fondamentale. *Appartenente all’ex Commissione di riforma dell’Ordinamento penitenziario minorile Occhetta (La Civiltà Cattolica): “48.000 detenuti potrebbero avere pene alternative” agensir.it, 28 luglio 2018 “Nei 195 istituti penitenziari italiani, a metà del 2018 erano presenti circa 58.000 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 50.069. Un detenuto costa circa 200 euro al giorno, ma lo Stato spende solo 95 centesimi per la rieducazione”. Lo scrive padre Francesco Occhetta, scrittore de “La Civiltà Cattolica”, nella nota politica pubblicata sul numero di agosto-settembre di “Vita Pastorale”, anticipato al Sir. Secondo p. Occhetta, “la crisi della giustizia penale dipende dal modello di riabilitazione”. E indica altri dati: “Circa 29.000 detenuti scontano la pena non in carcere, 12.400 sono in affidamento ai servizi sociali. L’alternativa al carcere funziona. Non certo per i detenuti di grandi reati, che sono circa 10.000, ma per i rimanenti 48.000, molti dei quali espiano pene di lieve entità”. Secondo il gesuita, al modello vigente di “giustizia retributiva”, basato sui princìpi della certezza della pena e della proporzionalità del danno, va affiancato quello della giustizia riparativa, un “prodotto culturale” che “pone al centro dell’Ordinamento il dolore della vittima e la riparazione del reo”. “Centrale per questo modello è l’incontro della vittima con il reo, che è chiamato a ripristinare l’oggetto o la relazione che ha rotto”. Il suo auspicio è l’impegno di “mediatori penali e civili e una società che non consideri le carceri come delle discariche sociali”. Lo considera “un modello adulto che non fa sconti sulla pena, ma umanizza la sua espiazione”. “Evadere dalla C”. Obiettivo cancellare l’epatite nelle carceri italiane di Francesco Merola La Repubblica, 28 luglio 2018 La campagna “Evadere dalla C” per curare tutte le persone infette dal virus nelle carceri italiane. Sono quasi 146.000 i pazienti italiani trattati con i nuovi farmaci ad azione antivirale diretta di seconda generazione (Daas) per la cura dell’epatite C cronica. I dati sono stati diffusi dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), alla vigilia del World Hepatitis Day, la Giornata mondiale dell’epatite. Nel nostro paese sono circa 350.000 pazienti diagnosticati con Epatite C (Hcv), ma esistono anche molte persone inconsapevoli di aver contratto il virus. Nel 2017 l’Aifa ha ridefinito i criteri di trattamento per i pazienti. Sono 11 e permetteranno “di trattare tutti i pazienti per i quali è indicata e appropriata la terapia” La giornata mondiale è l’occasione per sensibilizzare le persone, su questo tema. La Fondazione Villa Maraini, l’agenzia Nazionale per le tossicodipendenze della Croce Rossa Italiana, lancia la campagna “Evadere dalla C” per rendere le carceri italiane “Epatite C free”. A questo proposito è stata inviata una lettera al ministro della Salute Grillo e al ministro della Giustizia Bonafede per proporre di testare volontariamente tutti i detenuti e curare quelli risultati positivi. Questo progetto - spiega Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini - potrebbe rappresentare un modello da replicare, dando al periodo detentivo un senso particolare di utilità per il detenuto-paziente ma anche per la popolazione tutta, inserendosi nell’obiettivo governativo di eradicare in Italia l’Epatite C, con i nuovi farmaci a disposizione, infatti, è possibile guarire dal virus in modo definitivo”. In carcere infatti sono molti i detenuti tossico-dipendenti infetti dall’epatite C. Per questo motivo la malattia in carcere si diffonde più facilmente. L’obbiettivo di questa nuova iniziativa è di curare tutte le persone infette dal virus nelle carceri italiane. Un altro passo per eradicare completamente l’epatite C dunque, specialmente ora che è completamente curabile. Intanto proseguono le attività della campagna in strada “Meet Test & Treat” con un appuntamento speciale per venerdì 27 luglio dalle 22:00 a Roma in Piazza Orazio Giustiniani, Ex- Mattatoio Testaccio, dove con il Camper dell’Unità di Strada e l’ausilio dei medici e psicologi dell’Unità Hiv, saranno eseguiti test rapidi e gratuiti per HIV e Epatite C alla popolazione dei giovani e giovanissimi che la sera affollano i locali della zona. Un modo per coinvolgere più persone nello screening e, in caso di esito positivo, curare questi pazienti presso l’Ospedale Tor Vergata di Roma, con un percorso diretto e privilegiato grazie ad un protocollo d’intesa. Con questa campagna, nello scorso anno sono state 2026 le persone testate, di cui 30 persone sono state diagnosticate come HCV positive e 24 come HIV positive. Gli untori dei nostri giorni di Francesco Damato Il Dubbio, 28 luglio 2018 Mi sono chiesto, sentendo il presidente della Repubblica alla televisione nella cerimonia del ventaglio della stampa parlamentare al Quirinale, chi possano essere oggi gli untori che gli hanno fatto tornare alla mente quelli della peste di Milano descritti nei Promessi Sposi da Alessandro Manzoni. Quegli untori - ha ricordato Sergio Mattarella rileggendo il più bel romanzo italiano - fecero degradare a tal punto il “senso comune” da fare nascondere dietro la paura il “buon senso”. Mi è venuto fuori un elenco desolante di uomini e partiti che non affollano purtroppo l’opposizione ma la maggioranza di governo, per cui mi sento un po’ circondato da una peste politica e sociale di cui molti forse neppure si rendono conto, tanto sono immersi nella indifferenza giustamente odiata da Antonio Gramsci nel lontano 1917. L’Italia era ancora insanguinata dalla prima guerra mondiale e già si avviava, inconsapevole, verso i drammi della vittoria mutilata e del fascismo. Avverto come untori dei nostri disgraziati tempi i cultori e i praticanti dell’antipolitica: sia quelli che per disprezzo, stanchezza o indifferenza, appunto, disertano le urne sia quelli che vi accorrono per scommettere su chi è convinto che i partiti non servano più. O addirittura nuocciano al Paese. O su chi non vede l’ora che passino i pochi lustri ancora assegnati, bontà sua, da Davide Casaleggio al Parlamento, superato dall’avanzante democrazia digitale. Avverto come untori quelli che liquidano come “privilegi rubati” i diritti legittimamente acquisiti e ne salutano l’abolizione, spesso pressoché totale, non rammaricandosi di un sacrificio imposto dalle mutate condizioni economiche ma compiacendosi dei danni comunque arrecati ai presunti grassatori e nemici del popolo. Danni peraltro mai abbastanza compensati dai vantaggi promessi ai meno abbienti, viste le risorse pur sempre limitate che si presume di liberare con la terapia dei tagli e delle mutilazioni. Avverto come untori quelli che non hanno pietà degli avversari neppure dopo la morte, come ho visto appena accadere attorno al povero Sergio Marchionne. Avverto come untori quelli che continuano a scambiare gli avvisi di garanzia, a dispetto della loro stessa definizione, per condanne definitive, e non solo per rinvii a giudizio o condanne impugnabili. Avverto come untori quelli che scambiano i concorrenti per nemici e, non sapendo più come combatterli, ne storpiano i nomi e le biografie. Avverto come untori quelli che vedono “la pacchia” in un soccorso in mare ai migranti e ne annunciano trionfanti la fine, conoscendone peraltro bene il costo. Avverto come untori i moralisti che disprezzano le lottizzazioni altrui e pretendono che vengano scambiate le loro per limpidi concorsi al merito. Avverto come untori quelli che scambiano le opposizioni per lobby e considerano legittimi solo gli interessi degli amici, o delle loro clientele elettorali che vivono prevalentemente di risentimenti e rabbia. Avverto come untori quelli che indicano nelle grandi opere solo occasioni di corruzione e di sperpero. E le selezionano con criteri non economici o sociali ma di orgoglio di parte, per cui - per esempio- la Tav, per stare alle cronache di questi giorni, può essere abbandonata, anche a costo di una crisi di governo e di penali per miliardi di euro, e la Tap no. Avverto come untori quelli che un giorno annunciano il proposito di mandare davanti alla Corte Costituzionale per tradimento il capo dello Stato e il giorno dopo vanno a baciargli la pantofola. Avverto come untori quelli che considerano intercambiabili in una trattativa di governo partiti fra di loro alternativi. L’elenco potrebbe continuare. E la peste dei nostri giorni essere chiamata in mille modi. Ma mi fermo qui. E mi consolo all’idea che ogni tanto qualcuno di buona volontà, di buone letture e di “buon senso” riesca a trovare il tempo, la voglia e - coi tempi che corrono - anche il coraggio di suonare l’allarme e di farci riflettere. O se, preferite, di smuoverci dall’indifferenza. Grazie, signor presidente della Repubblica. A presto, spero. Giustizia, Bonafede e la riforma ossimoro di Dimitri Buffa L’Opinione, 28 luglio 2018 L’obiettivo del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è tanto semplice quanto cinico: il minimo sindacale è far scadere la delega governativa sull’ordinamento carcerario. Con buona pace dell’unica riforma quasi decente incardinata dal suo predecessore Andrea Orlando. Mercé anche gli stati generali della giustizia penale e i numerosi suggerimenti recepiti. Tra cui quelli preziosissimi di Rita Bernardini e del Partito radicale transnazionale che della vivibilità carceraria secondo Costituzione da tempo ha fatto una battaglia esistenziale oltre che politica. Meglio ancora sarebbe, andando contra legem, trasformare quel disegno di legge - etichettato secondo la bugiarda propaganda di campagna elettorale come “svuota carceri” - in senso diametralmente opposto a quello inteso dalla delega. Anche se poi la mannaia della Consulta sarebbe quasi una certezza. Così il ministro, che molti scherzando definiscono “dal cognome che è un ossimoro”, una cosa che non sta in cielo né in terra l’ha già potuta mandare avanti (grazie a una riscrittura in tal senso fatta dallo stesso ministro Orlando poco prima di lasciare via Arenula) nei nuovi decreti attuativi che finiranno presto in aula: estendere il 4 bis della Legge Gozzini, che include il famigerato articolo 41 bis, anche ai minori. Cosa che già un anno fa la Consulta aveva escluso tassativamente in nome della rieducazione prevista a maggior ragione per i minorenni dall’articolo 27 della Costituzione. Più precisamente con la sentenza numero 90 del 2017 che aveva dichiarato illegittima la cosiddetta “ostativa” alla sospensione dell’ordine di carcerazione nei confronti dei minorenni condannati per alcuni gravi delitti. Fare rientrare dalla finestra ciò che la Corte costituzionale ha fatto uscire dalla porta sembra però una specialità della casa grillina appena incistatasi nel delicato ministero di via Arenula. Così come, all’insegna dell’”intercettateci tutti”, sgomenta l’ipotesi di eliminare tutta la riforma, sia pure imperfetta, voluta dal Partito Democratico sulle captazioni telefoniche e ambientali. Riforma che però, al netto di alcune fesserie, riportava un po’ di privacy nelle telefonate personali di indagati e coinvolti. Che invece pubblicamente Bonafede ha rivendicato come soggetti passivi di uno “sputtanamento” mediatico senza limiti. In quella riforma in realtà, i magistrati e gli avvocati avevano lamentato un’unica idiozia: quella di demandare alla polizia giudiziaria la pre-selezione dei nastri da mettere nel fascicolo della pubblica accusa, senza la possibilità né per il pm né per gli avvocati degli indagati di metterci becco. Cosa che costituzionalmente comunque non reggerebbe. Sia come sia, una previsione si può azzardare: il 3 agosto scade la delega tout court della riforma dell’ordinamento penitenziario e se, come appare più che possibile, alla fine la montagna non partorirà neanche il topolino, il problema verrà risolto tagliando con la spada giustizialista dei Cinque Stelle il nodo gordiano. Bonafede: “libertà ai pm di ascoltare gli indagati” di Ugo Elfer L’Opinione, 28 luglio 2018 È iniziata una nuova fase giudiziaria. