Riforma, nel nuovo testo misure speciali anche per i minori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2018 Si applicherebbe l’articolo 4bis dell’Ordinamento penitenziario che blocca le misure alternative. Il Garante dei detenuti, Mauro Palma, in un parere richiesto dalla Commissione evidenzia che la previsione dell’articolo può “essere facilmente letta come contraria alla delega”. Allargamento del 4bis anche nei confronti dell’esecuzione penale per i minorenni. Questo è il punto che è stato inserito rielaborando il testo originale del decreto legislativo della riforma dell’ordinamento penitenziario, ora in esame alle Commissioni giustizia di Camera e Senato. Infatti, nel testo presentato e approvato dal Consiglio dei ministri durante la legislatura precedente, per i detenuti minorenni era escluso qualunque sbarramento all’accesso ai benefici. Si prevedeva che le misure alternative potessero essere concesse dal magistrato qualunque fosse il titolo di reato. Ora tutto è cambiato e le regole sono diventate più stringenti. Eppure, come ha osservato il Garante Mauro Palma attraverso un parere richiesto dalla commissione stessa, la previsione dell’articolo che prevede questo, può “essere facilmente letta come contraria alla delega”. Perché? La legge delega, infatti, all’art 85 prevede che i decreti sulle modifiche all’or- penitenziario debbano essere adottati, per i singoli temi trattati, nel rispetto dei principi e dei criteri direttivi contenuti nella delega del governo. È al punto 5 lettera p) che si indica, in tema di esecuzione della pena nel processo minorile, come principio di riferimento, “l’ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative”, con particolare riferimento ai requisiti per l’ammissione dei minori al l’affidamento in prova ai servizi sociali e alla semilibertà. A leggere il decreto in esame alla commissione, al capitolo dedicato “all’Esecuzione esterna e alle misure penali di comunità”, relativo alle misure alternative alla detenzione per i condannati minorenni e i giovani adulti, si legge, invece che “ai fini della concessione delle misure penali di comunità e dei permessi premio e per l’assegnazione al lavoro esterno trova applicazione l’articolo 4bis, commi 1 e 1bis O.P.”, che fissa le condizioni per l’accesso ai benefici penitenziari per “certe tipologie criminali dalla spiccata pericolosità”. Pertanto, i benefici e le misure alternative sarebbero vincolati alla collaborazione con la giustizia, anche da parte dei minori, che siano stati condannati per reati di terrorismo o eversione dell’ordine democratico, associazione mafiosa, reati sessuali, favoreggiamento immigrazione clandestina, associazione per contrabbando e spaccio di stupefacenti. Insomma, a leggere la norma, oltre a non rinvenire “l’ampliamento dei criteri con accesso alle misure”, di cui la delega aveva parlato espressamente, sembra che la direzione sia opposta, quanto meno quella, che potrebbe condurre il testo sul tavolo della Consulta, che ha già più volte dichiarato illegittime le disposizione di decreti legislativi, quando andassero oltre i limiti dell’esercizio della funzione legislativa, come fissati dai principi e dalle direttive della delega. Quindi, bloccati i decreti legge principali della riforma che contemplavano anche una modifica del 4bis, che avrebbe permesso l’accesso al trattamento penitenziario a coloro che ne rimanevano esclusi a prescindere, i cosiddetti reati ostativi, ora è in via di approvazione il decreto sull’esecuzione penale dei minori inserendo esplicitamente il 4bis ai minori. Il comma 1 dell’articolo prevede una serie di reati per i quali l’accesso ai benefici (rectius l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione) è subordinato al verificarsi di alcune condizioni. In sintesi, inserendo queste restrizioni, hanno fissato criteri più restringenti per l’accesso alle misure alternative. L’opposto di quello che prevedeva la legge delega. Riforma, continua l’esame dei decreti nelle Commissioni di Camera e Senato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2018 La delega al governo scade il 3 agosto. Alle Commissioni giustizia di entrambi le camere proseguono intanto gli esami dei decreti legislativi della riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva, lavoro penitenziario, giustizia riparativa e esecuzione penale per i minori. Ieri la commissione della Camera ha ripreso l’esame sospeso il 18 luglio, mentre quella del Senato ha svolto l’ultima convocazione sui testi martedì scorso e rinviata a data da destinarsi. Nel frattempo sono stati pubblicati i pareri dei vari addetti ai lavori del mondo penitenziario in seguito alle audizioni informali della commissione del Senato. Ci sono anche quelli del garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, pareri che già erano stati espressi al precedente governo e inseriti nell’insieme di materiali oggetto di analisi della Commissione attuale. Per quanto riguarda la riforma della vita detentiva, Mauro Palma sottolinea l’importanza di aver inserito gli elementi relativi all’ambiente penitenziario e gli spazi per garantire i diritti dei detenuti e in generale l’esecuzione penale. “Non può comunque non rilevare - spiega il Garante che esso costituisce un solo aspetto del più complessivo tema che riguarda quale idea di detenzione si voglia concretamente realizzare e come essa si realizzi in una quotidianità che coniughi le esigenze di sicurezza con lo svolgersi positivo della vita ristretta in tutti i suoi molteplici aspetti”. Ricorda in proposito che il principio fondamentale posto, tra altri, in premessa delle Regole penitenziarie europee, adottate dal Comitato del ministri del Consiglio d’Europa indica che “La vita detentiva deve essere il più simile possibile agli aspetti positivi della vita all’esterno del carcere”. Per quanto riguarda il lavoro, Mauro Palma sottolinea che il lavoro non deve essere finalizzato esclusivamente per tenere occupato un detenuto, ma “deve essere dato valore al lavoro svolto in forme cooperative allorquando queste configurino la possibilità di accedere a qualificazioni certificabili che potranno poi aiutare a realizzare una vita esterna più autonoma e, come tale, meno esposta a rischi di recidivare il reato”. Osserva, inoltre, che l’Amministrazione penitenziaria non può configurarsi come “imprenditore” per via dell’inevitabile farraginosità burocratica. Ecco perché, Mauro Palma, dice di valorizzare il lavoro cooperativo e quello proposto da aziende esterne con la mediazione del Dap. Sono proprio questi lavori che fanno acquisire competenze specifiche ai detenuti, spendibili una volta che tornano in libertà. Altro punto che il Garante sottolinea è la volontà di “dare effettiva parità di opportunità alle donne inserite in sezioni di Istituti a prevalenza maschile”. Osservazione scaturita dopo aver visto, grazie alle visite effettuate dal collegio del Garante, che c’è le opportunità lavorative sono a svantaggio della popolazione detenuta femminile. Altra osservazione del Garante, è quella in merito all’esecuzione penale minorile visto che è sprovvisto di un ordinamento penitenziario ad hoc. Oltre al punto sul 4 bis documentato su questa stessa pagina de Il Dubbio, il Garante nazionale ritiene che relativamente a coloro che rientrano nel sistema minorile dalla libertà, che hanno età superiore ai diciotto anni e spesso prossima ai venticinque e che a volte rientrano dopo aver costituito una famiglia, debba essere sviluppata una riflessione perché la loro collocazione negli Istituti minorili è piuttosto incongrua e scarsamente rispondente alle esigenze effettive del loro trattamento rieducativo. Conferma, inoltre, perplessità già espresse nelle precedente legislatura circa la previsione di collocamento in comunità pubbliche o del privato sociale che ospitino solo minorenni sottoposti a procedimento penale ovvero in esecuzione di pena. Spiega il Garante che “la pluralità di tipologie all’interno di una comunità chiusa è un valore che evita l’istituzionalizzazione, favorisce la circolazione di esperienze e competenze diverse e, come tale, andrebbe preservata”. Analisi del programma di governo. “Le pene devono essere scontate” di Bruno Tinti Italia Oggi, 26 luglio 2018 Ma perché sia possibile vanno aumentati i posti nelle carceri e il personale di custodia. Il regime premiale sotto i 4 anni avvantaggia i delinquenti. Vista l’ansia di passare alla storia che anima i grillo-leghisti e li induce a qualche riforma buona e molte cattive, utilizzo questo caldo pomeriggio estivo per fornirgli un po’ di materiale. Non so se i nostri leader leggono Italia Oggi; e sono praticamente certo che non leggono gli articoli di Bruno Tinti. Però questo nuovo mestiere mi piace perché mi fa sentire come uno che getta sassi in uno stagno: si generano un sacco di onde che si perdono nel fango della sponda; però, hai visto mai, una magari arriva su una spiaggetta dove qualcuno la vede e “toh, ma guarda… perché no?”. E, come è noto, la valanga non nasce valanga ma piccolo fiocco di neve. Nella relazione al disegno di legge sull’innalzamento di pena per i reati di violenza e minaccia a pubblico ufficiale, si legge una riflessione assolutamente condivisibile: “La lunga sequenza di provvedimenti cosiddetti svuota carceri, il combinato disposto dell’entità della pena stabilita dal codice penale e delle norme vigenti sulle misure alternative alla detenzione [fanno sì che], per i condannati a pene carcerarie inferiori a quattro anni, le porte del carcere non si aprano mai”. Incontestabilmente vero. E del tutto inaccettabile. Ciò di cui non sono sicuro è che gli attuali governanti e legislatori abbiano chiare le ragioni di questa assurda situazione. Peggio, probabilmente credono alla vulgata corrente (prodotto culturale tipicamente di sinistra e cui aderisce un buon numero di magistrati che lo rafforzano con la sperimentata dialettica che contraddistingue i legulei) che vuole i benefici carcerari funzionali al precetto costituzionale secondo il quale “la pena deve tendere alla rieducazione del condannato”. I grillo-leghisti probabilmente non condividono questo assunto ma perdono il loro tempo a contestarlo. Non sanno, ahimè, che gli argomenti sono sempre meno forti dei convincimenti e che questo (del tutto condivisibile) luogo comune non potrà mai essere efficacemente conciliato con la pratica della convivenza civile e della connessa necessità di reprimere i comportamenti devianti. Ne è prova la banale osservazione secondo la quale non si vede come pene pari a 4 anni di reclusione, che dovrebbero anch’esse tendere alla rieducazione del condannato, possano essere efficaci a questo scopo se interamente abolite. Dunque, cari leader, abbandonate questa retorica della redenzione e del recupero e guardate bene a quello che c’è dietro: l’esigenza di mantenere ordine e disciplina all’interno del carcere e la mancanza di posti-detenuto (poche carceri). Andiamo per ordine. Perché ogni pena si sconta in concreto solo per la metà (permessi premio e abbuono di tre mesi ogni anno per “buona condotta”? Perché, non fosse così, evitare che il carcere diventi una bolgia infernale sarebbe impossibile. I delinquenti ivi ristretti (soprattutto quelli condannati a pene lunghe) si abbandonerebbero a ogni sorta di violenze e prevaricazioni, confidando nell’omertà e nella carenza di personale di custodia; e poi, anno più, anno meno, mi hanno già seppellito qua dentro. Con il sistema premiale, invece, c’è la garanzia di dimezzare gli anni di galera inflitti. E anche con poca fatica poiché la legge non richiede che si compiano atti straordinari di solidarietà e coraggio: basta che non si faccia casino. Non diano fastidio e ogni anno vale 9 mesi; dopo un po’, con l’aggiunta dei permessi premio, 7 mesi e mezzo. Insomma meglio la carota del bastone; soprattutto quando le possibilità di usare il bastone sono in pratica inesistenti. Perché, quando