Testimonianza di un genitore sul progetto di confronto fra le scuole e il carcere Ristretti Orizzonti, 25 luglio 2018 Ho conosciuto il progetto dedicato a far conoscere agli studenti delle Scuole secondarie di secondo grado la realtà del carcere e la vita dei detenuti quando mia figlia Francesca frequentava il quarto anno dell’IIS Scalcerle, quindi quattro anni fa. Il progetto era stato promosso dalla sua insegnante di religione, Roberta Spimpolo, docente di grande sensibilità e umanità e molto attenta a motivare i suoi alunni dentro e fuori la scuola. Ricordo il giorno in cui Francesca è tornata da scuola con la voglia di raccontare il suo primo incontro con alcuni detenuti a scuola: ricordo l’emozione con cui raccontava, ricordo l’interesse e lo stupore con cui mi parlava di queste persone, così “normali” e così sincere nel raccontarsi. Così quando è stata data ai genitori la possibilità di partecipare al secondo incontro, che sarebbe avvenuto all’interno della Casa di reclusione, ho voluto condividere questa esperienza con mia figlia e gli altri ragazzi. E ne sono stata felice: è stata un’esperienza emotivamente profonda e toccante, che dovrebbe poter essere condivisa da molte persone. Sentire queste persone raccontare le loro storie con grande sincerità e obiettività, senza filtri, senza cercare giustificazioni o attenuanti, mettendosi a nudo di fronte a noi, ci ha messo in contatto con una prospettiva diversa, portandoci non solo fisicamente ma anche emotivamente all’interno dell’esperienza del carcere: un’esperienza molto più vicina a noi di quanto si possa o si voglia pensare. A questo proposito, ricordo quanto mi hanno colpito le parole di uno dei nostri “ospiti”: era un medico che nella sua vita “di prima” ha confessato di essere passato molte volte vicino all’edificio del carcere, senza mai nemmeno lontanamente immaginare che un giorno quello sarebbe diventato il suo mondo. Così come mia figlia è rimasta molto colpita dalla storia di un ragazzo nordafricano, coinvolto suo malgrado in una rissa in cui una persona era rimasta uccisa: i genitori lo avevano convinto a costituirsi in segno di gratitudine verso il paese che li aveva accolti, insegnandogli il rispetto per la giustizia e il senso di legalità. Oppure dal detenuto anziano, condannato all’ergastolo, senza nessuna possibilità di riduzioni di pena, in procinto di laurearsi in filosofia. O dal giovane rapinatore in fuga, catturato per essere andato al funerale del figlio… Sono solo alcuni esempi che poco rendono le emozioni e gli insegnamenti ricevuti in quelle poche ore di contatto con persone che, nonostante la situazione o forse proprio grazie alla situazione di detenzione, hanno saputo mettere al servizio di altri la propria esperienza, allargando gli orizzonti - per loro necessariamente ristretti - dei ragazzi e di noi genitori. Sono grata alla professoressa Spimpolo per aver portato avanti questo progetto e vorrei esprimere la mia sincera ammirazione per la signora Ornella e la redazione di Ristretti Orizzonti per la tenacia, il coraggio e il grande senso di umanità con cui si dedicano a questo progetto. Ma soprattutto vorrei esprimere l’augurio che questa esperienza possa continuare: oggi più che mai i nostri ragazzi hanno bisogno di sviluppare il loro senso di responsabilità, di confronto con se stessi e con gli altri, di non perdere la fiducia verso le istituzioni ma soprattutto verso l’umanità. E sono fortemente convinta che questo progetto abbia una forte valenza in questo senso. Anna M. Carcere, ripartire dopo la grande illusione di Stefano Anastasia Il Manifesto, 25 luglio 2018 Il carcere torna a crescere e la coda di paglia di chi ha affossato la riforma già alimenta la solita retorica sul lavoro e la rieducazione. Finirà così, dunque, la grande illusione degli Stati generali dell’esecuzione penale, con l’adozione di qualche misura collaterale che non scalfisce quella centralità del carcere espressamente professata dal contratto di governo che regge la nuova maggioranza. Peccato. Tempo perso a guardarsi indietro, all’impegno e al lavoro sprecato da tante persone di buona volontà. Tempo perso a guardarsi avanti, fino a quando bisognerà inevitabilmente tornare a discutere delle forme e dei modi della decarcerizzazione necessaria. Intanto, nel mezzo di questo tempo perso, il carcere torna a crescere e la coda di paglia di chi ha affossato la riforma già alimenta la solita retorica sul lavoro e la rieducazione, come se non ci avessero provato decine di ministri e migliaia di operatori penitenziari e volontari a fare del carcere un luogo di riabilitazione e di riscatto sociale. Succede, ma è per pochi, non per tutti, non certo per tutti quelli che si vogliono comunque in galera, in nome di una malintesa “certezza della pena”. Dimenticata è l’invocazione di Carlo Maria Martini al carcere come extrema ratio: la certezza della pena si confonde con la certezza della galera, anche se “non funziona”, come scrive Beppe Grillo, “e pare che sia sotto gli occhi di tutti”. Nella migliore delle ipotesi, nella improbabile ipotesi che qualche lume della ragione tenga lontano il Governo dal solito, già annunciato, ma inevitabilmente propagandistico, “pacchetto-sicurezza”, toccherà resistere a mani nude alla forza inerziale della clausura altrui, consueto rimedio populistico a tutti i mali del mondo. Servirà il coraggio e l’impegno della giurisdizione ad aprire spazi laddove non se ne vedano, come è stato recentemente per le sentenze della Corte costituzionale sull’affidamento in prova e sul divieto di benefici per gli ergastolani. Servirà l’attivazione di tutte le risorse che il territorio e le sue amministrazioni possono individuare e sollecitare per costruire percorsi di reinserimento e di alternative alla inutile centralità del carcere. Servirà un impegno diffuso e capillare di tutela dei diritti nelle carceri nuovamente affollate, quale quello testimoniato dal ricorso proposto da Franco Corleone, in qualità di Garante dei detenuti della Regione Toscana, contro lo screening sanitario fini disciplinari imposto alle donne di Sollicciano alcuni anni fa e che ora è stato giudicato illegittimo dal Tribunale civile di Roma, a conferma della decisione del Garante della Privacy (ne ha scritto, in questa rubrica, la scorsa settimana, Grazia Zuffa). Venerdì prossimo a Roma i Garanti territoriali delle persone private della libertà si riuniranno per ridefinire le ragioni e le forme del loro impegno a tutela dei diritti dei detenuti in questo delicato frangente. Domenica, a Firenze, la Società della Ragione, la Fondazione Michelucci e lo stesso Garante della Toscana invitano amici e compagni di strada a discutere idee e iniziative per ricordare Sandro Margara a due anni dalla morte. Proprio l’esempio di Sandro Margara, maestro della magistratura di sorveglianza, massimo dirigente dell’Amministrazione penitenziaria (finché glielo hanno consentito di fare) e poi Garante regionale dei detenuti, la sua consapevolezza dei limiti del carcere come luogo di esecuzione penale e la sua lucida determinazione nell’attuazione rigorosa dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione, possono costituire un punto di riferimento da cui ripartire, senza cedere alla frustrazione e alla rassegnazione. Le buone ragioni per la riforma del sistema penale nel senso della decarcerizzazione hanno una loro concreta verità che non potrà che tornare a farsi valere. Il fumo uccide anche in cella, soprattutto quello passivo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 luglio 2018 Una Circolare del 2004 raccomanda alle direzioni di non far soggiornare fumatori e no. Il Dap aveva accolto la proposta di Rita Bernardini e aveva autorizzato la e-cig negli istituti penitenziari già nel dicembre 2016. però tutto è rimasto fermo. Il fumo uccide, si sa, ma in carcere il problema - soprattutto quello passivo - si amplifica ancora di più. Come denunciato da Massimo Lensi dell’associazione “Progetto Firenze” e dal presidente dell’Aduc Vincenzo Donvito, un detenuto su due - citando le rilevazioni della Agenzia Sanitaria della Regione Toscana, soffre di almeno una patologia: tra le affezioni più diffuse, oltre ai disturbi psichici, ci sono quelle dovute al fumo di tabacco, attivamente consumato o passivamente subito. Per questo invitano le direzioni degli istituti penitenziari ad attivare un progetto pilota per promuovere l’uso della sigaretta elettronica al posto delle sigarette nelle carceri fiorentine. Una battaglia intrapresa, nel 2016, dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, tanto da proporre al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria la diffusione del vaping nelle carceri italiane. Una iniziativa del genere è stata attuata esattamente un mese fa in un carcere francese di Caen, distribuendo nel penitenziario circa mille sigarette elettroniche. Come scrive la rivista on line Sigmagazine, l’iniziativa è stata resa possibile grazie a una collaborazione fra l’associazione La vape du coeur e il Centro ospedaliero di Caen, decisi a dare una possibilità di liberarsi dalla schiavitù del tabacco anche a chi è ristretto fra le mura di un carcere. Un’azione concreta per l’associazione francese nata nel 2014 che ha come scopo quello di offrire la possibilità di smettere di fumare con il vaping anche a chi ha mezzi economici troppo scarsi per affrontare la spesa di una sigaretta elettronica. Il mese scorso è la prima a portare il vaping anche ai detenuti francesi. Unico limite imposto all’iniziativa: le sigarette elettroniche non devono essere dotate di attacco Usb per motivi di sicurezza. Il Dap aveva comunque accolto la proposta di Rita Bernardini e aveva autorizzato la e- cig negli istituti penitenziari già nel dicembre 2016. Però tutto è rimasto fermo. Nel frattempo c’è chi, in cella e anche nei corridoi, si trova costretto a respirare il fumo passivo. Può un detenuto chiedere un risarcimento? A quale legge può fare riferimento? Va premesso che esiste una circolare del 2004 che riprende i contenuti di un testo del 1994 dal titolo “Il fumo nell’ambiente carcerario. Tutela dei detenuti non fumatori” in cui si riconosce il problema ma, in attesa di “una regolamenta- zione della materia” che stabilisca principi generali di riferimento validi per tutti gli istituti di pena, “si raccomanda alle Direzioni per quanto possibile, di far soggiornare in celle separate i detenuti che chiedono di non convivere con i fumatori”. Poi c’è la legge Sirchia che però