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è intervenuto in merito al rinvio della riforma delle intercettazioni contenuta nel decreto Milleproroghe. “Impediamo - ha detto - che venga messo il bavaglio all’informazione. Perché la riforma Orlando era stata scritta con l’intento di impedire ai cittadini di ascoltare le parole dei politici indagati”. Per il ministro, “ogni passata riforma è coincisa con uno scandalo e l’ultima è stata fatta in concomitanza col caso Consip”. Secondo Bonafede, “ogni volta che qualcuno del Pd veniva ascoltato qualcuno del Pd tendeva a tagliare la linea”. Va ricordato che nell’inchiesta Consip è stato coinvolto il padre di Matteo Renzi. E l’ex presidente del Consiglio ha replicato immediatamente: “Il ministro - ha affermato - non ha capito niente o è in malafede: la riforma delle intercettazioni è dell’agosto 2014. Nessuno immaginava lo scandalo, il complotto Consip. Ma Bonafede-Malafede potrebbe venire in aula e raccontarci che si diceva e scriveva con Luca Lanzalone”, l’avvocato coinvolto nello scandalo dello stadio della Roma. Per il penalista Francesco Paolo Sisto, di Forza Italia, “la stagione giudiziaria che ci aspetta si conferma sempre più preoccupante: piena di suggestioni colpevoliste, ossequiosa verso la pancia della piazza, del tutto incurante dei principi costituzionali”. In ogni caso, Bonafede ha aggiunto che “il provvedimento sarà riscritto attraverso un percorso partecipato. E i circa 40 milioni stanziati per comperare attrezzature non sono persi perché queste potranno essere utilizzate per qualsiasi norma sulle intercettazioni”. L’Associazione nazionale magistrati esulta. Il presidente Anm, Francesco Minisci, manifesta la propria soddisfazione per “il grido d’allarme andato a buon fine e dunque la riforma delle intercettazioni è stata bloccata”. Per Minisci, le norme volute dall’ex ministro Orlando erano “una cattiva riforma che non solo non avrebbe raggiunto l’obiettivo di tutelare la privacy, ma soprattutto avrebbe danneggiato le indagini”. Gli fa eco la presidente della commissione Giustizia della Camera pentastellata Giulia Sarti: “È necessario - ha detto - potenziare le intercettazioni, strumento essenziale, soprattutto in quei casi in cui, come nei reati di corruzione, l’impiego è ancora limitato”. Paola Severino: “solo la giustizia economica batte le diseguaglianze” di Francesca Sforza La Stampa, 28 luglio 2018 Parla l’ex Guardasigilli: se c’è rispetto della legalità, c’è anche più crescita. Combattere le diseguaglianze, questa è la sfida che si sta giocando in Occidente, dall’America che ha votato Donald Trump alla Gran Bretagna che ha scelto Brexit, fino agli appelli sovranisti che risuonano in tutti i paesi europei. La risposta può venire dalla giustizia economica? Stando alle analisi che dalle cattedre di Economic Justice, nei paesi anglosassoni, si trasformano in progetti politici e nuovi posti di lavoro sembrerebbe di sì. Noi lo abbiamo chiesto a Paola Severino, avvocata, Ministra della Giustizia con il governo Monti, vicepresidente della Luiss di Roma, “soprattutto insegnante”. Paola Severino, in che senso giustizia ed economia, insieme, possono creare una società più equa? “Se guardiamo al disagio che attraversa le classi sociali credo che dobbiamo in primo luogo partire dai giovani: cosa vogliono? Cosa chiedono? L’esperienza sul campo mi dice che tra loro serpeggia, fortissimo, un desiderio di legalità”. In che senso? “Ricordo un seminario sulla legalità organizzato a Santa Maria Capua Vetere. Ero convinta che non ci sarebbe stato nessuno, e invece trovai oltre mille persone sedute e altre in piedi. Tutti ragazzi che non solo erano interessati, ma che vedevano nella legalità una possibilità di crescita e riscatto sociale. Ne è nato un progetto, con un corso, un premio e dei fondi che quest’anno sono stati raddoppiati. L’idea di fondo è semplice: se c’è rispetto della legalità c’è più giustizia sociale e più crescita economica”. Tra le misure che il governo sta mettendo a punto per ridurre le disparità ci sono flat tax e reddito di cittadinanza. Secondo lei possono funzionare? “Non entro nel merito di provvedimenti che ancora non sono definiti, ma ritengo che se queste misure si accompagnassero a specifiche misure di equità fiscale sarebbero più efficaci”. Intende dire che il perseguimento dell’evasione non è sufficiente? “Sono convinta che una giustizia incapace di contrastare l’evasione fiscale non consenta una ridistribuzione equa tra le classi e tra le generazioni, e quindi, di nuovo, blocchi la crescita. Proprio per questo ritengo che, accanto a severe sanzioni e ad investigazioni approfondite, si debba creare, a monte, un conflitto di interessi tra venditori ed acquirenti”. Come diceva Adam Smith, “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla considerazione che questi hanno per il proprio interesse personale”. L’insegnamento di uno dei padri della giustizia economica è ancora attuale? “Sì, aumentare il numero delle spese detraibili significa disinnescare il sistema per cui l’elettricista preferisce essere pagato in nero e il cliente non ha alcun interesse a impedirglielo. Gli esempi positivi si hanno con le assicurazioni: oggi chiedere ed ottenere una fattura da un medico rappresenta, fortunatamente, la regola. Ecco un altro esempio in cui giustizia ed economia, insieme, possono innescare circoli virtuosi”. E poi c’è la corruzione, grande malattia dell’economia italiana. Da dove aggredirla? “Gli effetti della corruzione sull’economia sono devastanti: un’impresa che corrompe danneggia l’impresa che concorre in modo leale, così come un cittadino che ha diritto a ottenere un certo posto o un certo impiego viene danneggiato da chi lo ottiene in cambio di un favore o di una tangente”. Un problema culturale o politico? “Sono convinta che occorra una rivoluzione culturale: bisogna insegnare a pensare fin da giovanissimi che chi corrompe non è più furbo, non è migliore. L’insegnamento di legalità nelle scuole è prioritario e può produrre risultati incredibili: guardiamo quello che è successo in Armenia, dove le proteste dei giovani al grido di “Via la corruzione” hanno rovesciato il governo”. E la politica? “Quando lasciai il Parlamento con la nuova legge anticorruzione, non nascosi la mia soddisfazione per un provvedimento che rispondeva anche a quanto ci veniva chiesto dall’Unione Europea, ma ricordo che mancava ancora un tassello: la regolamentazione del lobbismo”. Perché è così importante? “Di nuovo è una variante dell’interazione virtuosa tra giustizia ed economia. Se un pubblico ufficiale riceve persone che trasparentemente documentano il motivo della loro visita, il limite tra lobbismo lecito e il traffico di influenze illecite sarebbe più chiaramente tracciabile. Il lobbismo diventa così un’attività legittima e trasparente, non l’anticamera di una possibile corruzione. Non è difficile, avevo anche preparato una bozza di progetto, che non si fece in tempo a far votare dal Parlamento”. E per le opere pubbliche o i grandi eventi? “La prevenzione resta importante: più che nuove leggi, occorrono buoni monitoraggi sulla legalità dei mezzi che vengono usati”. Che ruolo gioca secondo lei l’invidia sociale nel meccanismo della crescita economica? “L’invidia sociale c’è sempre stata, oggi la si manifesta di più, anche attraverso i social. Corte Costituzionale: gli avvocati dei detenuti non possono più scioperare di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 28 luglio 2018 Gli avvocati non potranno più scioperare ed astenersi dalle udienze in cui vi sono degli imputati detenuti. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, sottolineando che soltanto il legislatore può intervenire in una materia che incide sulla libertà personale e stabilire la durata della custodia cautelare. Fino ad oggi i legali agivano in funzione di un codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze, adottato il 4 aprile 2007 dall’Organismo unitario dell’Avvocatura e da altre associazioni quali Ucpi, Anfi, Anf, Aiga e Uncc e considerato idoneo dalla Commissione di garanzia sugli scioperi. Ed era grazie a questo codice che si era stabilito che i legali potessero astenersi dal lavoro, anche in presenza di detenuti, ma con il loro consenso esplicito. Quando l’imputato non si opponeva allo sciopero del proprio legale, il processo veniva rinviato e i termini di custodia cautelare venivano sospesi, con il conseguente allungamento del periodo di restrizione della libertà personale, sia pure entro i limiti di durata complessiva prevista dalla legge. La questione era stata sollevata lo scorso anno dal giudice Francesco Caruso, presidente della Corte che sta gestendo il maxiprocesso “Aemilia”, a Reggio Emilia: lo scorso anno aveva deciso di andare avanti con le udienze nonostante lo sciopero dei legali. Una decisione che era stata impugnata da alcuni avvocati arrivati a sostenere la tesi secondo cui il processo, a partire dall’udienza incriminata, andava completamente annullato e rifatto. Da qui la richiesta di parere alla Consulta da parte del giudice Caruso che aveva sostenuto come l’imputato, a causa delle astensioni, “subisse restrizioni della libertà personale per motivi diversi da quelli espressamente considerati dalla legge”. La decisione della Corte (relatore Giovanni Amoroso) mette una pietra tombale sulla questione bocciando i legali. La sentenza depositata ieri si fonda sull’articolo 13 della Costituzione, in base al quale “soltanto il legislatore può intervenire in una materia che incide sulla libertà personale e stabilire la durata della custodia cautelare”. Ed è per questo che esiste una illegittimità costituzionale dell’articolo 2 bis nella parte in cui consente (o meglio non preclude) che il codice di autoregolamentazione interferisca con la disciplina legale dei limiti della custodia cautelare e dunque della libertà degli imputati. “Quella della Consulta è una sentenza oscura: non si capisce se ha allargato la possibilità degli avvocati di astenersi dalle udienze, a prescindere dalla volontà degli imputati, o se invece l’ha esclusa quando ci sono imputati detenuti”. A criticare la pronunzia è l’avvocato ed ex parlamentare Gaetano Pecorella, che davanti alla Consulta ha sostenuto le ragioni dell’Unione delle Camere penali, di cui è stato presidente. Consulta: per sciopero legali in processi con detenuti serve una legge Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2018 È incostituzionale la norma di legge che, rinviando al codice di autoregolamentazione, consentiva agli avvocati l’astensione dalle udienze nei processi con imputati detenuti. In base all’articolo 13 della Costituzione, infatti, soltanto il legislatore può intervenire in una materia che incide sulla libertà personale e stabilire la durata della custodia cautelare. Lo ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 180 depositata oggi (relatore Giovanni Amoroso) nella quale si dichiara incostituzionale l’art. 2 bis della legge 13 giugno 1990 n. 146, là dove consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati - adottato il 4 aprile 2007 dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura e da altre associazioni (Ucpi, Anfi, Anf, Aiga, Uncc) e considerato idoneo dalla Commissione di garanzia sugli scioperi - nel regolare l’astensione interferisca con la disciplina della libertà personale. La questione era stata sollevata dal Tribunale di Reggio Emilia nel cosiddetto maxiprocesso Aemilia con riferimento all’articolo 2 bis della legge 146/1990, che riconosce il diritto dei difensori all’“astensione collettiva dalle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria”, fermo restando il necessario “contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati”, e, al contempo, affida alle associazioni o agli organismi di rappresentanza delle categorie interessate l’adozione di “codici di autoregolamentazione”. Ebbene, secondo l’articolo 4, comma 1, lettera b) del codice di autoregolamentazione, il processo non può fermarsi se, malgrado l’astensione dell’avvocato, l’imputato in custodia cautelare chiede espressamente che si proceda. In sostanza, il giudice può respingere la richiesta di rinvio del difensore e andare avanti solo con il consenso espresso degli imputati detenuti. Se invece l’imputato non si oppone all’astensione, il processo è rinviato e i termini di custodia cautelare vengono sospesi, con il conseguente allungamento del periodo di restrizione della libertà personale, sia pure entro i limiti di durata complessiva prevista dalla legge. In tal modo, secondo il Tribunale l’imputato subisce restrizioni della libertà personale per motivi diversi da quelli espressamente considerati dalla legge. La Corte costituzionale, dopo aver richiamato la riserva di legge stabilita dall’articolo 13 della Costituzione in materia di libertà personale, ha preso atto che l’articolo 2 bis della legge 146/90 rimanda a una regola del codice di autoregolamentazione che produce effetti diretti sui termini di custodia cautelare, in violazione della riserva di legge. Di qui l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2 bis nella parte in cui consente - ossia non preclude - che il codice di autoregolamentazione interferisca con la disciplina legale dei limiti della custodia cautelare. Milano: 25 anni dalla strage di via Palestro, letture e testimonianze per non dimenticare La Repubblica, 28 luglio 2018 Milano ricorda la sera in cui fu colpita al cuore, il 27 luglio 1993, quando un’autobomba in via Palestro uccise cinque persone, ne ferì molte altre e devastò il Padiglione d’arte contemporanea insieme a tutta la zona circostante. In occasione del 25° anniversario dalla strage, oggi al Pac si terrà una giornata di commemorazione, a partire dalle ore 10, quando il sindaco Giuseppe Sala e la vicesindaco Anna Scavuzzo parteciperanno alla deposizione delle corone. A seguire, l’inaugurazione della mostra fotografica “La mafia uccide solo d’estate. 