mancano 4 anni alla fine pena (o quando le pene inflitte sono inferiori ai 4 anni) in prigione non ci si va? Perché non c’è posto. In Italia ci sono più o meno 40 mila posti-detenuto e si arriva costantemente a 60 mila circa. Per questo, ogni tanto c’è un condono o un aumento del limite oltre il quale si è buttati fuori dal carcere. Si ritorna alla soglia dei 40 mila e si guadagna un po’ di respiro. Ridicolo, vero? E anche criminoso perché tutta questa gente non solo torna rapidamente a delinquere ma acquisisce la consapevolezza che delinquere conviene. Sicché, altro che rieducazione, recupero, reinserimento ecc.: sistema criminogeno è, puro e semplice. Che fare (come diceva quel pragmatista di Lenin)? Ecco, cari grillo-leghisti: costruite nuove carceri e incrementate le risorse destinate al sistema penitenziario. Più agenti di custodia; più carceri; più tecnologia con cui rendere efficiente sorveglianza e prevenzione della criminalità endocarceraria; e vedrete che, con una repressione giusta ed efficace, tutti i reati (non solo quelli di violenza e minaccia a pubblico ufficiale) diminuiranno. E, per quelli che tuttavia saranno commessi, ci saranno da scontare pene giuste come è giusto che sia. E a questo punto potremo anche occuparci della rieducazione dei condannati. Chissà dove andrà a finire questa onda? La piaga dell’ingiusta detenzione. Ogni anno mille persone finiscono in cella per errore di Carmine Gazzanni La Notizia, 26 luglio 2018 Così lo Stato butta 656 milioni. Il Governo: azioni disciplinari alle toghe che sbagliano. Quando si parla di ingiusta detenzione, inevitabilmente il nome che torna alla mente è quello di Enzo Tortora. Purtroppo, però, in Italia si contano casi simili ogni giorno. Per la precisione, tre ogni giorno. I dati, clamorosi, sono snocciolati dall’osservatorio “errori giudiziari” che, elaborando i dati del ministero dell’Economia, informa che dal 1992 al 2007 le persone che hanno subito una ingiusta detenzione, cioè una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, prima di essere riconosciute innocenti con sentenza definitiva, sono state 26.412. Un numero clamoroso che fa il paio con quello relativo agli indennizzi. Per risarcirli, infatti, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Una cifra monstre - specifica l’osservatorio nato dall’idea di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, due giornalisti che si occupano da anni di questo incredibile fenomeno - che sale ulteriormente se si includono anche gli errori giudiziari in senso tecnico (cioè quelle persone che vengono condannate con sentenza definitiva, ma poi sono assolte in seguito ad un processo di revisione perché si scopre il vero autore del reato o un altro elemento fondamentale per scagionarli). Ecco che così il numero delle vittime sale a 26.550, per una somma totale di 768.361.091 euro in risarcimenti versati dal 1992 ad oggi. La denuncia - Parliamo, dunque, di una media annuale di oltre mille ingiuste detenzioni ogni anno, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro l’anno. Ogni ora che passa lo Stato italiano brucia 3.310 euro per risarcire chi è stato mandato ingiustamente in carcere, 55 euro ogni 60 secondi. Così, giusto per avere contezza di cosa stiamo parlando. Ed è per questa ragione che il deputato ed ex viceministro alla Giustizia, Enrico Costa, ha presentato un’interrogazione sul punto. Anche perché l’ultimo anno di cui conosciamo il dato (2017) ha visto una crescita del fenomeno, sia per quanto riguarda i casi di ingiusta detenzione (che hanno toccato quota 1.013, contro i 989 registrati nell’anno precedente) sia per l’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti (34 milioni di euro). Dati clamorosi, dunque. Cui si aggiunge, a leggere la denuncia parlamentare di Costa, anche un retroscena chiaroscurale. La legge, infatti, impone che il Governo, “entro il 31 gennaio di ogni anno”, presenti alle Camere una relazione contenente “dati, rilevazioni e statistiche relativi all’applicazione, nell’anno precedente delle misura cautelari personali”. E, in questa relazione, devono essere compresi anche le “sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione”. Un particolare fondamentale per conoscere le ragioni per cui tante persone vengono private della libertà personale. Peccato, però, che tale focus sia assente dalla relazione consegnata al Parlamento nel gennaio 2018. Il sottosegretario di Stato alla Giustizia, Vittorio Ferraresi, nella risposta a Costa riconosce tale deficit che tuttavia, assicura, sarà colmato nella prossima relazione, che ovviamente verrà consegnata a inizio 2019. Ma c’è di più. Ferraresi, infatti, assicura che “sarà promossa l’azione disciplinare in tutti i casi in cui vengano riscontrate obiettive violazioni di legge dovute a grave ignoranza o negligenza inescusabile”. E precisa: nel 2018 sono state esercitate 6 azioni disciplinari per ritardata scarcerazione. Un cambio di passo importante. Di cui beneficerebbero le casse dello Stato e, soprattutto, la dignità umana di tante vittime di un sistema che spesso non funziona. Riforma legittima difesa? “Non inganni i cittadini, sia conforme a Costituzione” Redattore Sociale, 26 luglio 2018 Tre le proposte di legge in discussione alla Camera. L’associazione dei docenti di diritto penale: “Nessuna riforma potrà impedire indagini e processi, che si svolgono anche quando si uccide il cane del vicino”. Sono attualmente all’esame della Camera dei deputati ben tre proposte di legge tese a riformare l’articolo 52 del codice penale e dare un “volto nuovo” alla legittima difesa, sino a teorizzare un “diritto di difesa” (Atti Camera 274, 308 e 580). “Tutti e tre i progetti di legge - con varietà di sfumature - sono accomunati da due fattori comuni: la banalizzazione, talora l’eliminazione, del requisito di proporzione tra offesa in atto e l’attività di difesa; la volontà di sottrarre alla giurisdizione la responsabilità di accertare in concreto se - in un certo caso - vi sia stata o meno legittima difesa. Crediamo che ambedue queste linee di politica criminale debbano essere contrastate”. È quanto si legge su “Questione Giustizia”, portale di magistratura Democratica, che allega il comunicato dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale. Preoccupa il dichiarato scopo di marginalizzare la giurisdizione. Si legge su Questione Giustizia: “I disegni di legge introducono presunzioni di legittima difesa che - negli auspici dei riformatori - dovrebbero evitare a chiunque di dover subire un procedimento penale per il solo fatto di essersi difesi. La riforma vuole - ancora una volta - contrabbandare l’idea che il processo sia il luogo di manifestazione del protagonismo di magistrati, insensibili al bisogno di sicurezza dei cittadini o un abuso che il cittadino si trova a subire. Una simile riforma tradisce una visione del processo penale che deve essere fermamente contrastata. Il processo è il luogo della ricerca delle prove e della ricostruzione dei fatti; il processo è il luogo del doveroso accertamento delle responsabilità personali (dovere di accertamento imposto dal chiaro dettato costituzionale); il processo è il luogo delle garanzie dei diritti degli accusati e dei diritti delle persone offese. E, ad onta di quanto auspicano i riformatori, in ogni caso, questi doveri di accertamento non verrebbero meno neanche nel caso i progetti di legge in discussione dovessero essere approvati”. E continua: “Ma ancora di più preoccupa la volontà di banalizzare - sino ad eliminarlo - il requisito della necessaria proporzione tra attività difensiva e offesa da cui ci si difende. La proporzione tra difesa e offesa - unitamente alla necessità di difendersi e all’attualità del pericolo che si intende contrastare - è lo specchio di un elementare principio di civiltà giuridica: esso, semplicemente, impone che la difesa sia autenticamente tale e vuole scongiurare che la necessità di difendersi diventi offesa, ritorsione o vendetta. Con l’affermare la necessità di proporzione tra attività di difesa e offesa da contrastare si intende ribadire che qualunque azione umana deve essere valutata - nella irriducibile complessità dei fatti della vita - alla luce del principio personalistico che fonda la Costituzione repubblicana. Si tratta di un principio dal quale è - per tutti e per ciascuno - molto pericoloso allontanarsi”. “Nessuna riforma potrà impedire indagini e processi, che si svolgono anche quando si uccide il cane del vicino”. Come detto, l’Associazione italiana dei professori di diritto penale esprime in una nota “profonda preoccupazione per le iniziative parlamentari in corso sulla legittima difesa e per i messaggi ingannevoli che sul tema si stanno diffondendo nell’opinione pubblica”. Affermano i docenti di diritto penale: “La causa di giustificazione della legittima difesa non ha mai avuto nulla a che fare - in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo - con una licenza di uccidere, poiché la legittimità della difesa è stata sempre subordinata a precisi requisiti: primo fra tutti la necessità di difendersi, in assenza della quale non si parlerebbe più di difesa, ma di offesa gratuita e deliberata. Nel requisito della necessità è implicita un’idea di proporzione della difesa rispetto all’offesa, poiché una difesa volutamente sproporzionata cesserebbe di essere difesa e assumerebbe i contenuti di un’offesa”. “L’idea di introdurre un diritto di difesa che prenda il posto della legittima difesa - come vorrebbe la proposta di legge n. 580 - stravolge quindi il significato della causa di giustificazione, poiché introduce una licenza di uccidere ancorata semplicemente a un rapporto cronologico tra aggressione e difesa: qualunque compressione del requisito della proporzione della difesa, mediante una presunzione normativa della sua sussistenza (come nelle proposte di legge n. 274, 308 e 580 attualmente all’esame della Camera dei deputati), non può in ogni caso escludere la necessità della difesa stessa”. “Il solo e vero problema - continuano - consiste nello stabilire quando ricorra il requisito della proporzione e sia scusabile un eccesso di difesa: che si tratti di un problema da sempre avvertito come assai delicato lo dimostra l’antico detto secondo cui l’aggredito che si difende ‘non ha la bilancia in mano’ (non habet staderam in manu)”. Non solo: “Il dibattito sulla riforma della legittima difesa promette oggi all’opinione pubblica vantaggi illusori, perché la riforma annunciata è presentata in modo ingannevole. I cittadini devono infatti essere informati che, se si uccide o si ferisce qualcuno, nessuna riforma potrà mai assicurare che non vengano svolti accertamenti penali o che essi siano meno approfonditi di quelli che si compirebbero in caso di uccisione del cane del vicino (per verificare il delitto di uccisione di animali: art. 544-bis cp). Le indagini processuali saranno invece necessariamente maggiori. Si possono infatti eccedere i limiti della difesa anche intenzionalmente (per dare una bella lezione all’aggressore): fatto punito ovunque, non solo in Italia. E verificare se l’eccesso sia stato intenzionale, oppure no, comporta già un’indagine penale. Che è obbligatoria, non discrezionale”. E infine: “Al fine di evitare l’accertamento del giudice penale non servirebbe neppure restringere le ipotesi punibili, fino a limitarle ai casi di vendetta intenzionale mascherata da difesa legittima, dovendosi necessariamente considerare i casi in cui la sproporzione sia dipesa non da intenzione malevola che si approfitta dell’aggressione per togliere di mezzo un ladro o un rapinatore, ma da un grave turbamento (che c’è sempre, di regola, nella legittima difesa domiciliare) e tuttavia l’aggredito abbia esagerato in modo molto evidente nel procurare all’aggressore un danno ben più grave di quello temuto. Anche qui la verifica sulle reali intenzioni dell’aggredito sarebbe necessaria, e dunque inevitabile