non aiuta, visto che le celle, salette e sezioni detentive le compara a “residenze private”. La legge dice, appunto, che è vietato fumare nei luoghi pubblici, ad eccezione di quelli privati e non aperti al pubblico. Quindi un detenuto che subisce fumo passivo e l’aggravio della sua salute, magari già precaria, a cosa si potrebbe appellare? Motivo di risarcimento potrebbe essere la violazione del diritto ad eseguire la pena in modo dignitoso (art 27 costituzione) e la violazione del diritto alla salute (art. 32 Cost.: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività); ma anche art 3 della corte europea dei diritti umani per le condizioni disumani e degradanti durante la detenzione. La Cedu ha affrontato il tema della carcerazione non dignitosa anche dal punto di vista del fumo passivo, in un caso con la cella non areata correttamente, nella sentenza Stana contro la Romania del 5.3.2013 e accogliendo il ricorso. C’è anche la possibilità di fare un reclamo al magistrato di sorveglianza contro la inumana condizione di detenzione, adottando il principio fatto proprio dalla sentenza Torreggiani, dove si legge che “l’articolo 3 della Cedu pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”. Arriva in aiuto anche un sentenza della Cassazione (n. 399/ 96) dove si legge che laddove si scontrano il diritto alla salute con il libero comportamento del fumare, l’ordinamento deve dare preminenza al primo. “Noi a piedi a Santiago con i ragazzi difficili. Così evitano il carcere” Corriere della Sera, 25 luglio 2018 Grazie ad un’associazione (“Lunghi Cammini”) sono quattro i minori che hanno avuto dal giudice la possibilità di scegliere il Cammino come pena alternativa. Quel che affascina, ascoltando la sua storia, è il fatto che non avesse camminato prima. Mai. A parte qualche passeggiata domenicale in montagna nel fine settimana. Fino alla folgorazione. Il giorno in cui Isabella Zuliani, signora padovana, un passato nel commercio equo solidale, legge su un giornale la storia di un francese. Quella di un giornalista in pensione che è riuscito a convincere i giudici del suo Paese che camminare fa bene e che per questo (il Cammino) può essere un’alternativa alla detenzione per minori disagiati con problemi di giustizia. Il progetto - La signora Zuliani è colpita. Fa una rapida ricerca e si rende conto che in Italia non ci sono esperienze del genere. Così fonda un’associazione, sviluppa un progetto-pilota e parte alla volta di Roma per presentarlo ad un funzionario del ministero della Giustizia. Nella Capitale ci va a piedi. La tenacia paga. Dopo aver convinto il Ministero e aver ottenuto il via libera dai giudici ottiene i primi frutti: sono quattro i ragazzi minorenni “difficili” coinvolti dalla sua associazione che hanno ottenuto la possibilità di scegliere il Cammino di Santiago de Compostela come alternativa alla detenzione. La storia a cui s’è ispirata Isabella è quella di Olivier Bernard che a 62 anni colpito dalla depressione ha pensato di uscirne aiutando minori disagiati. La sua idea è nata dopo aver visto due di loro camminare davanti ad un secondino sulla via di Santiago. Bernard suggerisce alle autorità francesi il pellegrinaggio come atto di redenzione (individuale) e soprattutto come alternativa “penale”. Camminare, secondo l’ex giornalista che fonderà un’associazione (Seuil), fa bene ed è educativo. In Francia il ministero di Giustizia accoglie la proposta. Due anni di studio - La signora Zuliani copia. Fonda pure lei un’associazione. “Per due anni ho studiato la pratica deducendo che la messa in affido (o messa alla prova) può assumere diverse formule giuridiche anche da noi. Quindi anche quella del Cammino”. Il progetto finisce negli uffici del “Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità”. Da Roma arriva l’autorizzazione. Non i soldi. “Quelli li ha messi un privato. Sono bastati a finanziare il viaggio solo per questi quattro ragazzi. Tre mesi in giro sono un costo. Noi paghiamo anche gli accompagnatori”. Durante il percorso non mancano le tensioni e i momenti difficili. Qualche ragazzino ogni tanto sbotta: “Basta mi sono rotto, ora me la faccio una canna”. “Per questo gli accompagnatori li scegliamo con molta attenzione” continua Zuliani. “Si presentano avvocati, pensionati, educatori, psicologi. Noi preferiamo non professionisti. Questi ragazzini ne hanno già abbastanza attorno. Provengono da contesti di disagio”. “Ma con il viaggio si sentono valorizzati. C’è qualcuno che li ascolta. Hanno come la sensazione di aver portato a termine un progetto. Uno dei quattro messi alla prova, un ragazzino rom, ha quasi pianto per la felicità quando un coreano e uno spagnolo hanno giocato con lui”. Dopo l’onda del rancore si rischia l’appiattimento di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 25 luglio 2018 È probabile che il risentimento abbia espresso il massimo della sua fase di spinta e si intravede la vittoria di un insieme di “invidia e livellamento”. È una lettura abbastanza condivisa che il sommovimento elettorale dello scorso marzosia stato il frutto del vento di un’opinione segnata dal rancore: verso i partiti, la politica, il sistema, l’establishment, la “casta”. Ora che quel sommovimento ha dato luogo ad un nuovo governo, può essere utile riprendere il ragionamento per capire meglio da dove nasce il rancore nelle viscere e nelle emozioni di questa società, e per capire quanto esso sia stato o sia utilizzato nell’azione di governo. Per la prima di queste sfide interpretative molti, quorum ego, hanno ricordato che “il rancore è il lutto di quel che non è stato”: nella vita individuale, nasce nelle tante persone che hanno perseguito e non ottenuto un proprio obiettivo di avanzamento e vivono quindi una frustrazione aperta, quasi contigua, al rancore; nella vita collettiva, nasce nei tanti gruppi sociali e centri d’opinione che vedono fermo l’ascensore sociale e bloccati tutti i meccanismi volti a più alti livelli di agiatezza e di prestigio sociale. Chi ha seguito le tensioni sociopolitiche degli ultimi anni ha riscontrato in qualche amico o conoscente l’emergere del primo di tali rancori; ed ha ascoltato in qualche convegno la denuncia esplicita di quella ingessatura sociale che legittima il rancore collettivo. Cosa resta di questa duplice crescita del rancore? Essendo una società molto competitiva, rischiamo che il rancore lo avremo a lungo ancora fra noi, sia sul versante individuale che su quello collettivo, almeno fino a quando (cosa che prenderà del tempo) la rabbia da esso prodotta non si svilirà in una non rassegnata accettazione della potenza della dinamica competitiva. Forse però a una tale mite torsione darà paradossalmente una mano l’ardimentoso combattimento dell’attuale governo contro tutti i poteri che hanno contribuito al crescere del rancore: le strutture bancarie che hanno messo in difficoltà i propri clienti, i parlamentari che si erano dati il privilegio di un vitalizio, i pensionati d’oro etichettati come parassiti, i regolatori del mercato del lavoro che non hanno mai conosciuto il valore dell’equità, i dirigenti pubblici compromessi con le proprie decisioni precedenti e meritevoli di spoil system e quasi di rottamazione. Si continua cioè a cavalcare l’onda del rancore, ma è verosimile che essa abbia espresso il massimo della sua fase di spinta. Anche perché in filigrana si vede nelle intenzioni politiche la vittoria di quell’insieme di “invidia e livellamento” che lo stesso Marx considera una volgare declinazione del marxismo. E che rischia di sfociare, nel medio periodo, in un appiattimento nell’esistente, magari corredato dalla “lagna”, oggettivamente estraneo alla sempre più necessaria dose di vitalità di un corpo sociale che si impegni sul futuro. Stiamo attenti all’appiattimento in marcia, potrebbe essere la malattia che verrà dopo il rancore. Legittima difesa. “La nuova legge inganna i cittadini” Il Dubbio, 25 luglio 2018 L’appello dei professori di diritto penale. I giuristi ricordano che “se si uccide qualcuno nessuna riforma potrà mai assicurare che non vengano svolti accertamenti penali”. La riforma della legittima difesa “deve essere conforme ai principi costituzionali e sovrannazionali e non può ingannare i cittadini”. Così l’Associazione italiana dei professori di diritto penale esprime, con una nota, “profonda preoccupazione” per le iniziative parlamentari in corso sulla legittima difesa e per i “messaggi ingannevoli che sul tema si stanno diffondendo nell’opinione pubblica”. I giuristi, con un comunicato pubblicato sulla rivista Questione giustizia, rilevano che la causa di giustificazione della legittima difesa “non ha mai avuto nulla a che fare, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, con una licenza di uccidere, poiché la legittimità della difesa è stata sempre subordinata a precisi requisiti: primo fra tutti la necessità di difendersi, in assenza della quale non si parlerebbe più di difesa, ma di offesa gratuita e deliberata. Nel requisito della necessità è implicita un’idea di proporzione della difesa rispetto all’offesa, poiché una difesa volutamente sproporzionata cesserebbe di essere difesa e assumerebbe i contenuti di un’offesa”. Dunque, l’idea di “introdurre un “diritto di difesa” che prenda il posto della legittima difesa, come vorrebbe la proposta di legge n. 580, stravolge - evidenziano gli esperti - il significato della causa di giustificazione, poiché introduce una licenza di uccidere ancorata semplicemente a un rapporto cronologico tra aggressione e difesa: qualunque compressione del requisito della proporzione della difesa, mediante una presunzione normativa della sua sussistenza (come nelle proposte di legge n. 274, 308 e 580 attualmente all’esame della Camera dei deputati), non può in ogni caso escludere la necessità della difesa stessa”. Il “solo e vero problema”, secondo l’associazione di docenti, “consiste nello stabilire quando ricorra il requisito della proporzione e sia scusabile un eccesso di difesa: che si tratti di un problema da sempre avvertito come assai delicato lo dimostra l’antico detto secondo cui l’aggredito che si difende “non ha la bilancia in mano”. Inoltre, si legge ancora nella nota, il dibatti- sulla riforma della legittima difesa “promette oggi all’opinione pubblica vantaggi illusori, perché la riforma annunciata è presentata in modo ingannevole: i cittadini devono infatti essere informati che, se si uccide o si ferisce qualcuno - spiegano i giuristi - nessuna riforma potrà