25 anni dalla strage di via Palestro” e, dalle ore 10.30, gli interventi guidati dal titolo “Una strage volta a ricattare lo Stato”: parleranno il sindaco Giuseppe Sala, il presidente del Consiglio comunale Lamberto Bertolè, il direttore regionale dei vigili del fuoco, Dante Pellicano, e Francesco Del Bene, sostituto procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo. La commemorazione continua, a partire dalle 21, con letture, musiche e testimonianze di persone che quella notte rimasero ferite e con gli interventi del vicesindaco Anna Scavuzzo e del presidente della Commissione consiliare Antimafia David Gentili. Alle ore 23.15 il suono della sirena inviterà tutti i presenti a un momento di raccoglimento, nell’attimo esatto in cui l’auto imbottita di tritolo esplose esattamente davanti al Pac. Per tutta la giornata di venerdì, fino alle 24, sarà possibile visitare il Pac con ingresso gratuito. “Un momento per fermarci tutti, per un minuto con il suono della sirena, in ogni parte del nostro Paese, in ogni posto dove c’è un vigile del fuoco, per ricordare tutte le vittime del dovere e in modo particolare chi si è sacrificato fino all’ultimo respiro per compiere il proprio dovere”, è questa la richiesta avanzata dall’Associazione Carlo La Catena, che porta il nome di una delle vittime - attraverso una richiesta ufficiale - al Ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Oltre al pompiere La Catena, giovane napoletano di 25 anni, alle 23:14 del 27 luglio 1993 morirono altri due suoi colleghi, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e un immigrato marocchino che dormiva su una panchina, Moussafir Driss. Quella notte La Catena era stato chiamato con i colleghi sul posto dopo una telefonata anonima che aveva dato l’allarme per il fumo che usciva da una Fiat Uno parcheggiata in via Palestro, davanti al Padiglione dell’Arte Contemporanea. L’esplosione avvenne prima che le forze specializzate potessero disinnescare l’ordigno e lo stesso museo fu gravemente danneggiato dalla deflagrazione. La famiglia del ragazzo napoletano seppe della sua morte dalla televisione. Uno dei protagonisti dell’operazione di terrore fu Gaspare Spatuzza, che dopo anni decise di collaborare con la giustizia. L’obiettivo “erano i monumenti, non le vite umane. Quello che avvenne erano conseguenze non cercate”, disse poi Spatuzza in tribunale vent’anni dopo coinvolgendo Filippo Marcello Tutino, che secondo le sue dichiarazioni avrebbe avuto il ruolo di basista in via Palestro. Ma questo non è mai stato provato: solo qualche giorno fa la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Assise in Appello, assolvendo Tutino definitivamente. Le accuse però non sono cadute per i fratelli Formoso e i Graviano, oltre alle condanne per Riina, il super latitante Messina Denaro, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella fino allo stesso Spatuzza. Ma restano molti interrogativi su complici, armatori e moventi della strategia stragista di Cosa Nostra e sulle conseguenze di quella notte quando, tra ricatti, presunte trattative e silenzi, l’Italia partorì i suoi fantasmi. Taranto: il Sappe denuncia “il carcere ha il doppio dei detenuti” tarantobuonasera.it, 28 luglio 2018 “In questa estate torrida, nonostante le nostre forti proteste le carceri pugliesi continuano a riempirsi oltre l’inverosimile con Taranto, per esempio che ha superato il 100% di sovraffollamento con oltre 600 detenuti a fronte di meno di 300 posti disponibili”. L’allarme viene lanciato dal Sappe. “Non se la passano meglio altre carceri da Lecce a Foggia, da Trani a Brindisi e così via, tanto è vero che la media del sovraffollamento regionale è di oltre il 60%(3650 presenze a fronte di 2300 posti), livello mai raggiunto a livello nazionale. Purtroppo nemmeno la nomina a senatrice nel movimento 5 stelle della dirigente del carcere di Trani è servita a qualcosa- prosegue il Sappe- nonostante la stessa fino a pochi mesi fa denunciava insieme a noi la drammaticità della situazione penitenziaria pugliese. Alla senatrice Piarulli abbiamo chiesto più volte di presentare un interrogazione parlamentare urgente al Ministro della Giustizia che fa parte del suo stesso movimento, affinché la Puglia venisse trattata allo stesso livello delle altre regioni sia per quanto riguarda il sovraffollamento dei detenuti, che per gli organici della polizia penitenziaria, inutilmente. Peccato poiché un aiuto così autorevole sia venuto meno nel momento di maggior bisogno, forse l’aria romana fa dimenticare tutto. I numeri sono significativi di qualsiasi parola e la situazione nazionale riferita al sovraffollamento dei detenuti ed alle piante organiche da cui emerge in maniera chiara la drammaticità della situazione pugliese. C’è disinteresse nei confronti della situazione penitenziaria pugliese che diventa sempre più preoccupante poiché i detenuti aumentano sempre di più e i poliziotti diminuiscono”. Roma: “Vale la pena”, la seconda occasione ha il gusto fresco di una birra di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 28 luglio 2018 In via Eurialo 22, a Roma, apre “Vale la pena”, che è un pub, ma anche un marchio di birra. Che reinserisce al lavoro i detenuti. Si chiama RecuperAle e potete leggere questo nome come vi pare. All’inglese, perché è un tipo di birra molto particolare, una Pale Ale. Oppure all’italiana, “recuperale”, perché è nata recuperando il pane raffermo, che altrimenti andrebbe buttato. E perché è inserita in un progetto che recupera delle persone in difficoltà e le riporta al lavoro, e alla vita. In questo nome c’è tutto il senso del lavoro dell’associazione Semi di libertà Onlus che, da quattro anni, ha deciso di puntare sul riscatto dei detenuti e degli ex detenuti, e dare vita a qualcosa che possa dare loro un lavoro. Perché nella nostra Costituzione c’è un articolo, l’Art. 21, che dice che “le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”, ma spesso questa rieducazione rimane solo sulla carta. Semi di libertà ha deciso di fondare prima un birrificio, e una linea di birre dal nome “Vale la pena” (sono in vendita da Eataly). E poi di dare vita a un pub, in apertura proprio in questi giorni, dallo stesso nome: si trova in Via Eurialo 22, nel quartiere San Giovanni, a Roma. Ora le birre potrete gustarle anche lì. E farete in modo di assicurare un futuro anche a questi ragazzi. Abbiamo parlato con Paolo Strano, presidente di Semi di libertà, per capire da dove sia nata, prima ancora dell’idea del pub, la voglia di puntare su questi ragazzi, e dare loro un’altra possibilità. “Tutto nasce da un’esperienza diretta” ci ha raccontato. “Ho sempre lavorato nel servizio sanitario nazionale, nell’ortopedia. A un certo punto sono andato a lavorare a Regina Coeli, ho scelto di dedicare parte del mio orario di lavoro al carcere: ho scoperto un mondo. È un universo sconosciuto, dal punto di vista politico è un tema assolutamente impopolare. O non se ne parla, o lo cavalcano in maniera negativa. E mi è rimasto appiccicato addosso”. Semi di libertà punta molto sugli eventi proprio per far conoscere, oltre al proprio prodotto, il progetto e gli individui che ne fanno parte. “Quando le persone vengono agli eventi conoscono i ragazzi con cui lavoriamo, vedono che c’è qualcuno che si sacrifica, lavora, lavorando paga le tasse. Lì cade il pregiudizio. E comincia la conoscenza”. “Il carcere è un universo dove c’è tutto” continua. “Tra le altre cose trovi tanta violenza, tanto dolore. E tante potenzialità, persone in gamba molto dotate che crescendo in determinati contesti prendono una brutta deriva”. Ma il problema più grande è forse quello della recidiva, il fatto di tornare a delinquere perché non si trova un’altra possibilità per vivere. “Incontri persone alla quarta o quinta esperienza detentiva, persone che entrano ed escono continuamente dal carcere” ci racconta Strano. Nonostante quell’articolo 27 della Costituzione. “La pena ha solo una funzione afflittiva” riflette. “E questa è una delle cose che fa sì che ci sia la recidiva, essendoci raramente una rieducazione”. L’associazione Semi di libertà viene fondata nel gennaio del 2013, e il progetto “Vale la pena” parte nel 2014. Dopo un’attenta valutazione, si decide di puntare decisi sulla birra artigianale. “La birra è un elemento conviviale, facilita la conversazione, un certo tipo di clima, scambi di opinioni che possono avvenire nel pub, o anche negli eventi” ci spiega Paolo Strano. “Per diffondere i nostri temi la conversazione ha un valore importante. Ma il primo ragionamento è stato molto più prosaico, la sostenibilità economica: serviva qualcosa che si sostenesse da solo. Abbiamo iniziato nel momento di massima crisi ed è stato abbastanza complicato, perché nessuno di noi era imprenditore. Abbiamo fatto un po’ di ricerche, e la birra artigianale è stata l’idea che ci convinceva di più. Non ci voleva un impegno esagerato, e ci siamo concentrati subito su questo settore”. Il progetto è nato da subito come formativo: si trattava di fare formazione ai detenuti, e ai ragazzi dell’istituto agrario dove si trova il birrificio. “Lo scambio di esperienze è unidirezionale, da parte dei detenuti nei confronti dei ragazzi” ci spiega Strano. “Nella prima fase del progetto c’era anche uno psicologo: i ragazzi hanno il mito del criminale, alimentato da film e serie televisive che fanno vedere il carcere come una cosa da maschi, quasi da mettere in curriculum. Il risultato di questo scambio è stato eccezionale: passata la prima fase, in cui i ragazzi sono attratti come le mosche dai detenuti, capiscono quanto sia facile sbagliare, e quanto difficile tornare indietro, quanto è brutto il carcere. Lo psicologo ha fatto test d’ingresso e di uscita ai ragazzi su questi temi e con risultati interessanti. Le ragazze invece sono molto giustizialiste, e ci sono stati momenti di tensione”. Il pub “Vale la pena” aprirà proprio in questi giorni. Darà lavoro a due detenuti e un ex detenuto. “Due ragazzi sono in semilibertà, uno torna a Rebibbia la sera, un altro è ai domiciliari” ci racconta il presidente di Semi di libertà. “Verranno assunti dal pub e contrattualizzati, ora lavorano al birrificio e lasceranno liberi due posti che riempiremo in un nanosecondo. Ci scrivono da tutta Italia per lavorare con noi, perché in Italia sono pochissimi quelli che danno una seconda occasione. Ci sono un discreto numero di iniziative dentro il carcere, ma fuori poche. Il problema è che in carcere si creano modi di sostentamento, si fa formazione ma, se quando i ragazzi escono non c’è una rete immediata, si perdono in un attimo. Se anche sei formato, con quel curriculum, è umano che tra due persone si scelga chi non è stato in galera. Abbiamo in animo di costruire una camera di compensazione, un percorso che inizi in carcere, con la formazione, ma che realizzi una rete immediata di accoglienza fuori, anche per fornire un posto dove dormire a chi esce dal carcere”. È un progetto che va sostenuto, non solo per il suo valore sociale. Ma anche perché la birra è buona. “Il progetto formativo ha suscitato interesse e abbiamo arruolato i più grandi birrai italiani” ci spiega Paolo Strano. “Per noi è stato fondamentale, hanno fatto una formazione di alto livello, e ci hanno donato delle ricette. E così è nata una gamma di birre notevolissime da birrai con grande esperienza”. “Non volevamo che la gente acquistasse questi prodotti per pietismo, sarebbe stata un’operazione che altrimenti avrebbe avuto le gambe corte” continua. “Se la compri per curiosità, per un tema che ti sta a