la sua iscrizione nel registro degli indagati, salvo l’evidenza del contrario”. “Chi propone la riforma sa benissimo tutto ciò ma, non dicendolo all’opinione pubblica, non rende un servizio alla verità. A meno che non intenda davvero presentare un progetto illegittimo, che voglia mandare assolto l’aggredito che si difende a prescindere da ogni necessità e proporzione. Ma tale esito, come prima osservato, risulta contrario ai principi costituzionali, convenzionali e internazionali”. Corte Ue, niente mandato di arresto europeo se il processo non è equo Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2018 Cgue - Sentenza 25 luglio 2018 causa C-216/18. “L’autorità giudiziaria chiamata a eseguire un mandato d’arresto europeo deve astenersi dal darvi seguito se ritiene che la persona interessata rischi di subire una violazione del suo diritto fondamentale a un giudice indipendente”, e a un “equo processo”, a causa di “carenze” che incidono sull’indipendenza del potere giudiziario nello Stato membro emittente: lo ha stabilito la Corte di Giustizia della Ue con la sentenza 25 luglio 2018 nella causa c-216/28. Si tratta di una sentenza che riguarda un caso di un cittadino polacco arrestato in Irlanda e oggetto di tre mandati di arresto europei emessi da giudici polacchi. Per la Corte, i giudici irlandesi devono stabilire prima di tutto se esista “un rischio reale” che il cittadino “subisca una violazione del suo diritto fondamentale a un giudice indipendente”. Nel caso della Polonia, per la quale è aperta una procedura articolo 7 per violazione dello Stato di diritto, tale condizioni evidentemente è soddisfatta. Seconda cosa da accertare per non dare seguito al mandato europeo d’arresto è il rischio che il cittadino non avrà un equo processo. Le autorità irlandesi devono quindi verificare la sussistenza di tale rischio anche tenendo conto della natura del reato e della situazione personale della persona perseguita. Tributario. Il concorso esclude il secondo reato di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 35461/2018. Il contribuente che concorre nel reato di dichiarazione fraudolenta per utilizzo di fatture false non commette il successivo reimpiego di proventi illeciti. A fornire questo principio è la Cassazione, sezione II penale, con la sentenza n. 35461 depositata ieri. Il gip emetteva un provvedimento di sequestro preventivo, confermato anche dal Tribunale del riesame, nei confronti del socio fondatore di una società, accusato in concorso con il legale rappresentante per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti e reimpiego di proventi illeciti. Più precisamente, era stata registrata una falsa fattura (redatta dalla società stessa) per acquisto di merce, con la quale erano abbattuti gli utili imponibili della società. Il denaro fittiziamente destinato al fornitore di tale merce, attraverso plurimi bonifici su conti correnti, rientrava nella disponibilità del socio fondatore stesso, il quale lo riversava nella società sotto forma di aumento capitale o finanziamento socio. Era stato così sottoposto a sequestro l’importo complessivo del citato finanziamento. Secondo l’ipotesi accusatoria il reato di dichiarazione fraudolenta mediante fatture false rappresentava il presupposto del successivo delitto di reimpiego. La Suprema Corte ha ritenuto che per il socio fondatore dovesse escludersi il reimpiego. I giudici di legittimità hanno rilevato che l’indagato avendo avuto un ruolo di concorrente morale o materiale nell’illecito penale tributario non poteva concorrere nel delitto di reimpiego di capitali. In base all’articolo 648-ter Cp, l’ipotesi delittuosa si realizza solo “fuori dei casi di concorso nel reato” presupposto. In altre parole, se il socio era concorrente nel reato di dichiarazione fraudolenta, non poteva essere accusato anche di reimpiego di proventi illeciti. Il provvedimento di sequestro doveva così essere annullato poiché non poteva essere commisurato al finanziamento soci, bensì al valore delle imposte evase attraverso la registrazione della falsa fattura, quindi Iva e Ires. Avellino: strutture d’eccellenza per i detenuti con patologie psichiatriche di Giusy Ragni irpinianotizia.it, 26 luglio 2018 Samuele Ciambriello, Garante regionale per i detenuti, si è recato alla sede della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza di San Nicola Baronia in provincia di Avellino; accompagnato dal Consigliere Regionale di articolo Uno, Francesco Todisco. Struttura di accoglienza e di sicurezza - La struttura residenziale sanitaria ospita al momento una ventina di persone portatrici di patologie psichiatriche. Il centro di accoglienza e di sicurezza è attivo dal 2015 ed è diretto dal Dott. Amerigo Russo; la struttura accoglie i detenuti malati provenienti dalle ASL di Salerno, Benevento, Avellino e Napoli 3 Sud. Centri di salute mentale - La necessità di sorvegliare ma anche di tutelare quei soggetti affetti da gravi problemi mentali ha richiesto l’apertura di luoghi specifici dove ospitare, curare e assistere queste persone; come il Rems. Centri di salute mentale di competenza sul territorio regionale, in collaborazione con l’equipe terapeutica del Rems; valutano periodicamente le condizioni di accoglienza ed il programma di permanenza dei malati ricoverati. Oltre la semplice custodia - Nella struttura oltre alla semplice custodia dei detenuti malati, viene seguito anche un programma terapeutico riabilitativo e di cura; allo scopo vengono attuate diverse attività finalizzate al recupero e al reinserimento sociale oltre a un valido sostegno ai pazienti psichiatrici. A tal proposito Ciambriello ha dichiarato: “Con la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari questo tipo di residenza rappresenta una vera e propria tutela della salute delle persone ristrette affette da gravi patologie psichiatriche. I grado di assicurare i necessari percorsi di riabilitazione e cura durante l’esecuzione della pena. La Rems di San Nicola Baronia rispetta gli spazi di socializzazione, dalla struttura ai laboratori fino alla cappella e al teatro, tutto mi ha restituito la percezione della presenza di attività integrative fondamentali per i diversamente liberi. Così come la possibilità per la metà degli ospiti lì ristretti di potersi recare all’esterno per un caffè al bar o per la spesa, permettendo così loro di potersi riappropriare di piccoli gesti e spazi di autonomia. Credo che le Rems rappresentano luoghi alternativi al carcere, pur con mille difficoltà di gestione. Sono una sfida storica per restituire dignità sociale, diritto alla salute e reinserimento a chi nelle carceri e negli Opg veniva escluso. Molti ristretti, con problemi psichiatrici, continuano a stare in carcere mentre dovrebbero esserci luoghi alternativi alla detenzione, come micro comunità, comunità alloggio, servizi socio-sanitari. Per loro, più degli altri occorre liberare la pena”. L’Aquila: carcere a rischio demolizione, fu costruito su terreno demaniale primadanoi.it, 26 luglio 2018 “Dopo 32 anni con sentenza definitiva e inappellabile del Commissariato per il riordino degli Usi Civici nella Regione Abruzzo è stata riconosciuta la natura demaniale di una parte di terreno sul quale è stato costruito l’Istituto penitenziario di Preturo, all’Aquila, con condanna all’Agenzia del Demanio al rilascio dei fondi in favore dei Cives di Preturo dando mandato per l’esecuzione alla Regione Abruzzo (1982-2014)”. Lo rende noto il consigliere comunale dell’Aquila, Antonio Nardantonio, della lista Il Passo Possibile, presidente dell’Amministrazione separata dei beni di uso civico (Asbuc) di Preturo. La Uil lo mise in evidenza lo scorso anno del rischio abbattimento che correva il penitenziario di Preturo in quanto costruito su terreni non del tutto demaniali. Oggi si scopre che, dopo ben 32 anni, è arrivata la sentenza definitiva ed inappellabile da parte del Commissariato per il riordino degli usi civici nella Regione Abruzzo e che rischia di far chiudere uno degli istituti di pena di maggior peso in Italia stante la sua peculiarità di ospitare al suo interno circa 120 detenuti sottoposti al regime del 41bis. Dalla sentenza si evincerebbe che il Commissariato abbia riconosciuto solo parte della natura demaniale del terreno sul quale è stato costruito il carcere delle costarelle condannando, di fatto, l’Agenzia delle Demanio, al rilascio dei restanti fondi a favore dei Cives di Preturo. “Se ciò dovesse accadere”, spiega Nardella, “significherà, affinché la sentenza venga rispettata, abbattere parte della casa circondariale con tutto ciò che ne conseguirebbe in ordine alle aspettative sia degli operatori ivi di servizio che per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria quest’ultimo costretto a dover dipanare una matassa estremamente ingarbugliata”. “La Regione e l’Asbuc hanno fatto quanto di loro competenza mentre l’Agenzia del Demanio ha disatteso e disattende la sentenza”, spiega il consigliere comunale dell’Aquila Antonio Nardantonio, della lista Il Passo Possibile, presidente dell’Amministrazione separata dei beni di uso civico (Asbuc) di Preturo. L’Asbuc quindi ha fatto ricorso al Tar (2017) per l’ottemperanza della sentenza. L’Agenzia del Demanio ne prende atto e afferma che risulta impossibile l’esecuzione in forma specifica della sentenza in quanto per la restituzione dei terreni sarebbe necessaria la demolizione del compendio carcerario in parola e ne suggerisce l’acquisizione al Patrimonio dello Stato. “L’Asbuc - spiega Nardantonio - propone all’Agenzia per un accordo extra giudiziale a sanatoria dell’abuso per l’acquisizione al patrimonio dello Stato dei terreni una transazione economica, molto molto economica. L’Agenzia del Demanio nei successivi scritti e incontri però precisa che vuole regolarizzare l’acquisizione senza oneri aggiunti in quanto afferma di aver sostenuto gli esborsi per gli espropri a favore degli allora occupatori”. Se il Tar (prima o poi dovrà pianificare l’esame del ricorso) dovrà dare esecuzione alla sentenza si corre il concreto rischio di chiusura e demolizione del compendio carcerario, denuncia Nardantonio. “Noi riteniamo indispensabile, indifferibile e urgente trovare una soluzione che scongiuri la demolizione, in quanto tale circostanza avrebbe ripercussioni rilevanti dal punto di vista sociale in ordine alla mancata erogazione di un servizio pubblico nel Comune dell’Aquila e di spesa pubblica”. Intanto proseguono gli incontri e nell’ultimo del 18 luglio 2018 si sono registrate ancora notevoli diversità di approccio alla soluzione del problema. Cagliari: dall’università un pezzetto di cielo per i giovani reclusi di Quartucciu di Teresa Valiani Redattore Sociale, 26 luglio 2018 Inaugurato nel carcere minorile lo spazio per gli incontri all’aria aperta realizzato da una studentessa di Architettura dell’ateneo di Cagliari che ha dato la tesi, primo caso in Italia, proprio nell’istituto minorile. Il neo architetto, Alice Salimbeni: “Adesso mi piacerebbe continuare a fare progetti come questo”. È stato inaugurato nell’Istituto penitenziario minorile di Quartucciu lo “Spazio per gli incontri all’aria aperta” pensato e realizzato da Alice Salimbeni, la studentessa universitaria, ora neo laureata magistrale in Architettura, che nel febbraio scorso, insieme ad altre laureande, Laura Spano e Giulia Rubiu, aveva chiesto e ottenuto, primo caso in Italia, di discutere la tesi proprio all’interno del carcere per minori. Ed era stato in quella sede, davanti alla commissione, al rettore e ai giovani detenuti che Alice aveva presentato il progetto pensato per restituire un po’ di quotidianità “ e un po’ di cielo” alla vita intramuraria dei suoi coetanei rinchiusi. Se nel carcere per gli adulti i colloqui con i familiari rappresentano uno dei momenti più attesi e significativi di tutta la detenzione, quando a essere reclusi sono i minori la valenza di quelle ore, sempre troppo veloci