Il Due Palazzi si fa duro: sospesi due progetti di Ristretti Orizzonti di Roberta Polese Corriere Veneto, 27 luglio 2018 Stop alle mail dei carcerati e alle visite delle scuole. L’aria è cambiata in carcere a Padova e quella che tira ora non piace ai detenuti, alle cooperative che lavorano con loro, ai sindacati di polizia e nemmeno agli avvocati. Un cambio di rotta della direzione del Due Palazzi ha decretato la fine di alcune esperienze già rodate anche in altri penitenziari e ritenute utili sotto molti profili. A lanciare l’allarme è la Camera penale di Padova che ha scritto al provveditore e al direttore del carcere affinché rivedano la loro decisione di cancellare due attività considerate molto importanti. La prima è “mai dire mail”, che prevedeva che i detenuti potessero scrivere lettere ai parenti o ai loro avvocati, facendole recapitare direttamente ai destinatari tramite l’associazione Granello di Senape che fa parte della galassia di Ristretti Orizzonti che da anni segue con successo molte attività rieducative all’interno del carcere padovano. Dal primo agosto quest’attività verrà sospesa a causa, fa sapere l’amministrazione carceraria di “un problema di costi”. “Scrivere e comunicare con l’esterno è un diritto - spiega Ornella Favero - i detenuti sanno di dover rinunciare alla loro privacy, ma se questo lavoro non lo fa l’associazione lo deve fare qualcun altro, spesso coinvolgendo personale che potrebbe essere impiegato in altre attività. Si pensi solo ai costi dei francobolli, insomma, togliere ai detenuti la possibilità di usufruire indirettamente della rete vuol dire riportarli indietro nel tempo”. Anna Maria Alborghetti, avvocato, responsabile della sezione carcere della Camera penale sottolinea: “Il dialogo con noi legali così si fa più complicato - racconta - non è il carcere di Padova a decidere se i detenuti possono o no parlare con il mondo esterno, lo dice la legge”. Al coro si unisce il sindacato della polizia penitenziaria: “Non capisco questo passo indietro - dice Gianpietro Pegoraro della Cgil Funzione Pubblica - è un atteggiamento miope che non fa bene a nessuno”. Il concetto è stato ribadito anche in una lettera della Camera penale giunta alla direzione del carcere di Padova. Oltre alla limitazione sull’uso di mail la stretta è giunta anche sul fronte delle visite in carcere che coinvolgono le scolaresche e che consentono ai ragazzi di capire qual è stato il percorso di risalita dal baratro dell’illegalità parlando con i detenuti. E-mail per i detenuti, il servizio è a rischio di Elena Livieri Il Mattino di Padova, 27 luglio 2018 Nell’epoca in cui la comunicazione viaggia alla velocità del “subito”, nel carcere di Padova rischia di saltare il servizio che consente ai detenuti di invia messaggi via e mail. Costringendoli a tornare alle vecchie missive cartacee e ai loro tempi di consegna. Un disservizio che non accusano solo i detenuti, ma le stesse guardie carcerarie e gli avvocati: per tutti, infatti, ricevere, smistare, consegnare, spedire la posta o comunicare con i detenuti comporta lavori spostamenti e tempo. Inconvenienti che grazie al progetto “Mai dire mail” della associazione Granello di senape erano stati superati. Sulla questione si è espressa l’avvocata Annamaria Alborghetti, presidente della commissione Carcere in seno alla Camera penale di Padova: “Esprimiamo viva preoccupazione per la volontà da parte della direzione della Casa di reclusione e del Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di non rinnovare la concessione per servizio “Mai dire mail” di cui tutti abbiamo apprezzato l’utilità, poiché consente ai detenuti di comunicare in tempi rapidi con i propri familiari e contribuendo anche a umanizzare la pena. Ulteriore motivo di preoccupazione per il fatto che il servizio verrebbe interrotto nel periodo estivo”. Il servizio prevede che il detenuto consegni la versione cartacea del messaggio che intende spedire e che questo, preso in carico dall’associazione Granello di senape, venga spedito una volta scannerizzato. Nello stesso modo si ricevono le mail di risposta. I detenuti, infatti, non hanno accesso diretto alla rete e con questo sistema possono in qualche modo ovviare alla restrizione. Le mail si sono rivelate molto utili nei contatti con i difensori che altrimenti per comunicare con il detenuto devono recarsi in carcere. Così semplici informazioni arrivano più velocemente. La Consulta già un anno fa dichiarò illegittimi i limiti ai benefici per i minori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 luglio 2018 Nel decreto in esame alle Commissioni giustizia è stato introdotto il 4bis anche per i minorenni. la corte costituzionale si è espressa contro l’ipotesi ostativa alla sospensione dell’ordine di carcerazione nei confronti di ragazzi condannati per gravi delitti. È stato inserito nel decreto attuativo lo sbarramento delle misure alternative per alcuni reati commessi dai minori, ma la sentenza della Corte costituzionale l’aveva dichiarato illegittimo. Parliamo della sentenza della Consulta numero 90 del 2017 che ha dichiarato illegittima l’ipotesi ostativa alla sospensione dell’ordine di carcerazione nei confronti dei minorenni condannati per alcuni gravi delitti. C’è l’articolo 656 del codice di procedura penale, il quale prevede che, nell’ipotesi in cui la da scontare - anche ove costituisca residuo di maggior pena - rientri nei limiti previsti per le cosiddette pene detentive brevi, il pubblico ministero è tenuto a disporre, con decreto, la sospensione dell’esecuzione. Tale provvedimento è, però, escluso, ai sensi del comma 9 della medesima disposizione normativa, nei confronti delle persone condannate per i gravi delitti che rientrano nel 4bis. Questo vale per i detenuti adulti, ma in mancanza di un ordinamento penitenziario minorile (quello previsto dal decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario), è stato applicato anche nei confronti delle persone non ancora diciottenni al momento della commissione del fatto. La Consulta ha bocciato tale provvedimento. L’esigenza di prevedere un trattamento differenziato dell’imputato minorenne discende direttamente dalla Costituzione: l’art. 31, comma 2 della Carta fondamentale dispone, infatti, che lo Stato italiano “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”. Questa sentenza, in realtà, è stata una delle tante pronunce rese dalla Corte costituzionale in tema di esecuzione penale minorile. Numerosi sono, infatti, gli interventi operati dalla Consulta che hanno tentato di sopperire alle mancanze del legislatore, onde assicurare un effettivo adeguamento del trattamento del minore condannato alle esigenze di recupero e di rieducazione, stabilite a livello costituzionale. Ecco perché si era reso ancora più importante l’approvazione di un’apposita normativa in tema di ordinamento penitenziario minorile. Tra i diversi decreti attuativi, è importate rivelare quello concernente l’adeguamento “delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età”. In tale contesto, i criteri che erano stati recepiti dal legislatore delegato attengono, anzitutto, alla necessaria specializzazione degli organi giurisdizionali: la competenza nell’ambito dell’esecuzione penitenziaria dovrà, infatti, essere affidata al Tribunale per i minorenni. Altrettanto importanti risultano le indicazioni concernenti gli istituti penali minorili, i quali dovranno essere organizzati in modo da favorire la socializzazione, la responsabilizzazione e la promozione della persona. Onde favorire la rieducazione del minore e il suo reinserimento sociale si era disposto, inoltre, che il trattamento penitenziario si fondi sull’istruzione e sulla formazione professionale, nonché che siano rafforzati i contatti tra i detenuti e il mondo esterno. Il profilo costituente il cuore del futuro intervento normativo attiene, però, alla previsione di apposite misure alternative, che siano confacenti alle istanze educative del condannato minorenne. Al fine di garantire l’effettiva preminenza della funzione di recupero del minore rispetto alla pretesa punitiva dello Stato, la legge di riforma prescrive che siano ampliati i criteri per l’accesso a tali misure, privilegiando, in proposito, l’affidamento in prova ai servizi sociali e la semilibertà. Recependo i principi espressi dalla giurisprudenza costituzionale e valorizzando l’individualizzazione del trattamento, si era incaricato, poi, il legislatore di eliminare qualsiasi “automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari”, analogamente a quanto indicato anche dalla delega per gli adulti. Così in effetti fu fatto: il decreto attuativo relativo all’ordinamento penitenziario minorile si era attenuto a queste disposizioni. Ma, notizia riportata ieri su Il Dubbio, il testo in esame alle attuali commissioni Giustizia, risulta snaturato con la reintroduzione del 4bis e il limite ai benefici: va contro la legge delega, ma anche contro la Consulta che ne ha dichiarato l’illegittimità. Legittima difesa, i paletti di Mattarella di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 luglio 2018 Quirinale. Il presidente della Repubblica “indignato” dal cecchino che ha colpito la bimba rom a Roma. “L’Italia non può diventare il Far West”, avverte. mentre la Lega si prepara a portare in commissione al senato chi si è fatto giustizia da sé. “Mi ha molto colpito un fatto di cronaca di questi giorni”, dice Sergio Mattarella ricevendo al Quirinale i giornalisti parlamentari. Sembra quasi un inciso all’interno di un discorso che per l’occasione - la cerimonia del ventaglio, scambio di auguri estivi con la stampa - è quasi tutto dedicato alla libertà di informazione. È invece il passaggio più legato all’attualità dei lavori parlamentari: “L’Italia non può assomigliare al Far West, dove un tale compra un fucile e spara dal balcone colpendo una bambina di un anno, rovinandone la salute e il futuro”, dice il presidente della Repubblica. Non si allontana troppo dal tema dell’informazione: “Questa è barbarie e deve suscitare indignazione”, aggiunge, ma la notizia ha occupato nelle cronache di Roma più o meno lo stesso spazio dedicato alla cattura di un grosso serpente in un parco pubblico. Senza nessuna reazione da parte del ministro dell’interno, alfiere della licenza di sparare. Il Far West, appunto. Mattarella parla mentre stanno per entrare nel vivo i lavori della commissione giustizia sulla (nuova) riforma della legittima difesa. Dei cinque disegni di legge all’ordine del giorno, molto simili, tre sono di Forza Italia, uno di Fratelli d’Italia, uno della Lega. Il quinto è di iniziativa popolare, promosso da Italia dei Valori. È il cavallo di Troia che, in forza del nuovo regolamento del senato, ha visto prevalere palazzo Madama nella corsa con la camera a chi si aggiudicava il provvedimento considerato ad alto tasso di popolarità (i deputati non sono del tutto rassegnati); per di più la legge di iniziativa popolare andrà comunque in aula entro tre mesi anche se la commissione non dovesse riuscire a concludere i lavori su un testo base. L’elenco dei primi “esperti” che la Lega intende ascoltare in commissione chiarisce le intenzioni propagandistiche. Non giuristi, avvocati o magistrati (che pure ci saranno): il senatore salviniano Ostellari che presiede la seconda commissione ha fatto sapere di aver personalmente invitato Roberto Zancan e Graziano Stacchio (il