mai assicurare che non vengano svolti accertamenti penali o che essi siano meno approfonditi di quelli che si compirebbero in caso di uccisione del cane del vicino”. Invece, aggiungono, le indagini processuali “saranno necessariamente maggiori. Si possono infatti eccedere i limiti della difesa anche intenzionalmente (per dare una bella lezione all’aggressore): fatto punito ovunque, non solo in Italia. E verificare se l’eccesso sia stato intenzionale, oppure no, comporta già un’indagine penale. Che è obbligatoria, non discrezionale”. Quindi, al fine di evitare l’accertamento del giudice penale, continua la nota, “non servirebbe neppure restringere le ipotesi punibili, fino a limitarle ai casi di vendetta intenzionale mascherata da difesa legittima, dovendosi necessariamente considerare i casi in cui la sproporzione sia dipesa non da intenzione malevola che si “approfitta” dell’aggressione per togliere di mezzo un ladro o un rapinatore, ma da un grave turbamento (che c’è sempre, di regola, nella legittima difesa domiciliare) e tuttavia l’aggredito abbia esagerato in modo molto evidente nel procurare all’aggressore un danno ben più grave di quello temuto. Anche qui la verifica sulle reali intenzioni dell’aggredito sarebbe necessaria, e dunque inevitabile la sua iscrizione nel registro degli indagati, salvo l’evidenza del contrario”. Secondo l’associazione di docenti, “chi propone la riforma sa benissimo tutto ciò ma, non dicendolo all’opinione pubblica, non rende un servizio alla verità. A meno che non intenda davvero presentare un progetto illegittimo, che voglia mandare assolto l’aggredito che si difende a prescindere da ogni necessità e proporzione. Ma tale esito - concludono i giuristi - risulta contrario ai principi costituzionali, convenzionali e internazionali”. Stop alla riforma delle intercettazioni. Scintille tra M5S e Pd di Dino Martirano Corriere della Sera, 25 luglio 2018 Bonafede: un bavaglio varato dopo Consip. L’ex segretario dem: sei in malafede, provvedimento deciso prima di quel caso. Il decreto “Mille-proroghe” arriva a fine anno, di solito, per anticipare o ritardare l’efficacia dei provvedimenti varati dal Parlamento. Ma ora il governo Conte va, in piena estate, nella direzione di azzerare alcune scelte degli esecutivi che lo hanno preceduto. Prima tra tutte la piccola rivoluzione sulle intercettazioni telefoniche introdotta dai governi Renzi e Gentiloni. Quel testo, ora bloccato, avrebbe dovuto essere efficace tra un paio di giorni con l’introduzione anche di norme più stringenti sulla pubblicazione delle conversazioni intercettate, soprattutto se non penalmente rilevanti. Imponendo alla polizia giudiziaria di selezionare quelle essenziali per le indagini. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede (M5S) ha rivendicato la volontà di fermare “la legge bavaglio voluta dal Pd per impedire ai cittadini di ascoltare le parole dei politici indagati o dei politici quando sono al telefono con persone indagate”. Il ministro ha detto che questa legge fu “approvata in pieno caso Consip” che coinvolse la famiglia dell’ex premier Matteo Renzi. E “ora abbiamo tolto le mani della vecchia politica dalle intercettazioni”. “Basta con slogan e propaganda” - La scelta e le date del ministro Bonafede vengono però contestate da mezzo Pd: “Ogni legge può cambiare se lo si ritiene opportuno, ma sarebbe l’ora di farla finita con gli slogan e la propaganda”, avverte la vice presidente del Senato Anna Russomando. In merito alla “contemporaneità” con il caso Consip (dicembre 2016), fonti del Pd ricordano che la riforma Orlando prende avvio il 23 dicembre 2014, viene approvata il prima lettura alla Camera il 23 settembre del 2015 per poi “passare” al Senato il 15 marzo 2017. Il varo definitivo arriva il 14 giugno 2017 ma poi si arriva a luglio del 2018 per l’efficacia del testo ora congelato. Insorge Matteo Renzi: “O Bonafede non ha capito niente o è in malafede”. Poi commenta le scuse di Gianpaolo Scafarto, il carabiniere delle indagini ora assessore in una giunta di destra in Campania: “Mi ricorda Benigni in Johnny Stecchino quando chiede scusa al boss Cozzamara”. Secondo Michele Anzaldi: “Bonafede straparla ed è molto nervoso perché oggi le uniche intercettazioni di cui si dovrebbe occupare sono quelle delle sue telefonate con l’avvocato Lanzalone”. Il senatore grillino Mario Michele Giarrusso dice che “la riforma è tutta da cambiare perché è un obbrobrio che mette il bavaglio alla stampa e impedisce le indagini di magistrati”. L’Anm plaude al congelamento. La Federazione nazionale della stampa parla di “buona notizia”. Mentre l’Unione camere penali lamenta di non essere stata consultata. Per Francesco Paolo Sisto (FI), “Bonafede cancella la privacy in nome del giustizialismo”. La Lega, per ora, preferisce non commentare. Bonafede: “Stop alla legge bavaglio sulle intercettazioni” di Giulia Merlo Il Dubbio, 25 luglio 2018 Il Cdm proroga l’entrata in vigore della riforma. “Abbiamo tolto il bavaglio che il Pd aveva messo alla stampa”. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, annuncia così la proroga dell’entrata in vigore della riforma sulle intercettazioni, contenuta nel decreto Mille-Proroghe licenziato dal Consiglio dei Ministri. Così, come la tela di Penelope, la norma cucita nella scorsa legislatura viene disfatta dal nuovo governo, il quale ne promette la riscrittura. Il decreto - pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 5 gennaio di quest’anno - prevedeva una nuova procedura bifasica per il deposito degli atti riguardanti le intercettazioni, con l’acquisizione di quelle rilevanti e il contestuale stralcio di quelle inutilizzabili, che confluivano in un archivio riservato. Ai pm era assegnato il ruolo di “garanti” della riservatezza della documentazione, con una stretta nel monitoraggio degli accessi a brogliacci, trascrizioni e nastri e il divieto di trascrizione, anche sommaria, di conversazioni irrilevanti. Inoltre, il testo introduceva nel codice penale il nuovo reato di diffusione di riprese e registrazioni fraudolente. La nuova disciplina aveva trovato la ferma opposizione della magistratura associata, in particolare per quello che era stato definito lo “strapotere della polizia giudiziaria” nella valutazione delle intercettazioni, che anche ieri - per bocca del presidente dell’Anm, Francesco Minisci - aveva chiesto “subito un intervento per bloccarla”. Detto fatto, il Guardasigilli ne ha sospeso l’entrata in vigore. “Va ripensato l’intero assetto”, ha aggiunto Minisci, sottolineando che “la riforma è sbagliata, perché non raggiunge l’obiettivo di tutelare la privacy” ed “è dannosa sia per il lavoro dei pm che per il diritto di difesa”. La magistratura, infatti, ha in tutte le sedi ribadito come le intercettazioni siano “uno strumento fondamentale per le indagini”, senza le quali “si rischia di gettare al macero decine e decine di indagini per reati anche gravi”. Bonafede, in sintonia con il sentire della magistratura, ha commentato, al termine del Consiglio dei Ministri: “Abbiamo tolto le mani della vecchia politica dalle intercettazioni, che rappresentano uno strumento di indagine fondamentale per fenomeni come la corruzione che hanno dilaniato questo Paese”. Non solo, collocando il decreto su un binario morto, “impediamo che venga messo il bavaglio sulla informazione e sulla possibilità degli organi informazione di far conoscere a cittadini fatti rilevanti”. Secondo Bonafede, infatti, la norma voluta dal suo omologo Andrea Orlando, “era stata scritta evidentemente con l’intento di impedire ai cittadini di ascoltare le parole dei politici indagati o che i politici pronunciano quando sono al telefono con persone indagate”. Una sorta di silenziatore per le inchieste giornalistiche, insomma, per proteggere i dirigenti dem. Il ministro non ha lesinato le accuse, citando direttamente il caso Consip (in riferimento al quale, nei giorni scorsi, il maggiore Gianpaolo Scafarto ha chiesto scusa alla famiglia Renzi per gli errori nelle indagini), “in concomitanza” del quale è passata la riforma. “Ogni volta che qualcuno del Pd veniva ascoltato dai cittadini c’era che il Pd che tendeva a tagliare la linea e le comunicazioni. L’intento era quello di evitare che i cittadini ascoltassero i politici”, è la ricostruzione del ministro (nonostante - a rigore di norma e anche prima della riforma Orlando - i brogliacci e le trascrizioni delle intercettazioni siano comunque coperte da segreto d’ufficio durante la fase delle indagini preliminari). Ora, l’obiettivo della nuova gestione di via Arenula è di “riscrivere la norma attraverso un percorso partecipato. Ho scritto una lettera a tutte le procure distrettuali d’Italia, al Consiglio Nazionale Forense, ho già ricevuto contributi importantissimi”. Infine, in merito ai 40 milioni di euro già spesi per l’acquisto di nuove attrezzature, Bonafede ha assicurato che “nemmeno un euro andrà sprecato”. Il ministro Bonafede: “pronta la stretta anti-corrotti” di Liana Milella La Repubblica, 25 luglio 2018 “Riforma epocale contro le tangenti. Intercettazioni, no alla legge bavaglio del Pd”. Scontro 5S-Salvini sul Tg1. Dg Rai, favorito Salini. Ilva, Di Maio: via all’iter per l’annullamento della gara. Lei, ministro Bonafede, dice “via il bavaglio del Pd sulle intercettazioni”. Per anni è stato Berlusconi a cercare di metterlo. È sicuro che pure quello di Orlando lo fosse? “Non ci sono dubbi. La riforma avrebbe portato al voluto concentramento delle informazioni in poche mani con lesione del diritto di difesa, della privacy, nonché con grande danno all’efficacia delle indagini. In più c’era il rischio evidente di mettere il bavaglio anche ai giornalisti. Il vero scopo era impedire ai cittadini di ascoltare le parole scomode che i politici pronunciano al telefono quando sono indagati o parlano con persone indagate”. Vede una coincidenza tra la legge, le polemiche di Renzi sulle intercettazioni e il caso Consip? “Non è una mia opinione, ma una constatazione vera e propria. Basta mettere in fila i fatti di cronaca da una parte e i lavori parlamentari dall’altra. E poi unire i punti”. Eppure un magistrato come Armando Spataro era ed è a favore della legge... “Rispetto l’opinione del procuratore di Torino che stimo, ma devo dire che tutta la magistratura e l’avvocatura erano contrarie alla riforma Orlando. Io ascolto tutti, ma la responsabilità, l’onore e il dovere della politica sta nel prendere le decisioni. E sono fermamente convinto di