e consumate spesso in luoghi anonimi, si amplifica a dismisura. Da qui il bisogno di “costruire un’area che favorisca le dinamiche relazionali” spiega il neo architetto che nel titolo della tesi “Da le celle alle stelle: uno spazio auto-costruito all’Ipm di Quartucciu” aveva sintetizzato obiettivi e finalità del progetto. L’idea di intervenire materialmente sugli spazi del carcere era nata durante le lezioni di “Fuori Luogo”, il corso di Progettazione Architettonica II proposto dall’insegnante Barbara Cadeddu, docente di Composizione architettonica e urbana, ed era stata affinata nell’elaborazione della tesi coordinata anche da Maurizio Memoli, docente di Geografia economico-politica. “Nel mio primo ingresso in carcere - raccontava Alice presentando il progetto - la cosa che mi aveva colpito subito era che non si vedeva più il cielo, da nessuna parte. Se non in piccoli rettangoli stretti e lunghi. E che al di là delle mura non ci sono criminali ma ragazzi. Ho sentito subito la necessità di restituire a quei ragazzi una dimensione diversa, più vicina possibile alla quotidianità che hanno lasciato fuori”. Insieme al Rettore, Maria Del Zompo hanno partecipato all’evento Cristina Cabras, referente di Ateneo per il protocollo d’intesa con il Prap della Sardegna e referente alla Crui di Ateneo per le attività portate avanti con gli istituti penitenziari, Antonello Sanna, direttore del dipartimento di Ingegneria Civile Ambientale e Architettura, Giampaolo Cassitta, dirigente del Centro di Giustizia minorile per la Sardegna, Enrico Zucca e Alessandro Caria, rispettivamente vicedirettore e comandante dell’Istituto minorile, i ragazzi detenuti, gli operatori e i volontari che hanno collaborato al progetto. Lo spazio degli incontri tra detenuti e familiari, completato da un’opera degli artisti La Fille Bertha e Alessio Errante, è stato realizzato grazie al contributo di numerosi donatori pubblici e privati. “La giornata - sottolinea Alice Salimbeni - è stata promossa anche per ringraziare tutte le persone che ci hanno aiutato, per far vedere loro quello che è stato fatto. Durante il processo che ha portato alla costruzione dell’area abbiamo fatto una raccolta fondi di cui sono stati protagonisti numerosi artisti locali che si sono esibiti in una rassegna musicale di concerti nelle case, abitazioni messe a disposizione da altri sostenitori, e, in un secondo momento, in un concerto finale in cui hanno cantato anche due ragazzi dell’istituto in permesso speciale. Mentre altre risorse sono arrivate da club, associazioni studentesche, culturali e privati cittadini. La giornata di ieri era soprattutto per loro. E per tutti gli altri che sono sempre stati presenti: i volontari di dentro e quelli di fuori, i miei tre professori, l’amministrazione e la polizia penitenziaria che ci hanno permesso di lavorare sempre con grande serenità”. Un brindisi con menta e orzo e poi la consegna di attestati speciali. “Negli attestati che abbiamo consegnato a tutti i collaboratori abbiamo disegnato quello che si vede dall’Osservatorio del cielo: elemento fondamentale del progetto che nasce dall’idea di favorire una sorta di evasione mentale dallo stato di detenzione in cui si è costretti in quel momento. Il tema generale che ha guidato il disegno degli spazi è stata l’idea di guardare il cielo, appunto perché questo in carcere non è possibile”. “Sono molto sorpresa della fiducia che mi è stata concessa - racconta il neo architetto - e ho ringraziato tutti per questo, a partire dai professori che mi hanno lasciato fare questa tesi e mi hanno seguito e accompagnato durante il percorso. Ai volontari di dentro che ci hanno accolto e hanno fatto di tutto per non farci sentire in carcere, a quelli di fuori che hanno scommesso su di me senza alcuna garanzia. Ai sostenitori da cui io sono andata soltanto con un disegno, senza la possibilità di dire ‘fidatevi l’ho già fatto e non ci saranno problemi’. E spero tanto che questa fiducia sia stata ripagata”. 28 mattine per 4 ore di lavoro al giorno per regalare ai ragazzi reclusi e ai loro familiari momenti più vicini all’idea di libertà in un progetto “possibile solo quando si incontrano guide come quelle che ho avuto io”. E ora? “Gli studi sono finiti - conclude Alice. Adesso mi piacerebbe continuare a fare progetti di questo tipo. Sì, mi piacerebbe molto”. Verona: “Open day, il carcere al lavoro”, un tour per imprenditori venetoeconomia.it, 26 luglio 2018 Un’iniziativa pensata per sensibilizzare gli imprenditori sulle opportunità del reinserimento lavorativo dei detenuti. È l’originale formula di “Open-day: il carcere al lavoro”, evento che si terrà venerdì 27 luglio alla casa circondariale di Verona. Il carcere Montorio aprirà le porte per un’intera giornata, con una serie di visite guidate della durata di un’ora ciascuna alla struttura penitenziaria e ai luoghi di lavoro che custodisce al suo interno. L’iniziativa, patrocinata dal Comune di Verona e organizzata dalla Camera penale veronese unitamente alla casa circondariale di Montorio, è stata presentata dall’assessore comunale agli affari legali Edi Maria Neri, dalla direttrice della casa circondariale di Verona Mariagrazia Bregoli, e dal presidente della Camera penale veronese Claudio Avesani. “Un evento che punta ad accrescere l’attenzione - sottolinea l’assessore Neri - sulle problematiche relative alla vita in carcere e sulle effettive possibilità di reinserimento lavorativo dei detenuti al termine della loro reclusione. Il lavoro rappresenta un mezzo fondamentale per ridare dignità ai reclusi e per farli allontanare da future scelte di vita sbagliate”. Il programma delle visite guidate prevede due turni: dalle 9 alle 10 (primo turno) e dalle 10 alle 11 (secondo turno). Dalle 11 alle 12.30 si terrà una tavola rotonda introdotta dalla direttrice del carcere Mariagrazia Bregoli con brevi interventi programmati di professionisti e realtà imprenditoriali che già operano all’interno della struttura. Dalle 12.30 alle 13.15 verrà offerto un aperitivo organizzato dalla casa circondariale. Altri due turni di visita si terranno al pomeriggio: dalle 13.30 alle 14.30 (terzo turno) e dalle 14.45 alle 15.45 (quarto turno). Firenze: “così abbiamo portato il Softball dentro Sollicciano” piananotizie.it, 26 luglio 2018 Sport e integrazione rappresentano da sempre un binomio inscindibile. Lo sport è infatti quella “chiave” particolare che permette di aprire tutte le porte. È stato così anche nei giorni scorsi quando, in collaborazione con il Comitato Regionale Toscana Baseball e Softball, la Sestese Softball ha portato, nel vero senso della parola, il softball dentro il carcere di Sollicciano. E quella che ne è venuta fuori è stata un’esperienza indimenticabile. La partita è arrivata a conclusione di uno dei molteplici progetti scolastici, realizzati all’interno delle carceri fiorentine dal Cpia 1 Firenze, che si è svolto fra maggio e luglio e ha coinvolto 30 allievi della scuola dell’ordinario maschile, di nazionalità diverse. Un progetto realizzato e condotto dall’insegnante Simona Grateni e dall’ex l’ex manager della Nazionale femminile italiana Marina Centrone in partenariato appunto con il Comitato Regionale Toscana Baseball e Softball. Nel contesto carcerario l’attività ricreativa e sportiva ha infatti un particolare significato nel quadro del programma rieducativo che, per come è concepito dalla legge numero 354 del 1975, “è inteso a promuovere lo sviluppo armonico e globale della personalità del detenuto”. Il progetto si è svolto all’interno dell’Istituto, in palestra e/o presso il campo da gioco. E nell’anno scolastico 2018/2019 l’insegnante proverà di nuovo a proporlo anche presso la sezione femminile. Un progetto, anche questo da sottolineare, unico nel panorama scolastico, carcerario e sportivo nazionale (per la cronaca Sollicciano ha battuto il Softball Sestese per 8-6). “Fondamentale in questo contesto - si legge sulla pagina Facebook della società sestese - diviene lo sport di squadra che è utilizzato non, sottolineiamo “non”, come premio, ma come semplificazione di un mondo in cui le regole vanno rispettate. Il divertimento dei detenuti diventa così un’occasione di far meglio comprendere il rispetto reciproco. Viene offerto alle persone recluse presso la Casa Circondariale N.C.P. di Sollicciano di Firenze, la prospettiva di una possibile e completa integrazione, dando ai detenuti la possibilità di realizzare le proprie capacità atletiche e di fare squadra”. “Rompiamo il silenzio” per comprendere i migranti di Dacia Maraini Corriere della Sera, 26 luglio 2018 Non si possono prendere decisioni su un popolo in fuga senza sapere perché e come scappa: padre Zanotelli invita a sottoscrivere un appello in tal senso. Padre Alex Zanotelli ci invita a sottoscrivere un appello che ha chiamato “Rompiamo il silenzio sull’Africa”. La conoscenza, dice Zanotelli è alla base di qualsiasi scelta consapevole. Non si possono prendere decisioni su un popolo in fuga senza sapere da cosa scappa, come scappa e come pensa di disporre del suo futuro. È l’ascolto che manca, il ragionamento, la voglia di capire e rimediare con umanità e consapevolezza. Padre Zanotelli, che in Africa ci vive da anni, cerca di farci ragionare e rammentare. Ricordiamo prima di tutto che i Paesi africani sono stati depredati dalle grandi nazioni europee delle loro ricchissime materie prime senza che nessuno (salvo un poco gli inglesi) abbia pensato di costruire in cambio strade, ospedali, scuole, una rete di sviluppo possibile. Troppo spesso si sono portate via grandi ricchezze lasciando solo miseria e inquinamento. E ricordiamo, quando li accusiamo di scappare da guerre micidiali, che “solo lo scorso anno l’Italia ha esportato in Africa armi per un valore di 14 miliardi di euro”. Se, come dice padre Zanotelli, crudeltà porta crudeltà, violenza produce violenza, e le armi semplici approdano ad armi sempre più sofisticate e cieche, si tratta oggi di fare un enorme sforzo comune di chiarezza, di razionalità, per costruire una pace della convivenza e della ragionevolezza, facendo lavorare l’intelligenza politica e una visione a lunga scadenza. Ma certo qui entriamo in un dilemma antico a cui non è facile dare risposta: come affrontare un popolo che chiede il diritto di sopravvivere emigrando in terre altrui? Per fare lavorare l’immaginazione basterebbe leggere alcune testimonianze di nostri connazionali che fino alla fine dell’ultima guerra si sono trovati in condizioni molto simili di povertà, di paura, di assenza di futuro, per capire che chi non ha speranze in casa propria, emigra, anche a rischio della vita. E continuerà a farlo, nonostante tutti i divieti. Quali le alternative? La ragione ci dice che chiudere una frontiera e spingere le folle in arrivo verso il Paese vicino non è una soluzione ragionevole e a lungo andare porterà a soluzioni violente. La ragione ci dice che i possibili rimedi possono essere solo due: o una integrazione sistematica e ben governata o ricreare situazioni di vivibilità nei Paesi devastati dalla guerra o dalle carestie, non dando soldi ai governanti corrotti ma investendo nella pace (l’Onu può farlo e già lo fa in qualche zona), costruendo strade, ospedali, scuole, case. Contro ogni ragionevolezza invece ancora troppi, di fronte ai disperati che bussano alla porta del nostro Paese, credono che la sola cosa da fare sia sprangare ogni ingresso e tappare le orecchie alle grida di aiuto di chi sta affogando in mare. Se poi qualcuno più ardimentoso pensa di entrare per forza, si grida al diritto di prendere le armi e sparare: questa è casa nostra e nessuno può metterci piede! La cosa più incredibile è che proprio coloro che si sentono superiori perché praticano una religione che predica l’amore per il prossimo, siano i più feroci nel ribadire la legittimità di colpire chi entra nel proprio giardino. A questo punto mi chiedo, ma Cristo avrebbe mai detto: “Prima gli