secondo sparò e uccise un rapinatore che aveva assaltato la gioielleria del primo, nel vicentino) e Franco Birolo (tabaccaio padovano che sparò e uccise mentre subiva un tentativo di furto). Tutti assolti, le loro vicende potrebbero al contrario dimostrare come la legge tuteli già a sufficienza chi si difende con le armi. Specie dopo che la riforma di un altro ministro leghista ha introdotto la presunzione di innocenza per chi spara con un arma detenuta legittimamente (e sono circa un milione e mezzo le licenze in Italia) all’interno di una sua proprietà e in presenza di un pericolo. Con una nuova sentenza, la Cassazione ha ribadito che perché la difesa sia legittima oltre alla presenza di un pericolo attuale bisogna valutare la proporzionalità tra l’offesa e la reazione. La proposta di legge della Lega al senato (ce n’è una anche alla camera) vuole invece qualificare come sempre legittimi gli “atti per respingere l’intrusione nella proprietà”. Le proposte di Forza Italia, che su questo tema marcia al fianco dei vecchi alleati, vanno persino oltre perché giustificano ogni atto compiuto in condizioni di “concitazione o paura” (Caliendo) o allargano le maglie fino a introdurre il principio di “difesa non manifestamente sproporzionata” (Gasparri). Le parole di Mattarella sono state accolto con sollievo dal Pd e da Liberi e uguali, mentre Forza Italia ha accusato la sinistra di “strumentalizzare il presidente per un’insensata crociata contro le armi”. Quanto all’arma con la quale il 59enne romano Marco Arezio, ex dipendente del senato, ha centrato alla schiena la bambina rom a Roma - per lei non si possono ancora escludere danni irreversibili - era stata modificata “toccando alcune viti per potenziarla”. Lo ha detto ieri lo stesso sparatore ai magistrati che indagano per valutare l’intenzionalità del fatto. Mattarella: “no al Far West, la barbarie susciti indignazione” di Franco Stefanoni Corriere della Sera, 27 luglio 2018 Il presidente della Repubblica: “Mi ha colpito un fatto di cronaca di questi giorni dove un tale compra un fucile e spara dal balcone ferendo una bambina di un anno”. “Mi ha colpito un fatto di cronaca di questi giorni. L’Italia non può somigliare al far west dove un tale compra un fucile e spara dal balcone colpendo una bambina di un anno rovinandole la salute e il futuro. Questa è barbarie e deve suscitare indignazione”. Queste le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel corso della cerimonia di consegna del Ventaglio da parte dell’Associazione Stampa parlamentare, facendo riferimento alla bambina rom di 13 mesi ferita nei giorni scorsi a Roma. “Usi distorti del web” - Il capo dello Stato ha parlato anche di internet. “Siamo tutti consapevoli che vi sono usi distorti e talvolta allarmanti del web”, ha detto, “appaiono segni astiosi, toni da rissa che rischiano di seminare nella società i bacilli della divisione, del pregiudizio, della preconcetta ostilità che puntano a sottoporre i nostri concittadini tensione continua. Sta a chi opera nelle istituzioni politiche ma anche a chi opera nel giornalismo a non farsi contagiare da questo virus ma contrastarlo, farne percepire a tutti i cittadini il grave danno che ne deriva per la convivenza e per ciascuno”. “L’efficacia di Manzoni” - “L’Italia non diventerà quello che con grande efficacia descrive Manzoni nel 32º capitolo dei Promessi Sposi a proposito di degli untori della peste: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. La Repubblica vive dell’esercizio della responsabilità da parte di ciascun cittadino”, ha spiegato Mattarella, “ognuno faccia uso dei suoi diritti e adempia ai suoi doveri, vale per me naturalmente che sono anzitutto chiamato a rappresentare l’unità del Paese”. “Serve imparzialità nei ruoli pubblici” - “A me compete ricordare, a ciascuno, il rispetto del principio” di “concorrere all’ordinato funzionamento degli organi istituzionali. Le finalità sono tracciate, con chiarezza, nel testo della Costituzione e verso di esse devono convergere le pubbliche amministrazioni, nell’imparzialità della loro funzione, diretta a servizio di tutti i cittadini”. “Le finalità sono tracciate, con chiarezza, nel testo della Costituzione e verso di esse devono convergere le pubbliche amministrazioni, nell’imparzialità della loro funzione, diretta a servizio di tutti i cittadini”, ha continuato il presidente Mattarella. “Il limite dell’intervento dello Stato è indicato, limpidamente, laddove è pienamente riconosciuto, alla società civile, di esprimersi in tutte le forme organizzate della vita economica e sociale, senza interferenze da parte delle autorità pubbliche tese a influenzarne l’attività”. “Contrastare tendenze alla regressione storica” - “Vengono ogni tanto preannunziate guerre commerciali”, ha detto anche Mattarella, “queste, nel corso del tempo, hanno spesso condotto ad altro genere di guerre. Affiorano, talvolta, concezioni e pulsioni proprie dell’Ottocento e della prima parte del Novecento; seduzioni che sembrano rimuovere le lezioni della storia”. “Serve contrastare le tendenze alla regressione della storia. Rischi del nucleare e corsa agli armamenti mettono a prova ulteriore la tenuta della pace nel mondo, già gravemente ferita da conflitti in corso e da occupazioni militari di territori altrui. Non sono episodi lontani, che non ci riguardano: il mondo si è ristretto e si tratta di segnali allarmanti. Si avvertono incrinature dell’ordine internazionale”. “Grandi conquiste della storia e della civiltà dei rapporti internazionali, come la scomparsa della frontiera tra Francia e Germania, tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord rappresentano patrimonio dell’umanità”, ha aggiunto. “Interessi di parte non intacchino le reputazione di un Paese” - “La reputazione di un Paese ordinato, bene amministrato, coeso è un bene comune, collettivo. Indisponibile. Sottratto a interessi di parte perché costruito, nel tempo, con il contributo del nostro popolo”. “È patrimonio di storia, di cultura, di valori che disegna il ruolo dell’Italia nella comunità internazionale. Ovunque si vada, si registra un gran desiderio di collaborazione e di interlocuzione stretta e concreta con l’Italia. Tutto ciò che intacca questo patrimonio ferisce l’intera comunità”. “Sui migranti segnali positivi da Ue” - “Sessantacinque milioni di profughi nel mondo danno la misura di un fenomeno epocale. Tante volte l’Italia ha chiesto all’Ue responsabilità e leggiamo finalmente segnali positivi da parte di diversi Paesi dell’Unione. Passo dopo passo serve un piano di interventi dell’Unione per governare il fenomeno e non subirlo”. La giurista Della Bella: “neanche chi uccide per difendersi può rimanere impunito” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 luglio 2018 “Sulla legittima difesa viene dato un messaggio sbagliato: nessuna riforma potrà mai assicurare che non vengano svolti accertamenti penali”. “Non credo proprio che una modifica del genere possa superare il vaglio di costituzionalità”, dichiara Angela Della Bella, professoressa di diritto penale all’Università statale di Milano. L’Associazione italiana dei professori di diritto penale ha divulgato questa settimana una nota in cui “si esprime profonda preoccupazione per le iniziative parlamentari in corso sulla legittima difesa e per i messaggi ingannevoli che sul tema si stanno diffondendo nell’opinione pubblica”. Sono attualmente all’esame della Camera dei deputati diverse proposte di legge che mirano a riformare l’articolo 52 del codice penale sulla legittima difesa. Due presentate da Forza Italia, una dalla Lega ed una da Fratelli d’Italia. Queste proposte sono sostanzialmente accomunate da due fattori: l’eliminazione del requisito di proporzione tra offesa in atto e l’attività di difesa; la volontà di sottrarre alla giurisdizione la responsabilità di accertare in concreto se vi sia stata o meno legittima difesa. Professoressa, i docenti di diritto penale italiani sono scesi in campo contro queste proposte di legge. Cosa non condividete? Le modifiche proposte smantellano i pilastri dello Stato di diritto. Penso, ad esempio, al- l’articolo 2 della Costituzione, cioè l’inviolabilità della vita. Si creerebbe il Far west? Certamente. La causa di giustificazione della legittima difesa non ha mai avuto nulla a che fare con una licenza di uccidere, poiché la legittimità della difesa è stata sempre subordinata a precisi requisiti: primo fra tutti la necessità di difendersi, in assenza della quale non si parlerebbe più di difesa, ma di offesa. Nel requisito della necessità è implicita un’idea di proporzione della difesa rispetto all’offesa, poiché una difesa volutamente sproporzionata cesserebbe di essere difesa e assumerebbe i contenuti di un’offesa. I proponenti, però, fanno l’esempio di chi, in tempo di notte, dopo aver sparato per difendersi dal rapinatore che è entrato in casa, deve subire un processo con il rischio di essere condannato. La questione consiste nello stabilire quando ricorra il requisito della proporzione e sia scusabile un eccesso di difesa. È un problema da sempre avvertito come assai delicato. In questo caso sono fondamentali accertamenti rigorosi. Altri punti controversi? Una legge del genere certificherebbe che lo Stato è incapace di difendere i proprio cittadini. L’Italia come gli Stati Uniti? Non penso sia una bella prospettiva. Le cronache americane sono piene di persone morte a causa dell’utilizzo delle armi da fuoco. E poi c’è un problema di comunicazione. Cioè? Il messaggio che viene dato al cittadino è errato. I cittadini devono infatti essere informati che, se si uccide o si ferisce qualcuno, nessuna riforma potrà mai assicurare che non vengano svolti accertamenti penali. A meno che il Parlamento non intenda davvero approvare una legge illegittima, che voglia mandare assolto l’aggredito che si difende a prescindere da ogni necessità e proporzione. Ma tale aspetto sarebbe palesemente contrario ai principi costituzionali, convenzionali e internazionali. C’è una emergenza sicurezza da giustificare queste modifiche? Non ho dati precisi, ma tutte le statistiche parlano di reati in calo. Oggettivamente non credo ci siano i numeri per giustificare una legge simile. È un problema di “percezione”? Penso proprio di si. Ma qui il discorso si fa molto più complesso. Quando si parla alla pancia della gente entrano in gioco dinamiche difficile da spiegare sul piano logico. Da penalista quale sarebbe stata la riforma più attesa? Sicuramente quella sull’Ordinamento penitenziario che, invece, è finita su un binario morto. Il ministro della Giustizia vuole inasprire le pene e costruire più carceri: più pene e più carcere uguale più sicurezza. Io rispondo invece che più carcere significa più recidiva. Roberto Saviano indagato per diffamazione. “Non indietreggio, mai avuto paura”. La Repubblica, 27 luglio 2018 L’autore di Gomorra iscritto nel registro degli indagati: “Dobbiamo mettere i nostri corpi a difesa della Costituzione e della libertà di pensiero”. La procura di Roma: “Un atto dovuto”. Il ministro: “È il minimo, non ritiro la denuncia”. Lo scrittore Roberto Saviano è indagato dalla procura di Roma per il reato di diffamazione in relazione alla denuncia presentata dal ministro degli Interni, Matteo Salvini, il 19 luglio scorso. In base a quanto si apprende l’iscrizione viene definita come “atto dovuto”. “Affronterò la querela del