cuore, e poi il prodotto è scadente non lo compri più”. Tra i prodotti più interessanti di “Vale la pena” c’è la RecuperAle, nata dall’incontro con la onlus Equoevento, che recupera cibo di qualità da grandi eventi. “Ci siamo uniti a loro e, con il pane avanzato, creiamo una birra ad alta fermentazione, una Pale Ale” ci racconta Strano. “Per fare la birra puoi utilizzare tante cose: la cicoria, la frutta. Stiamo sviluppando al massimo questo tema: cercare sempre di più di fare birra con il cibo che viene sprecato. Per noi è fondamentale la comunicazione di questi temi”. Tra queste birre c’è appunto la Saison d’Hiver Sentite libbero, amaricata con le cicorie spontanee da agricoltura sociale. “È come si faceva la birra prima della scoperta del luppolo, che è entrato nella produzione della birra nel 1200-1300” ci svela il presidente. Il pub vuole dare un messaggio preciso, ed evoca immediatamente la struttura del carcere. “Il sistema di spillatura è costruito con delle sbarre che si piegano” ci racconta Strano. “E ci si siede in una sorta di celle, con delle panche e delle sbarre”. Ma “Vale la pena” non sarà solo un pub, sarà anche un punto di vendita dell’economia carceraria. “Stiamo mettendo su una piattaforma” ci racconta il presidente di Semi di libertà. “Abbiamo fatto un festival dell’economia carceraria alla Città dell’Altra Economia, a Roma. È stato un successo, sia a livello di partecipazione che di interesse delle istituzioni”. Tra i prodotti che si trovano nel pub ci sono il Caffè Galeotto, prodotto nella torrefazione di Rebibbia, i taralli di un progetto pugliese, la pasta di un progetto siciliano, nato nel carcere dell’Ucciardone, a Palermo. Nei paesi di lingua tedesca, per brindare con una bella birra, si dice “Prosit”. È una parola che nasce da latino e che significa “buon pro”. E allora che questa birra buon pro faccia a questi ragazzi. È un augurio sincero. Impegno, programmi, fondi per gestire l’immigrazione di Valerio Onida Corriere della Sera, 28 luglio 2018 Una vera politica migratoria richiede sforzi e adeguamenti organizzativi degli apparati pubblici. Non basta e non serve polemizzare con Salvini. Caro direttore, è spontaneo, per chi crede negli ideali universalistici del costituzionalismo - per cui “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” (art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) - esprimere dissenso e indignazione di fronte a certe manifestazioni di pensiero ed espressioni verbali del ministro dell’Interno a proposito di migranti: manifestazioni ed espressioni in cui risuona un atteggiamento di chiusura ed egoismo nazionalistici, di rifiuto dell’”altro”, dello “straniero”, più che di vero e proprio razzismo (si tenga presente che il primo senatore nero è Toni Iwobi, eletto con la Lega; prima di lui erano stati eletti, alla Camera, due deputati del Partito democratico). Tuttavia, se si vuole dare sostanza politica alle proprie idee e alle proprie critiche, e parlare delle politiche migratorie (che non sono appannaggio del ministro dell’Interno, ma spettano a Governo e Parlamento) non basta e non serve polemizzare con Salvini: occorre porre i problemi nella loro realtà e dimensione effettive, e chiarire che cosa occorrerebbe fare per affrontarli secondo linee conformi ai diritti umani e alla realtà storica. Ciò significa non fermarsi al fenomeno degli sbarchi e dei salvataggi in mare. È infatti evidente che non siamo di fronte a naufragi occasionali, in presenza dei quali valgono le regole del diritto del mare (salvare le vite, porto sicuro più vicino ecc.), ma a un fenomeno di massa, epocale: la pressione di milioni di esseri umani che (ben al di là dei casi di profughi che possono chiedere asilo politico) aspirano a venire nelle nostre terre, più ospitali e ben più ricche di quelle di origine, dove le condizioni di sopravvivenza sono precarie. Questo fenomeno non si può né negare né esorcizzare: occorre governarlo al meglio, tenendo presenti i doveri di solidarietà umana e internazionale. Il che significa anzitutto - oltre che adottare interventi, necessariamente di lungo termine, di aiuto allo sviluppo dei Paesi africani - porre in essere leggi e misure che aprano le porte dei Paesi europei a una immigrazione legale. Oggi di fatto cosa accade? Decine di migliaia di esseri umani, che nei propri Paesi di origine non trovano luoghi, gestiti dai Paesi europei, in cui rivolgere una domanda di immigrazione, pagano dei trafficanti, i quali organizzano il trasferimento attraverso il deserto fino alla costa del Mediterraneo, e in Libia “organizzano” la traversata, contando che, una volta in mare, scatteranno i salvataggi e quindi ci penseranno le navi dei soccorritori a far sbarcare i migranti in Europa: dove questi potranno chiedere asilo come profughi, o protezione umanitaria, oppure accontentarsi di “sparire” sul territorio degli Stati europei come migranti irregolari. Si è visto fra l’altro come, mentre prima li imbarcavano in barconi più o meno scassati che potevano attraversare il Mediterraneo, oggi di fatto li caricano a centinaia su gommoni, tutti uguali, destinati a fare poca strada, fino alle navi dei soccorritori. Cercare di prevenire gli imbarchi contando sulle forze dell’ordine o sulle milizie libiche (o sulla guardia costiera libica, che per definizione opera perché i migranti restino o tornino in Libia, anche se salvati dal naufragio) non è il modo giusto per gestire seriamente il problema delle migrazioni. Il problema dei migranti trattenuti in Libia, in situazioni spesso disumane, dovrebbe a sua volta essere adeguatamente affrontato, magari potenziando (e finanziando) una maggiore presenza attiva delle agenzie Onu, e mettendoci almeno altrettanto impegno e mezzi quanti se ne impiegano, suppongo, per salvaguardare gli interessi petroliferi in Libia dei Paesi come il nostro. Ma non è un modo giusto nemmeno consentire che resti in piedi un’organizzazione permanente che si limita a soccorrere gli ospiti dei gommoni, lasciando che la partenza sia governata dai trafficanti che vi lucrano sopra, e limitandosi a trasferire i “naufraghi” sulle coste europee, salvo poi discutere in quali Paesi devono andare. Almeno nei secoli scorsi i migranti europei (quanti italiani!) verso l’America viaggiavano su navi sicure e sbarcavano a Ellis Island, dove le autorità americane gestivano le proprie politiche migratorie. I “naufraghi” non chiedono solo di essere salvati, ma di lasciare la Libia per l’Europa (“pas Lybie!”, invocava la donna salvata qualche giorno fa in mare). Il governo attuale ha dichiarato guerra al sistema degli sbarchi dei “naufraghi”, e in questo non ha torto: anche se le navi delle Ong non erano (come certo non erano) “complici” degli scafisti, di fatto finivano per costituire un oggettivo contributo al mantenimento e allo sviluppo di quel sistema. Combattere il quale, naturalmente, non può voler dire lasciar morire dei naufraghi in mare. Alle istituzioni e ai Paesi europei si deve chiedere non solo di aprire i loro porti (che intanto pure è giusto), ma anche di cooperare per una politica di immigrazione; chiedere - come questo governo sta facendo, e gliene va dato merito - una politica comune sui flussi migratori e l’asilo. Tutti i Paesi europei, e dunque anche l’Italia, avrebbero il dovere di attivare canali legali di immigrazione controllata dall’Africa. E noi dovremmo cominciare a dare l’esempio: quando avremo dai Paesi africani un numero di visti di ingresso legale per l’Italia, rilasciati nei Paesi di origine, pari almeno a quelli di coloro che oggi vengono “accolti” come naufraghi, avremo inaugurato una seria politica migratoria. Quanto ai migranti accolti in emergenza, essi non possono essere lasciati a se stessi, limitandosi a fornire loro un tetto e i pasti fino al compimento della procedura di richiesta di asilo o di protezione. Sarebbe necessario non solo distribuire opportunamente sul territorio la loro presenza, ma realizzare sistematicamente interventi diretti a conoscerne e valorizzarne la caratteristiche, le capacità e le aspirazioni, coinvolgendoli fin da subito in attività formative e in lavori socialmente utili, come alcuni Comuni fanno già, ma tutti dovrebbero fare, anche con mezzi assicurati dal governo: evitando così che restino del tutto inattivi, o addirittura cadano preda di giri criminali. Tutto ciò richiede sforzi e adeguamenti organizzativi degli apparati pubblici, e risorse. Troppo difficile? Certo non facile, ma non per questo meno necessario. Migranti. Più sbarchi in Spagna che in Italia. Oltre 1.500 morti in mare nel 2018 di Giampiero Bernardini Avvenire, 28 luglio 2018 Le rotte si sono spostate da inizio anno, dopo gli accordi tra Roma e Tripoli. Mancano le politiche internazionali adeguate per lo sviluppo. L’odissea della Sorost 5 al largo della Tunisia prosegue. Mentre in Europa i migranti vengono usati dai leader politici per raccogliere consensi da trasformare in voti e potere, la tragedia delle persone in fuga dai loro Paesi è sempre più epocale. Oltre alle guerre e alle dittature incapaci di dare pane e lavoro, le ultime notizie ci parlano di cambiamenti climatici in atto sempre più velocemente, con conseguenti carestie e fame (leggi anche questo articolo). L’esodo dei disperati, quindi, continua e si aggrava. Mentre da parte di Europa, Usa, Cina, Russia e altri grandi stati non c’è alcuna strategia reale di aiuto allo sviluppo per i Paesi dai quali si fugge. Alcuni sarebbero addirittura ricchissimi, come la Nigeria, eppure non offrono una speranza di vita decente e sicura per milioni di loro cittadini. È quanto fanno emergere, di fatto, anche gli ultimi dati resti noti dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Ma un dato spicca tra quelli dell’Oim: nel 2018 gli arrivi di migranti in Spagna (20.992 dall’inizio dell’anno) hanno superato quelli in Italia (18.130), confermando una tendenza in atti da inizio anno. E la strage continua. Secondo l’Oim sono oltre 1.500 i migranti morti nel Mediterraneo dall’inizio dell’anno mentre tentavano di giungere in Europa. Nonostante le vittime siano in calo (1.504 tra uomini, donne e bambini, contro i 2.401 dei primi 7 mesi 2017) quest’anno resta uno dei più letali se si considera che “si sono registrate meno traversate”. Ad oggi poco più del 38% di tutti i migranti via mare è arrivato attraverso la rotta del Mediterraneo occidentale, il cui volume migratorio, sottolinea l’Oim, è più che triplicato rispetto ai primi sette mesi del 2017. Dal primo gennaio al 25 luglio, 55.001 migranti e rifugiati sono entrati in Europa, considerando anche il Mediterraneo orientale, via mare: si tratta di circa la metà rispetto agli 111.753 arrivi dello stesso periodo 2017. Paiono in calo i fuggiaschi da Siria e Iraq, dopo la fine del Califfato del Daesh, seppure la pace sia ancora lontana nel primo dei due Paesi in particolare. I flussi e le rotte tendono a spostarsi con una certa velocità a seconda delle situazioni che vengono a stabilirsi. Ad esempio, in seguito agli accordi, seppure instabili, con il governo di Tripoli (che comanda però solo su una parte della Libia) presi dell’ex ministro Minniti lo scorso anno, i percorsi via mare hanno iniziato a spostarsi verso ovest. A conferma di ciò la notizia di oggi che la Spagna ha salvato 751 persone su 52 barconi, soccorsi tra lo stretto Stretto di Gibilterra, mare di Alboran e Alicante. Ma è nell’area dello stretti che c’è maggiore “traffico”, ben 709 persone si trovavano su gommoni e barconi in questa zona. Tre imbarcazioni sono state invece individuate nei pressi della costa di Alicante con 31 migranti a bordo. Navi ed elicotteri stanno ancora pattugliando il mare alla ricerca di altre carrette del mare. Un sbarco è stato registrato anche in Sardegna. Sette algerini, tra i quali anche una donna e un bambino, sono stati intercettati dalla Guardia costiera su un barchino lungo sei metri a Sant’Antioco. Il punto sull’odissea della Sorost 5 - Prosegue nel frattempo l’odissea della nave tunisina Sarost 5 bloccata in mare da due settimane con 40 migranti senza riuscire a trovare un approdo. Ormai è emergenza grave. La Mezzaluna Rossa, dopo essere salita a bordo, ha reso noto che una donna incinta di sei mesi rischia di abortire. “La delegazione dell’Unione europea in Tunisia segue da vicino la vicenda della nave”. A dirlo è una portavoce della Commissione europea. “Seguiamo la questione con l’Oim, l’Unhcr e le autorità tunisine - continua - e in base alle informazioni di cui disponiamo, le persone a bordo sono