quella che ho preso”. Anche Salvini è contro il bavaglio nonostante l’inchiesta sui fondi della Lega? “Non ne ho discusso con lui, ma la decisione è stata presa tutti assieme. Al di là delle chiacchiere, il governo resta compatto anche sulle intercettazioni”. Lei è un politico che sorride, Salvini uno che si arrabbia, come fate a coesistere? “Ciascuno ha il suo stile. Finora abbiamo dimostrato compattezza sui provvedimenti. Ma se devo dire la verità, conoscendolo, Salvini si arrabbia molto meno di quello che lei può pensare. In realtà andiamo d’accordo”. Gli attacchi di Salvini alla magistratura la fanno dormire tranquillo? “Dormo poche ore perché come Guardasigilli prendo tante decisioni in un settore fondamentale per la svolta del Paese. Salvini ha già fornito dei chiarimenti su quell’episodio”. Due esempi, politica sui migranti e legittima difesa. Lei riesce a guardare i suoi figli sapendo che in quel momento ci potrebbero essere dei bambini che stanno affogando per colpa della vostra stretta sull’immigrazione? “È una domanda scorretta e rischia di fare il gioco dello sciacallaggio mediatico a cui assistiamo. Sull’immigrazione il governo si sta muovendo avendo come priorità assoluta la tutela dei diritti umani. Per la prima volta l’Italia pretende che l’Europa affronti compatta un problema di dimensioni internazionali che finora ha pesato solo sulle nostre spalle. L’obiettivo è evitare che la tragedia delle morti in mare continui”. Qualche magistrato le ha detto che stare dalla parte dei libici che affondano le barche significa stare con gli assassini? “No, assolutamente no”. Legittima difesa, “senza se e senza ma” dice Salvini. Ma così è il Far West. Quando presenta il suo ddl? O conta di mettere le novità nel ddl sulla sicurezza di Ferragosto? “Ci sono testi depositati alla Camera e al Senato e su questi la maggioranza si sta confrontando. Non c’è nessun Far West. Lo ha detto Conte, lo abbiamo ribadito sia io che Salvini, ma i giornali continuano a scriverlo. Però i fatti parlano chiaro”. Lei pende verso la Lega anche quando blocca la riforma delle carceri all’insegna del “tutti in galera e buttiamo la chiave”? “Anche questa domanda è profondamente scorretta perché non abbiamo mai detto tutti in galera e buttiamo la chiave. Vogliamo garantire la rieducazione del detenuto e il principio della certezza della pena perché solo così la giustizia riacquista credibilità agli occhi dei cittadini”. Ha annunciato il pacchetto anticorruzione, Daspo e agenti sotto copertura. Ci dà più dettagli? Lo farà prima di Ferragosto magari con il codice degli appalti? “L’articolato è già pronto e sarà depositato all’inizio di settembre. Stiamo avviando uno stress test per sottoporlo ad alcuni addetti ai lavori e verificare eventuali criticità perché si tratta di una riforma epocale che farà dell’Italia il paese leader in Europa in materia di anticorruzione, via fondamentale per garantire gli investimenti esteri. Binario differente per gli appalti dove alcuni ministri stanno lavorando al cosiddetto tavolo della semplificazione”. Inserirà lì le norme sulla trasparenza delle Fondazioni? “Stiamo valutando”. Sulla prescrizione boccerà la riforma Orlando? E quando? “Stiamo verificando i dati. Il punto di partenza è il blocco dopo la sentenza di primo grado. La norma sarà collegata a un investimento sulle risorse del processo per garantirne la ragionevole durata”. Visto che il renziano Ermini, ex responsabile giustizia del Pd, è andato al Csm, non teme che da lì fomenti la rivolta e le metta contro le toghe? “Vorrei ricordarle che stiamo parlando del Csm e non stiamo giocando a Risiko. Scherzi a parte, sono sicuro che Ermini non avrebbe queste intenzioni e la magistratura non cederebbe a logiche di questo tipo”. Si chiede come mai, visto che le misure che adotta non sono ostili ai magistrati, poi i giudici la attaccano com’è avvenuto per le tende di Bari e quel palazzo di proprietà di un signore che dà soldi ai clan? “Lei ha il problema di continuare a guardare la giustizia con le logiche di epoca berlusconiana, pro o contro i magistrati. Io tirerò fuori la giustizia da quelle logiche. Penso solo ai cittadini italiani. Poi magistrati, avvocati e tutti gli addetti ai lavori hanno il sacrosanto diritto di criticare le mie scelte. Se tolgo le tende a Bari e ricevo critiche faccio fatica a comprenderne la ragione. In ogni caso la procedura per individuare il nuovo edificio è ancora in corso e stiamo tuttora facendo i dovuti approfondimenti”. Oltre il 50% di donne magistrato, ma donne discriminate dalla politica negli incarichi al Csm. Protestano le costituzionaliste e Mattarella è con loro. Perché su 3 posti M5S non ha messo una donna? “Chiaramente mi dispiace, ma non abbiamo mai creduto nelle quote rosa. Però i sindaci di Roma e Torino sono donne, come tantissime nostre elette”. Non le sembra grave che al Csm vadano gli avvocati degli inquisiti? “Sono il ministro della Giustizia e non mi intrometto nelle scelte del Parlamento”. Cambierà il sistema elettorale del Csm per andare al sorteggio e stroncare le correnti? “Anche questa è materia del Parlamento. Nel contratto di governo è previsto un intervento contro il correntismo e su questa linea la maggioranza si muoverà”. Tra Calamandrei, Davigo e Di Matteo chi sceglie come maestro? “Scelgo Calamandrei rispetto a qualsiasi altro giurista italiano vivente e non vivente. Lui e Giorgio La Pira sono le mie guide morali e giuridiche”. L’allarme delle costituzionaliste: “al Csm il parlamento ha eletto solo uomini” Il Manifesto, 25 luglio 2018 Ventuno eletti, ventuno uomini. È la fotografia sconfortante di come ha votato negli scorsi giorni il parlamento, chiamato a eleggere un giudice costituzionale e i componenti laici del Consiglio superiore della magistratura e dei Consigli di presidenza della giustizia amministrativa, della giustizia tributaria e della Corte dei conti. Tutti uomini. Una scelta clamorosamente a genere unico. E ancora di più perché vissuta dai parlamentari (e dalle parlamentari) come normale amministrazione. Una scelta che ha spinto sessantacinque costituzionaliste - - docenti ordinarie e associate di diritto costituzionale, pubblico e comparato in moltissimi atenei italiani - a inviare una lettera ai presidenti di camera e senato, Roberto Fico e Maria Elisabetta Casellati. Si tratta di una scelta, scrivono, “in aperta violazione dell’articolo 51 della Costituzione, che assicura a uomini e donne il diritto di accedere in condizioni di uguaglianza agli uffici pubblici e che, a tal fine, affida alla Repubblica il compito di adottare appositi provvedimenti”. Il danno ormai è fatto ma le docenti chiedono ai due presidenti almeno di avviare “una seria riflessione” nei due rami del parlamento “sulle cause che hanno portato a tale grave vulnus costituzionale e sugli interventi, anche regolamentari, necessari per evitare che una simile situazione, oggettivamente incomprensibile in Italia nel 2018, possa ripetersi in futuro”. Una nota che accompagna la lettera nata all’inizio da uno scambio di opinioni fra le giuriste, tutte socie dell’Associazione italiana dei costituzionalisti, e sfociata nell’iniziativa, ha toni più coloriti: “Quando è troppo è troppo”, spiega il comunicato, “L’Italia è nota nel mondo per la forte tradizione patriarcale, che si traduce anche in una scarsa presenza delle donne ai vertici delle istituzioni”, si scrive, “ma questa volta tale attitudine è stata spinta all’eccesso, determinando la reazione delle costituzionaliste italiane”. L’iniziativa “intende aprire un dibattito pubblico, che coinvolga giuristi e politici, uomini e donne, sulla trasparenza dei procedimenti di nomina e più in generale sulla attuazione dell’art. 51”. Fra le firmatarie c’è Lorenza Carlassare, prima donna a vincere una cattedra di Diritto costituzionale in Italia. Mafia, la collaborazione non è sufficiente per i domiciliari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 24 luglio 2018 n. 35217. La “collaborazione” con la giustizia di Giovanni Brusca - che sta scontando una condanna a 30 anni per associazione mafiosa e plurimi omicidi (fine pena nell’agosto del 2022) - non è sufficiente, in assenza di passi concreti nei confronti delle vittime, a far scattare i domiciliari. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 35217del 24 luglio 2018, respingendo la richiesta del boss mafioso e confermano l’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Roma, il 10 ottobre scorso, aveva negato il beneficio. In quella decisione il Tribunale sottolineava la “primaria rilevanza della collaborazione di Brusca … diretto riflesso dell’eccezionale spessore criminale pregresso”, nonché “la bontà di essa e per l’effetto la cessata pericolosità sociale del condannato, e infine il suo positivo percorso trattamentale, valso l’ottenimento, dal 2003 in avanti, di ripetuti permessi premio”. Tuttavia, rimarcava anche “come il ravvedimento non potesse tuttora ritenersi di pregnanza tale da giustificare la de-istituzionalizzazione, in relazione ad una revisione critica che gli operatori penitenziari valutavano meramente assertiva e a un atteggiamento del condannato di carattere “pretensivo” e comunque insoddisfacente sotto il profilo riparativo”. “Al di là della verbalizzata sensibilità confronti delle vittime - proseguiva l’ordinanza, non vi sarebbe stato alcun passo concreto nei loro confronti, né alcuna effettiva disponibilità al risarcimento, anche di tipo simbolico”. Una lettura confermata oggi dalla Suprema corte secondo cui “ai fini della concessione dei benefici penitenziari in favore dei collaboratori di giustizia, il requisito del “ravvedimento” non può essere oggetto di una sorta di presunzione, formulabile sulla sola base dell’avvenuta collaborazione e dell’assenza di persistenti collegamenti del condannato con la criminalità organizzata, ma richiede la presenza di ulteriori, specifici elementi, di qualsivoglia natura, che valgano a dimostrarne in positivo, sia pure in termini di mera, ragionevole probabilità, l’effettiva sussistenza”. Del resto, in una precedente decisione sempre riguardante una richiesta di domiciliari avanzata da Brusca (e risalente al 2010 n. 1115), la Cassazione rilevava che gli “ulteriori e specifici elementi di resipiscenza dovessero, per coerenza con tutto il sistema delle misure alternative, possedere una pregnanza e univocità adeguata alla caratura criminale che il soggetto aveva dimostrato”. E che dunque nel caso del Brusca “non potessero desumersi