Ministro della Mala Vita a testa alta - dichiara lo scrittore - Dobbiamo mettere i nostri corpi a difesa della Costituzione e della libertà di pensiero. Non indietreggio di un passo nella critica al suo operato. Io non ho paura, non ne ho mai avuta. Nella denuncia Salvini fa riferimento ad una serie di affermazioni fatte da Saviano nelle ultime settimane che, a suo dire, sono “lesive della sua reputazione e del ministero dell’Interno stesso”. Nell’atto depositato in questura a Roma, il ministro cita alcuni giudizi espressi dallo scrittore con video e post su Facebook. In particolare il 21 giugno l’autore di Gomorra ha definito Salvini come “ministro della malavita”, aggiungendo: “le mafie minacciano. Salvini minaccia”. Salvini, interpellato dai giornalisti alla Camera, ha detto che non ritirerà la querela nei confronti di Saviano. “Ma ci mancherebbe altro”, ha detto. Quindi ha aggiunto: “È indagato? Mi sembra il minimo. Io adoro la critica, ma un conto è la critica, un altro darmi del mafioso. Se qualcuno mi dà dell’assassino ne paga le conseguenze, quella non è critica politica, quello è insulto. Spero che ci sia un giudice che rapidamente riconosca che qualcuno ha sbagliato. Poi a me non interessano i soldi di Saviano, se me ne venisse in tasca una lira, la devolvo in beneficenza. Però è giusto che qualcuno si prenda le responsabilità di quello che dice”. “Quale messaggio vuole trasmettere un ministro dell’Interno denunciando uno degli scrittori italiani più conosciuti nel mondo per essere in prima fila - da anni - nella lotta alla camorra e alle mafie?” Lo scrive in una nota il capogruppo di Liberi e Uguali alla Camera, Federico Fornaro. “Salvini - aggiunge Fornaro - si ricordi di essere il ministro dell’Interno e non solo il segretario del suo partito e ritiri questa denuncia sbagliata e pericolosa contro Saviano, a cui va tutta la nostra solidarietà e vicinanza. Nella lotta alla criminalità organizzata lo Stato non può permettersi di dare segnali di questa natura nei confronti di uno dei maggiori simboli della quotidiana battaglia per la legalità e contro la criminalità organizzata”, conclude il capogruppo di Leu. Intanto continuano a giungere adesioni e sostegno all’appello dello scrittore a “rompere il muro del silenzio” e far sentire il proprio dissenso per far sapere - dice Saviano - “che ciò che accade in questo Paese non ci sta bene”. Continuazione reati giudicati con rito ordinario e abbreviato: sconto di pena solo per i secondi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 26 luglio 2018 n. 35852. L’applicazione della continuazione tra reati giudicati con rito ordinario e altri giudicati con rito abbreviato comporta che soltanto nei confronti di questi ultimi deve operare la riduzione di un terzo della pena. Le sezioni unite della cassazione, con la sentenza 35852, dirimono un contrasto della giurisprudenza sul tema dell’incidenza della diminuzione per il rito abbreviato, quando sono in continuazione reati giudicati con il rito “speciale” o con l’ordinario. In base ad un primo criterio, l’applicazione in sede esecutiva della continuazione comporta che il taglio di pena di un terzo scatti solo in caso di abbreviato, anche se si tratta della pena più grave da porre alla base del calcolo di quella complessiva. L’obiettivo per i sostenitori di questa tesi è quello di mantenere l’incentivo della riduzione per il rito premiale solo per i reati rispetto ai quali l’imputato ha scelto di essere giudicato allo stato degli atti. A questo principio se ne affianca un altro secondo il quale, quando il reato più grave è stato oggetto di giudizio abbreviato, lo sconto di pena per il rito alternativo deve essere effettuato dopo che sono stati calcolati gli aumenti per tutti i reati satellite, prescindendo dal rito, con il quale sono stati giudicati. Le Sezioni unite dopo un’approfondita analisi della natura processuale della pena e delle norme sulla continuazione, scelgono il primo orientamento, basandosi anche sulla natura processuale della riduzione prevista dall’articolo 442 comma 2 del codice di rito penale, sottolineata anche dalla Consulta fin dalle prime sentenza in tema di giudizio abbreviato. Una diminuente - sottolinea la Suprema corte - che risponde ad una esigenza utilitaristica di sollecita definizione dei giudizi, proponendo all’imputato uno sconto “secco” di pena, già determinata, come premio per la scelta del rito abbreviato contro la rinuncia alla maggiori garanzie del dibattimento. Il whistleblower non può violare la legge per fare lo 007 di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 35792/2018. Il dipendente che si improvvisa investigatore e viola la legge per raccogliere prove di illeciti nell’ambiente di lavoro non può invocare la tutela del whistleblowing. La “protezione”, prevista dalla legge 179/2017, è destinata solo a chi segnala notizie di un’attività illecita, acquisite nell’ambiente e in occasione del lavoro. Senza che ci sia alcun obbligo in questo senso né, tantomeno, è ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie azioni di “indagine”, per di più illecite. La Cassazione (sentenza 35792/2018), analizza, per la prima volta, la norma che regola la segnalazione di illeciti da parte del dipendente pubblico e detta norme a tutela di chi fa emergere fatti antigiuridici appresi svolgendo il suo servizio. Garanzie non invocabili dal ricorrente che, per dimostrare la vulnerabilità del sistema informatico adottato dal datore, ha usato l’account e la password di un altro dipendente e creato un falso documento di fine rapporto a nome di una persona che non aveva mai lavorato nell’istituto. Per lui è scattata solo la non punibilità, per il fatto di particolare tenuità prevista dall’articolo 131-bis del Codice penale. Ad avviso del ricorrente, però, la sua condotta, finalizzata a una denuncia e all’adempimento di un dovere, rientrava sotto l’ombrello del whistleblowing. La Suprema corte chiarisce che la norma, analoga ad altre adottate in ambito internazionale, ha il duplice scopo di delineare un particolare status giuslavoristico a tutela di chi segnala “abusi” e di favorire l’emersione all’interno della Pa di fatti illeciti per rafforzare il contrasto alla corruzione. L’articolo 54-bis, che ha aggiornato la legge sul pubblico impiego, “salva” il dipendente virtuoso da sanzioni, licenziamenti o discriminazioni collegate alla segnalazione. I giudici ricordano anche che, con l’orientamento numero 40, è stata introdotta la possibilità di inserire tra i destinatari dell’informativa anche il responsabile dell’anticorruzione. Ribadito il diritto del segnalante all’anonimato - a meno che la rivelazione dell’identità non sia indispensabile per la difesa dell’incolpato - la Suprema corte chiarisce che la norma non ipotizza nessun obbligo di “attiva acquisizione di informazioni autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti imposti dalla legge”. È dunque chiaro che l’azione commessa dal ricorrente non può essere giustificata, neppure in virtù di uno scusabile errore sull’esistenza di un dovere in conseguenza del quale il fine avrebbe giustificato i mezzi. Per valutare la scriminante dell’adempimento del dovere valgono gli stessi criteri adottati per “l’agente provocatore”. È giustificata solo la condotta che non si inserisce “con rilevanza causale” nello svolgimento dell’atto criminoso, ma interviene in “modo indiretto e marginale, concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui”. Niente diffamazione su internet del Sindaco se il tema è d’interesse pubblico di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 26 luglio 2018 n. 35791. Il Sindaco che esprime su internet le sue ragioni circa una vicenda di interesse pubblico, che coinvolge gli interessi contrastanti dell’amministrazione comunale e di un privato, non può essere condannato per diffamazione, se le sue dichiarazioni sono espresse in maniera appropriata e si fondano su fatti accertati. In tal caso, infatti, si configura il diritto di critica, di cui all’articolo 51 c.p., che esclude la configurabilità del reato. Questo è quanto emerge dalla sentenza 35791 della Cassazione, depositata ieri. Il caso - La vicenda, nella quale si intersecano profili amministrativi e penalistici, prende le mosse dalla decisione dell’amministrazione di un Comune abruzzese di alienare, poco prima dell’inizio della campagna elettorale, un edificio scolastico dismesso, bene facente parte del patrimonio comunale, in favore di un privato, maresciallo dei Carabinieri. In seguito alla delibera di aggiudicazione, la nuova amministrazione riscontrava nella fase antecedente l’assegnazione numerosi rilievi e pareri negativi circa la dismissione del bene e, di conseguenza, decideva di revocare in autotutela l’aggiudicazione. Il privato assegnatario del bene, tuttavia, non si mostrava favorevole a tale soluzione e decideva di impugnare il provvedimento di revoca dinanzi ai giudici amministrativi e di querelare, altresì, il Sindaco per abuso d’ufficio. Dopo alcuni tentativi di risolvere la questione in via transattiva, una volta che la vicenda era ormai alla piena attenzione dell’opinione pubblica, il Sindaco decideva di pubblicare sul proprio sito internet un comunicato nel quale, dando atto della situazione di stallo, sottolineava lo sforzo dell’amministrazione comunale volto a risolvere positivamente la questione e sottolineava il contrasto tra la difesa dell’interesse pubblico, dalla sua Giunta perseguito, e la difesa dell’interesse privato, unico movente del maresciallo. Infastidito dal comunicato, quest’ultimo denunciava nuovamente il Sindaco, questa volta per diffamazione, ottenendo la condanna del primo cittadino, sia in primo che in secondo grado, in quanto le sue dichiarazione venivano giudicate offensive della sua reputazione. Il diritto di critica esclude la diffamazione - Il caso arriva, infine, in Cassazione dove i giudici di legittimità ribaltano il verdetto e assolvono direttamente l’imputato con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, riconoscendo cioè la sussistenza della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto di cui all’articolo 51 c.p., sub specie del diritto di critica. La Corte analizza le presunte dichiarazioni diffamanti e il contesto ambientale della vicenda ed afferma che il Sindaco, legittimato dal suo ruolo, ha solo “voluto offrire all’attenzione della pubblica opinione il proprio punto di vista su una vicenda ben delineata nei suoi contorni fattuali e provocare una approfondita riflessione su di un tema di rilevante interesse, quale la dismissione di beni pubblici e la congruità del prezzo dell’alienazione”, evidenziando la contrapposizione tra interesse pubblicistico e quello privatistico. Stante l’interesse pubblico della tematica, poi, per il Collegio sussistono anche le altre due condizioni che determinano l’applicazione dell’esimente del diritto di critica, ovvero la continenza del linguaggio e la verità del fatto narrato. Sotto quest’ultimo aspetto, in particolare, i giudici di legittimità ripercorrono le tappe della giurisprudenza europea sull’interpretazione dell’articolo 10 Cedu e sottolineano come nel diritto di critica, specie se politica, le dichiarazioni che contengono un giudizio di valore, che possono sembrare anche esagerate ed eccessive, devono essere valutate in maniera più elastica e sempre con riferimento al nucleo fattuale, che