state prese in carico e stanno ricevendo i primi aiuti sanitari e bisogna aspettare come le cose evolveranno”. Si cercherà di verificare anche lo stato di salute delle persone e le condizioni complessive sull’imbarcazione. Il capitano della Sarost 5, Ali Aiji, ha dichiarato con una chiamata alla radio tunisina Mosaique fm che le condizioni di salute dei migranti a bordo sono preoccupanti. L’Ong Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) ha chiesto alle autorità di Tunisi di “rispondere alla richiesta di soccorso” dei 40 migranti, al fine di poter sbarcare al porto di Zarzis e ricevere gli aiuti medici e psicologici necessari. In un comunicato, il Forum sottolinea inoltre la “difficile situazione umana” di questi migranti salvati dopo un guasto al motore alla loro imbarcazione, “costretti a navigare al largo di Zarzis sulla Sarost 5 cui non è stato permesso di entrare in porto, sebbene alcuni abbiano bisogno di cure mediche e psicologiche”. A bordo della Sarost ci sono profughi tra i 17 e 36 anni provenienti da Egitto, Bangladesh, Camerun, Senegal, Guinea, Costa d’avorio e Sierra leone. La situazione, dopo tutto questo tempo in mare, si fa sempre più difficile, sia dal punto di vista sanitario che psicologico. Preoccupa, soprattutto, la presenza di due donne incinte, una di sei mesi e un’altra di pochi mesi, come ha constatato la Mezzaluna rossa tunisina, che ha visitato la nave, portando cibo e medicine. Ed ha lanciato un sos: una delle due donne incinte “potrebbe perdere il bambino se non venisse evacuata o sbarcata immediatamente”, ha appreso la ong Watch the Med, che ha creato una linea telefonica per migranti in difficoltà nel Mediterraneo. Tra i profughi a bordo cresce lo scoramento. “Per favore aiutateci”, è l’appello di una giovane di 26 anni, che ha raccontato di giornate interminabili mangiando “pane al mattino, a pranzo e a cena”, senza sapere quando si toccherà terra. La ragazza ha trascorso l’ultimo anno e mezzo in Libia, reclusa in tre carceri diverse e picchiata. E dopo essere scappata da quell’inferno, sta vivendo un nuovo incubo. La Sarost 5, nave di rifornimenti che fa capo all’omonima compagna del gas attiva principalmente in Tunisia, lo scorso 13 luglio ha soccorso un gruppo di 40 migranti, partiti dalla Libia, nella zona maltese di ricerche e salvataggio. Ma alla fine è rimasta al largo delle coste tunisine della città di Zarzis, perché non ha ottenuto l’ok allo sbarco. L’Italia, a quanto si apprende, non ha ricevuto una richiesta di aiuto dalla Sarost, ma è stata solo informata della vicenda dai paesi coinvolti, Tunisia e Malta. A Roma è stato chiesto se avesse delle unità in zona per l’eventuale soccorso, e non un porto, ma la risposta è stata negativa. Migranti. Sulle navi della Marina davanti alla Libia: “tutto cambiato, non passa più nessuno” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 luglio 2018 Acqua nera a mezzanotte, con le onde in abbassamento che non frangono più, temperatura 27 gradi, tasso d’umidità in diminuzione. Aggiungiamo la visibilità ottima, oltre al vento da nord sceso sotto gli 8 nodi e sarà naturale osservare quanto queste siano in genere condizioni meteo perfette della mezza estate per le partenze dei migranti dalla Libia. Ma soprattutto è il chiarore luccicante della luna piena riflessa sul mare, una sorta di cono luminoso aperto in direzione delle coste siciliane, che solo pochi mesi fa avrebbe rappresentato una sorta di incoraggiante autostrada della speranza per i battellini carichi all’inverosimile verso il “sogno Europa”. Ora non più. “Nel nostro ultimo mese di pattugliamenti ininterrotti dal Canale di Sicilia, le coste della Tripolitania, al largo del Golfo della Sirte e sino alle zone a nord delle acque territoriali della Cirenaica, non abbiamo mai incontrato alcun naviglio di migranti e neppure i battelli delle organizzazioni non governative internazionali. Una situazione che ha caratterizzato le attività delle navi militari di Mare Sicuro anche nel periodo precedente il nostro turno”, dicono, con la sicurezza di chi vede davvero le cose in diretta, sia i marinai che il 42enne Sebastiano Rossitto, comandante della fregata Virginio Fasan, l’ammiraglia della missione tutta made in Italy operante di fronte alla Libia sin dall’aprile 2015. Emergenza finita - “Ovvio che se ora incontrassimo un battello di migranti, qui in mare aperto, li prenderemmo subito a bordo e non li riconsegneremmo ai guardiacoste libici. Per noi nulla è mutato, anche con il nuovo governo a Roma. Le leggi internazionali del soccorso valgono sempre. Ma posso anche ripetere che la situazione è completamente cambiata da cinque o sei mesi. Per ora l’emergenza appare finita, terminata. I libici, anche grazie all’aiuto italiano, hanno motovedette molto più efficienti, i loro sistemi d’intervento sono strutturati, possono mantenere due o tre imbarcazioni sempre pronte in acqua e si dimostrano in grado di bloccare gli scafisti con i migranti prima che escano dalle 12 miglia delle loro acque territoriali”, dice l’ufficiale. A lui si affianca il Contrammiraglio Andrea Cottini, toscano, 55 anni, un veterano della Marina. “L’ultima volta che le cinque navi della Mare Sicuro sono state coinvolte direttamente nella questione migranti è stato agli inizi di giugno, quando hanno scortato al porto spagnolo di Valencia i circa 600 imbarcati sull’Aquarius della ong Sos Méditerranée. Altrimenti direi che, almeno per il momento, il problema è radicalmente mutato”, ribadisce sottolineando che altre sono le priorità della missione. Dietro il sonar - La cronaca di oltre 48 ore imbarcato sulla Fasan inizia il 24 luglio con l’elicottero Augusta della Marina Militare che in un’oretta dall’aeroporto di Lampedusa percorre oltre cento miglia per atterrare sul ponte appena beccheggiante. Le vibrazioni sono minime grazie ai due motori elettrici super-silenziosi e quattro generatori nuovissimi che impiegano gasolio verde. A bordo 185 marinai, di cui 14 donne. La nave è stata varata dai quartieri di Riva Trigoso nel 2014: un progetto italo-francese, arricchito da un sofisticato sistema di sonar anti-sommergibile che è l’orgoglio del tenente di vascello Maria Paola Ceracchi, 31 anni, da una dozzina arruolata, addetta alla strumentazione. “Il nostro è un congegno unico al mondo”, spiega fiera. “Possiamo calare il sonar a oltre 300 metri di profondità. Ce lo invidiano anche gli americani”. Pescherecci a rischio - S’impone subito il sistema di regole e consuetudini che scandiscono la vita di questo microcosmo sociale galleggiante. Dal megafono giungono di tanto in tanto gli ordini alle varie squadre: i turni degli addetti alle pulizie, le guardie, gli spostamenti degli elicotteristi, i contatti periodici con le altre quattro unità al momento in missione. La nave-officina Gorgona con i suoi 60 membri dell’equipaggio è da mesi ancorata a Tripoli per assistere i libici nel mantenimento delle quattro motovedette donate l’anno scorso dall’Italia al governo di unità nazionale di Fayez Sarraj. La fregata Espero sta ad est, lungo le coste della Cirenaica. “Ha un compito difficile. Tra l’altro fa in modo di impedire che i nostri pescherecci entrino nella zona di mare davanti a Derna, dove il generale Khalifa Haftar sta operando contro Isis e le milizie jihadiste, imponendo unilateralmente il blocco del passaggio ai navigli stranieri. Un altro compito è evitare ai nostri pescherecci di cacciarsi eventualmente nei guai entrando a pescare il gambero rosso nel Golfo della Sirte, una zona contesa sin dai tempi di Gheddafi. Nell’aprile 2017 hanno dovuto pagare una multa di 5.000 dollari per riscattare due che erano stati sequestrati”, ricorda Cottino. Il terzo, l’Orione (lo stesso che aveva scortato l’Aquarius in Spagna) sta navigando davanti alle coste tunisine. Sembra strano, ma i marinai italiani parlano con maggior preoccupazione della Tunisia che non della Libia. “Qui c’è un contenzioso antico, risale a oltre mezzo secolo fa, quando Tunisi impose il cosiddetto “Mammellone”, una vasta area di divieto alla pesca ai non tunisini ben oltre i limiti delle loro acque territoriali. L’Orione fa in modo di evitare fastidi in ottemperanza ad un accordo stipulato dal governo di Roma nel 1979. Però oggi, in termini di libertà di pesca e navigazione siamo in rapporti migliori con i libici che non i tunisini”, dicono. Le perquisizioni - Tutto questo è molto interessante. Ma ovviamente osservo di continuo i radar per seguire un eventuale passaggio di migranti. In plancia gli ufficiali mettono a punto gli strumenti, compresi i sensori a raggi infrarossi. “Con i radar si vede bene a oltre 30 miglia. Con quelli più ravvicinati siamo in grado di individuare anche un battellino alto meno di 40 centimetri sul pelo dell’acqua a oltre sette miglia. Ma non si vede nulla e questo da molto tempo orami. L’anno scorso notavamo che se una volta i migranti partivano alla disperata, più di recente li trovavamo con i giubbotti personali indossati in Libia”, dicono. Gli schermi restano però bui. Alle 18,15 siamo a 70 miglia dal porto di Tripoli. Una trentina di miglia a est si individuano le tracce radar di tre pescherecci italiani. Poco più nel centro sta transitando un grande naviglio che sembra diretto a Khoms, il vecchio porto militare di Gheddafi. Gli italiani si danno da fare per identificarlo. Pare abbia spento il trasponder, che è il meccanismo via etere per cui i dati di ogni nave possono essere in teoria letti da chiunque la centri col radar computerizzato. “Nostro mandato è controllare i traffici sospetti: contrabbando di esseri umani, petrolio e armi. Dall’inizio di Mare Sicuro nel 2015 abbiamo fisicamente perquisito almeno un’ottantina di navi che trafficavano con la Libia e la nostra intelligence in cooperazione con gli alleati Nato ha al momento almeno una decina di navi straniere in lista nera. I nostri commando armati possono salire a bordo, ovviamente sempre avendo prima ottenuto la luce verde da Roma”, rimarca Rossitto. Piattaforme sott’occhio - Emergono così i compiti della Fasan, che navigando di fronte alle zone delicate comprese tra Misurata, Tripoli, Sabratha e il confine tunisino (dove storicamente sono gli scafisti più agguerriti), si trova anche a dover affrontare le incognite maggiori. “Al largo di Tripoli sono le sei piattaforme dove lavorano quasi una trentina di tecnici italiani dell’Eni assieme a quelli della compagnia petrolifera nazionale libica. Siamo in contatto permanente con loro. Come del resto lo siamo con i 280 che operano nell’ospedale militare italiano di Misurata, con il personale della nostra ambasciata a Tripoli ed eventuali cittadini italiani nel Paese. In tutto oltre 500 persone che potremmo dover evacuare di fretta dalle spiagge alla prima emergenza”, dice il Contrammiraglio. Lui stesso fu coinvolto nella missione che nell’ottobre 2011, appena dopo la violenta defenestrazione di Gheddafi, vide i commando della Marina salire sulle piattaforme petrolifere abbandonate per verificare che nessuno cercasse di boicottarle. “Arrivammo che in Libia ancora si combatteva. Temevamo fossero minate. Le piste di atterraggio erano piene di detriti per impedire gli atterraggi degli elicotteri. Ma alla fine andò tutto bene”, rammenta. La calma e la preghiera - La calma e la “preghiera” Alle otto di sera tutti sull’attenti per la cerimonia dell’ammaina bandiera. È un rito che si celebra da sempre. Che siano in porto o in navigazione, la bandiera scende sul ponte. Intanto un militare a turno legge al megafono la “Preghiera del Marinaio”, scritta da Antonio Fogazzaro nel 1901. E subito dopo viene recitata brevemente la motivazione alla medaglia d’oro di un marinaio così come descritta negli annali dell’ammiragliato. Durante la notte il bel tempo si fa stabile. Ma è difficile notarlo dalla nave, sono gli strumenti a osservarlo con precisione: le unità militari di ultima concezione equipaggiate contro le armi chimiche e nucleari limitano quasi del tutto gli accessi degli uomini sui ponti. Non ci sono oblò, solo la plancia mantiene un’ampia veduta a prua. E comunque i radar restano muti, bui. “In una giornata così un anno fa potevano essere in mare sino a una quindicina di barche con 3.000 migranti. Nel 2013 ne prendemmo a bordo 1.500 in 24 ore. Oggi nessuno”, sottolinea Massino Nava, 40 anni, capitano di corvetta d’origine milanese. Tornato in elicottero a Lampedusa, un pescatore che vende insalata di polpo al porto se la prende col giornalista di passaggio. “Volete smetterla di parlare di emergenza