dalla sola, doverosa, regolarità della condotta carceraria e dalla positiva partecipazione alle attività rieducative e trattamentali”. Occorrendo invece “più significative manifestazioni … quali sarebbero potute essere, ad esempio, concrete iniziative riparatorie nei confronti di quanti avessero subito le conseguenze dei reati commessi, dotate di forza e ampiezza tali da rivelare un serio intento di riconciliazione con a società civile cosi gravemente offesa”. Toscana: detenuti al lavoro, intesa con le coop sociali gonews.it, 25 luglio 2018 Pronta l’intesa tra Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria Toscana e Umbria e Alleanza delle Cooperative della Toscana-Settore Sociale (Confcooperative-Federsolidarietà, Legacoop Toscana-Area Welfare e Agci-Solidarietà Toscana) per favorire percorsi lavorativi intra ed extra murari delle persone detenute. È stato infatti firmato ieri il Protocollo tra Prap e Centrali Cooperative per promuovere i rapporti tra le amministrazioni penitenziarie e la cooperazione sociale di tipo B, quella impegnata nell’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate. Un atto che si inserisce all’interno del percorso avviato in Toscana nel 2010, con l’obiettivo di tutelare l’inclusione sociale dei soggetti svantaggiati, e che ha visto la partecipazione attiva della Regione Toscana, di Estar, del Comune di Firenze, dell’Università di Firenze e dell’ANCI Toscana. Per il PRAP ha apposto la firma il Provveditore Antonio Fullone, per Confcooperative-Federsolidarietà Toscana il presidente Alberto Grilli, per Legacoop Toscana-Area Welfare il vicepresidente vicario di Legacoop Toscana Leonardo Cianchi e per AGCI-Solidarietà Toscana Federico Pericoli. È intervenuto anche Eros Cruccolini, Garante dei detenuti di Firenze. “La firma del Protocollo - commenta il Provveditore Antonio Fullone - costituisce un momento importante nella costruzione di percorsi lavorativi intra ed extra murari e, quindi, di reinserimento sociale delle persone detenute. Valorizza il tempo della detenzione come occasione di scelte diverse nel momento della dimissione dall’istituto di pena. Offre sostanza al concetto di risocializzazione e di prevenzione sociale. Trovo particolarmente importante - continua il Provveditore Fullone - sottolineare la natura dei firmatari del Protocollo: il mondo della cooperazione sociale, del privato sociale, che rafforza l’idea di una visione sistemica e sinergica di queste con l’istituzione penitenziaria. La consapevolezza di consolidare un pensiero più profondo sull’importanza sociale, anche in termini di sicurezza della collettività (attraverso soprattutto l’integrazione), del recupero dei soggetti svantaggiati”. “Con questa firma si prosegue un percorso iniziato qualche anno fa - spiega Alberto Grilli - e si traccia la strada per i prossimi anni. Riteniamo importante che si dia continuità all’impegno che vede in Toscana diverse Istituzioni pubbliche attive nel sostenere il contributo delle cooperative sociali di tipo B all’economia regionale e allo sviluppo di una maggiore giustizia sociale in una fase del nostro paese particolarmente critica verso le politiche di promozione umana delle fasce più deboli della popolazione. La Toscana è stata un’eccellenza nel campo dell’integrazione e deve continuare ad esserlo: con questo protocollo che promuove l’inserimento lavorativo intra ed extra murario delle persone detenute la nostra regione si dota di uno strumento in più per continuare a porsi come buona pratica a livello nazionale”. “Con la sottoscrizione di questo protocollo - così Marco Paolicchi, responsabile Dipartimento Area Welfare Legacoop Toscana - si rinnova e si consolida il rapporto di collaborazione tra le Centrali Cooperative operanti nel sociale e il PRAP in un settore particolarmente delicato come quello degli inserimenti lavorativi della popolazione carceraria: l’esperienza delle cooperative sociali di tipo B ha dimostrato negli anni come sia possibile operare in modo efficace per coniugare politiche attive del lavoro ed integrazione lavorativa e sociale in sinergia con le amministrazioni penitenziarie.” “Con il Protocollo d’intesa sugli affidamenti alle cooperative sociali di tipo B, - ha detto Federico Pericoli - sono state colte le opportunità, in termini di spazi di tutela delle finalità sociali, che il nuovo Codice dei contratti offre in tema di concessioni e “appalti riservati” alla cooperazione sociale di inserimento lavorativo.”. In un momento in cui l’Italia non si è ancora risollevata dalla crisi economico-finanziaria è possibile pensare ad un Paese che cresce e si sviluppa coeso e solidale, che non esclude i cittadini più deboli, che costruisce percorsi di inclusione e con il Protocollo d’intesa siglato oggi PRAP e Centrali Cooperative hanno saputo cogliere le opportunità - in termini di spazi di tutela delle finalità sociali - che il nuovo Codice dei contratti offre in tema di “concessioni e appalti riservati” alla cooperazione sociale di inserimento lavorativo. La prospettiva, del resto, in una fase già complessa a livello socio-economico, è di rimettere in carico alle istituzioni e ai servizi pubblici della nostra regione persone che hanno raggiunto faticosamente un buon livello di autonomia, anche economica, attraverso percorsi personalizzati di inserimento effettuati nelle cooperative sociali di tipo B. L’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati è un “bene comune” che produce “esternalità positive” a favore delle comunità locali in termini di aumento della sicurezza e della coesione sociale, qualità della vita e, non da ultimo, risparmio di risorse pubbliche. Avviare poi al lavoro detenuti significa abbassare il tasso di recidiva dal 70 al 6% (come risulta dai dati delle Centrali Cooperative). Da una stima effettuata, lo Stato spende 70.000 € annui per ogni detenuto (190 € al giorno) e quindi la riduzione della spesa assistenziale conseguente all’inserimento lavorativo arriva a 25mila euro l’anno. Quindi l’inserimento lavorativo di un detenuto produce, oltre che il reinserimento socio-lavorativo della persona, anche un beneficio netto per la comunità locale. Le cooperative sociali di tipo B associate alle tre Centrali toscane firmatarie il Protocollo d’intesa sono più di 200, hanno circa 6000 soci, 7000 addetti e oltre 2000 lavoratori svantaggiati, per un fatturato intorno ai 200 milioni di euro. Roma: il carcere Regina Coeli è senza acqua a causa della rottura di una tubatura Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2018 Il carcere Regina Coeli è a secco. Da questa mattina la casa circondariale di Roma, nel cuore di Trastevere è senz’acqua a causa di una rottura di una conduttura su via della Lungara. L’interruzione idrica coinvolge tanto gli uffici quanto le celle dei detenuti. La direzione dell’istituto di pena, secondo quanto riportato dall’Ansa, ha già contattato l’Acea ma al momento i tecnici non sarebbero ancora intervenuti. All’interno dell’istituto, come riporta il sito del ministero della Giustizia il numero dei detenuti è di 906, laddove la capienza massima indicata nella casella “posti regolamentari” è di 624, per un numero complessivo di stanze pari a 326 che sono senza acqua calda si legge sul sito www.giustizia.it. Come dice al Fattoquotidiano.it l’osservatorio per i “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” Antigone, negli istituti visitati negli ultimi 18 mesi, arrivano al 60% le carceri senza docce nelle celle e al 38,8% le strutture dove non c’è acqua calda, “notoriamente una delle caratteristiche di base di un vivere minimamente dignitoso”. Ma quello dell’interruzione idrica è un problema non nuovo nel mondo carcerario, che ogni estate raggiunge il limite di sopportazione per i detenuti a causa del caldo. Vi sono carceri abituate all’intermittenza della fornitura, e per questo attrezzate all’emergenza, come in Sicilia o nel carcere di San Gimignano (Siena). Un problema spesso legato al territorio, ma anche al fatto che le strutture sono obsolete e sovraffollate. Vicenza: il carcere scoppia, la nuova ala cade a pezzi di Matteo Carollo Giornale di Vicenza, 25 luglio 2018 I deputati della Lega Racchella e Fantuz assieme ai sindacalisti di polizia della Uilpa hanno visitato il Del Papa e il padiglione inaugurato due anni fa. Finestre rotte, problemi per ascensori e scarichi. Oltre cento le camere distrutte e mai più ripristinate. Il sovraffollamento arriva a toccare il 133 per cento. Infissi rotti, automazioni fuori uso, celle chiuse nonostante il sovraffollamento. È la situazione in cui versa il nuovo padiglione del carcere Del Papa. Inaugurata appena due anni fa, la struttura presenta già diverse criticità, come emerso ieri durante la visita alla casa circondariale dei deputati della Lega Germano Racchella e Marica Fantuz. “La situazione è molto critica”, sono state le loro parole al termine della nuova tappa del tour nei penitenziari della regione promosso dalla Uil polizia penitenziaria del Triveneto. Non mancano le segnalazioni relative al nuovo padiglione, inaugurato nel luglio 2016. “La situazione è critica sotto molti punti di vista - ha sottolineato Racchella. C’è un climatizzatore che perde acqua vicino ad un quadro elettrico. Il nuovo padiglione non funziona, ci sono celle chiuse”. In effetti, la situazione assume contorni paradossali se rapportata ad un sovraffollamento che secondo fonti sindacali ha raggiunto un livello del 133 per cento. I detenuti sono attualmente 245; la capienza del carcere sarebbe pari a 286 posti. Il problema è che ben 103 camere detentive sono inutilizzate. Negli edifici più vecchi del carcere, sono ben 84 le camere danneggiate, con buchi nei muri, termosifoni e sanitari divelti, porte blindate distrutte. Per sistemarle, servirebbero fino a 20 mila euro ciascuna, ma non ci sono fondi e così rimangono chiuse. Nel nuovo padiglione sono invece 15 le stanze interdette per la mancanza di personale, mentre 4 sono inagibili sempre a causa dei danni provocati dagli stessi utenti. “Sono stati spesi 10 milioni di euro per un padiglione che, a due anni dall’inaugurazione, funziona al 30 per cento delle proprie capacità”, specifica il segretario generale Uil polizia penitenziaria Triveneto Leonardo Angiulli, che ha accompagnato i parlamentari nella visita. Con lui, anche il suo vice Mauro Cirelli e il membro della segreteria provinciale Mario Zelletta. “Nel nuovo padiglione si sono addirittura staccate alcune finestre, ci sono problemi al sistema