deve però essere veritiero. E nel caso di specie, chiosa la Corte, il Sindaco con il suo comunicato ha voluto denunciare, con un linguaggio consono e in riferimento a fatti veri, una situazione di interesse per l’ente locale e per la cittadinanza, oltre che la correttezza dell’agire della sua amministrazione, senza che ciò possa aver assunto una carica offensiva e diffamatoria nei confronti del privato. Condannato per molestie l’ambulante troppo “petulante” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 26 luglio 2018 n. 35718. Rischia una condanna per molestie il venditore ambulante che cerchi di vendere il proprio prodotto in modo eccessivamente petulante “tallonando” per strada la vittima. La Corte di Cassazione, sentenza n. 35718 del 26 luglio 2018, ha infatti respinto il ricorso di un venditore di profumi confermando la condanna alla pena di 300 euro di ammenda per il reato di molestie comminatagli dal Tribunale di Termini Imerese. L’imputato, di origine italiana, si era giustificato adducendo di essere stato mosso “esclusivamente dall’intento di promuovere ed incentivare la vendita del proprio prodotto”. Secondo la ricostruzione di merito la vittima era stata avvicinata da un ambulante (non ricorrente) mentre era intenta ad effettuare un prelievo bancomat a Bagheria. L’uomo aveva cominciato a parlale del diritto a lavoro e quando la denunciante aveva accennato ad allontanarsi, aveva estratto dalla borsa un profumo tentando di convincerla ad acquistarlo. In quel frangente si era avvicinato anche il secondo venditore, attuale ricorrente, che “non solo aveva serbato lo stesso contegno del socio in affari ma aveva rincorso la donna e l’aveva tallonata finché la stessa non aveva raggiunto l’autovettura con a bordo il marito che l’aspettava”. Per il Tribunale dunque era da considerarsi “molesto” il contegno dei due improvvisati venditori che “agendo in perfetta coordinazione, avevano insistito in modo pressante e impertinente per vendere la propria merce, l’imputato addirittura inseguendo la persona offesa senza darle tregua e interrompendo l’azione solo dopo che la stessa si era rifugiata a bordo del veicolo”. Una lettura confermata dalla Suprema corte secondo cui la decisione impugnata ha dato conto esaustivamente del comportamento “insistente sopra ogni limite tenuto dall’imputato”, evidenziando come il medesimo “non si fosse limitato a reiterare la, già rifiutata, offerta di vendita del prodotto, ma avesse rincorso e tallonato la donna fino a quando la stessa non aveva raggiunto l’autovettura del marito”. Del tutto correttamente, dunque, prosegue la decisione, “ha definito il suo agire “pressante, indiscreto e impertinente”, ovverosia petulante”. E proprio l’oggettivo comportamento dell’imputato, argomenta la sentenza, “rende priva di pregio la tesi difensiva che egli non s’avvedesse dell’oggettivo disturbo arrecato e della inutile petulanza del suo agire”. Infatti, nella fattispecie incriminatrice in esame “la petulanza costituisce una modalità della condotta prima ancora che un atteggiamento soggettivo, sicché ove la condotta sia obiettivamente petulante (fastidiosamente insistente e invadente), è sufficiente ad integrare il reato la circostanza che l’agente sia consapevole di tale suo modo di fare, non rilevando la pulsione che lo muove”. Infine, quanto alla credibilità dell’accusatrice, la Corte ha valorizzato la presenza di precedenti segnalazioni di uguale tenore. Campania: due persone decedute nel giro di 48 ore nelle carceri campane vocedinapoli.it, 27 luglio 2018 Due persone decedute nel giro di 48 ore nelle carceri campane. Il primo decesso è avvenuto nel carcere di Poggioreale dove due giorni fa si è tolto la vita un 37enne di Marigliano. L’uomo stava scontando un pena a sei anni di reclusione per droga. Sono stati i suoi compagni di cella a trovarlo impiccato con un lenzuolo. Ieri invece nel carcere di Santa Maria Capua Vetere un detenuto di 40 anni è morto per infarto. Milano: 25 anni dalla strage di via Palestro, letture e testimonianze per non dimenticare La Repubblica, 27 luglio 2018 Milano ricorda la sera in cui fu colpita al cuore, il 27 luglio 1993, quando un’autobomba in via Palestro uccise cinque persone, ne ferì molte altre e devastò il Padiglione d’arte contemporanea insieme a tutta la zona circostante. In occasione del 25° anniversario dalla strage, oggi al Pac si terrà una giornata di commemorazione, a partire dalle ore 10, quando il sindaco Giuseppe Sala e la vicesindaco Anna Scavuzzo parteciperanno alla deposizione delle corone. A seguire, l’inaugurazione della mostra fotografica “La mafia uccide solo d’estate. 25 anni dalla strage di via Palestro” e, dalle ore 10.30, gli interventi guidati dal titolo “Una strage volta a ricattare lo Stato”: parleranno il sindaco Giuseppe Sala, il presidente del Consiglio comunale Lamberto Bertolè, il direttore regionale dei vigili del fuoco, Dante Pellicano, e Francesco Del Bene, sostituto procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo. La commemorazione continua, a partire dalle 21, con letture, musiche e testimonianze di persone che quella notte rimasero ferite e con gli interventi del vicesindaco Anna Scavuzzo e del presidente della Commissione consiliare Antimafia David Gentili. Alle ore 23.15 il suono della sirena inviterà tutti i presenti a un momento di raccoglimento, nell’attimo esatto in cui l’auto imbottita di tritolo esplose esattamente davanti al Pac. Per tutta la giornata di venerdì, fino alle 24, sarà possibile visitare il Pac con ingresso gratuito. “Un momento per fermarci tutti, per un minuto con il suono della sirena, in ogni parte del nostro Paese, in ogni posto dove c’è un vigile del fuoco, per ricordare tutte le vittime del dovere e in modo particolare chi si è sacrificato fino all’ultimo respiro per compiere il proprio dovere”, è questa la richiesta avanzata dall’Associazione Carlo La Catena, che porta il nome di una delle vittime - attraverso una richiesta ufficiale - al Ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Oltre al pompiere La Catena, giovane napoletano di 25 anni, alle 23:14 del 27 luglio 1993 morirono altri due suoi colleghi, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e un immigrato marocchino che dormiva su una panchina, Moussafir Driss. Quella notte La Catena era stato chiamato con i colleghi sul posto dopo una telefonata anonima che aveva dato l’allarme per il fumo che usciva da una Fiat Uno parcheggiata in via Palestro, davanti al Padiglione dell’Arte Contemporanea. L’esplosione avvenne prima che le forze specializzate potessero disinnescare l’ordigno e lo stesso museo fu gravemente danneggiato dalla deflagrazione. La famiglia del ragazzo napoletano seppe della sua morte dalla televisione. Uno dei protagonisti dell’operazione di terrore fu Gaspare Spatuzza, che dopo anni decise di collaborare con la giustizia. L’obiettivo “erano i monumenti, non le vite umane. Quello che avvenne erano conseguenze non cercate”, disse poi Spatuzza in tribunale vent’anni dopo coinvolgendo Filippo Marcello Tutino, che secondo le sue dichiarazioni avrebbe avuto il ruolo di basista in via Palestro. Ma questo non è mai stato provato: solo qualche giorno fa la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Assise in Appello, assolvendo Tutino definitivamente. Le accuse però non sono cadute per i fratelli Formoso e i Graviano, oltre alle condanne per Riina, il super latitante Messina Denaro, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella fino allo stesso Spatuzza. Ma restano molti interrogativi su complici, armatori e moventi della strategia stragista di Cosa Nostra e sulle conseguenze di quella notte quando, tra ricatti, presunte trattative e silenzi, l’Italia partorì i suoi fantasmi. Bari: il decreto per il Tribunale diventa legge, stop ai processi fino al 30 settembre di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 27 luglio 2018 Decreto diventato legge, giustizia barese con i processi bloccati fino al prossimo 30 settembre. Il Senato ha dato il via libera al provvedimento del governo adottato dopo l’accertata inagibilità del Palagiustizia. Il Tar Puglia, a proposito, ha bocciato il ricorso dell’Inail contro lo sgombero del Comune. Processi penali sospesi fino al 30 settembre. Il Senato ieri mattina ha approvato il decreto legge sul tribunale di Bari con 149 sì, 112 no e 4 astenuti. Il provvedimento, già approvato dalla Camera, è diventato legge. Il decreto, fortemente voluto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è stato propedeutico allo smantellamento della “tendopoli della giustizia” allestita dopo la dichiarazione di inagibilità del Palagiustizia di via Nazariantz. “Al Senato è stato approvato il dl Bari grazie al quale abbiamo smantellato la tendopoli. Continuiamo a lavorare per dare a Bari una sede sicura per gli uffici giudiziari”. Lo ha scritto su twitter il ministro Bonafede dopo il via libera definitivo al provvedimento. La sospensione dei processi non opera però per le udienze di convalida degli arresti o dei fermi, per i giudizi per direttissima, per la convalida dei sequestri, nei processi con imputati detenuti e in presenza di profili di urgenza valutati dal giudice nei processi penali con imputati sottoposti ad altra misura cautelare. “Con l’approvazione definitiva del decreto legge sul tribunale di Bari follia è fatta ha detto il deputato Francesco Paolo Sisto, coordinatore di Forza Italia per Bari e provincia - l’urgenza del provvedimento è inesistente, perché la situazione che si è venuta a creare ovvero l’inagibilità della sede del Palagiustizia era ampiamente prevedibile, la sospensione della prescrizione è incostituzionale”. Il vicepresidente del Gruppo Pd al Senato parla di un “comportamento ambiguo e tartufesco da parte della maggioranza di governo” aggiungendo che “Bonafede ordina il trasferimento del Tribunale in una sede che viene affittata al triplo del prezzo di mercato”. La giustizia penale di Bari si prepara intanto al trasloco. Il tribunale di via Nazariantz dovrà essere sgomberato entro il 31 agosto. Ieri il Tar Puglia ha respinto il ricorso presentato dall’Inail, ente proprietario dell’edificio di via Nazariantz, contro l’ordinanza di sgombero del Comune. “Nel bilanciamento dei contrapposti interessi - scrive il Tar - è prevalente l’interesse alla esecuzione della gravata ordinanza alla luce dell’urgenza di provvedere e della circostanza che è già in atto l’ottemperanza da parte di tutte le amministrazioni interessate”. Roma: Regina Coeli senz’acqua, la Garante dei detenuti denuncia “struttura obsoleta” di Giacomo Di Stefano radiocolonna.it, 27 luglio 2018 Gabriella Stramaccioni spiega i problemi di una struttura che non è nata per ospitare un penitenziario. Martedì mattina il carcere romano di Regina Coeli ha vissuto momenti difficili a causa dell’assenza d’acqua. Per alcune ore - in una giornata particolarmente afosa - la rottura di un tubo ha privato della fornitura idrica gli oltre 900 detenuti del celebre carcere di Via della Lungara. Ben oltre il limite dei posti regolamentari - 600 circa - per un sovraffollamento che si conferma una delle piaghe più gravi del nostro sistema penitenziario. Una violazione che ha portato la Corte Europea dei Diritti Umani a condannare l’Italia per violazione dell’art. 3 della Cedu. Ma quello dell’acqua non è l’unico problema di Regina Coeli. E se il sindacato di Polizia