italiani”? O “prima i cristiani! gli altri intanto possono crepare”? “È inaccettabile il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane Stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga”, continua Padre Alex, “È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur. È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni. È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga. È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai. È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti stanno preparandosi a costituire un nuovo Califfato dell’Africa nera. È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi. È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa, soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi. È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia, Sud Sudan, Nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’Onu. È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile. È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi Paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi”. Da ricordare fra l’altro che la maggior parte dei fuggitivi invadono i Paesi africani vicini. Non tutti vogliono venire in Europa. E, per inciso: l’Italia, fra i Paesi europei, è quello che ne ospita di meno. Allora perché la paura si è impadronita dell’animo degli italiani, tanto da farli prendere decisioni condivise da un dittatore sovranista reazionario come Erdogan? C’è qualcuno che punta su questa paura per prendere in mano le leve del potere? Certamente qualcosa di autentico in questa paura c’è e non va presa alla leggera. Quando la gente si sente minacciata nella propria identità, non riesce a ragionare e si affida all’uomo forte, dimenticando i principi sacri della convivenza. Ma veramente esiste questo pericolo di perdita di identità? O il nostro concetto di identità è diventato talmente labile da fare pensare che basti un alito di vento straniero per mandarlo in frantumi? Veramente siamo convinti che un 10% di stranieri possa cancellare le nostre conquiste, mettere in dubbio la nostra cultura cristiana, buttare per aria la nostra Costituzione e cancellare quella saggia idea di separazione fra Stato e Chiesa per cui abbiamo combattuto per secoli? William Reich scrive che in momenti di incertezza e paura, gli esseri umani regrediscono: tirano fuori lo spirito del branco che chiede un capo unico, aggressivo e pugnace, non importa se immorale, prepotente ed egocentrico. La storia insegna che quel capo branco li porterà inevitabilmente a una guerra rovinosa. La democrazia si sa, è una meravigliosa conquista, ma fragile e pericolosamente in bilico fra risse e lotte di poteri. In tempi di crisi sembra diventare ancora più fragile e addirittura inutile. Eppure, nella sua fragilità, nelle sue difficili lotte fra maggioranze e minoranze, è la sola capace di insegnarci l’arte della convivenza e della progettualità, la sola capace di assicurare pace e leggi che proteggano i più deboli e assicurino lo sviluppo, la sola che si sollevi sopra la legge animalesca del più forte che domina e fagocita il più debole. Non vale la pena di difenderla all’interno di una Unione Europea, contro ogni tentazione di sovranismo e autarchia? Migranti, stretta di Salvini sull’asilo di Mauro Favale La Repubblica, 26 luglio 2018 “Bloccare le domande di chi commette reati”. Famiglia cristiana lo attacca. Mattarella, allarme razzismo. Meno rifugiati, meno richiedenti asilo, meno migranti sottoposti al regime di protezione internazionale. Il piano di Matteo Salvini è chiaro e sarà il punto centrale del decreto sicurezza a cui il ministro dell’Interno sta lavorando in queste settimane. Con un obiettivo primario: “Bloccare la domanda di asilo a chi commette reati”. Una stretta che il titolare del Viminale illustra durante l’audizione davanti alle commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato, prendendo spunto dal caso dello stupro di pochi giorni fa a Reggio Emilia: “È incredibile che chi stupra non si veda sospendere la domanda di asilo perché il reato non è abbastanza grave”. Anche per questo Salvini sta preparando una lista di reati più ampia, da inserire in decreto, grazie alla quale provare a bloccare l’iter della richiesta di asilo o revocare lo status di rifugiato, protezione concessa a chi può essere perseguitato nel proprio Paese per razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o opinione politica. Un tentativo, quello di Salvini, che si scontra con alcuni rilievi normativi sulla sua applicabilità e per i quali sta cercando una soluzione alternativa. Intanto il ministro annuncia altri 400 posti nei Cpr, i centri di permanenza per il rimpatrio. Gli 880 attualmente disponibili “non bastano. Entro l’anno ce ne saranno di nuovi nell’ex carcere di Macomer a Modena, a Gradisca d’Isonzo e Milano”. Un vero e proprio “pacchetto migranti” che si aggiunge al calo degli sbarchi sbandierato dal ministro: “Dal primo giugno, quando si è insediato il governo, sono sbarcati in 4.777 contro i 38.220 del 2017”. Nel dettaglio dei numeri, però, Salvini non elenca i migranti morti in mare: 1.490 dal primo gennaio al 18 luglio. Contabilità che ricorda invece Famiglia Cristiana in edicola oggi: in copertina la foto del ministro dell’Interno e il titolo: “Vade retro Salvini”. “Niente di personale o ideologico - precisa il settimanale cattolico - si tratta di Vangelo”, scrive, ricordando l’impegno della Chiesa “contro certi toni sprezzanti e non evangelici”. “L’accostamento a Satana mi pare di pessimo gusto”, commenta il leader della Lega. “Sono l’ultimo dei buoni cristiani - ricorda Salvini che meno di un mese fa aveva chiuso il comizio di Pontida giurando su un rosario - ma non penso di meritare tanto”. Due ore prima, però, a proposito di toni sprezzanti, il titolare del Viminale aveva parlato di 30.000 rom “che si ostinano a vivere nei campi” come di una “sacca minoritaria e parassitaria”. Una risposta alle parole del capo dello Stato Sergio Mattarella per gli 80 anni del Manifesto della razza: “Le leggi razziste portarono alla feroce persecuzione degli ebrei, presupposto dell’Olocausto - scrive Mattarella. Allo stesso modo ci si accanì contro Rom e Sinti, e anche quelle mostruose discriminazioni sfociarono nello sterminio, il porrajmos, degli zingari”. Parole che arrivano il giorno dopo lo stop della Corte per i diritti umani di Strasburgo allo sgombero di un campo rom nella capitale. Una Corte “curiosa”, secondo Salvini, “che ci mette anni per arrivare al alcune sentenze e una manciata di minuti per arrivare ad altre decisioni. Non sarà Strasburgo a bloccare il ripristino della legalità”. Al suo fianco, al Viminale, annuisce la sindaca di Roma, Virginia Raggi, che rivendica la sua linea: “Fermezza e accoglienza”, dice la prima cittadina al termine di un faccia a faccia col ministro. “Chi pensa che per chiudere un campo ci vogliano 2 giorni è in malafede”, afferma e intanto incassa la disponibilità all’uso della forza pubblica per lo sgombero del campo nomadi offerta da Salvini. “Questo è e questo sarà”, conclude il vicepremier. “Tutto procede da programma”. Migranti. Così il ministro Toninelli ha mentito sulla chiusura dei porti di Andrea Tornago L’Espresso, 26 luglio 2018 In quelle ore concitate in cui Salvini lanciò la prima azione in Europa per fermare il salvataggio dei migranti, il titolare delle Infrastrutture non firmò nessun decreto. Per la prima volta un governo ha agito esclusivamente via Twitter. Senza nessun atto formale. Giacca scura. Sguardo tenebroso. Non è più tempo di slogan, ma di azione. È il 10 giugno, una foto di Matteo Salvini sta per fare il giro del mondo. “#Chiudiamoiporti” è l’hashtag. Ma in uno stato democratico non basta un tweet per un’azione così dura, la prima in tutta Europa pensata per fermare i migranti e chi li salva dal mare. Serve un decreto, come recita il codice della navigazione. Per il neoministro dell’Interno Salvini è fondamentale l’appoggio del collega del M5s, Danilo Toninelli, titolare delle Infrastrutture e dei Trasporti, che ha la competenza sui porti. E in una prima fase i due ministri sembrano parlare con una voce sola: diramano note congiunte, intimano a Malta di aprire i suoi porti e “non voltarsi dall’altra parte”, minacciano il sequestro delle imbarcazioni delle Ong che si avvicinano ai porti italiani. In realtà non c’è un solo atto formale, un solo decreto. La strategia del governo gialloverde viaggia su canali esclusivamente orali fino al 29 giugno, quando ad avvicinarsi alle acque italiane sono le imbarcazioni Open Arms e Astral della Ong spagnola Proactiva. Salvini insiste: quelle navi devono vedere l’Italia soltanto “in cartolina”, e annuncia la chiusura dei porti anche per gli scali tecnici e i rifornimenti. Ma è il ministro pentastellato a imprimere un salto di qualità all’esecutivo: Toninelli rende noto con un comunicato di aver disposto, “in ragione della nota formale che giunge dal Ministero dell’Interno e adduce motivi di ordine pubblico, il divieto di attracco nei porti italiani per la nave Ong Open Arms, in piena ottemperanza dell’articolo 83 del Codice della navigazione”. Il primo provvedimento formale del governo sui porti, così lo descrivono i giornali. Ma in quelle ore, e nei giorni successivi, il decreto non si trova. Non l’hanno visto i marinai e i legali di Open Arms, a cui quell’atto dovrebbe essere notificato. Non riescono a recuperarlo i giornalisti, nonostante le rassicurazioni continue del portavoce del ministro Toninelli. Quel documento non c’è. L’Espresso è in grado di rivelare che in quelle ore concitate, in cui le uniche imbarcazioni di Ong nel Mediterraneo in grado di raggiungere la zona di ricerca e soccorso libica erano quelle di Proactiva Open Arms, il ministro Toninelli ha mentito. Il decreto non è mai stato firmato. La conferma arriva il 23 luglio scorso dal Comando generale delle Capitanerie di porto, in risposta a una richiesta di accesso agli atti di Open Arms: “Non risulta che sia stato adottato, nel caso indicato, alcun provvedimento ministeriale ai sensi dell’articolo 83 del Codice della navigazione” precisa il capo del terzo reparto, contrammiraglio Sergio Liardo. Nessun problema di ordine pubblico. Nessun decreto del ministro. La Guardia costiera italiana esclude anche che sia stato firmato qualsiasi altro provvedimento di interdizione “del mare o degli ambiti portuali” nei confronti di navi della Ong Proactiva. Contattato dall’Espresso, il ministro Toninelli non ha voluto commentare. Fonti del Mit sostengono che “il provvedimento è decaduto immediatamente, dato che poco dopo la Open Arms prese a bordo una sessantina di migranti, e l’atto non poteva più reggere essendo valido per l’assetto della nave con a bordo il solo equipaggio. Il decreto in realtà era in formazione, perché era appena arrivata la nota del Viminale”. Non si tratta solo di una questione formale. Il 28 giugno le due imbarcazioni Astral e Open Arms sono rimaste le uniche navi di Ong attrezzate per la ricerca e il soccorso in mare in grado di operare davanti alla Libia. Sono partite da Valencia e, dopo giorni di navigazione, avanzano la richiesta di uno scalo tecnico: la nave più grande ha bisogno di un cambio di equipaggio, di viveri, di fare rifornimento. Dopo aver incassato il diniego di Malta, il capitano della Open Arms, Marco Martínez Esteban, gira la richiesta di attracco alla Capitaneria di porto di Pozzallo, in Sicilia. Comincia uno scambio di email tra la nave spagnola e la capitaneria italiana, con richiesta di una serie di informazioni da parte dell’autorità portuale sul motivo della scelta di Pozzallo in luogo di La Valletta, sulla quantità di carburante necessario e l’autonomia residua dell’unità navale. Intanto dal Viminale parte una nota urgentissima a firma del capo di Gabinetto, Matteo Piantedosi, indirizzata al ministro dei Trasporti Toninelli: “Non si possono escludere riflessi sull’ordine pubblico derivanti