migranti che poi i turisti scappano via?”, grida. Venendo dal largo di Sabratha è difficile dargli torto. Ancora spari sugli immigrati: sette casi in sette settimane di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 luglio 2018 Gli ultimi episodi nel casertano e nel vicentino, ancora con armi ad aria compressa il cui acquisto è libero. Ma Salvini, che polemizza con il presidente della Repubblica, non c’è alcun rischio Far West: la Lega va avanti nel tentativo di allargare la legittima difesa. “Io non voglio il Far West, chi lo sostiene non è ben informato” dice il ministro dell’interno, costretto a intervenire dopo un nuovo episodio di tiro allo straniero, il settimo in un mese e mezzo. A parlare di rischio “Far West” in Italia era stato giovedì il presidente della Repubblica, citando il caso del pensionato romano che ha centrato una bambina rom. Un intervento, quello del capo dello stato, evidentemente non casuale nel momento in cui la Lega in senato sta provando ad allargare ancora le maglie della legittima difesa. Intenzione rivendicata da Salvini - “io lavoro per garantire ai cittadini perbene la possibilità di difendersi a casa propria”. ha scritto ieri - malgrado la pretesa di sottrarre all’accertamento giudiziario chiunque spari all’interno di una sua proprietà sia a forte rischio di incostituzionalità. L’iniziativa della Lega sulla legittima difesa ha il sostegno della lobby delle armi, Salvini si è persino impegnato formalmente a consultare l’associazione dei cittadini armati. Ma tutte le recenti aggressioni di cui sono stati vittima cittadini stranieri sono state condotte con armi a libero acquisto. Pistole e carabine ad aria compressa spesso prodotte dalle stesse fabbriche delle armi da fuoco, ma qualificate come “a modesta capacità offensiva”. Sfuggono al controllo delle licenze (che sono circa un milione e mezzo in Italia, con una forte crescita delle licenze “sportive”) e ogni maggiorenne può comprarle per poche centinaia di euro. Magari per modificarle, potenziandole, come ha spiegato ai magistrati di aver fatto il pensionato romano indagato per il ferimento della bambina rom il 17 luglio a Roma. Quello che non è più l’ultimo caso, perché ieri si è avuta notizia di altre due aggressioni. La prima, denunciata da un rifugiato di 19 anni del Gambia ospite di un centro di accoglienza a San Cipriano di Aversa nel casertano, sarebbe avvenuta giovedì: due ragazzi in motorino gli avrebbero sparato al volto con un’arma ad aria compressa, procurandogli una ferita lieve. La seconda a Cassola, nel vicentino, dove un quarantenne di origine argentina ha colpito alla schiena un capoverdiano che su un ponteggio lavorava al montaggio delle luminarie per la festa del paese. Secondo il Giornale di Vicenza che ha dato la notizia l’aggressore avrebbe detto ai carabinieri che stava cercando di colpire un piccione. Nella provincia di Vicenza, peraltro, sempre ieri si è verificato un caso di omicidio-suicidio a colpi di pistola, protagonista e vittima italiani. Vicenza è la città che negli ultimi anni ha registrato un boom di licenze “sportive” e all’inizio del 2018 ha ospitato Hit Show, la fiera delle armi con ospite d’onore proprio Salvini (in quella sede ha firmato il “contratto” con l’associazione dei cittadini armati). Ancora un’arma ad aria compressa era servita per sparare, il 12 luglio scorso, a un gruppo di nigeriani in attesa dell’autobus a Latina: due i feriti. Altri due episodi a inizio luglio si sono verificati a Forlì, a distanza di pochi giorni, vittime un ivoriano ferito all’addome e una donna nigeriana colpita al piede, in entrambi i casi i colpi sono stati sparati con una pistola ad aria compressa. A giugno gli episodi precedenti, entrambi ancora in Campania. Il 22 in pieno centro a Napoli è stato colpito con due pallini allo stomaco un 22enne cuoco del Mali. Maliani anche i due ragazzi ospitati a Caserta nell’ambito del progetto Sprar che hanno raccontato di aver sentito, prima degli spari che hanno ferito uno dei due, gli aggressori gridare “Salvini, Salvini”. Il ministro dell’interno è stato indicato ieri, in diverse dichiarazioni del Pd, di Leu e di Rifondazione, come il responsabile di questo crescendo di aggressioni razziste. Tutte precedute, è il caso di ricordare, dal più grave episodio di febbraio a Macerata, quando per le strade della città un militante della Lega sparò e ferì sei immigrati africani. All’epoca Salvini spiegò il fatto come conseguenza dell’”immigrazione incontrollata”. E anche ieri, malgrado le domande, ha evitato di condannare le aggressioni razziste. “Sono preoccupato - ha detto il responsabile della sicurezza nazionale - da qualunque episodio di violenza, da chiunque arrivi e chiunque colpisca”. Cecchini di una guerra possibile di Luigi Manconi Il Manifesto, 28 luglio 2018 Sono la persona al mondo che meno crede alle teorie e alle sub-teorie del complotto e che meno è sensibile alle ideologie e alle cripto-ideologie della cospirazione. Al punto che quando - in occasione di quelle due o tre circostanze nel corso di un’intera vita - mi è capitato di essere sfiorato da una qualunque forma di macchinazione, ci sono cascato dentro con tutte le scarpe. Si può facilmente immaginare, dunque, quanto abbia resistito agli argomenti di un ottimo giornalista come Paolo Brogi che, nei giorni scorsi, quando un proiettile sparato da un’arma ad aria compressa ha colpito una bimba di 15 mesi, ha minuziosamente ricostruito l’elenco dei più recenti episodi simili. Ed eccolo, quell’elenco. Nello scorso gennaio, a Napoli, un bambino straniero viene colpito alla testa da un piombino. Poi, nel corso dei mesi successivi, le aggressioni si sono ripetute in varie città. Bersagli sono ora immigrati e ora rom, come la bambina di cui già si è detto. L’altro ieri, a Caserta, un richiedente asilo, viene colpito in pieno volto da due giovani a bordo di un motorino. E, infine, ieri mattina, a Vicenza, un operaio originario di Capo Verde, sospeso su una pedana mobile a 7 metri di altezza, viene colpito da un proiettile sparato da un uomo che spiega: “Miravo a un piccione”. Complessivamente, le persone colpite da armi pneumatiche dal gennaio 2018 a oggi sono state undici. Dunque, in Italia qualcuno ha pianificato una serie di attentati con armi ad aria compressa contro immigrati e rom? Questo si domanda Paolo Brogi e sembra dare in qualche modo una risposta prudente ma positiva. Io resto scettico, ma la mia interpretazione dei fatti è, per certi versi, perfino più inquietante. Ritengo, cioè, che quelle aggressioni siano il frutto di una terribile dinamica di emulazione. Una vera e propria competizione silenziosa tra oscuri cecchini, dissimulati nella vita sociale e mossi da un rancore criminale e meschino nella sua anonima codardia. Certo, andrebbe verificato quale sia il numero totale degli attentati, realizzati con quelle stesse armi e non indirizzati contro bersagli “etnici”: ma una prima e sommaria indagine sembra evidenziare come la componente razziale sia sovrarappresentata. Dunque, sembra assai probabile che in più luoghi del nostro Paese, più soggetti decidano di individuare e colpire bersagli immediatamente identificabili come estranei alla popolazione autoctona. Sia chiaro: non siamo ancora a una vera e propria “caccia all’uomo nero” ma già si evidenziano numerosi segnali del possibile manifestarsi di una simile tendenza. E questa attività, per giunta, trova nel tipo di arma “minore” utilizzata non solo il suo marchio e la sua identificabilità pubblica, ma anche, per così dire, la sua attenuante. Più che una azione di guerra, l’annuncio di una guerra possibile. Una strategia dell’intimidazione e della minaccia, altamente pericolosa e cruenta, ma non ancora violenza dispiegata. Dopo tutto si tratta di pistole e fucili ad aria compressa. E di ferite non mortali (anche se il morto o l’invalido permanente ci può sempre scappare). È proprio il fatto che non sia ancora una fase di guerra aperta a limitare la portata dei rischi e a incrementare il numero degli attentatori e degli aspiranti attentatori. Il pericolo appare minore e più controllabile e meno rilevanti le conseguenze. Si tenga conto, infatti, che la detenzione di quel tipo di pistola o di fucile non richiede porto d’armi ma solo un documento d’identità al momento dell’acquisto (almeno fino ad una media potenza). E questo rende non solo facilmente accessibile la disponibilità di quelle armi, ma anche più occultabile il loro possesso e utilizzo. E, soprattutto, chi vi ricorre può arrivare a pensarsi come il necessario diffusore di un allarme o uno strumento di prevenzione e non certo come un potenziale omicida volontario. Insomma, come fosse il combattente di un micro-terrorismo latente e difensivo che può arrivare a colpire una bambina fino a paralizzarla, così, quasi per gioco. Uno sport estremo: una guerra civile a bassissima intensità. Germania. “La politica dell’odio”, sul razzismo è scontro istituzionale di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 28 luglio 2018 Vietato alimentare il clima xenofobo, lo impone la Legge fondamentale tedesca. Il presidente della Corte federale stoppa il ministro dell’interno Seehofer, che attacca i giudici e elogia “sicurezza umanitaria”. Non lo nomina neppure per sbaglio, ma lo stop costituzionale è diretto proprio a lui: nelle vesti di responsabile della sicurezza e come leader del partito cristiano-sociale. La Legge Fondamentale proibisce a chiunque in Germania di alimentare il clima xenofobo che mina la coesione della socialdemocrazia. A cominciare dal ministro dell’Interno Horst Seehofer. Sulla Süddeutsche Zeitung, Andreas Vosskuhle, presidente della Corte federale di Karlsruhe, scandisce il monito contro il “populismo” della propaganda anti-migranti promossa quotidianamente dai bavaresi. Denunciando la “retorica inaccettabile” della Csu che “mira a far associare ai tedeschi lo “Stato dell’Ingiustizia” (così Seehofer nel 2016) con l’impianto giuridico in vigore nel periodo nazista”. Deflagra in Germania, esattamente come in Italia, lo scontro istituzionale sulla “politica dell’odio” che infiamma il razzismo. E anche qui lo Stato risponde al governo: con il massimo esperto della Costituzione che la ri-àncora all’antifascismo, e con l’interpretazione autentica dei sindaci di Colonia, Düsseldorf e Bonn che ieri hanno chiesto ad Angela Merkel di poter ospitare più rifugiati. “Un segnale per l’umanità, il diritto di asilo e l’integrazione” bipartisan lanciato da Henriette Reker (indipendente) Thomas Geisel (Spd) e Ashok Sridharan (Cdu) nella lettera aperta inviata alla cancelliera. “Siamo d’accordo con te sulla soluzione europea per l’accoglienza, ma le nostre città possono e vogliono accettare i rifugiati in difficoltà. La catastrofe umana nel Mediterraneo ha raggiunto nuove terrificanti proporzioni anche a causa della criminalizzazione delle iniziative private per salvare le vite in mare”. E da Berlino, grazie al megafono della Bild, si avverte nitido il tuono dell’ultima bordata del premier ungherese Viktor Orban secondo cui la “colpa per i naufragi nel Mediterraneo è dei politici in Europa che incoraggiano i migranti e danno l’impressione che valga la pena andarsene”. Fermarli in Africa è l’imperativo categorico ribadito a Merkel, che resta l’esempio da non seguire. “Se avessi fatto la sua politica mi avrebbero cacciato il giorno stesso”. Da qui l’elogio alla nuova sicurezza umanitaria. “Se vogliamo salvargli la vita dobbiamo trattenerli sulla sponda Sud del Mediterraneo. La politica migratoria non è un compito comune dell’Unione europea, ma una questione nazionale dei singoli Stati” taglia corto Orban che non vuole diventare lo “Stato dell’Ingiustizia” di Seehofer. Un’ipotesi “stravagante”, quanto mai falsa e pericolosa “per la tenuta dei valori alla base sistema democratico” avverte il presidente Vosskuhle; prima di stroncare le accuse del capogruppo Csu al Bundestag Alexander Dolbrindt nei confronti dei volontari che si occupano dell’assistenza legale dei richiedenti asilo. “Chi pretende garanzie costituzionali non può essere insultato” puntualizza l’alto magistrato, mentre da Berlino Seehofer replica stizzito che “la Corte costituzionale non dovrebbe fare la polizia linguistica”. Per ora, il Tribunale di Karlsruhe si limita a tenere il punto contro la deriva giuridica, prima ancora che sociale, innescata dal “Migration-masterplan” del ministro dell’Interno che collide con le leggi interne e il diritto internazionale. Facendo capire che “non è una questione che