Penitenziaria Sappe denuncia l’aggressione alla Lungara ai danni di un’agente a inizio mese, la Garante dei Detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni spiega a Radiocolonna che i problemi del carcere sono anche altri. “Il problema idrico dell’altro giorno ha riguardato l’intera zona ed è stato risolto dopo qualche ora - spiega Stramaccioni a RC - il problema di Regina Coeli è un altro: è una struttura vecchia”. La garante dei detenuti sottolinea come lo storico complesso di Roma abbia problematiche anche legate al fatto che non è nato come penitenziario. Regina Coeli - come intuibile dal nome dedicato a Maria - è nato nel 1600 come convento di religiose carmelitane per poi diventare carcere a fine ‘800 dopo la nascita del Regno d’Italia. “Quello che stiamo facendo è cercare di rafforzare la racconta differenziata - prosegue la Garante - visto che dalle cucina arriva molta immondizia e raccoglierla in maniera ordinata può risolvere alcuni problemi che riguardano l’igiene”. Recentemente a Regina Coeli è stata aperta una sala che può ospitare i detenuti durante la socialità che è andata a sostituire uno spazio che non riusciva a contenere tutte le persone. Ma i detenuti del carcere romano dovranno vivere almeno un altro mese con il caldo torrido che aggrava ulteriormente il sovraffollamento. Roma: sgombero del “Camping River”, almeno 100 rom senza un tetto di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 luglio 2018 Al “Camping River” vivevano, sin dal 2005, circa 300 rom. “Vivevano”, poiché quest’oggi è stato eseguito il loro sgombero forzato. Non solo sono state demolite le abitazioni di decine di famiglie e lasciate senza tetto almeno 100 persone, compresi bambini in tenera età. L’Italia ha anche aggirato gli obblighi assunti nei confronti del diritto internazionale e delle norme europee, eseguendo l’ennesimo sgombero forzato e persino ignorando la decisione della Corte europea dei diritti umani che aveva provvisoriamente accolto un ricorso promosso dall’Associazione 21 luglio a nome di tre residenti disponendo la sospensione dello sgombero almeno fino a domani, 27 luglio. A cose fatte, la Corte europea avrebbe dato un ok, essendo i tre ricorrenti stati accolti in una struttura della Croce rossa. Il ministro dell’Interno Salvini ha espresso soddisfazione per quello che ha definito un passo avanti verso “legalità, ordine e rispetto”. In realtà si è trattato del contrario: dell’ennesimo assalto delle autorità italiane nei confronti dei rom. Dal 2012 la Commissione europea ha sotto gli occhi numerosi esempi di violazione della direttiva anti-discriminazione da parte dell’Italia contro le comunità rom nel campo dell’alloggio, tra cui sgomberi forzati a centinaia e la costruzione di campi etnicamente segregati (ossia per soli rom). L’apertura di una procedura d’infrazione diventa veramente urgente e non più rinviabile. Matera: Radicali in visita al carcere “personale sottodimensionato e celle sovraffollate” materalife.it, 27 luglio 2018 Una cosa è certa: quello di Matera è un carcere sovraffollato, con personale carcerario ed educativo sottodimensionato. Queste sono alcune brevi considerazioni esternate dal segretario regionale dei radicali, Maurizio Bolognetti, in visita presso la casa circondariale di Matera. In una struttura che può contenere 130 detenuti, ne sono stipati più di 170. L’auspicio dell’esponente radicale è che Matera Capitale Europea della Cultura 2019, lo sia anche per i diritti. “Abbiamo portato la nostra vicinanza alla comunità penitenziaria, a chi è ristretto e a chi ci lavora” - ha detto Bolognetti. Personale che lavora all’interno del carcere in situazione di emergenza. “C’è carenza per gli organici della polizia penitenziaria a fronte di 131, ce ne sono 98 in servizio, che si sobbarcano il lavoro degli altri”- ha spiegato il numero uno dei radicali lucani, che insiste sulla necessità di impegnare i reclusi in attività lavorative, di formazione e di istruzione. Da questo punto di vista, sembra che nella struttura carceraria di Matera ci sia nell’aria la volontà di realizzare un progetto per iniziare un’attività produttiva. Infatti, dalla direzione del carcere, il dottor Michele Ferrandina ha fatto sapere, “che a Matera sta per partire una iniziativa importante come un biscottificio -panificio, così “chi vorrà potrà imparare un mestiere”. E questa per i detenuti sarebbe una opportunità imperdibile. Anche perché, a giudicare dai dati provenienti dalle altre strutture carcerarie italiane, che hanno già realizzato attività lavorative, “chi lavora non ci ricasca”. I diritti, soprattutto di coloro che spesso, avendo sbagliato, rimangono indietro nella società, restano una priorità per gli esponenti radicali. Concetto ribadito da Bolognetti. “Noi ci occupiamo di questo; stato di diritto, democrazia, regole da rispettare, di diritti umani ed è per questo che siamo venuti qui. È un invito a riflettere. Siamo qui, a Matera capitale europea della cultura 2019, affinché, ed è un auspicio, che sia anche capitale europea della cultura dei diritti. Che parta da qui un messaggio per un obiettivo che coinvolga l’intera Europa”. Torino: bar del tribunale, firmato l’accordo per la riapertura, ci lavoreranno i detenuti torinoggi.it, 27 luglio 2018 La concessione ha una durata di 6 anni e potrà essere rinnovata. Inaugurazione a fine settembre. Riaprirà a fine settembre il bar del tribunale di Torino, chiuso da due anni dopo l’ennesima vicenda giudiziaria che oltre un anno fa ha portato all’arresto di sette persone, accusate di irregolarità nella gara d’appalto. A gestire i locali saranno detenuti ed ex detenuti, in un ampio progetto di reinserimento lavorativo. Nei giorni scorsi il Comune di Torino e il raggruppamento temporaneo di imprese costituito tra “Liberamensa” e “Consorzio sociale Abele Lavoro” hanno firmato il contratto di concessione, che ha una durata di 6 anni (rinnovabili) a decorrere dal 23 luglio 2018. “Realizzare in questo luogo un servizio di reinserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti - aveva detto lo scorso ottobre la sindaca Chiara Appendino, a margine della firma del protocollo d’intesa tra Comune, Corte d’appello e Procura generale - è una sfida importante e ha un forte valore simbolico”. Gli ultimi guai giudiziari del tormentato bar risalgono all’aprile 2017, quando erano finite in manette sette persone, fra cui l’amministratore unico e due amministratori occulti dell’azienda che si era aggiudicata la gara d’appalto (la Service Companies srl), un dipendente comunale responsabile della gara, un commercialista di Modena e due intermediari, accusati, a vario titolo, di corruzione, turbativa d’asta e truffa aggravata ai danni del Comune. Cremona: la Caritas dona 10 congelatori al carcere Cremona Oggi, 27 luglio 2018 Per alleviare almeno in parte i disagi estivi della popolazione carceraria della Casa Circondariale di Cremona, la Caritas Cremonese, a nome di tutta la comunità diocesana, ha donato all’Istituto dieci capienti congelatori a pozzetto, da destinare a tutte le sezioni detentive. In questo modo i detenuti potranno usufruire di acqua fresca e conservare i prodotti alimentari che possono acquistare e che altrimenti sarebbero destinati ad un rapido deperimento. “Siamo contenti - spiega don Antonio Pezzetti, direttore della Caritas cremonese al sito diocesano - di essere riusciti ad accogliere la richiesta che ci ha fatto la direttrice del carcere, Maria Gabriella Lusi, sempre molto impegnata nel cercare di migliorare le condizioni di vita delle persone detenute”. E aggiunge: “Già in passato avevamo fornito alcuni congelatori, che però con il tempo e l’uso si sono guastati, senza contare che a Cremona la popolazione detenuta è aumentata, con le relative esigenze”. Dalla Diocesi sottolineano che resta un piccolo segno, sicuramente insufficiente, ma che rappresenta un altro passo nella maturazione di una sempre crescente attenzione verso le persone che scontano una pena in carcere. “Su questo - afferma ancora don Pezzetti - molto lavoro resta da fare, e anche come Caritas dovremo trovare nuove strade, come ci chiede anche il nostro Vescovo, per riuscire a coinvolgere in modo attivo e partecipe le comunità parrocchiali su questo tema. Mons. Napolioni ha compiuto la scelta, forte e profetica, di coinvolgere a pieno titolo il mondo penitenziario nel Sinodo dei Giovani, e prima di ogni sessione si è recato in carcere per incontrare e ascoltare i detenuti. Sarebbe bello che ognuno, come può, potesse seguire il suo esempio. Viceversa registriamo una grande fatica da parte di tanti cristiani a farsi prossimo di persone che Gesù stesso ci ha chiesto di visitare”. “È triste quando, e non è raro - conclude il direttore di Caritas Cremonese - qualcuno viene in Caritas per lasciare un’offerta e chiede chi può essere il destinatario più bisognoso e di fronte alla proposta del carcere risponde: “No! A tutti, ma a loro proprio no”. Come detto c’è molto lavoro da fare a livello educativo e informativo su una realtà che troppi giudicano sull’onda di pregiudizi semplicemente non corrispondenti a quanto si vive oggi negli istituti di pena”. Risalto internazionale per la quinta giornata nazionale del Teatro in Carcere teatroaenigma.it, 27 luglio 2018 Promossa dal Teatro Aenigma e dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere L’Iti International Theatre Institute, organismo internazionale presso l’Unesco, che quest’anno celebra 70 anni di attività nella promozione del teatro in tutto il mondo, ha riportato sulla home page del suo sito istituzionale la notizia che era apparsa il 20 giugno 2018 sull’Agenzia di Stampa Nazionale Redattore Sociale a firma di Teresa Valiani e rilanciata da Teatro Aenigma sul suo sito www.teatroaenigma.it. L’iniziativa promossa in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia, ha visto il coinvolgimento di ben 16 Regioni italiane, con 102 eventi promossi fuori e dentro il carcere, in 56 istituti penitenziari, 2 Rems, includendo la partecipazione di 58 altri enti tra università, istituzioni scolastiche, Uffici di esecuzione penale esterna, teatri, enti locali e consentendo l’adesione di migliaia di cittadini impegnati in attività mirate a favorire il reinserimento sociale delle persone recluse attraverso iniziative che producono un sensibile abbassamento del rischio di recidiva. L’evento è seguito e condiviso sin dalla sua prima edizione anche dalla Associazione Nazionale dei Critici di Teatro e dalla Rivista europea Catarsi-Teatri delle diversità. L’articolo è stato tradotto in inglese per una vasta diffusione nei cinque continenti, a significare l’interesse che gli operatori teatrali e gli organismi internazionali volgono all’attività del Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere Italiano e del Teatro Aenigma (organismi riconosciuti anche per il triennio 2018-2020 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con il Progetto “Destini Incrociati”) e che vede tra i suoi più attivi riferimenti e convinti sostenitori il regista Vito Minoia, studioso di Teatro Educativo all’Università di Urbino. “Pacchetto sicurezza”. Salvini alla carica dei migranti di Adriana Pollice Il Manifesto, 27 luglio 2018 Il Viminale modifica anche l’assistenza ai richiedenti asilo. Reagiscono le associazioni. “Spero di presentare in breve tempo un pacchetto sicurezza con una normativa più efficace