dall’accoglimento dell’istanza” di accesso al porto presentata dalla Ong, scrive il dicastero di Salvini. Non solo: per gli Interni non c’è “alcuna situazione emergenziale” nelle richieste avanzate da Open Arms, che nel frattempo rinuncia ad attraccare nel porto di Pozzallo e con il carburante al minimo continua a muoversi in acque internazionali, dirigendosi verso la zona search and rescue antistante la Libia. Il resto è cronaca. Quel giorno, in un naufragio, secondo l’Unhcr muoiono più di cento persone nelle acque libiche, tra cui tre bambini. Gran parte dei corpi rimangono in mare. Verso le 9 del mattino del 29 giugno l’equipaggio della Open Arms aveva intercettato una comunicazione sul canale 16 relativa a un barcone in pericolo nella zona di Al-Khums, vicino alla costa di Tripoli, a 80 miglia nautiche dalla nave. Ma la Open Arms non poteva raggiungerlo facilmente: “È molto lontano e hanno avvisato i libici. Noi siamo con il diesel al minimo - ha raccontato il comandante di Open Arms al quotidiano spagnolo El Diario - non siamo in grado di accelerare per arrivare in tempo”. Roma non lancia l’allarme tanto che, alla fine, l’allerta ufficiale sul natante da soccorrere la diramerà La Valletta. Ma nonostante l’offerta di supporto da parte della Ong, quel giorno “l’intervento della nave Open Arms non viene accordato dalle autorità italiane - ricorda la Ong Proactiva - che non rispondono positivamente alle nostre chiamate”. In serata, mentre comincia a circolare la notizia di un naufragio con cento dispersi, arriva la nota di Toninelli che nega ufficialmente l’approdo in porto alla Open Arms. In un primo momento il ministro sbaglia persino imbarcazione, sostenendo di aver “disposto il divieto per la nave Ong Astral”. Due ore dopo la rettifica: “La nave a cui si riferisce il provvedimento è la Open Arms e non la Astral. Entrambe fanno capo alla Ong Proactiva Open Arms”. Ma non esiste nessun provvedimento. “È stato un tentativo di far desistere le Ong e le strutture che avrebbero potuto fare i salvataggi in mare, una sorta di messaggio all’Europa e al mondo - illustra l’avvocato di Open Arms, Rosa Emanuela Lo Faro - perpetrato via social network, senza ricorrere ad atti formali. Si è trattato quindi sicuramente un modus operandi anomalo, perché l’azione di un governo deve esplicarsi attraverso la formazione di atti amministrativi e non via Twitter. Una cosa comunque la possiamo dire con certezza: se la nave di una Ong volesse entrare in un porto italiano oggi potrebbe farlo, perché non è mai stato chiuso nessun porto: i porti italiani sono aperti. Sono stati chiusi solo a parole”. Come nel caso della Aquarius e della Lifeline, la linea dura del governo ha funzionato ancora una volta senza far ricorso a troppe carte bollate: a Salvini sono bastati dei tweet, qualche post su Facebook e un intervento alla radio; a Toninelli l’annuncio di un decreto mai firmato. Per riuscire a mettere in discussione princìpi scolpiti, prima che nelle leggi, in più di duemila anni di storia del Mediterraneo. Salvini contro l’Europa sui rom. E annuncia il “decreto sicurezza” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 26 luglio 2018 Virginia Raggi incontra Matteo Salvini e l’intesa “legge e ordine” tra il ministro dell’interno e la sindaca di Roma si rafforza non di poco. Raggi va al Viminale all’indomani dello stop allo sgombero dell’insediamento rom di Camping River, imposto da un giudizio della Corte europea per i diritti umani. Salvini non manca di appoggiarla comunque, sbeffeggiando il parere che viene da Strasburgo: “A me interessa che la legalità, a prescindere dalle lettere delle Corti, venga ripristinata - dice incontrando i giornalisti dopo il summit - Ho messo a disposizione la forza pubblica per garantirlo”. Solo che lui stesso dimostra di non conoscere bene l’oggetto della questione, quando assicura: “Mi sembra che il comune abbia risposto in meno di 24 ore alla Corte”. In realtà, il ricorso delle tre famiglie al vaglio dell’organismo europeo non riguarda l’ente locale: è rivolto direttamente al governo italiano. Dunque non è l’amministrazione romana a dover rendere conto, anche se gli uffici capitolini potrebbero essere interpellati dal potere centrale. La replica doveva comunque partire entro le 12 di ieri mattina. A Salvini viene chiesto se focalizzare l’attenzione sui rom non rischi di alimentare il razzismo. “Il problema sono i 30 mila rom che in Italia si ostinano a vivere nei campi, probabilmente spinti da chi ci guadagna - reagisce il ministro - Il problema è questa sacca di minoranza parassitaria, noi chiediamo solo parità di diritti e di doveri”. Il ministro leghista riferisce di una spesa annua del comune di Roma di 25 milioni di euro per i rom, una cifra che viene spesso sventolata dalla sindaca ma che, spiegano gli addetti ai lavori, non risponde a realtà ormai da anni, da quando l’inchiesta su “mafia capitale” ha ridimensionato il volume degli appalti. Il vertice con Raggi sarebbe servito anche a fare un punto sulle occupazioni abitative. Salvini vorrebbe procedere ad alcuni sgomberi proprio nella città in cui 10 mila persone vivono in palazzi occupati dai movimenti di lotta, per marcare una differenza rispetto ai suoi predecessori. Di questo tema Raggi pubblicamente non parla, anche se la sua amministrazione da tempo ha scelto di rompere con i movimenti e rinunciare ad usare i quasi 200 milioni di euro di fondi regionali da investire per il diritto alla casa: si rifiuta di riconoscere le prerogative degli occupanti, che quei fondi hanno ottenuto in anni di lotte. Sul tema ritorna Salvini nel pomeriggio, audito in Senato. “Ho intenzione di affrontare la questione nell’intento di fornire ogni supporto possibile ai sindaci, nell’ottica di garantire sempre e comunque la legalità”. Promette “Soluzioni operative, concrete e efficaci” di concerto con Confedilizia. L’associazione di categoria della grande proprietà immobiliare saluta la vicinanza del ministro: “Il nostro sistema legislativo è, di fatto, più garantista con chi occupa che con chi subisce l’occupazione”, dicono. Che il clima si stia facendo pesante l’aveva fatto capire la recente sentenza del Tribunale Civile di Roma che condannava il Viminale a rifondere la proprietà di una grande occupazione romana per il danno provocato dal mancato sgombero. È la prevalenza delle garanzie private sui diritti sociali, che rivendicano gli immobiliaristi: “La tutela del diritto di proprietà - afferma Confedilizia - non può essere negata per risolvere problemi di cui deve farsi carico il sistema pubblico”. Dal canto suo, a ulteriore conferma che l’incontro con Raggi e la calda estate romana costituiscono solo le prove generali, Salvini annuncia un decreto sicurezza che coinvolgerà “5 o 6 ministeri”. “Contiamo di approvarlo entro l’estate” dice. Il provvedimento, pare sia pronto “all’80%”. Dovrebbe occuparsi anche di “immigrazione, ordine pubblico, decoro e sicurezza urbana”. “Piano Rom”, il fallimento di una politica basata sull’esclusione di Alessandro Capriccioli* Il Manifesto, 26 luglio 2018 Siamo di fronte allo sgretolamento di un “piano rom” che fin dai suoi primi passi ha dimostrato tutta la sua inefficacia. Il compito della politica dovrebbe essere, ove possibile, quello di risolvere i problemi. E certamente non quello di crearli. Mentre sarebbe un’esagerazione sostenere che in Italia, e in particolare a Roma, la cosiddetta “questione rom” sia stata interamente fabbricata dalla politica, è senz’altro corretto affermare che le politiche di segregazione adottate a partire dagli anni 80 abbiano giocato un ruolo determinante nell’aggravarlo in modo pesantissimo. Laddove sarebbero stati necessari, come più volte indicato in primo luogo dall’Unione europea, percorsi di inclusione sociale, abitativa, scolastica e lavorativa, si è scelta invece, in modo pressoché sistematico, la strada dell’esclusione, dell’isolamento e della segregazione operata su base etnica: aggravando via via la situazione e aumentando le tensioni sul territorio, salvo poi, in non pochi casi, utilizzare per aumentare il proprio consenso, gli stessi problemi che si era contribuito a far precipitare. La vicenda del Camping River, a Roma, sulla via Tiberina, non è che l’ultimo capitolo di questa lunghissima saga al contrario. Dall’annuncio di voler chiudere il campo un anno fa, abbiamo assistito a un susseguirsi di azioni da parte del Comune, rivelatesi poi inefficaci: l’offerta di un sostegno all’affitto per la stipula di contratti che le famiglie rom, abbandonate a se stesse, non sarebbero mai riuscite a ottenere (cosa che si è puntualmente verificata); poi la proposta di una non meglio identificata accoglienza mediante separazione dei nuclei familiari; il rimpatrio volontario assistito; infine, verificato l’inevitabile fallimento di queste misure, l’attribuzione della responsabilità alla mancata volontà degli ospiti fino ad arrivare nelle ultime settimane alla distruzione fisica dei moduli abitativi di proprietà dello stesso Comune e allo sgombero dei giorni scorsi. Sgombero che, come già in passato, è stata la Corte europea dei diritti umani a sospendere dopo il ricorso di alcune famiglie, richiamando il principio che nessun intervento di questo tipo può essere attuato se prima a donne, uomini e minori non sia stata assicurata un’alternativa valida. Siamo di fronte al fallimento di un “piano rom” che fin dai suoi primi passi ha dimostrato tutta la sua inefficacia. Perché la questione è complessa e c’è bisogno di tempo, di interventi programmati, di conoscenza delle singole situazioni: è evidente, ad esempio, come le famiglie vadano affiancate nella ricerca di una casa in affitto e non basti offrire dei soldi. Al netto della propaganda e dei proclami, che pure in queste ore non si sono fatti attendere (Salvini che definisce “buonista” la pronuncia della Cedu e incontra la sindaca Raggi, a sua volta ormai quasi del tutto “salvinizzata” che chiama in soccorso l’esercito), il punto rimane sempre lo stesso: cosa dovrebbe fare la politica per invertire la tendenza e iniziare a risolvere i problemi anziché aggravarli? Conosciamo la risposta. E la conosciamo da anni, perché è quella indicata più volte dalla Ue e dalla stessa “Strategia nazionale di inclusione”: un’indagine conoscitiva (cosa molto diversa dai “censimenti” effettuati dalle forze dell’ordine e finalizzati a “smascherare” i supposti ricchi che vivono nei campi) che possa determinare, nucleo familiare per nucleo familiare, competenze, necessità, criticità e aspirazioni; poi, sulla base dei dati raccolti, percorsi di inclusione personalizzati da adottare con azioni precise e tempi certi, contando sui finanziamenti che l’Ue fornisce a questo scopo. È il metodo che ha condotto altri paesi europei, prima tra tutti la Spagna, a risolvere la questione nel giro di un paio di decenni, nel rispetto dei diritti umani e senza ricorrere all’impiego di “ruspe”, più o meno metaforiche: lo stesso metodo che, probabilmente, non si intende adottare perché non si è capaci di investire nel futuro, di mettere in campo una visione complessiva e di perseguirla. Forse perché è più comodo continuare a lucrare consenso sulla pelle di qualche migliaia di poveri. *Consigliere regionale Più Europa Radicali nel Lazio Caporalato. Pecore e cipolle, le vite appese nella Piana di Gioia Tauro di Antonio Maria Mira Avvenire, 26 luglio 2018 Osman si alza tutti i giorni alle 2 di notte. Esce dalla sua tenda, nella baraccopoli di San Ferdinando. Inforca la bicicletta e pedala, pedala, pedala per 60 chilometri fino alle campagne tra Vibo Valentia e Lamezia Terme. Va a raccogliere cipolle, le famose e dolci cipolle di Tropea. Ci va in bici per risparmiare i 4 euro che i caporali pretendono ogni giorno per trasportare i migranti da San Ferdinando ai campi. Già, perché ancora si lavora in questa zona di Calabria - meno che durante la stagione autunnale/invernale, quando