riguarda lo Stato costituzionale se sia possibile o meno formulare la soluzione europea alla questione dei rifugiati”. Nessuna supplenza politica, dunque, ma neppure passi indietro nel campo dove la Corte detta legge per definizione. Un settore dove, grazie alla Csu, si moltiplicano i conflitti di attribuzione. Spicca la “polizia bavarese di frontiera” “inventata” a inizio mese dal premier Markus Söder e da una settimana in servizio al confine con l’Austria in supporto agli agenti federali. Da soli, non potrebbero controllare alcun valico e si muovono solo per concessione della Bundespolizei. Lo hanno ricordato ieri i deputati Verdi Irene Mihalic e Katharina Schulze al ministro Seehofer e al suo omologo in Baviera. “La Csu rischia di dare assenso all’opera tentacolare della nuova polizia di confine, che è parte di un modello lontano dalla Costituzione”. Gran Bretagna. Lezioni sui coltelli a scuola per fermare l’emergenza baby gang di Caterina Belloni Corriere della Sera, 28 luglio 2018 Nell’ultimo anno ci sono state 40 mila aggressioni con coltelli. In vista della chiusura estiva delle scuole, il ministero dell’Istruzione inglese ha chiesto ai prof di fare delle lezioni sul pericolo di portare in tasca un coltello, anche solo a scopo difensivo. Servirà? Gli insegnanti inglesi sono stati invitati a pianificare con i loro alunni delle lezioni su quella che ormai è diventata un’emergenza: le aggressioni con i coltelli. Sono circa cinquantamila i docenti che in questi giorni, gli ultimi dell’anno scolastico per il calendario inglese, sono impegnati a spiegare ai loro allievi tra gli 11 e i 16 anni come sfuggire alla minaccia dei loro coetanei armati di lame senza procurarsi essi stessi un coltello a scopo di difesa. La preoccupazione è quella che, una volta terminata la scuola, i ragazzini si trovino a dover trascorrere le giornate in strada, in balia di gang e gruppi di coetanei mal intenzionati, che stanno spadroneggiando in certi quartieri di Londra, ma anche di altre grandi città. Si conta che nel paese ci siano almeno 700 baby gang attive. Ragazzini che vengono dai quartieri disagiati e cercando un riscatto attraverso la violenza. Con esiti preoccupanti. Dall’inizio dell’anno a Londra sono già morti venti adolescenti, ma il conto sale a cinquanta se si considera il resto del Paese. I bad boys si armano di coltello con uno scopo di rivalsa, gli altri ragazzini hanno paura e spesso ne comperano uno per sentirsi più “sicuri”. Bastano poche sterline, ma quando si va in giro con un’arma in tasca aumenta il pericolo che la situazione sfugga di mano. Il coltello non è mai solo un’arma di difesa - Le lezioni a scuola serviranno proprio a mettere a fuoco questo elemento o almeno questo si aspetta il Ministero della pubblica istruzione che le ha organizzate. Durano un’ora ciascuna e saranno considerate parte del curriculum dei ragazzi. Si punterà molto sulla prevenzione, spiegando ai ragazzi che portarsi un coltello in tasca non è mai una scelta vincente. Gli insegnanti spiegheranno anche quali sono i termini gergali usati per indicare in coltelli, in modo che non ci siano fraintendimenti da parte dei più ingenui o dei meno problematici. In classe verranno poi introdotti i rudimenti del vocabolario delle bande, che chiamano la polizia “po-po” o “5-0” e usano termini inventati - ma ormai noti alle forze dell’ordine - per spiegare che qualcuno è stato ferito con un’arma da taglio. Solo se percepiscono che un’arma a disposizione è sempre un rischio, i giovani possono sfuggire al pericolo insomma. Lo scorso anno la polizia ha registrato 39.598 aggressioni con coltelli o altre lame in Inghilterra e Galles, il 22 per cento in più dell’anno precedente e comunque il numero più elevato degli ultimi sette anni. Svizzera. Detenuto malato chiede di morire con l’aiuto di Exit tio.ch, 28 luglio 2018 L’uomo è affetto da una malattia ai polmoni e da una grave turba psichica non curabile. L’organizzazione di assistenza esaminerà la richiesta. Un detenuto 64enne internato nel Canton Zugo ma per il quale è responsabile il Canton Berna ha chiesto di poter morire con l’aiuto di Exit. L’organizzazione di assistenza al suicidio gli ha risposto che la sua richiesta sarà esaminata con attenzione. Il caso - reso di dominio pubblico oggi dal quotidiano bernese “Der Bund” - pone infatti una serie di problemi che devono essere chiariti. Il giornale fa riferimento a sua volta a Reform91, una organizzazione che sul suo sito web (reform91.ch) si definisce “per detenuti ed emarginati” ed è stata fondata nel marzo 1990 da detenuti del penitenziario di Lenzburg (AG). Peter Zimmermann, presidente di Reform91, ha detto oggi a Keystone-ATS - che ha potuto a sua volta prendere visione del dossier - di non essere al corrente di altre richieste simili da parte di detenuti in Svizzera e che la sua organizzazione si è rivolta ai media con l’accordo dell’interessato. Da parte sua Exit non ha voluto fornire altri ragguagli, precisando che non comunica sui casi singoli. Nella sua richiesta a Exit il detenuto scrive che la sua vita non vale più la pena di essere vissuta per tre motivi. In primo luogo soffre di una malattia dei polmoni che sta peggiorando “inarrestabilmente”. In secondo luogo, da anni i medici legali gli hanno diagnosticato una turba psichica grave e non curabile. Infine il Canton Berna gli nega da diversi anni la possibilità di uscite accompagnate dal carcere, nonostante una sentenza del Tribunale superiore (Obergericht) bernese. Questo rifiuto - aggiunge - gli toglie qualsiasi “prospettiva per il futuro” ed è una “tortura psichica”. L’ufficio per l’esecuzione delle pene (AJV) del Canton Berna, interpellato oggi al riguardo, risponde che non gli è pervenuta alcuna richiesta di suicidio accompagnato, ragione per cui non si occupa per il momento della faccenda. Il capo dell’AJV, Thomas Freytag, ha peraltro confermato quanto detto al “Bund” dal suo vice Laszlo Polgar, ossia che la legge non regola ancora casi come questo e che l’attuale politica di rischio zero comporta oggi il fatto che i detenuti rimangono in carcere più a lungo. A suo avviso, “quando un detenuto sconta una pena, non può essergli concesso di sottrarsi alle sentenze dei tribunali con il suicidio”. Il detenuto in questione - che secondo “Der Bund” è internato per reati sessuali nel penitenziario intercantonale Bostadel di Menzingen (ZG) - nel 2016 aveva presentato ricorso al Tribunale superiore bernese contro l’AJV, che gli aveva negato di poter incontrare la madre 86enne, residente in Austria e che non può venire a visitarlo in Svizzera. Secondo la decisione del tribunale pubblicata sul sito internet della Giustizia bernese, l’Ufficio di esecuzione delle pene ha ingiustamente negato all’uomo un congedo. Il tribunale ha inoltre criticato la pratica restrittiva in materia dell’AJV. Il detenuto sostiene di non aver mai potuto incontrare sua madre fuori dal carcere, un’affermazione che l’AJV non ha voluto commentare per ragioni di protezione dei dati. Siria. “Desaparecidos” siriani, le ammissioni di Assad (che ora si sente forte) di Davide Frattini Corriere della Sera, 28 luglio 2018 Le liste dei deceduti affisse al governo contano 400 nomi ma le persone scomparse e uccise secondo Amnesty International sarebbero almeno 82 mila. Il certificato di morte porta la data 15 gennaio 2013, per cinque anni i famigliari hanno continuato a sperare senza sapere che non avesse più senso.L’hanno scoperto solo pochi giorni fa, quando la burocrazia del regime siriano ha sancito che quel ricordo di Islam Dabbas - con la felpa rossa e la scritta “libertà e basta” - sarebbe stato l’ultimo da conservare. Islam è finito nel buco nero della prigione di Sednaya, che inghiotte gli oppositori in una tradizione della repressione passata di padre in figlio, da Hafez a Bashar: i tre edifici sono stati costruiti dal capostipite della dinastia Assad e affidati ai servizi segreti dell’esercito. Incarcerato assieme agli altri che hanno partecipato nella primavera del 2011 alle prime manifestazioni pacifiche per chiedere le riforme. Amnesty International calcola che in queste celle siano stati ammazzati in 13 mila. Considerati scomparsi: il clan al potere si è rifiutato di fornire notizie alle famiglie, molti non hanno neppure potuto sapere se i fratelli, i padri, le sorelle, le madri fossero stati arrestati e dove fossero detenuti, i “desaparecidos” siriani stima sempre Amnesty sono almeno 82 mila. Adesso il governo comincia ad ammettere che non torneranno - le liste dei deceduti affisse nelle città contano già 400 nomi - perché Bashar Assad si sente forte, non teme le proteste, la rivolta dei parenti. Le bugie e il silenzio sono serviti a tenerli ostaggio della speranza. Non ce n’è più bisogno. Con l’appoggio di russi e iraniani il presidente ha riconquistato i centri principali del Paese, invita i rifugiati a tornare. Non si sa con quali garanzie per gli oppositori, viste le sue minacce ai Caschi Bianchi, i gruppi di soccorso locali che hanno cercato di frenare la distruzione causata dai suoi bombardamenti: “Li liquideremo”. L’obiettivo è ora riprendersi la provincia di Idlib, verso il confine con la Turchia, rimasta sotto il controllo dei rivoltosi. Un’operazione che - avvertono le organizzazioni per i diritti umani - rischia di essere ancora più devastante per i civili degli assedi negli scorsi mesi. Usa e Turchia, alta tensione sul pastore americano detenuto La Repubblica, 28 luglio 2018 La Casa Bianca minaccia sanzioni se Andrew Brunson, arrestato nel 2016, non verrà rilasciato. Risponde Ankara: “Nessuno ci dà ordini, non tolleriamo minacce”. Gli Stati Uniti avvertono la Turchia: se non saranno intrapresi “passi immediati” per liberare il pastore Usa Andrew Brunson scatteranno sanzioni. A lanciare l’avvertimento è il vice presidente americano, Mike Pence: “Se la Turchia non adotta azioni immediate per liberare quest’uomo di fede innocente e mandarlo a casa in America, gli Usa imporranno sanzioni significative alla Turchia finché il pastore Andrew Brunson non sarà liberato”, ha detto parlando a una riunione del dipartimento di Stato dedicata all’avanzamento della libertà di religione. Poi Pence ha detto di avere un messaggio per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan da parte del presidente Usa Donald Trump: “Rilasci il pastore Andrew Brunson adesso o si tenga pronto ad affrontare le conseguenze”. Poco dopo Trump ha ribadito il concetto su Twitter: “Gli Stati Uniti imporranno grandi sanzioni alla Turchia per la detenzione da tempo del pastore Andrew Brunson, un grande cristiano, uomo di famiglia e meraviglioso essere umano. Sta soffrendo enormemente. Quest’uomo innocente di fede dovrebbe essere rilasciato immediatamente!”