sull’immigrazione” ha spiegato ieri il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, durante il Question time. La norma conterrà “l’estensione del numero di reati che prevedono la sospensione della domanda di asilo”. Il leader leghista fa ossessivamente l’accostamento tra migranti ed emergenza, eppure è il primo a spiegare: “Dal primo giugno sono sbarcate 4.500 persone, contro le 34mila dell’anno scorso”. Due i punti fermi nella politica del Viminale: respingimento in mare attraverso la Marina libica, sottrazione di fondi all’accoglienza da impiegare per i ricollocamenti. Così, ieri, ha aggiunto: “Serve un forte impulso ai Centri di permanenza per il rimpatrio. Attualmente solo 6 sono attivi, per 880 posti. Entro l’anno saranno aperti nuovi centri per ulteriori 400 posti. Per il 2019 altri siti arriveranno nelle regioni che ne sono prive”. Salvini preme sull’acceleratore ma la Cassazione frena, ieri la Sesta sezione civile ha decretato: “Il richiedente asilo ha diritto a rimanere nel territorio nazionale in pendenza dell’esame di tale sua richiesta. Non fa eccezione nel caso in cui questa istanza sia stata presentata dopo l’emissione di provvedimento di espulsione”. In nome della “razionalizzazione della spesa”, il Viminale lunedì scorso ha emanato una direttiva che modifica le modalità di assistenza per i richiedenti asilo. I servizi di prima accoglienza verranno assicurati a tutti, mentre gli interventi per favorire l’inclusione sociale saranno riservati solo ai beneficiari di forme di protezione. Stando al Def 2017, l’Italia spende ogni anno per i migranti circa 4,7 miliardi: poco più di 3,5 miliardi va all’accoglienza, il resto finisce in rimpatri assistiti e sicurezza. L’intenzione del ministero è tagliare i costi della prima voce: dagli attuali 35 euro per migrante si passerà a 25. Il risparmio, circa 500 milioni l’anno, verrebbe spostato su rimpatri e sicurezza. Salvini ha più volte ripetuto che l’Italia è il paese con la spesa maggiore per migrante ma i dati sono differenti: il Belgio, ad esempio, destina 51,14 euro al giorno, perfino la Slovacchia (del gruppo di Visegrad) ne impegna 40. Meno di noi spendono Francia (24 euro), Polonia, Austria. La direttiva arriva dopo la circolare inviata il 5 luglio ai prefetti e alle commissioni territoriali, in cui il ministro dell’Interno ha chiesto una stretta all’accoglienza. “Su 43mila domande - ha spiegato Salvini - i rifugiati sono il 7%, la protezione sussidiaria raggiunge il 15. Poi abbiamo la protezione umanitaria che, sulla carta, è riservata a limitati casi ma rappresenta il 28% che poi arriva al 40 con i ricorsi. E spesso diventa la legittimazione dell’immigrazione clandestina”. Le proteste contro il Viminale sono cominciate il 5 e proseguite ieri. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione aveva sottolineato: “Il ministero non ha voce in capitolo sul merito delle domande”. Mercoledì Medici senza frontiere è intervenuta sulla direttiva: “Avrà l’effetto di inasprire le condizioni dei richiedenti asilo, aggravarne i disagi e ostacolare l’individuazione di persone vulnerabili”. Ieri il prefetto Mario Morcone, direttore del Centro italiano rifugiati, ha sottolineato: “Il taglio dei costi peggiorerà la situazione per migranti e italiani. Il migrante rischia di restare per due anni nei centri isolato, senza fare nulla, con un senso di rabbia ed emarginazione mentre, d’altro canto, farà crescere l’insicurezza negli italiani, che li vedono starsene inattivi. Tutto questo costerà molto di più alla collettività”. Il centro Astalli aggiunge: “Corsi di italiano, accompagnamento socio-legale, formazione portano i rifugiati all’autonomia, in modo da uscire rapidamente dal sistema di accoglienza”. È ancora l’Asgi a sottolineare: “Quella di Salvini non è una direttiva, sono opinioni politiche. Secondo le norme, i richiedenti asilo dovrebbero essere trasferiti nel più breve tempo possibile nel sistema di protezione, che prevede corsi di lingua e formazione professionale”. Le associazioni Cild, Action Aid, Indie Watch, Asgi, Cledu e Arci chiedono che vengano riviste le procedure operative degli hotspot per assicurare, in particolare, il diritto di asilo e la tutela dai respingimenti collettivi. “L’approccio hotspot - spiegano - ha prodotto una crisi generalizzata del diritto d’asilo in Europa, configurando anche forme illegittime di trattenimento”. Migranti. Il voto “bulgaro” sulle motovedette alla Libia di Umberto De Giovannangeli huffingtonpost.it, 27 luglio 2018 Il Senato approva con un plebiscito la cessione di 12 motovedette alla Guardia costiera libica. In barba al “popolo della magliette rosse”. Quel voto ha rafforzato la convinzione, amara, di essere soli contro (pressoché) tutti. Contro il “ministro della deportazione” e dei porti sbarrati, al secolo Matteo Salvini, certo, ma questo ormai era chiaro da tempo. Ma ciò che nel mondo delle Ong ha creato sconcerto, delusione, rabbia, è il voto, “silenziato” dalla quasi totalità dei media nazionali, con il quale ieri il Senato ha approvato il disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 84, relativo alla cessione di unità navali italiane a supporto della Guardia costiera libica. Un voto “bulgaro”, si sarebbe detto in altri tempi: 266 favorevoli, 4 contrari (tre senatori di LeU ed Emma Bonino di +Europa) e un astenuto. Un voto plebiscitario, nonostante le denunce sul comportamento della Guardia costiera libica in mare nelle operazioni di salvataggio dei migranti che si avventurano sulla rotta mediterranea. Testimonianze dirette, comprensive di filmati, che raccontano comportamenti che si configurano come atti criminali: rapporti dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr, il cui direttore è un italiano, Filippo Grandi), dossier di Amnesty International e di Human Rights Watch che inchiodano la Guardia costiera libica e le autorità di Tripoli a pesantissime responsabilità nel trattamento dei migranti sia in mare che nei centri di detenzione. Fermatevi, era l’appello al Parlamento che proveniva dal mondo del volontariato, laico, cattolico, comunque umano. Fermatevi e prima di sostenere con mezzi e denaro quella Guardia costiera, vincolate almeno questo sostegno ad un codice di comportamento che risponda ai dettami del Diritto del mare e al rispetto dei diritti della persona. Quel voto ha inferto un colpo pesantissimo a queste aspettative. E allora, davvero soli contro tutti. Nel denunciare che tutto sono meno che sicuri i porti libici. Nel riaffermare che prima di ogni altra cosa c’è il diritto-dovere a salvare vite umane in un Mediterraneo sempre più “Mare mortum”. L’appello in proposito lanciato da Medici Senza Frontiere è eloquente: “Chiediamo di porre fine alla detenzione arbitraria di rifugiati, richiedenti asilo e migranti in Libia dopo il drammatico aumento del numero di persone intercettate nel Mediterraneo dalla Guardia Costiera libica, supportata dall’Unione Europea”. Solo quest’anno, secondo le organizzazioni delle Nazioni Unite, almeno 11.800 persone che tentavano di attraversare il Mediterraneo su precari barconi inadatti al mare sono state riportate indietro, con intercettazioni quasi quotidiane nelle acque internazionali tra Italia, Malta e Libia. Una volta sbarcate, le persone vengono trasferite in centri di detenzione non regolamentati lungo la costa. “Persone appena scampate a situazioni di vita o di morte in mare non dovrebbero essere trasferite in un pericoloso sistema di detenzione arbitraria” rimarca Karline Kleijer, responsabile delle emergenze per MSF. Molti di loro hanno già sofferto terribili livelli di violenza e sfruttamento in Libia e durante gli estenuanti viaggi dai loro Paesi d’origine. Ci sono vittime di violenza sessuale, di traffico, torture e maltrattamenti. Tra i vulnerabili ci sono bambini, a volta senza un genitore o un accompagnatore, donne incinte o in fase di allattamento, anziani, persone con disabilità mentali o in gravi condizioni mediche. Senza un sistema di registrazione formale, una volta che una persona è all’interno di un centro di detenzione non c’è modo di sapere cosa le accade. I detenuti non hanno la possibilità di questionare la legalità della loro detenzione o dei trattamenti che subiscono. Come conseguenza dell’aumento delle intercettazioni in mare, le équipe di MSF a Misurata, Khoms e Tripoli riscontrano un netto aumento nel numero di rifugiati, migranti e richiedenti asilo bloccati nei centri di detenzione già sovraffollati. Recentemente, MSF ha fornito assistenza medica in un solo giorno a 319 persone intercettate in mare e portate in un centro di detenzione a Tripoli, la maggior parte delle quali era stata detenuta dai trafficanti per diversi mesi prima di tentare la traversata del Mediterraneo. Intorno a Misurata e Khoms, MSF fornisce cure a persone con ustioni di secondo grado, scabbia, infezioni respiratorie e disidratazione. In un’occasione, persone intercettate in mare sono state portate al centro di detenzione senza vestiti, perché avevano perso tutto in mare. A Khoms ci sono oltre 300 persone, tra cui bambini molto piccoli, rinchiuse in un centro di detenzione sovraffollato. Il caldo è asfissiante, non c’è areazione e l’accesso ad acqua potabile pulita è scarso - denuncia Anne Bury, vice coordinatore medico di MSF in Libia - La situazione nei centri di detenzione è insostenibile, il clima è molto teso, le persone sono esposte ad abusi di ogni sorta. Le persone sono disperate, vediamo ferite e fratture. Alcune tentano di fuggire, altre fanno lo sciopero della fame.” Questa situazione è il risultato del tentativo dei governi europei di impedire a qualunque costo a rifugiati, migranti e richiedenti asilo di raggiungere l’Europa. Elemento centrale di questa strategia è equipaggiare, formare e supportare la Guardia costiera libica perché intercetti le persone in mare e le riporti in Libia. Navi non libiche non possono infatti riportare legalmente i migranti in Libia, perché il paese non è riconosciuto un posto sicuro. Ma le persone soccorse in acque internazionali nel Mediterraneo non devono essere riportate in Libia: devono essere portate in un porto sicuro, come prescritto dal diritto internazionale e marittimo: “La Libia non può essere considerata una soluzione accettabile per prevenire gli arrivi in Europa - insiste Kleijer - Rifugiati, richiedenti asilo e migranti intercettati in mare non devono essere riportati in Libia e non devono essere detenuti nel Paese su basi arbitrarie e in condizioni disumane”. Magari in hotspot europei: “Quelli che l’Unione Europea chiama centri controllati potrebbero diventare in realtà veri e propri campi di detenzione”, avverte Paolo Pezzati, policy advisor per la crisi migratoria di Oxfam Italia. “Invece di ideare nuovi campi - aggiunge - i governi europei dovrebbero lavorare per una vera riforma del sistema di asilo, in modo che sia basato sulla condivisione delle responsabilità tra tutti gli Stati membri, mettendo al primo posto la sicurezza e la tutela dei diritti di chi fugge da guerra, persecuzioni e carestie”. Altro fronte caldo è la “direttiva Salvini sull’accoglienza”. Ed anche qui è allarme rosso per il fronte della solidarietà e dell’inclusione: “Sto lavorando a un Decreto Sicurezza che permetterà anche di bloccare domanda di asilo a chi commette reati, perché oggi la legge, eccetto che in alcuni casi, consente a delinquenti stranieri di continuare