fognario e a riscaldamento a pavimento. Quest’inverno, i detenuti sono rimasti una settimana al freddo in quanto l’impianto si era bloccato. Paradossalmente, i padiglioni vecchi funzionano meglio di quello nuovo”. Sempre nella nuova ala, gli automatismi sono saltati, impedendo così il funzionamento dell’ascensore e dei sistemi elettrici di chiusura delle celle. Se dovessero verificarsi disordini, dunque, gli agenti sarebbero costretti a salire a piedi quattro piani per poter dare supporto ai colleghi. “Uno scenario deludente, disarmante - sono state le parole della deputata Fantuz. Nella caserma dove dormono gli agenti della polizia penitenziaria, le docce sono un disastro, c’è muffa ovunque. I nuovi arrivati non hanno ancora i materassi per i letti”. Senza contare la carenza di agenti della polizia penitenziaria: l’organico della casa circondariale berica prevede 187 agenti; le unità in servizio, attualmente, sono però 143 (altri 10 previsti a Vicenza sono dislocati in altre strutture del territorio nazionale). San Gimignano (Si): progetto per un bus navetta per i familiari e i detenuti valdelsa.net, 25 luglio 2018 Il progetto, della durata di un anno e con un contributo previsto da parte del Comune di San Gimignano, si pone inoltre come la messa in rete di un insieme di soggetti istituzionali e di soggetti privati operanti nel campo dell’associazionismo per lo sviluppo di sinergie territoriali volte al contrasto dell’isolamento e in favore dell’integrazione sociale dei detenuti e delle loro famiglie. Una finalità che si inserisce a pieno titolo nel protocollo d’intenti tra amministrazione comunale e Regione Toscana per l’abbattimento dell’isolamento della Casa di Reclusione di Ranza. Enti pubblici e associazioni di volontariato insieme per contrastare l’isolamento del Carcere di Ranza. Comune di San Gimignano, Arciconfraternita di Misericordia di Poggibonsi, Fondazione Territori Sociali Alta Valdelsa nei giorni scorsi hanno aderito ad un bando della Regione Toscana presentando un progetto finalizzato alla sperimentazione di un trasporto sociale da e per la casa di reclusione con un bus navetta da 9 posti al servizio dei familiari in visita e dei detenuti in permesso o in misura alternativa. La tratta di collegamento con Ranza prevede 2 viaggi al giorno, dal lunedì al sabato, con orari da stabilire in concertazione con l’Istituto Penitenziario e con fermate nei pressi del centro storico di San Gimignano e alla stazione ferroviaria di Poggibonsi. Il servizio di bus navetta andrebbe ad incrementare le corse previste dall’attuale trasporto pubblico locale. Il progetto, della durata di un anno e con un contributo previsto da parte del Comune di San Gimignano, si pone inoltre come la messa in rete di un insieme di soggetti istituzionali e di soggetti privati operanti nel campo dell’associazionismo per lo sviluppo di sinergie territoriali volte al contrasto dell’isolamento e in favore dell’integrazione sociale dei detenuti e delle loro famiglie. Una finalità che si inserisce a pieno titolo nel protocollo d’intenti tra amministrazione comunale e Regione Toscana per l’abbattimento dell’isolamento della Casa di Reclusione di Ranza. Reggio Calabria: ieri in carcere, oggi imprenditore agricolo di Giorgio Gatto Costantino Gazzetta del Sud, 25 luglio 2018 E, convinto, sostiene il progetto “Liberi di scegliere” avviato dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria. Una “canna al vento” dagli occhi chiari. Così si presenta G.D., 48 anni e oggi prossimo a diventare imprenditore agricolo insieme alla sua compagna, ieri recluso nel carcere minorile di Reggio Calabria “proprietario solo delle robe che mi portavo addosso”. Nel mezzo un cammino di maturazione e incontri con adulti autorevoli, credenti e soprattutto “credibili”. Abbiamo incontrato il nostro interlocutore da Mario Nasone nella sede dell’Agape, l’associazione che ha favorito questo cammino e che oggi si sta spendendo per sostenere “Liberi di scegliere”, il progetto speciale che il Tribunale per i minorenni presieduto dal giudice Roberto Di Bella da 4 anni sta portando avanti. Un’iniziativa volta a offrire ai figli dei mafiosi un’alternativa di speranza al vortice demoniaco fatto di illusione, affiliazione, sopraffazione, inganno, carcere e morte. G.D. ha incontrato Di Bella dopo 12 anni che mancava da Reggio e una vita, la seconda, fatta di grandi sacrifici in Lombardia come operaio edile. Adesso con i soldi messi da parte ha comprato un terreno, si è costruito una casa e aspetta di raccogliere i frutti di quanto ha seminato. E si volta indietro per guardare la strada tortuosa che l’ha portato al suo noccioleto. Soprattutto il primo tratto di strada, quello in cui è cresciuto fino all’arrivo dei carabinieri che un giorno lo arrestano appena sedicenne per favoreggiamento di un pezzo da 90 della ‘ndrina locale. “Quell’arresto fu la mia fortuna perché determinò una svolta importante nella mia vita”. Dieci mesi nel carcere minorile di Reggio dove fra una partita a carte con il sacerdote e le altre attività previste nell’istituto, G.D. trova il tempo e il modo di riflettere sulla sua vita. Poi il primo incontro significativo, quello con don Italo Calabrò, di casa nell’istituto per quella sua passione verso il Vangelo incarnato: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi…”. L’adolescente inquieto e il sacerdote parlano a lungo e recuperano il vuoto valoriale che ha segnato i primi anni di vita del ragazzo: “I miei genitori erano persone perbene - tiene a precisare - ma assenti perché con la schiena spaccata nei campi”. Su quel primo incontro se ne innestano altri. Il primo con Franco, un altro uomo di poco più grande, dai lineamenti scolpiti come un apache, anche lui segnato dalle vicissitudini della Piana. Sa cosa prova G.D. lo prende con sé fuori dal carcere e gli dà una prima stabilità. Poi arriva il suo opposto. Un giovane studente bocconiano calato dal Nord per il servizio civile, longilineo, con gli occhiali e il sorrisetto saccente: Francesco Silvestri. A lui don Italo lancia una sfida: “Vuoi fare la rivoluzione? Comincia da qui”. E Francesco raccoglie la sfida e comincia con G.D. un percorso formativo e di avviamento al lavoro che porterà il nostro interlocutore lontano da Reggio e soprattutto dal suo paese dove nel frattempo scoppia una faida sanguinosa che coinvolge pure la sua famiglia. I dieci mesi in carcere hanno fatto “curriculum” e i capibastone delle ‘ndrine lo vorrebbero assoldare. I tentativi di riavvicinamento non mancano ma G.D. con i suoi occhi chiari vede lontano e respira aria pulita. Resta al Nord a sporcarsi le mani col cemento di giorno e a riflettere con Silvestri sui valori, le sfide e le prospettive di una vita diversa. Nascono spontaneamente altre relazioni, altri incontri, altre amicizie. Si crea una rete in cui G.D. dà e riceve fino a crearsi una famiglia, a portare su sua madre, a creare ulteriori occasioni di riscatto per altri. Perché chi è consapevole di aver ricevuto gratuitamente sente poi il bisogno di condividere altrettanto gratuitamente. A distanza di oltre trent’anni dal suo arresto G.D. ha un ancora desiderio da realizzare. Incontrare i ragazzi che si trovano in carcere o su strade sbagliate per testimoniare la validità dell’intuizione che sta alla base del progetto del presidente Roberto Di Bella. Dire a questi ragazzi delle cose molto semplici: “Abbiate coraggio, affidatevi all’Agape o al Tribunale per i minorenni. Fidatevi e Confidate”. E poi vorrebbe parlare anche ai capimafia o, ancora di più, alle madri e alle mogli degli ‘ndranghetisti: “Fate qualcosa per loro, per i vostri figli, voi che siete passati attraverso l’inganno della galera e della morte. Si può vivere serenamente con poco e ci si può realizzare come uomini e come donne. Il rispetto delle persone c’è quando ti stimano per quello che sei e non perché tutti hanno paura di te”. Sassari: detenuti al lavoro a Tissi, il Comune primo ente che sigla l’accordo con il carcere di Daniela Piras sassarinotizie.com, 25 luglio 2018 Un progetto di inclusione sociale rivolto a chi sta scontando una condanna in carcere. Il comune di Tissi è il primo ente locale a promuovere una tale iniziativa, consentita dall’Art. 21 della legge 354/1975. Due detenuti della prigione di Bancali hanno iniziato in questi giorni un percorso riabilitativo che avrà durata di sei mesi (rinnovabili per altri sei) nel quale si occuperanno di effettuare lavori di manutenzione e pulizia delle aree verdi e degli spazi comuni del paese. Il progetto nasce dalla collaborazione tra l’amministrazione comunale di Tissi e la casa circondariale “Giovanni Bacchiddu” di Sassari. Si tratta di un vero e proprio programma di reinserimento sociale, coordinato dal consorzio “Andalas de Amistade” che curerà la gestione degli inserimenti. Uno dei tanti “percorsi di amicizia” di cui è promotrice il consorzio (ricordiamo il “Progetto Aurora”, a favore delle donne che subiscono violenza, n.d.r.). Una possibilità reale di inclusione sociale per i detenuti e, allo stesso tempo, un’opportunità per tenere il decoro urbano a livelli ottimali. Un punto cardine nel programma presentato un anno fa dalla lista “Tissi cambia” e dal sindaco Gianmaria Budroni (nella foto). L’idea di questo progetto, sostenuto da tutto il consiglio comunale, è nata da un gruppo minoritario, “Effetto Tissi”, guidato da Sergio Merella. Un segnale che denota una collaborazione costruttiva tra maggioranza e opposizione. Un’iniziativa che sta suscitando molti apprezzamenti, specie da parte di altre amministrazioni che vogliono emularla, e che obiettivamente, senza colori politici, ha lo scopo di sensibilizzare l’intera comunità sull’importanza di offrire una seconda possibilità a chi ha sbagliato in passato, con fatti concreti. Purtroppo anche il migliore dei progetti può dare adito a fraintendimenti e perplessità; fino a qualche tempo fa, infatti, il compito di pulizia del paese era affidato a residenti con difficoltà economiche, una piccola “boccata di ossigeno” nel mare della disoccupazione. I detenuti appaiono effettivamente sostituirsi a loro. A tal proposito, il sindaco precisa: “Vorremmo chiarire con forza il vero obiettivo; il progetto è volto esclusivamente ad un discorso sociale e di inclusione sociale. Va da sé che non è certo e tanto meno vuole essere una misura volta al contrasto della disoccupazione. Per completezza di informazione, voglio precisare che da febbraio 2018 la Corte dei Conti impone agli enti locali