a raccogliere arance, clementine, kiwi e olive arrivano più di 4mila braccianti immigrati, costretti a vivere nell’enorme baraccopoli, nella nuova ma piccola tendopoli, in capannoni abbandonati. Ora gran parte di loro sono in Basilicata e Puglia a raccogliere pomodori e uva, o a sfiancarsi nelle serre siciliane. Ma un migliaio sono ancora qui. E sempre vittime di caporali e imprenditori sfruttatori. Ancor di più in questo periodo quando il lavoro è lontano. Così alle 4 del mattino passano i pullmini e i furgoni dei caporali. Una scena che abbiamo visto tante volte. E che osserviamo da lontano. “Sono sicuramente d’accordo con gli imprenditori agricoli, sanno dove portarli. I caporali nella stragrande quantità sono connazionali dei braccianti africani, così ci dicono nelle interviste che facciamo come “sindacato di strada”“, ci spiega Celeste Logiacco, segretario generale della Flai Cgil della Piana di Gioia Tauro. Intanto Osman pedala da quasi due ore (in tutto impiega 2 ore e mezza) e per farsi forza e non addormentarsi manda messaggi col cellulare al parroco di Rosarno, don Roberto Meduri, che da anni si occupa dei braccianti africani. Cosi sei giorni su sette. E dopo la pedalata, il lavoro sotto il sole. Tutto a mano, con una zappetta, tra le lunghissime file di cipolle. Sono più di cento gli “abitanti” di tendopoli e baraccopoli che ogni giorno vengono qui a lavorare. Ma solo Osman in bici. Un mezzo molto comune tra i migranti, ma per piccole distanze, quando il lavoro è nella Piana. Quello di Osman è sicuramente un record. Tutti dicono di avere un contratto, 45 euro al giorno. Bene. Ma poi scopriamo che 10-15 euro li devono togliere per pagarsi i contributi (non è corretto), altri quattro li danno al caporale, e così gli rimangono in tasca i soliti 25 euro al giorno. Come d’inverno per gli agrumi. Inoltre lavorano anche dieci ore al giorno. Anche Osman, che poi riprende la sua bicicletta e si rifà 60 chilometri fino a “casa”, ancora 2 ore e mezza e forse più. Stanchissimo, ma tiene duro per risparmiare quei 4 euro. E mentre Osman pedala giriamo tra i paesi della Piana di Gioia Tauro e scopriamo una novità. Ragazzi africani che conducono greggi di pecore. Mai visto. Proviamo a parlare con loro, aiutati dagli operatori della Flai che fanno “sindacato di strada”. Dicono che si trovano bene, ma poi emerge che li pagano anche meno che per la raccolta sui campi, perfino 15 euro al giorno, con la scusa che gli danno una casa che in realtà è un casolare fatiscente in campagna, poco più di una baracca, senza acqua né luce. “È una novità degli ultimi mesi - ci conferma Celeste Logiacco -. Finora non avevamo mai incontrato ragazzi che si improvvisavano pastori. Dobbiamo ancora capire come avviene l’ingaggio, se ci sono caporali o no”. Sicuramente sfruttati ma in questa stagione il lavoro è davvero poco, malpagato e duro. Oggi nella Piana ci sono 38 gradi. Eppure c’è chi lavora. E sono lavori davvero umili e pesanti. L’altra attività in questa stagione è infatti la pulitura dei campi e soprattutto delle serre. Tutto a mano. In ambienti, le serre, intrisi di pesticidi. Pagati ancora meno e totalmente senza contratto. Ovviamente solo giovani africani. Molti sono anche rifugiati. Tutt’altro che privilegiati. Non solo sfruttati da caporali e imprenditori disonesti, ma anche ostacolati dalle istituzioni. Infatti raccogliamo una grave denuncia. L’Inps di Palmi non riconosce l’indennità di disoccupazione a chi ha il permesso di soggiorno per motivi umanitari, proprio quello contestato dal ministro dell’Interno, Matteo Salvini che vorrebbe eliminarlo. Fatto sta che mentre nel resto d’Italia l’indennità viene giustamente pagata, per i braccianti di San Ferdinando è stato detto di no. Una situazione confermata dal sindacato che già si è attivato: “Stiamo intervenendo su questa situazione - ci spiega Celeste Logiacco -. Abbiamo contattato l’Inps nazionale perché non possono respingere la prestazione solo perché sono titolari di un permesso di soggiorno piuttosto di un altro. E non si tratta solo dei permessi per motivi umanitari, ma anche di quelli per ricongiungimento familiare”. Davvero non finiscono mai i problemi per queste persone che, lo ricordiamo per l’ennesima volta, sono lavoratori. Libia. Continua la detenzione arbitraria dei rifugiati e dei migranti La Repubblica, 26 luglio 2018 L’appello di Medici Senza Frontiere. Almeno 11.800 persone che tentavano di attraversare il Mediterraneo sono state riportate in Libia solo quest’anno. L’organizzazione medico-umanitaria Medici Senza Frontiere (MSF) chiede di porre fine alla detenzione arbitraria di rifugiati, richiedenti asilo e migranti in Libia, dopo il drammatico aumento del numero di persone intercettate nel Mediterraneo dalla Guardia Costiera libica, supportata dall’Unione Europea. Almeno 11.800 persone che tentavano di attraversare il Mediterraneo su precari barconi inadatti al mare sono state riportate in Libia solo quest’anno secondo le organizzazioni delle Nazioni Unite, con intercettazioni quasi quotidiane nelle acque internazionali tra Italia, Malta e Libia. Una volta sbarcate, le persone vengono trasferite in centri di detenzione non regolamentati lungo la costa. Terribili livelli di violenza. “Persone appena scampate a situazioni di vita o di morte in mare non dovrebbero essere trasferite in un pericoloso sistema di detenzione arbitraria” - ha detto Karline Kleijer, responsabile delle emergenze per Msf - molti di loro hanno già sofferto terribili livelli di violenza e sfruttamento in Libia e durante gli estenuanti viaggi dai loro paesi d’origine. Ci sono vittime di violenza sessuale, di traffico, torture e maltrattamenti. Tra i vulnerabili ci sono bambini, a volta senza un genitore o un accompagnatore, donne incinte o in fase di allattamento, anziani, persone con disabilità mentali o in gravi condizioni mediche”. Non si sa cosa accade nei centri di detenzione. Senza un sistema di registrazione formale e reportistica, una volta che una persona è all’interno di un centro di detenzione non c’è modo di tracciare cosa le accade. I detenuti non hanno la possibilità di questionare la legalità della loro detenzione o dei trattamenti che subiscono. I programmi di evacuazione gestiti dall’Agenzia delle Nazioni Unite per le Migrazioni (Iom) e dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) per aiutare rifugiati e migranti a uscire dalla detenzione arbitraria sono stati rafforzati l’anno scorso ma riescono ad aiutare solo una piccola parte della popolazione rifugiata e migrante in Libia. La misura principale, facilitata dall’Iom, consiste nel rafforzare i cosiddetti rimpatri “volontari” dei migranti dai centri di detenzione ai loro paesi di origine, con 15.000 persone già rimpatriate da novembre. Non c’è rimpatrio volontario: le persone non hanno alternative. Si tratta di uno sviluppo positivo quando supporta persone bloccate in Libia che vogliono tornare a casa, ma la natura volontaria di questi rimpatri è contestabile perché le persone non hanno altra alternativa formale per uscire dai centri. L’Unhcr ha evacuato poco più di 1.000 dei rifugiati più vulnerabili, ma la maggior parte di loro è stata portata in Niger dove attende urgentemente di essere reinsediata in altri paesi. Come conseguenza dell’aumento delle intercettazioni in mare, le équipe di MSF a Misurata, Khoms e Tripoli riscontrano un netto aumento nel numero di rifugiati, migranti e richiedenti asilo bloccati nei centri di detenzione già sovraffollati. Quelle persone rinchiuse a Khoms, con bambini piccoli. Recentemente, MSF ha fornito assistenza medica in un solo giorno a 319 persone intercettate in mare e portate in un centro di detenzione a Tripoli, la maggior parte delle quali era stata detenuta dai trafficanti per diversi mesi prima di tentare la traversata del Mediterraneo. Intorno a Misurata e Khoms, MSF fornisce cure a persone con ustioni di secondo grado, scabbia, infezioni respiratorie e disidratazione. In un’occasione, persone intercettate in mare sono state portate al centro di detenzione senza vestiti, perché avevano perso tutto in mare. “A Khoms ci sono oltre 300 persone, tra cui bambini molto piccoli, rinchiuse in un centro di detenzione sovraffollato. Il caldo è asfissiante, non c’è areazione e l’accesso ad acqua potabile pulita è scarso - è acqua salata mista a liquami” dice Anne Bury, vice coordinatore medico di MSF in Libia. “La situazione nei centri di detenzione è insostenibile, il clima è molto teso, le persone sono esposte ad abusi di ogni sorta. Le persone sono disperate, vediamo ferite e fratture. Alcune tentano di fuggire, altre fanno lo sciopero della fame.” Le conseguenze della politica europea. Questa situazione è il risultato del tentativo dei governi europei di impedire a qualunque costo a rifugiati, migranti e richiedenti asilo di raggiungere l’Europa. Elemento centrale di questa strategia è equipaggiare, formare e supportare la Guardia Costiera libica perché intercetti le persone in mare e le riporti in Libia. Navi non libiche non possono infatti riportare legalmente i migranti in Libia perché il paese non è riconosciuto un posto sicuro. Ma le persone soccorse in acque internazionali nel Mediterraneo non devono essere riportate in Libia: devono essere portate in un porto sicuro, come prescritto dal diritto internazionale e marittimo. “La Libia non può essere considerata una soluzione accettabile per prevenire gli arrivi in Europa” ha detto Kleijer di MSF. “Rifugiati, richiedenti asilo e migranti intercettati in mare non devono essere riportati in Libia e non devono essere detenuti nel paese su basi arbitrarie e in condizioni disumane”. MSF in Libia. Da circa due anni, MSF fornisce cure mediche a rifugiati e migranti nei centri di detenzione in Libia che rientrano formalmente sotto l’autorità del Ministero dell’Interno del paese e del suo Dipartimento per combattere l’immigrazione illegale (Dcim) a Tripoli, Khoms e Misurata. Ai detenuti non viene garantito accesso alle cure mediche - che vengono fornite da una manciata di organizzazioni umanitarie come MSF o da agenzie delle Nazioni Unite, che riescono ad avere una presenza limitata nel paese nonostante la violenza e l’insicurezza diffuse. Giappone. Giustiziati gli ultimi sei membri della setta del gas sarin Corriere della Sera, 26 luglio 2018 Tutti e tredici i membri sono stati giustiziati. Erano stati considerati tra i responsabili degli attacchi del 1995, compiuti nella metropolitana di Tokyo col gas sarin. Il governo giapponese ha giustiziato i 6 membri ancora detenuti appartenenti alla setta Aum Shinrikyo, considerati tra i responsabili degli attacchi del 1995, compiuti nella metropolitana di Tokyo col gas sarin. La loro condanna a morte segue quella di inizio mese del fondatore del culto, Shoko Asahara - il primo ad essere giustiziato assieme ad altre 6 condannati, in connessione ad una serie di crimini commessi dalla setta “Verità suprema”, che idealizzava la fine del mondo. Le udienze dei membri di Aum sono andate avanti per oltre 20 anni nelle aule dei tribunali giapponesi, con quasi 200 incriminazioni e 12 condanne a morte. La condanna - Lo stesso Asahara era stato arrestato nel maggio del 1995, due mesi dopo l’attacco del 20 marzo compiuto nella metropolitana della capitale nipponica, in cui ci furono 13 morti, e più di 6.200 persone rimasero coinvolte. La televisione pubblica Nhk riferisce che tutte le 13 persone appartenenti alla setta, in attesa di esecuzione, sono state giustiziate. L’attacco - A più di venti anni di distanza i giapponesi ancora ricordano con terrore la strage del 20 marzo 1995 quando piccole sacche contenenti gas sarin furono lasciate nei vagoni della metropolitana di Tokyo. I passeggeri ebbero appena il tempo di notare quello strano fumo che si diffondeva nella carrozza e causava un forte bruciore agli occhi. In pochi secondi morirono 13 persone e migliaia rimasero ferite. Nei mesi a