a chiedere e ricevere protezione a spese degli italiani. #tolleranzazero”, twitta il vice premier leghista. Ma per Mario Morcone, direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati e fino a pochi mesi fa a capo di gabinetto del ministero dell’Interno, non c’è “assolutamente l’esigenza di un Decreto Sicurezza”. Intervistato a Vita, Morcone ricorda come “la situazione italiana è assai più tranquilla di quella di larga parte degli altri Paesi europei. Compresi Francia e Regno Unito. Anche alla luce dei risultati dell’ultimo anno, che ha visto ridursi notevolmente gli sbarchi senza chiudere i porti, ma anche decine di migliaia di persone in meno in accoglienza da noi. Sul tema dell’asilo negato a chi commette reati naturalmente si tratta di vedere di che reati si parla. Io capisco che è da tempo che si cerca di spingere sul tema dell’insicurezza e sui reati commessi da stranieri. Questo però non ha nulla a che vedere con il tema dell’immigrazione né tantomeno con i profughi. Mi è chiaro il fine di Salvini ma non lo condivido”. “Salvini sceglie di voltare le spalle agli impegni presi precedentemente dal ministero che rappresenta, mettendo in campo provvedimenti a favore dei centri collettivi - denuncia l’Arci - Ghetti che, per le somme ingenti delle gare d’appalto, fanno gola a tanti soggetti che nulla hanno a che vedere con l’accoglienza e la tutela dei richiedenti asilo, né tantomeno con gli interessi delle comunità locali”. E sulla stessa lunghezza d’onda critica sono le prese di posizione di MSF, della Caritas, di Oxfam, del Centro Astalli, branca italiana del servizio internazionale dei gesuiti per i rifugiati, per il quale “bisogna lavorare per l’integrazione sin dal primo giorno. Corsi d’italiano, accompagnamento socio-legale, formazione lavoro sono misure indispensabili per garantire un’inclusione sociale che porti i rifugiati a godere di una reale autonomia, e a uscire nel minor tempo possibile dal sistema pubblico di accoglienza”. È il popolo delle “magliette rosse” che torna in campo. C’è qualcuno nel Parlamento pronto ad ascoltarlo? Richiedenti asilo, l’allarme delle associazioni: “il taglio dei costi creerà più tensioni” di Caterina Pasolini La Repubblica, 27 luglio 2018 Critiche alla direttiva Salvini sull’accoglienza (servizi per l’integrazione solo a chi ha ottenuto lo status). Il prefetto Morcone, ex capo di gabinetto del Viminale: “Aumenteranno i conflitti”. L’Arci: no a nuovi ghetti che fanno gola a chi guadagna sulla pelle dei profughi. “Il taglio dei costi peggiorerà la situazione per tutti: migranti e italiani, aumenterà isolamento, tensioni e conflitti”. Mario Morcone, direttore del Cir-Consiglio italiano per i rifugiati - e fino a pochi mesi fa a capo di gabinetto del ministero dell’Interno, pesa le parole. Lui conosce bene la macchina delle politiche migratorie ed è preoccupato per il nuovo piano di razionalizzazione delle spese di accoglienza contenuto nella direttiva firmata dal neo ministro Salvini. Come preoccupate sono le associazioni, dall’Arci a Medici senza frontiere, dalla Caritas al Centro Astalli, branca italiana del servizio internazionale dei gesuiti per i rifugiati. Integrazione solo a chi ottiene asilo - La direttiva di Salvini diramata nei giorni scorsi con l’obiettivo dichiarato di tagliare la spesa e razionalizzare i servizi, individua due livelli ben distinti di prestazioni: a tutti i richiedenti asilo, si legge, verranno forniti d’ora in poi solo i servizi di prima assistenza (vitto, alloggio e assistenza sanitaria). Mentre gli interventi che mirano a favorire l’inclusione, dall’insegnamento della lingua italiana alla tutela psicologica alla formazione professionale, verranno dati solo a chi avrà ottenuto lo status di rifugiato o comunque una forma di protezione: il che, dati i tempi di attesa per l’esame delle domande, accade in media dopo due anni dall’arrivo in Italia. Il tutto, secondo il titolare del Viminale, nel rispetto delle norme italiane e internazionali e continuando a tutelare le categorie più a rischio. Ma chi lavora sul campo non è dello stesso avviso. Morcone: il rischio di una bomba sociale - “Questo - sottolinea Morcone - significa che il migrante rischia di restare per due anni nei centri isolato, senza fare nulla, con un effetto negativo, un senso di frustrazione, rabbia, emarginazione. Mentre dall’altro canto tutto questo farà crescere l’insicurezza negli italiani che li vedono starsene inattivi. Tutto questo alla fine ben lungi dal produrre un risparmio costerà molto di più alla collettività”. I gesuiti: lavorare per l’integrazione dal primo giorno - A dare ragione a Morcone anche il Centro Astalli: “La nostra esperienza ci dice l’opposto: bisogna lavorare per l’integrazione sin dal primo giorno. Corsi d’italiano, accompagnamento socio-legale, formazione lavoro sono misure indispensabili per garantire un’inclusione sociale che porti i rifugiati a godere di una reale autonomia, e a uscire nel minor tempo possibile dal sistema pubblico di accoglienza”. Arci: Salvini punta a creare nuovi ghetti - Ancora più dura la posizione dell’Arci che critica la scelta, contenuta nella direttiva, di prediligere - sempre allo scopo di tagliare i costi - un modello basato sui grandi centri piuttosto che sull’accoglienza diffusa: “Salvini sceglie di voltare le spalle agli impegni presi precedentemente dal ministero che rappresenta, mettendo in campo provvedimenti a favore dei centri collettivi. Ghetti che, per le somme ingenti delle gare d’appalto, fanno gola a tanti soggetti che nulla hanno a che vedere con l’accoglienza e la tutela dei richiedenti asilo, né tantomeno con gli interessi delle comunità locali”. Asgi: per cambiare il sistema serve una legge - Ma le parole definitive arrivano da Gianfranco Schiavone dell’Asgi-Associazione studi giuridici sull’Immigrazione. “Quella di Salvini non è una direttiva, sono opinioni politiche. Anche perché la legge, la norma 142 del 2015 che accoglie la direttiva europea del 2013 in materia di accoglienza, dice cose ben diverse. E quindi se vogliono portino la norma in Parlamento e la cambino, altrimenti sono solo parole”. Il punto focale, sottolinea Schiavone, è che la legge prevede un unico sistema di accoglienza, al massimo parla di un secondo livello. “Secondo la norma attuale, i richiedenti asilo dovrebbero essere trasferiti nel più breve tempo possibile nei centri che fanno capo allo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), che si articola in piccole strutture ben integrate sul territorio e prevede una serie di servizi per gli ospiti, dai corsi di lingua alla formazione professionale”. Sistema cofinanziato dallo Stato e affidato alla gestione dei Comuni che però, al momento, ha solo il 20% dei posti rispetto alle reali necessità. Così, spiega il giurista, “le persone restano nei Cas (centri di accoglienza straordinaria), che dovrebbero essere luoghi per l’emergenza e basta, per mesi e mesi. Secondo la legge - vista la situazione - è il sistema dei Cas che dovrebbe cambiare, aumentando lo standard dei servizi con corsi e formazione. L’opposto di quello che scrive Salvini, che evidentemente non bada alla legge attuale”. La cultura dei diritti umani come antidoto al perseverare nell’errore camerepenali.it, 27 luglio 2018 Lettera aperta al Ministro dell’Interno. “On.le Matteo Salvini. Egr. Signor Ministro, apprendiamo come questa mattina sia iniziato lo sgombero dell’insediamento di Camping River a Roma, nel quale alloggiano più di un centinaio di persone di etnia Rom, nonostante la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo avesse sospeso fino a domani, 27 luglio, le operazioni, invitando, al contempo, il Governo italiano ad indicare le misure alloggiative previste per le tre persone in particolari situazioni di vulnerabilità che hanno richiesto la misura urgente secondo l’art. 39 del Regolamento della Corte, la data prevista per lo sgombero esecutivo e qualsiasi ulteriore sviluppo significativo del medesimo. Attraverso i suoi canali social, se martedì scorso aveva commentato il provvedimento dei Giudici di Strasburgo: “Ci mancava il buonismo della Corte Europea per i Diritti dei Rom”, oggi plaude ad un presunto ripristino della legalità. Tali affermazioni - che seguono a meno di un mese quella, già stigmatizzata dall’Unione delle Camere Penali Italiane, con cui auspicava la chiusura della Corte di Strasburgo dopo la sentenza della Grande Camera nel caso Giem Srl ed altri c. Italia, in tema di confisca urbanistica senza condanna - evidenziano alcuni pregiudizi che stridono in modo assordante con i principi dello stato di diritto, oltre che con la realtà delle cose. In primo luogo, quello dell’insofferenza verso le decisioni dei Giudici di Strasburgo a Lei non gradite, attraverso la reiterata delegittimazione della Corte e della sua attività associata al trito refrain del “buonismo”: il che evidenzia, una volta di più, come ignori che lo scopo della Corte è quello di intervenire in via sussidiaria rispetto alle giurisdizioni interne per garantire il livello minimo di tutela dei diritti fondamentali. Ciò che, tuttavia, appare più preoccupante, per la discriminazione che adombra, è la sostituzione del sostantivo “Uomo” con “Rom” nell’irridente ridenominazione della Corte dei Diritti, quasi che il primo non comprendesse gli appartenenti all’etnia evocata dal secondo. Riteniamo opportuno ricordarle che, proprio a causa degli stereotipi ancor oggi alimentati grazie anche ad un uso irresponsabile dei social media ed, in particolar modo della propagazione del discorso d’odio, i Rom furono vittime di un genocidio di vastissime proporzioni durante il secondo conflitto mondiale. Il Consiglio d’Europa, cui afferisce la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, è nato proprio perché certi orrori non abbiano mai più a ripetersi. Ecco, allora, che, messi da parte gli slogan e rivolgendo, finalmente, l’attenzione ai diritti umani universali, che, come tali, spettano a tutti, indistintamente, sarà bene tenere in considerazione il fatto che la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo può indicare misure “ad interim” in casi di emergenze, in modo da scongiurare un rischio imminente di danno irreparabile. Tali provvedimenti, non certo frequenti, possono trovare luogo solo con riferimento ad un numero limitato di situazioni quali il pericolo di vita, di tortura o trattamenti inumani e degradanti e, in casi del tutto eccezionali, per ipotesi relative al rispetto della vita privata e famigliare. Di qui, l’importanza che il Governo italiano, del quale Lei è parte integrante, si attivi immediatamente, come ingiunto dalla Corte, per tutelare in maniera effettiva i diritti dei tre richiedenti conculcati dall’ordinanza sindacale e dall’impossibilità di adire la giurisdizione interna in ragione del brevissimo tempo loro concesso, appena 48 ore, dalla notifica alla successiva esecuzione: solo allora potrà parlarsi sensatamente di ripristino della legalità, che, viceversa, resterebbe tradita nel caso in cui lo sgombero sia avvenuto senza rispettare la sospensione disposta dalla Corte di Strasburgo la quale, pare opportuno ricordarlo, a seguito delle informazioni ricevute potrebbe anche negare la richiesta misura provvisoria. Consapevoli, tuttavia, del fatto che la materia della tutela dei diritti fondamentali presenta un livello di tecnicismo con il quale, allo stato, non