. Brunson è agli arresti da ottobre del 2016. Ieri è stato ordinato il suo trasferimento dal carcere ai domiciliari, ma il segretario di Stato Usa Mike Pompeo aveva commentato che “non è abbastanza”. I toni si accendono e dalla Turchia arriva la risposta, dura, sempre a colpi di tweet: “Non tollereremo mai minacce da qualcuno. Lo stato di diritto vale per tutti; nessuna eccezione”, tuona il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu. Cambogia. Domani al voto, ma con avversari in carcere e media sotto censura di Marco Valle occhidellaguerra.it, 28 luglio 2018 Nell’indifferenza del mondo la Cambogia va al voto. Domenica 29 luglio gli elettori khmer sono chiamati alle urne per rinnovare governo e parlamento. Apparentemente un normalissimo passaggio democratico, in un Paese apparentemente stabile e tranquillo. Peccato che il principale movimento di opposizione, il Partito di Salvezza Nazionale della Cambogia (Psnc), sia stato sciolto d’imperio lo scorso novembre e molti suoi esponenti sono stati arrestati o esiliati. In prigione è finito il leader, Khem Sokha, e la metà dei suoi 55 parlamentari si sono rifugiati oltreconfine. Per altri 118 quadri del Psnc è arrivato il divieto assoluto di parola. L’accusa confermata, senza alcuna possibilità d’appello, dalla Corte suprema cambogiana è l’aver collaborato a un improbabile piano statunitense mirante a destabilizzare il Paese e rovesciare il governo. Insomma, alto tradimento e altre “facezie” per spezzare un’onda che sembrava inarrestabile: alle elezioni legislative del 2013 il movimento di Khem Sokha aveva ottenuto il 44,5 per cento dei suffragi e alle comunali dello scorso anno, svoltesi in un clima incandescente, il 43,8. Per il potere, le elezioni di domenica erano un rischio inaccettabile. Meglio le manette. L’atto di forza è stato voluto dall’intramontabile primo ministro Hun Sen. Un tipo poliedrico quanto ferrigno. La sua vicenda politica inizia negli anni ‘70 nelle file dei sanguinari khmer rossi; Hun collaborò alla follia genocida di Pol Pot sino al 1977 quando, temendo di restare stritolato nell’ennesima purga interna, fuggì in Vietnam. Tornato in patria nel 1979 al seguito del vittorioso esercito di Hanoi, divenne l’uomo di fiducia dei vietnamiti: nel 1980 fu nominato ministro degli Esteri e nel 1985 divenne primo ministro. In molti lo consideravano poco più di un fantoccio, ma si sbagliavano. Nel tempo Hun Sen si è scosso di dosso gli ingombranti protettori, ha riorientato le alleanze internazionali (verso la Cina) e, soprattutto, si è impadronito minuziosamente di ogni leva del potere. Lo stesso re Norodom Sihamoni formalmente la Cambogia rimane una monarchia costituzionale è ridotto a un grazioso orpello: a differenza del padre Sihanouk, personaggio vulcanico e carismatico, il prudentissimo monarca preferisce la quiete della reggia, le danze e le sue preziose collezioni d’arte. L’apatico sovrano non è l’unico a temere il suo tenebroso primo ministro. Secondo i rapporti di Amnesty International e di altri osservatori, da decenni brogli elettorali, abusi giuridici e omicidi politici sono la regola. Del resto lo stesso Hun Sen ha ripetuto più volte che è “disposto a eliminare 100 o 200 persone per assicurare la vita di milioni di altre”. Una frase emblematica che nel martoriato contesto locale ha un significato chiaro: l’unica alternativa al regime è una nuova guerra civile. Per i sopravvissuti ai conflitti e alla mattanza comunista una prospettiva inaccettabile: meglio per loro sopportare l’invasivo leader e votare il suo Partito Popolare della Cambogia che rischiare di sprofondare nuovamente all’inferno. Alle minacce si somma poi l’indubbio sviluppo del regno. Grazie all’aiuto della Cina con 5 miliardi di dollari di scambi primo partner commerciale di Phnom Penh e della rinata industria turistica, da dieci anni la crescita economica tiene una media del 7 per cento. Un miracolo per chi ha conosciuto e sofferto gli anni della fame e della carestia. Immagini tremende e numeri rassicuranti che però non convincono i giovani più del 60 per cento della popolazione, che non hanno conosciuto i bombardamenti americani, il terrore rosso, la miseria più squallida. Figli di un presente relativamente confortevole, i “baby boomer” nati dopo il 1990 vivono con insofferenza il malcostume e il nepotismo (la Cambogia è al 161° posto su 180 della classifica dell’indice di corruzione stilato da Transparency International), non sopportano l’autoritarismo sempre più soffocante e attendono un cambiamento, aria e idee nuove. Sono loro la base del disciolto Psnc, tre milioni di elettori su 6,6. L’incubo di Hun Sen. Non a caso alla repressione è seguito l’ennesimo giro di vite su giornali Il Phnom Penh Post, principale quotidiano di opposizione è stato acquistato da un miliardario malese vicino al governo, canali radio e social network, Facebook compreso. Ormai certo della sua vittoria, il primo ministro ha annunciato che “governerà almeno per altri dieci anni”, ma in realtà sta preparando la successione a favore dei propri figli. In perfetto stile nordcoreano, Hun Sen ha promosso il figlio maggiore Hun Manet capo di stato maggiore delle forze armate e il minore Hun Many, capo dell’Unione delle federazioni dei giovani (Ufjc). La dinastia deve continuare. Le elezioni di domenica possono però presentare ancora qualche sorpresa. L’opposizione in esilio ha lanciato la campagna “Clean finger”, ovvero “dito pulito” (per votare serve l’impronta digitale sul registro) con l’obiettivo di delegittimare il potere con l’astensionismo. Il governo ha subito risposto con l’ennesimo divieto. Come ha annunciato Tep Nypha, arcigno direttore della commissione elettorale nazionale, “intraprenderemo azioni legali contro chi inviterà a boicottare le elezioni per proteggere l’interesse dei cittadini e della democrazia”. Per non lasciare dubbi sulle intenzioni il governo ha mobilitato 80mila militari “per assicurare la sicurezza” del voto. Gli avversari sono avvertiti. Messico. Da detenuto a sacerdote: la storia di Gabirel Everardo Zul Mejía di Bruno Desidera La Difesa del Popolo, 28 luglio 2018 Ha chiesto che l’ordinazione sacerdotale fosse vissuta non nella cattedrale, come avverrà tra qualche giorno per altri suoi dieci compagni di seminario, ma dentro le mura di un carcere, quello di Apodaca, tristemente famoso per le condizioni di vita dei detenuti (nel 2012 una rivolta vi causò 38 vittime), come del resto accade in tutto il Messico. Da pandillero, cioè membro di una banda criminale, a ministro di Dio, da detenuto a sacerdote. È il singolare percorso del trentacinquenne messicano Gabirel Everardo Zul Mejía. Venerdì sarà ordinato a Monterrey dal suo arcivescovo, mons. Rogelio Cabrera López. E ha chiesto che questo momento così solenne fosse vissuto non nella cattedrale, come avverrà tra qualche giorno per altri suoi dieci compagni di seminario, ma dentro le mura di un carcere, quello di Apodaca, tristemente famoso per le condizioni di vita dei detenuti (nel 2012 una rivolta vi causò 38 vittime), come del resto accade in tutto il Messico. Se Papa Francesco il Giovedì Santo lava i piedi ai carcerati, deve aver pensato Gabirel, anche un’ordinazione sacerdotale dentro a un istituto di pena può essere un segnale potente. Tanto più che il nuovo sacerdote, che si dichiara grande amante del calcio e della musica vallenata (un genere tradizionale latinoamericano originario della Colombia), si considera soprattutto un “convertito”. Proprio grazie all’esperienza del carcere e all’incontro con i detenuti. È qui che ha scoperto la misericordia di Dio e qui vuole iniziare la sua missione di pastore e testimone dell’amore misericordioso di Dio. Dalle bande criminali al carcere. Così, infatti, egli racconta alcune fasi della sua vita: “Prima della mia conversione, prima dell’incontro con Cristo Gesù, vivevo come sommerso tra i confitti propri del pandillerismo”. Con questo nome, in America Latina, si intende l’attività criminale in bande organizzate, le cosiddette pandillas, appunto. “Purtroppo, in quel periodo non apprezzavo l’amore dei miei genitori e dei miei fratelli. I miei comportamenti mi portarono a essere detenuto nel carcere di Topo Chico. Ricordo che mi misero in un reparto chiamato Osservazione. E fu proprio lì che iniziò il mio dialogo con Dio, iniziai a pregarlo”. Diceva tra sé Gabirel, rivolgendosi al Signore: “Non ti conosco, però so che non mi lascerai qui dentro!”. Riflette ora il novello sacerdote: “Ho pensato in seguito che Dio ha ascoltato la mia preghiera, ma anche quella di mia madre e della Chiesa, che in ogni momento prega per i giovani che hanno perso la strada”. E riconosce che “il tempo durante il quale sono stato in carcere mi è servito per incontrarmi con me stesso, per dare valore a quello che Dio mi permetteva di avere nella casa dei miei genitori, e per riconoscere che proprio in una cella ho trovato la libertà”. La scoperta della misericordia di Dio attraverso i detenuti. La memoria torna ai tempi del carcere: “Ricordo alcune esperienza che hanno segnato quel momento della mia vita: i fratelli detenuti che ho conosciuto e si sono presi cura di me, mi hanno dato dei consigli… Soprattutto sono stati proprio loro inizialmente a insegnarmi quelle che ora riconosco come opere di misericordia, e attraverso di loro ho scoperto l’amore di Dio”. Il carcere è poi rimasto un punto fermo, nella vita di Gabirel, anche una volta entrato in Seminario: “Sono stato incaricato di specifici campi di apostolato, in realtà molto concrete dell’azione della Chiesa, come la pastorale vocazionale, la pastorale della salute e, appunto, la pastorale penitenziaria, in due occasioni. In una circostanza, durante il primo anno di Teologia, mi recavo in carcere quasi tutti i sabati. In seguito, quando ho iniziato a vivere nella parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe, due anni fa. In questo periodo ho potuto accompagnare la pastorale penitenziaria, realizzando varie attività sia di carattere liturgico e spirituale, sia promuovendo il dialogo con le famiglie e i figli dei detenuti, sia organizzando varie attività di carattere sportivo e sociale. Ora vivo in un’altra parrocchia e la mia presenza in carcere è diventata più sporadica, ma ho continuato a fare visita ai miei amici detenuti e a organizzare qualche momento d’incontro e di festa”. Un desiderio “profondo”. La scelta di farsi ordinare sacerdote proprio dentro al carcere di Apodaca, venerdì 27 luglio, è così apparsa a Gabirel per certi aspetti naturale, non qualcosa di straordinario, anche se probabilmente si tratta di una “prima assoluta”. E coerente con quanto domenica scorsa, nel presentare i nuovi sacerdoti dell’arcidiocesi, ha detto l’arcivescovo di Monterrey: “È impossibile pensare il sacerdozio lontano dal popolo”. Conclude allora il giovane che sta per diventare sacerdote: “Ora il mio desiderio è di tornare dai miei amici del carcere di Apodaca, e condividere con loro la gioia dell’ordine sacerdotale. Desidero profondamente che siano i testimoni della misericordia che Dio dona a un suo servitore, concedendomi di diventare sacerdote per tutta l’eternità”. Russia. Avvocata fugge dopo un video pubblicato che documenta torture a un detenuto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 luglio 2018 È dovuta fuggire, lasciare il proprio Paese, in seguito a minacce dopo aver procurato al quotidiano russo Novaya Gazeta il video di un detenuto vittima di torture da parte della polizia russa. Parliamo dell’avvocata Irina Biryukova. Il 20 luglio ha reso pubblico un video che mostra 18 guardie penitenziarie che hanno attaccato Yevgeny Makarov, suo cliente, nella colonia penale IK- 1 della regione di Yaroslavl, nella Russia centrale. Secondo Biryukova, la sua fonte all’interno della prigione la informò che le guardie stavano tramando vendetta contro di lei, minacciandola di procurarle danni fisici. “La coraggiosa decisione di Irina Biryukova di esporre l’orribile abuso all’interno della colonia penale IK-1 è l’ultimo esempio della sua dedizione alla protezione degli altri dalla tortura e da altri maltrattamenti. È allarmante che il suo atto di coraggio l’abbia costretta a fuggire dal Paese per paura”, ha denunciato Marie Struthers, direttore di Amnesty International per l’Europa orientale e l’Asia centrale. “La protezione di Irina Biryukova e Yevgeny Makarov - continua Amnesty - deve essere una priorità per le autorità russe. Chiediamo loro di investigare tempestivamente in modo indipendente e imparziale le minacce contro Irina e le accuse di tortura contro Yevgeny, e impegnarsi a porre fine alla cultura della paura e dell’impunità nel sistema penale russo”. Il Comitato Investigativo della Russia ha annunciato nel frattempo che sei ufficiali della colonia penale IK- 1 sono stati detenuti in seguito al lancio di un’indagine penale sul video. “Il lancio dell’indagine sulle accuse di tortura è un gradito primo passo verso la giustizia”, spiega sempre il direttore di Amnesty, “tuttavia - sottolinea, in assenza di un meccanismo nazionale che funzioni sistematicamente per prevenire la tortura, la causa penale contro i torturatori di Makarov costituirà un’eccezione alla regola”. Novaya Gazeta, il giornale che ha pubblicato il video, ha comunicato che la vicenda risale al giugno 2017. Il 22 luglio, il prefetto regionale di Yaroslavl ha riferito che, in seguito alla diffusione del materiale, i responsabili delle violenze sono stati individuati e sono stati presi provvedimenti di detenzione nei loro confronti. In seguito a ciò, alcuni familiari e conoscenti degli agenti avrebbero fatto pervenire minacce direttamente alla Biryukova, convincendola a prendere la decisione di lasciare il Paese. L’organizzazione non governativa Public Verdict aveva dichiarato nell’aprile 2017 che Makarov e altri due detenuti - Ruslan Vakhapov e Ivan Nepomnyashchikh - avevano subito violenze da parte di personale in divisa nella stessa sede. Il secondo dei due era stato incarcerato in seguito agli scontri di protesta alla vigilia della cerimonia di insediamento del presidente Vladimir Putin nel 2012. La Corte Europea dei Diritti Umani ha ordinato a Mosca di indagare approfonditamente sull’accaduto, che si aggiunge ai sempre più frequenti casi di violenze e torture nei penitenziari russi.