seguire i seguaci di Asahara tentarono altri attacchi, tutti falliti. La setta Aum Shinrikyo, che predicava un misto di principi buddisti e induisti, era nata alla fine degli anni 80 e provava a dare delle risposte alle domande esistenziali dei giovani giapponesi: in poco tempo era diventata un culto delirante, secondo cui solo coloro che avevano acquisito capacità soprannaturali avevano la possibilità di sopravvivere. Messico. Rapito e ucciso attivista per i diritti degli indigeni di Andrea Cegna Il Manifesto, 26 luglio 2018 Il sangue continua a scorrere senza sosta in Messico. Martedì 17 luglio, nello stato di Oaxaca, uomini con indosso delle divise militari, hanno assaltato la casa e rapito Abraham Hernández Gonzales, militante del Comitato di difesa dei diritti indigeni. Immediatamente sono state avvisate le forze di polizia che però non si sono attivate. Dopo cinque ore Gonzales è stato trovato morto. Il congresso nazionale indigeno ha immediatamente denunciato “l’impunità e la complicità dei tre differenti livelli di governo (locale, statale e federale) nei crimini contro chi difende la terra e le risorse naturali contro l’accaparramento capitalista”. In Michoacan, invece, nel municipio di Buenavista tre donne sono state uccise a colpi di pistola. Andres Manuel Lopez Obrador, che diventerà presidente del paese il 1 dicembre, promuove e organizza un “foro di riconciliazione nazionale” per fermare violenza e corruzione. A detta di López Ortíz, coordinatrice del processo di pacificazione e amnistia per il futuro governo, avrebbe dovuto partecipare al foro, in video conferenza, Papa Francesco. Netta la smentita vaticana. Non solo, Obrador ha chiesto a padre Solalinde di far da mediatore con l’Ezln per aprire un dialogo di pace. Il sacerdote ha sostenuto di aver fissato l’incontro con i rivoluzionari. Gli zapatisti, pochi giorni dopo le elezioni del 1 luglio, sono stati i primi a prendere le distanze dai festeggiamenti, non riconoscendo Amlo come soggetto del cambiamento reale e radicale. Con un secondo comunicato hanno smentito Solalinde, sostenendo di non aver accettato alcun dialogo. Gli zapatisti hanno anche ricordato che quando accettarono il confronto con il presidente Ernesto Zedillo questo “si è approfittato del dialogo per pianificare l’annientamento della dirigenza zapatista dell’epoca”. E “colui che ha mise in pratica il tradimento, il signor Esteban Moctezuma Barragán, è uno degli eletti che farà parte del governo” futuro. Dopo essere stato votato da 30 milioni di persone Amlo presiederà il foro di riconciliazione nazionale. Inizierà il 7 agosto e terminerà in novembre. Non si parlerà solo di violenza e corruzione ma anche di legalizzazione delle droghe. Dall’altra parte l’Ezln, invece, ripartirà dal Caracol di Morelia, ad inizio agosto, convocando chi “pensa ancora che i cambiamenti importanti non vengono mai dall’alto, ma dal basso” per valutazioni sul processo di raccolte firme a sostegno della candidatura di Marichuy e per organizzare i successivi passi di lotta. Honduras. A processo otto imputati per l’omicidio di Berta Cáceres di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 luglio 2018 Venerdì 27 luglio si svolgerà l’udienza preliminare nei confronti di otto persone sospettate dell’omicidio della nota ambientalista honduregna Berta Cáceres, avvenuto ormai quasi due anni e mezzo fa. A parte resta la posizione di David Castillo Mejía, presidente dell’impresa idroelettrica Desarrollos Energéticos S.A. (Desa), ex generale con importanti legami ancora attivi con l’esercito dell’Honduras. Castillo Mejía è accusato di aver fornito appoggio logistico e altro supporto a uno degli otto indiziati per l’omicidio di Berta Cáceres. La coraggiosa difensora dell’ambiente e dei diritti dei popoli nativi era stata uccisa il 3 marzo 2016 a Intibucá, nella sua abitazione. Insieme ai membri del Consiglio civico delle organizzazioni popolari e native dell’Honduras, stava svolgendo una campagna contro il progetto della Desa di costruire la diga idroelettrica Agua Zarca denunciando l’impatto che avrebbe avuto sul territorio dei popoli nativi Lenca. Un rapporto del gruppo indipendente di avvocati internazionali nominato dalla famiglia Cáceres ha evidenziato una serie di carenze nelle indagini ufficiali. Il rapporto avanza prove sul coinvolgimento di importanti uomini d’affari e di agenti dello stato honduregno nell’omicidio. Negli ultimi due anni, Amnesty International ha documentato tutta una serie di minacce e di denigrazioni contro coloro che cercano verità, giustizia e riparazione per l’assassinio di Berta Cáceres e nei confronti di coloro che continuano a denunciare l’operato di potenti interessi economici ai danni dei nativi e delle comunità contadine. Afghanistan. Dagli hippies ai talebani, la storia è andata a marcia indietro di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 26 luglio 2018 A cavallo del 1970, l’Afghanistan era una meta turistica per tanti europei. Arrivavano in Land Rover o con i pullmini Volkswagen sulla via per l’Oriente. Molti cercavano la spiritualità indiana, ma a volte si accontentavano della marijuana afghana. Si scrivevano guide turistiche, cataloghi sui tesori d’arte di Kabul. C’erano alberghi, ostelli, guest house e i viaggiatori raccontavano della straordinaria ospitalità ricevuta. Gli alberghetti di Chicken Street a Kabul, non avevano le sbarre alle finestre o i metal detector anti attentato come oggi, ma avrebbero dovuto proteggere meglio i parapetti dei terrazzi. Senza aria condizionata, alla ricerca di frescura o di stelle, decine di europei si drogavano sui terrazzi e in preda alle allucinazioni cadevano di sotto. Il piccolo cimitero cristiano della città, prima che venisse profanato dai talebani, era pieno di lapidi di europei. Due i nomi degli italiani che si intravvedono ancora: Ottavio nel 1968 e Giovanni nel 1972. Nell’epoca d’oro del turismo in automobile, 90mila stranieri riuscirono a percorrere i 6mila chilometri che separano Trieste da Kabul. Il pericolo allora era di rimanere senza benzina, non di venire sgozzati. Nella capitale afghana era donna il 40% dei medici, il 70% degli insegnanti e il 15% dei deputati. Nella guida Fodor, best seller del 1969, si legge: “L’Afghanistan è a soli otto giorni di macchina da Parigi, grazie alle nuove strade trans-continentali turche e persiane”. E poi: “in Afghanistan la macchina della modernizzazione si è messa in moto e niente potrà fermarla”. La storia a marcia indietro - È passato quasi mezzo secolo e oggi le informazioni più utili a un aspirante turista in Afghanistan compaiono del sito della Farnesina viaggiaresicuri.it: “Si sconsigliano vivamente viaggi a qualsiasi titolo in Afghanistan in considerazione della gravità della sicurezza interna al Paese, dell’elevato rischio di sequestri e attentati a danno di stranieri in tutto il territorio nazionale”. La guida Fodor si è sbagliata di grosso. Guerra e islamismo - La rincorsa del futuro si è bloccata ai check point talebani. In questa marcia indietro della storia sono stati coinvolti tutti i Paesi lungo il tragitto. Perché ci sono state le guerre, ma c’entra anche l’islamismo come risposta ai fallimenti delle modernizzazioni che scimmiottavano l’Occidente. Da comunisti a nazionalisti - Negli Anni 70, i figli dei fiori europei attraversavano i Balcani sulle strade della Jugoslavia comunista, ma negli Anni 90 e 2000 quelle strade sono state a lungo vietate dalla Guerra Civile che ha generato Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Kossovo, Macedonia. I morti sono stati 100mila. Nell’ex Jugoslavia il comunismo di Tito è scomparso per far posto a vari nazionalismi. Bosniaci e kosovari sono stati bombardati e trucidati perché “diversi” e musulmani. Ma anche finanziati e sovvenzionati per lo stesso motivo religioso. Dai Balcani l’islamismo come sistema di valori e riferimento politico è ritornato in Europa. I petrodollari del Golfo hanno fatto spuntare minareti come mai prima, neppure sotto l’impero ottomano. L’Islam mondiale si è mobilitato per aiutare con volontari e armi e da lì, poi, sono partiti volontari per altre Guerre Sante nel mondo. Da nazionalisti a islamisti - La Turchia di Ataturk era il Paese più laico del Medio Oriente. La modernizzazione post-ottomana la portò nel 1999 ad essere ufficialmente “Paese candidato” all’ingresso nell’Unione europea. La Turchia venne lasciata alla porta e cominciò la progressiva islamizzazione del presidente Erdogan con la sua politica neo-ottomana e il “diritto delle donne a velarsi”. Oggi il confine turco con la Siria è terreno di guerra e quello con l’Iran sorvegliato contro le infiltrazioni di migranti e trafficanti di droga. Non un bel posto per assaggiare un kebab. Da modernizzatori a rivoluzionari - La Persia si è allontanata ancora di più da quello che credevamo sarebbe stata la marcia inarrestabile della Storia. Dal 1979 è diventata Repubblica Islamica d’Iran. Invece dello scia che amava il caviale di Chez Maxim’s e i poliziotti in Harley Davidson è arrivato il turbante dell’Ayatollah Khomeini. L’Iran è oggi la success story anti- occidentale per tutto il mondo islamico. La cravatta o le minigonne sono diventate simbolo di oppressione mentre il velo obbligatorio per legge è il vessillo di identità riconquistata. Risultato: negli ultimi 4 decenni l’Iran è rimasto chiuso al mondo esterno, figurarsi ai pullmini degli hippies.La Rivoluzione più la Guerra con l’Iraq hanno causato oltre un milione di morti e 38 anni di sanzioni internazionali. Ma l’Iran è riuscito comunque ad espandere la sua area di influenza con le armi, la religione e il prestigio fino al Mediterraneo e all’Oceano Indiano. Dai rivoluzionari ai terroristi - L’Afghanistan degli Anni Settanta è oggi irriconoscibile. Nel 1979 i sovietici invasero il Paese per domare la rivoluzione anti comunista e da allora è praticamente sempre stato in guerra. I primi dieci anni distrussero il 95% della capacità agricola e uccisero 2 milioni di persone; 1,2 milioni furono gli invalidi e oltre 6 milioni i profughi. La Guerra Civile afghana (1992-1996) ha fatto altri 30mila morti e 500mila rifugiati. La guerra internazionale al terrorismo (dal 2001 a oggi) ha prodotto altri 300mila morti e 2 milioni di sfollati interni. Scomparse le coltivazione di grano, frutta secca e melograni, le uniche fonti di guadagno vengono oggi dai papaveri per l’eroina e dalle armi. I talebani pagano un loro soldato circa 600 dollari al mese, l’esercito filo occidentale di Kabul circa 500. Non c’è tempo e spazio per essere ospitali con i turisti, bisogna combattere se si vuole mangiare, qualche finanziatore dal Golfo o dall’Occidente si troverà La storia dall’alto - È possibile che un giorno si ritorni a viaggiare in auto da Trieste a Kabul. La via della modernizzazione dall’alto, quella imposta da Ataturk, dallo scia di Persia o anche dal comunismo in Afghanistan, non ha dato risultati proprio brillanti, ma il giovane erede al trono dell’Arabia Saudita, Mohammad bin Salman la sta ora comunque tentando di nuovo: donne che guidano, che vanno allo stadio, sudditi che lavorano, esercito che combatte. C’è l’appoggio americano e israeliano. La scommessa è in corso. Potrebbe andar bene oppure portare semplicemente all’ennesima guerra. Con l’Iran in questo caso. La storia dal basso - Resta però anche la speranza di una modernizzazione dal basso. Dov’è la gente a chiedere più diritti, più benessere, più libertà. Le Primavere arabe sono andate come sono andate, ma sono state un indizio potente di un bisogno diffuso. La politica però non è stata all’altezza. Altri segnali sono ovunque e forse il futuro entrerà nella regione attraverso un cambio nei rapporti privati, familiari prima che politici. Nell’ultimo film della regista afghana Roya Sadat la protagonista risponde con uno schiaffo alle botte del marito. Durante la proiezione, a Kabul, qualcuno ha applaudito. E questo è un passo avanti.