dimostra la dimestichezza che l’incarico che ricopre richiederebbe, restiamo a Sua disposizione per occasioni di confronto e di approfondimento, continuando, nel contempo, a svolgere con passione ed impegno il nostro ruolo di garanti dell’effettività dei diritti di tutti in Italia ed avanti le Corti Europee. La Giunta dell’Ucpi La Commissione per i rapporti con l’Avvocatura e le Istituzioni Internazionali Nel dibattito tra sovranisti e “buonisti”, manca la voce dei migranti di Marco Palillo Il Dubbio, 27 luglio 2018 L’antropologo francese Michel Agier nel suo libro “La condition cosmopolite: L’anthropologie à l’épreuve du piège identitaire” propone una bellissima riflessione sulle terre di frontiera nel contesto dei fenomeni migratori attuali. Seconda Agier questa sete di muri, recinzioni, che emerge trasversalmente nel cuore dell’Occidente, in un epoca in cui i confini nazionali vengono messi in discussione dal fenomeno della globalizzazione, mira ad annullare il ruolo sociale e simbolico del “confine”, come luogo fondamentale in cui si costruisce il rapporto del Sé con l’Altro. Qualsiasi identità senza questa relazione semplicemente non esiste. Oggi questa funzione è messa seriamente in discussione. Innanzitutto, dall’ondata delle nuove destre che pensa di annullare l’Altro scacciandolo al di là di “muri”, siano essi fisici- come le recinzioni a filo- spinato che segnano il confine del Messico - o simbolici - come quel cimitero a mare aperto che è diventato il canale di Sicilia; in ogni caso, il “muro” rappresenta la condizione di inferiorità in cui, secondo questa visione, si concepisce, e soprattutto si vuole mantenere, l’Altro. In secondo luogo, la relazione fra identità e alterità è messa in discussione a sinistra dall’esasperazione delle identity politics, divenute ormai sempre più recinti tribali in cui il rapporto con l’Altro è inteso sempre e solo come conflitto, o al limite come alleanza politica, strategica e contingente. Il gioco identitario, così, diventa molto pericoloso perché carica la lotta politica di significati laceranti. In questo modo, si nega qualsiasi relazione paritaria con l’Altro, chiunque esso sia, presupposto necessario per la comprensione che l’Altro non esiste e che gli Altri siamo noi. Soprattutto, venuto meno questo riconoscimento simbolico, l’Altro non può emergere come soggetto autonomo, rimanendo imprigionato nella dimensione dell’oggetto da utilizzare strumentalmente. Sui giornali Italiani, infatti, a parlare della crisi migratoria, ci sono Salvini e Saviano, i “sovranisti” e i “buonisti”; manca però il soggetto fondamentale: i rifugiati e migranti. Le poche interviste concesse ripercorrono lo stesso copione; al soggetto migrante è permesso raccontarsi esclusivamente in relazione alla propria esperienza - meglio se traumatica - del viaggio. La sua vita diviene rilevante soltanto quando, come scrive lo studioso Luca Mavelli in un articolo per il Review of International Studies, è funzionale alla vita emozionale della popolazione ospitante provocando sentimenti come pietà, compassione, altruismo. Guardando al dibattito italiano, dopo essere messi in salvo sulle navi della guardia costiera, spente le telecamere, queste persone non hanno più nulla da raccontare e diventano invisibili. Perché, per esempio, la voce dei rifugiati e migranti non è minimamente ascoltata quando si parla di governance dei fenomeni migratori globali e del sistema di accoglienza? Perché non vengono intervistati quando si parla, spesso a vanvera, di riforma del diritto d’asilo o di rapporti fra Nord e Sud del mondo? Quest’analisi potrebbe estendersi, più generalmente, alle comunità straniere in Italia. Nonostante siano circa l’ 8% della popolazione, la presenza di queste comunità nel dibattito pubblico è marginale. I loro esponenti vengono interrogati esclusivamente quando c’è da commentare un evento di cronaca nera, a patto che sia commesso da uno straniero, o quando si parla del rapporto con l’Islam. L’esempio più lampante riguarda le donne di religione islamica chiamate in televisione a recitare la propria parte in commedia quando si deve discutere del velo e del ruolo della donna nell’Islam. Mai che si chieda a queste donne, che pure vivono e lavorano nel nostro paese, di commentare temi più ampi che riguardano le loro vite, dal lavoro al welfare, dall’ambiente alla salute. In altre nazioni europee, ciò non accade o accade in misura minore. Esponenti delle comunità straniere vengono costantemente interpellati dai media; vi sono intellettuali, attivisti e leader che hanno conquistato spazi importanti nel dibattito pubblico. In Italia, no; segno di una mentalità - coltivata in tutti gli ambienti culturali, politici ed economici - ancora profondamente colonialista in un paese che non ha fatto i conti col proprio passato, dalla macchia delle leggi razziali all’esperienza imperialista in Africa. Questa strategia dell’invisibilità ha come obiettivo principale la marginalizzazione delle comunità straniere nella vita pubblica del paese. Nel contesto della crisi migratoria, il rifugiato, come scrive la studiosa Vanessa Pupavac dell’università di Nottingham, è percepito esclusivamente come oggetto di pietà o disprezzo, e mai come soggetto autonomo; per questo motivo contro di lui si può osare di tutto in un clima d’impunità generale. Non c’è allora da sorprenderci, se oggi alcune zone dell’Italia somigliano più all’Alabama degli anni 50, piuttosto che ad un normale stato europeo: insulti razzisti vengono urlati per strada, persone migranti scacciate da esercizi pubblici, un vortice di violenza incontenibile che in alcuni casi è sfociata persino nell’uso di armi da fuoco. Privati di qualsiasi soggettività, ai migranti e rifugiati, non resta allora che cercare qualcuno che parli per loro, sperando che ne sia quantomeno capace. Su questo fronte la sinistra italiana è stata purtroppo davvero mancante. Lo ius soli, per esempio, è stato accantonato alla prima difficoltà; in parlamento, l’unico parlamentare di origine africana, lo ha eletto, con tutte le riflessioni del caso da fare, la Lega di Salvini; ma soprattutto, e questa è a mio giudizio la ferita più lancinante, il blocco esteso della sinistra italiana - dalla Cgil al Pd passando per tutte le altre sigle di quella galassia culturale - non è stato in grado di costruire alcuna reazione unitaria a fronte di due gravissimi episodi di violenza: la sparatoria di Macerata e l’omicidio di Soumaila Sacko. In questi due casi, si doveva scendere in piazza e non lo si è fatto; per paura o forse, e speriamo di sbagliarci, per mero calcolo politico. Il risultato è che al momento sul piano culturale i discorsi razzisti sono stati legittimati nel ventre del paese; il tappo della decenza, per non parlare di quello della memoria e della consapevolezza storica, in un paese che ha visto intere generazioni di suoi cittadini poveri divenire migranti economici, è completamente saltato. Siccome non si può morire d’indignazione, né tantomeno lavarsi la coscienza con un post su Facebook, ad un certo punto qualcosa bisognerà pure fare. In questo senso, l’unico modo davvero efficace per arginare quest’ondata di razzismo è rompere questa strategia dell’invisibilità che attanaglia la popolazione di origine straniera, i migranti e i rifugiati, nel nostro paese. A seguito della morte di Soumaila Sacko, sembrava che qualcosa si stesse muovendo in questa direzione. I migranti della piana di Gioia Tauro hanno protestato e sono stati ascoltati sulle condizioni di schiavitù in cui vengono costretti a fare il proprio lavoro. Personalità interessanti come quelle del sindacalista Aboubakar Soumaoro, sono emerse nel dibattito pubblico mainstream per trattare non soltanto i temi del razzismo, ma anche le questioni del lavoro e delle nuove povertà che interessano tutti. Occorre ripartire da lì, non facendo spegnere questo barlume di speranza. Alla sinistra italiana, intesa come movimento politico-culturale esteso, spetterebbe il compito di costruire questo spazio politico per far emergere queste voci, tenute troppo a lungo ai margini delle società. Speriamo davvero, per tutti, migranti e non, che ne abbia ancora le forze. Sui Rom l’Avvenire contro Salvini: “nessun uomo è mai un parassita” di Concetto Vecchio La Repubblica, 27 luglio 2018 Il mondo cattolico si schiera contro il ministro. Dopo Famiglia Cristiana ora anche il quotidiano della Cei pubblica una dura presa di posizione del presidente della Comunità di Sant’Egidio, Impagliazzo sui nomadi: “Usa le parole utilizzate contro gli ebrei”. Duro richiamo della Chiesa a Matteo Salvini. Dopo l’affondo di ieri di “Famiglia cristiana”, (“vade retro Salvini”), oggi “Avvenire” lo attacca invece sul caso rom: “Nessun uomo è mai un parassita”. Con questo titolo, il quotidiano della Cei contesta le ultime dichiarazioni del ministro sui rom. In un editoriale in prima pagina, Marco Impagliazzo, il presidente della Comunità di Sant’Egidio scrive: “Lascia perplessi il linguaggio di un importante ministro della Repubblica a proposito di una minoranza variegata presente in Italia da tempo, quella dei rom: parlare come ha fatto Salvini di 30.000 persone che si ostinano a vivere nella illegalità, definendole sacca parassitaria, suona pregiudiziale verso una intera comunità, oltre che non corrispondente alla realtà”. Impagliazzo sottolinea che “le parole sono importanti, hanno un valore e un peso. Se si tratta di personaggi pubblici, addirittura di figure istituzionali, l’uso delle parole è ancora più delicato perché vengono diffuse, amplificate, giungono alle orecchie di un pubblico vasto. Queste parole possono influenzare le opinioni pubbliche e spesso sono dette proprio a questo scopo”. Il presidente della S. Egidio inoltre ricorda che “la definizione parassiti è stata utilizzata per gli ebrei e chi conosce la Storia sa che da questa e altre definizioni si è passati a emarginare e poi considerare nemica quella minoranza, con le conseguenze tragiche che sappiamo. Dove ci sono problemi di illegalità - osserva Impagliazzo - li si affronti come prevede la legge”. Antefatto. Ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a 80 anni dal Manifesto della razza voluto dal fascismo, aveva spiegato che il razzismo è un male che avvelena la società. Un messaggio chiaro all’attualità politica. Salvini, durante la conferenza stampa con la sindaca Raggi al Viminale, commentando le parole del Capo dello Stato aveva accusato “i 30mila rom che in Italia si ostinano a vivere nei campi”, definendoli “una sacca parassitaria”. L’uno due di “Famiglia cristiana” e “Avvenire” non è casuale. Il mondo cattolico alza la voce contro il ministro dell’Interno e la sua politica muscolare contro migranti e rom, dando voce a una malumore già assai diffuso e che si è manifestato nel digiuno di padre Zanotelli e di don Ciotti con le magliette rosse. L’uscita del quotidiano della Cei arriva nel giorno dello sgombero del campo rom Camping River di Roma. Un’iniziativa, decisa con un’ordinanza dal Comune di Roma, che Salvini ha salutato con un tweet: “Legalità, ordine e rispetto prima di tutto”. Salvini replica comunque colpo su colpo. In mattinata ha fatto un altro tweet dove pubblica le copertine dell’Espresso, Rolling Stone e Famiglia cristiana dedicate a lui e alla Lega con questo commento: “A odio e disprezzo rispondiamo col sorriso e col perdono! Vi voglio bene Amici”.