di utilizzare le persone che usufruiscono delle misure riguardanti le povertà estreme solo nel caso vengano considerate come spesa del personale dell’ente, di contro impone agli enti di non superare le spese del personale sostenute nel 2009 - spiega Budroni. Come amministrazione ci stiamo comunque muovendo parallelamente per non far venire meno il nostro supporto a chi necessita di un aiuto economico, a breve presenteremo un progetto proprio rivolto a loro”. Tissi, come comune capofila di questo progetto, funge da cartina di tornasole per sondare gli effetti sulla popolazione di qualcosa che è effettivamente “d’avanguardia”. Chiediamo al sindaco Budroni di riferirci quali sono le prime reazioni, il primo cittadino afferma: “Gli abitanti di Tissi si sono dimostrati pronti ad accogliere con empatia e con la giusta dose di “umanità” questi ragazzi, anche perché ad oggi parlano i fatti concreti che sono rappresentati dalla pulizia effettuata! Di contro, loro si stanno trovando veramente bene con tutti i nostri concittadini, stanno apprezzando il contesto sociale del nostro paese”. Una dimostrazione pratica che dimostra come un’idea, seguita da studio e impegno, possa concretizzarsi in importanti risultati. Trieste: lezioni d’italiano in cella “per imparare le regole” di Giovanna Manzano Il Piccolo, 25 luglio 2018 Successo per il secondo ciclo di alfabetizzazione per detenuti appena concluso nella sezione maschile della Casa circondariale di via Coroneo, tenuto dal Cpia, il Centro provinciale istruzione adulti, in accordo con i ministeri dell’Istruzione e della Giustizia. Il corso di cento ore, tenuto da Emilia Colella, docente alfabetizzatore di italiano per stranieri, è stato strutturato anche e soprattutto per instaurare quel rapporto empatico e di fiducia reciproca imprescindibile in qualsiasi contesto educativo, e a maggior ragione in un istituto di prevenzione e pena. Varie le provenienze degli studenti: nigeriani, kosovari, rumeni, colombiani, afgani, pakistani, russi e ucraini. Altrettanto vari i livelli di scolarizzazione e le età. L’obiettivo del corso è stato non solo linguistico, ma soprattutto relazionale, sociale e di interiorizzazione di diritti e doveri, al fine di stimolare le coscienze ed acquisire il senso civico per riconoscere gli errori e non ripeterli. Spiega Colella: “L’attenzione massima è stata rivolta ai fattori socio-affettivi e socio-culturali, partendo dal vissuto di ciascuno. Un corso di alfabetizzazione ha successo se si riesce a sviluppare negli studenti la voglia di ritornare il giorno dopo la lezione per sentirsi gratificati, nella consapevolezza di potercela fare, ritrovando la fiducia nelle proprie possibilità”. Elisabetta Burla, garante comunale dei diritti dei detenuti, ricorda “l’importanza fondamentale dell’istituzione scolastica anche all’interno della Casa circondariale per permettere alle persone straniere d’imparare la nostra lingua e conseguentemente comprendere regole, doveri e diritti. Solo attraverso il dialogo e la comprensione delle diverse culture si può giungere all’integrazione e, conseguentemente, alla sicurezza tanto invocata”. Agrigento: inaugurata l’area verde per i colloqui dei detenuti con le famiglie e i bambini di Wilma Greco scrivolibero.it, 25 luglio 2018 Da oggi i bambini dei detenuti del carcere di Agrigento vedranno un cielo senza sbarre durante gli incontri con i genitori reclusi. Un’altalena, una casetta, uno scivolo, gazebi e tavolini a misura di bambino, arredano la nuova area verde, che, come ha detto il direttore della Casa Circondariale dott Aldo Tiralongo, permetterà ai bambini di vivere le poche ore di contatto con i papà, in uno spazio aperto, lontano da sbarre e vetri divisori, in un clima che non riflette l’immagine canonica degli istituti di pena. Inaugurata la mattina di ieri 23 luglio con una cerimonia semplice ma significativa, la nuova area verde, realizzata grazie al contributo del Club delle Mamme Pina Tricoli Livatino di Canicattì, che ha accolto immediatamente l’invito del capo area trattamento dott.ssa Maria Clotilde Faro per avviare un progetto di ampio respiro, che ha poi coinvolto le aziende “Licata S.p.a” e “Wrap Design”, e soprattutto alcuni detenuti che nelle ultime settimane anche sotto il sole battente, hanno lavorato, guidati dall’educatore dott. Giuseppe Di Miceli, con l’obiettivo comune di dare il proprio contributo per permettere alle famiglie con bambini di poter trascorrere il tempo del colloquio in maniera più serena. La realizzazione dell’area verde segue una serie di altri progetti realizzati nell’istituto penitenziario agrigentino per rafforzare i legami familiari: è il caso della sala colloqui della sezione femminile, dipinta e colorata con scene di cartoni animati, la ludoteca e le bibliotechine nelle sale interne. Non solo opere ma veri e propri ponti tra carcere e società una fruttuosa “contaminazione” che le persone al di fuori delle sbarre mettono in atto per poter cambiare quelle dietro le sbarre e restituirle al mondo e alla loro esistenza come cittadini attivi e consapevoli. Roma: ex detenuti nelle scuole per “spiegare” la teatro-terapia aics.it, 25 luglio 2018 Da ottobre, in 11 istituti scolastici di Ostia: il progetto è rivolto a 300 ragazzi tra i 14 e i 18 anni. Detenuti ed ex detenuti in classe, tra i ragazzi, per parlare delle proprie storie e di come la “teatro-terapia” li abbia aiutati a ritrovare se stessi e il senso della legalità. Eccolo l’ultimo innovativo progetto del dipartimento delle Politiche sociali di Aics che gli operatori dell’Associazione porteranno in 11 scuole del territorio di Ostia, a partire da ottobre prossimo, e che rivolgeranno a circa 300 ragazzi tra i 14 e 18 anni. Nove gli istituti scolastici superiori coinvolti, due quelli di scuola secondaria di primo grado. Il progetto prevede incontri nelle scuole, utilizzando la “testimonianza” come metodo maieutico di espressione di vissuti e condivisione di esperienze, emozioni e sensazioni che si mettono a disposizione per comunicare e condividere un messaggio chiaro ed esplicito. L’educazione è un processo che non va in una direzione sola, ma è sostanzialmente un’esperienza di apprendimento reciproca e un atto di acquisizione di conoscenze condivise che sono la base per imparare, agire e sforzarsi tutti di migliorare. Per questo, se da una parte ci saranno i giovani studenti, dall’altra ci saranno i detenuti e gli ex detenuti che formano la Compagnia Stabile Assai di Rebibbia, fondata e diretta proprio da Antonio Turco, responsabile delle Politiche sociali di Aics. La metodologia utilizzata dalla Compagnia Stabile Assai prevede l’utilizzo di tecniche educative innovative come il laboratorio teatrale; la testimonianza diretta; il cooperative learning; il feedback conclusivo, nella scansione di tre sessioni di lavoro: lo spettacolo teatrale che viene messo in scena proprio dalla Compagnia e che faciliterà la comunicazione, la socializzazione e l’apprendimento di argomenti altrimenti difficili da far comprendere nella sua totalità e profondità; l’attività di “Cooperative Learning” in classe con gruppi di studenti e un “Testimonial” membro della Compagnia; la restituzione del lavoro in gruppo plenario e il dibattito conclusivo. “Lo stile comunicativo ed educativo teatrale rimane ancora oggi per gli studenti una sperimentazione molto positiva ed utile per riflessioni successive all’incontro con coetanei e familiari ma soprattutto con l’espressione viva della propria emozionalità”, spiega Turco. Bologna: R-Estate al Parco 2018. “Shalom!”, il documentario sul Coro Papageno carpediem.cd, 25 luglio 2018 Il film di Enza Negroni, è un viaggio nel coro misto composto dai detenuti della Dozza, nato nel 2011 da un’idea di Claudio Abbado. “È un film di canto e di parola: sentiamo le voci dei membri del coro, il punto di vista è il loro”. La regista Enza Negroni sintetizza così “Shalom! La musica viene da dentro. Viaggio nel coro Papageno”, un documentario sul coro misto nato nel carcere bolognese della Dozza da un’idea di Claudio Abbado che unisce più di 30 elementi di 20 diverse nazionalità, assieme ad alcuni coristi volontari esterni, diretti dal Maestro Michele Napolitano. “Abbiamo dato voce ai detenuti che partecipano a questo progetto unico in Italia - continua Negroni - raccontando i rapporti tra maestro, coristi e volontari: nel corso degli anni (il Coro è nato nel 2011, ndr) sono nate relazioni e amicizie molto belle. I coristi raccontano a viva voce le loro esperienze intime, le loro emozioni e le prospettive future, tra cui la musica e il Coro stesso, in cui vorrebbero rimanere anche una volta usciti”. Tutto è cominciato nel 2015, da un’idea della produttrice Valeria Consolo, vincitrice del bando di Film Commission Regione Emilia-Romagna: “Lavoriamo insieme da 20 anni - spiega Negroni - Visto che la mia ultima avventura è stata “La prima meta”, il film sulla squadra di rugby della Dozza, mi ha proposto questo nuovo progetto, d’accordo con l’associazione Mozart14”. Mozart14, presieduta oggi da Alessandra Abbado, dal 2014 sostiene le iniziative musicali avviate in ambito sociale dal maestro Abbado: il Coro Papageno; il progetto Tamino, che porta la musica in ospedale per i bimbi ricoverati; il Leporello, laboratorio di song-writer con i ragazzi del carcere minorile del Pratello; il Cherubino, laboratorio di canto corale che unisce bimbi e adolescenti, anche con disabilità. Così, due anni fa la regista si avvicina al Coro, seguendone le prove, e nel 2016 comincia a girare: “Le prove sono ogni lunedì: prima con il reparto maschile, poi con quello femminile. Mi sono innamorata di questa storia. L’anno scorso, poi, è stato particolarmente speciale per il Papageno, che si è esibito sia in Senato, sia in Vaticano. Senza dimenticare la popstar Mika, che per la sua trasmissione televisiva ha scelto di esibirsi con il Papageno, entrando in carcere”. Il documentario racconta sia le prove all’interno della casa circondariale sia le esibizioni fuori, alle quali, però, non tutti possono partecipare: “Chi ha pene molto lunghe non può uscire: ‘Shalom!’ racconta anche questo, di chi grazie al canto può lasciare, almeno per qualche ora, il carcere, e di chi, invece, non può, e guarda gli amici partire”. In “Shalom!” si parla anche dei rapporti nati tra coristi maschi e coriste femmine, che partecipano a prove distinte e che si riuniscono solo in occasione dei concerti. Attraverso il racconto dei componenti del Coro Papageno lo spettatore entra nella casa circondariale per capire come la partecipazione a un coro possa cambiare una vita dopo una lunga permanenza in carcere. Per alcuni detenuti, poi, i brani eseguiti rappresentano il collegamento con il loro Paese di origine, grazie soprattutto alla scelta del maestro Napolitano, che ha volutamente selezionato brani di tradizione macedone, italiana, nord europea, araba, brasiliana, rom e di musica classica. Rompiamo il silenzio contro la menzogna di Roberto Saviano La Repubblica, 25 luglio 2018 “Perché vi nascondete? Scrittori e medici, attori e youtuber: tutte le persone pubbliche, chiunque abbia la possibilità di parlare a una comunità deve sentire il dovere di prendere posizione. Non abbiamo scelta. Oggi tacere significa dire: quello che sta accadendo in questo paese mi sta bene”. Dove siete? Perché vi nascondete? Amici cari, scrittori, giornalisti, cantanti, blogger, intellettuali, filosofi, drammaturghi, attori, sceneggiatori, produttori, ballerini, medici, cuochi, stilisti, youtuber, oggi non possiamo permetterci più di essere solo questo. Oggi le persone pubbliche, tutte le persone pubbliche, chiunque abbia la possibilità di parlare a una comunità deve sentire il dovere di prendere posizione. Non abbiamo scelta. Oggi tacere significa dire: quello che sta accadendo mi sta bene. Ogni parola ha una conseguenza, certo, ma anche il silenzio ha conseguenze, diceva Sartre. E il silenzio, oggi, è un lusso che non possiamo permetterci. Il silenzio, oggi, è insopportabile. Chi in questi mesi non si è ancora espresso - a fronte di chi invece lo sta facendo con coraggio - tace perché sa, come lo so io, che a chi fa il nostro lavoro parlare non conviene. Spesso sento dire o leggo: “Chi esprime il proprio pensiero lo fa per avere visibilità”, ma è una visibilità che ti fa guadagnare migliaia di insulti sui social e la diffidenza di chi dovrebbe sostenere il tuo lavoro perché si sente chiamato a dar conto delle tue affermazioni. Quello che nessuno ha il coraggio di dire è che spesso si tace per non essere divisivi, perché si teme che arrivino meno proposte, meno progetti. Ma se la pensiamo così, abbiamo già perso, perché ci siamo rassegnati a non stimolare riflessioni e ad assecondare chi crede che la realtà sia riducibile a parole d’ordine come “buonista”, “radical chic”, “taxi del mare”, “chiudiamo i porti”, “un bacione”, “una carezza” ed emoticon da adolescente. Spesso si tace perché si sa che prendere posizione comporta dividere non solo il pubblico che ti segue sui social, ma anche e soprattutto chi dovrebbe comprare i tuoi libri, comprare i biglietti dei tuoi spettacoli, venirti a vedere al cinema o non cambiare canale quando ti vede in televisione. Ma davvero credete che quello che sta succedendo sia accettabile? Per quanto tempo credete di poter sopportare ancora senza esprimere il vostro dissenso? Con Berlusconi, in fondo, era tutto più chiaro: c’era lui e c’eravamo noi. Criticarlo portava conseguenze, reazioni forti, artiglieria di fango, ma c’era una comunità attiva, che si stringeva attorno a chi lo faceva. Prendere posizione contro Berlusconi non significava perdere share, copie, consenso. Con Berlusconi era agevole farsi capire anche Oltralpe perché il Cavaliere era in fondo la macchietta italica, un carattere riconoscibile della commedia dell’arte. Oggi non è più così e in questo governo si stenta a scorgere i germi di qualcosa di estremamente pericoloso. “Fai il tuo lavoro e basta” è il richiamo all’ordine che subisce il calciatore che esprime la sua opinione sui migranti, l’attore che indossa la maglietta rossa. E il richiamo all’ordine è già un ricatto: guadagni con il tuo lavoro, non accettiamo commenti politici da chi ha il culo al caldo. Oggi c’è fastidio verso chi travalica i confini del proprio lavoro e del proprio ruolo per fare quello che sarebbe invece normale: controllare chi ci governa perché, anche se legittimato alle urne, non tradisca non solo il proprio mandato, ma soprattutto la nostra storia e i valori che ci hanno consentito di vivere decenni di pace. La nostra Democrazia è una Democrazia giovane e fragile, ma è prima di tutto antifascista e antirazzista. Vi sembra che oggi questo governo si stia muovendo nel rispetto dei valori che sono alla base della nostra Costituzione? Che si stia muovendo e che stia comunicando all’interno di un perimetro di sicurezza? Non vi sembra piuttosto che i 70 anni di prosperità e pace appena trascorsi ci abbiamo resi permeabili a partiti politici xenofobi? Che ci abbiano resi disattenti se non disinteressati a vigilare su diritti che una volta acquisiti, se non li difendiamo, possono essere spazzati via da qualche post su Facebook e da una manciata di tweet? Questo governo, in maniera maldestra ma evidentemente efficace, speculando sulle difficoltà di molti, utilizza come arma di distrazione di massa l’attacco ai migranti e alle Ong. Sta accadendo un orrore davanti al quale non si può tacere: mentre il M5S e la Lega litigano sui punti fondamentali del loro accordo, ci fanno credere che il nostro problema siano i migranti. E se mi rispondete che i governi precedenti hanno fatto altrettanto vi rispondo: non si erano spinti fino a questo punto, ma di certo hanno asfaltato la strada perché tutto questo accadesse. E se mi dite che avete votato per Lega e M5S per ribaltare il tavolo, perché era l’unico modo per mandare via una classe dirigente che aveva fallito sotto ogni profilo, vi dico: vigilate, non delegate, aprite gli occhi perché le cose si stanno mettendo male, male per tutti. Male non solo per i migranti o per le voci che dissentono, ma anche per voi. Sant’Agostino scrive: “Se togliete la giustizia, che cos’altro sono i grandi Stati se non delle associazioni di ladri? [...] Se una di queste bande funeste si accresce con altri briganti fino al punto di occupare tutta una regione, [...] di dominare delle città, ecco che si arroga il nome di Stato”. Quando la politica perde il sentiero della giustizia, si spoglia della sua carne lasciando scoperta l’ossatura banditesca. Sapete perché cito Sant’Agostino? Perché questo passaggio spiega bene come sia possibile che il potere, anche quando iniquo, anche quando ingiusto, anche quando incapace e anche quando criminale, viva indisturbato. Sapete di cosa si sostanzia l’omertà di fronte alle mafie? Se credete solo di paura vi sbagliate. Il pensiero che la protegge è questo: giudico un boss per quello che fa a me. Mi ha maltrattato? No. Ha intimidito qualcuno della mia famiglia? No. E allora per me va bene. Allo stesso modo oggi pensare che, solo perché questo governo, per ora, non ha toccato noi personalmente - la querela a me è solo un granello se paragonata ai colpi mortali che questo governo sta infliggendo allo Stato di Diritto - e i nostri interessi, possiamo esimerci dal prendere posizione, è atteggiamento ingenuo e irresponsabile che sta legittimando scelte e comportamenti scellerati. Questo non è uno scontro tra me e Matteo Salvini. Per me non c’è nulla di personale, sento fortissimi il dovere e la necessità di parlare per chi non ha voce. Per i seicentomila immigrati presenti in Italia che devono essere regolarizzati ora, subito, perché siano sottratti allo stato di schiavitù in cui versano. Per le Ong che hanno iniziato a fare salvataggi in mare, aiutando gli Stati europei e l’Italia a gestire un fenomeno che non può essere bloccato, ma solo ben amministrato perché è palesemente una risorsa. Quei politici che oggi si ostinano ancora a sostenere il contrario, di politica e di economia non capiscono niente e sono un pericolo per la tenuta sociale del nostro Paese che è un Paese multietnico. Fieramente multietnico. Oggi chiedo a voi, miei concittadini, di mobilitarvi per i diritti di tutti, perché anche se a voi oggi sembra di non far parte di questi “tutti”, siete già coinvolti. In nome di un presunto benessere, in nome di una maggiore sicurezza ci diranno che in fondo la libertà di espressione è una cosa da ricchi privilegiati, che parlare di diritti di chi fugge e trova inferno in terra e morte nel Mediterraneo è fare il gioco dei negrieri. Addirittura mi sento dire che con le mie critiche aiuto Salvini nei sondaggi: come sempre la colpa non è di chi appicca il fuoco, ma di chi tenta di spegnerlo. Salvini non sale nei sondaggi per colpa di chi lo critica, ma per responsabilità di chi tace e di chi mostra timidezza e timori. La mobilitazione che vi chiedo è una mobilitazione che riguarda ciascuno di noi, parlate al vostro pubblico e non per me, che in tribunale e fuori so difendere da me le mie ragioni. Vi chiedo di mobilitarvi per difendere i diritti che a breve non ricorderete nemmeno più di aver avuto. Ci stanno facendo credere che non ne abbiamo bisogno, ma presto capiremo che più della tracotanza di questo governo, più dell’arroganza di Salvini, quello che ci sta condannando è il silenzio. La libertà d’espressione e la lotta per i diritti raccontati come “vizi” da élite contro il popolo, che invece invoca sicurezza. Ma la lotta per i diritti è sempre lotta per chi non può permetterseli e per chi spesso non può permettersi nemmeno di chiederli. E ora voi mi direte: ma le nostre battaglie le facciamo con i nostri libri, con le nostre canzoni, con i nostri spettacoli, con la nostra ironia. È vero, è sempre stato così: ma ci sono dei momenti in cui diventa cruciale capire da che parte si sta e quindi non basta più delegare la resistenza alla propria arte. Dinanzi a menzogne che crescono incontrastate, a truppe cammellate di bugiardi di professione (al loro cospetto gli scherani di Berlusconi erano dilettanti), davanti al dolore che queste menzogne e questi bugiardi di professione provocano, abbiamo tutti il dovere di rispondere: NON È VERO! Il solito antico scontro: l’arte che prende parte e quella che orgogliosamente disdegna l’ingaggio. La prima che si crede superiore alla seconda in nome dell’impegno e la seconda che si crede superiore alla prima perché rivendica il diritto alla purezza del disimpegno. Steccati che collassano dinanzi ai morti in mare e alle continue menzogne. Dovete parlare ai vostri lettori, ai vostri ascoltatori, a tutti coloro a cui con la vostra arte e il vostro lavoro avete curato l’anima. Abbiate fiducia in voi stessi, avete gettato le basi per essere ascoltati, non abbiate paura di dire a chi vi vuole bene che voi non state con tutto questo. Ci sarà disorientamento all’inizio, riceverete critiche per aver rotto l’equilibrio dell’equidistanza, che però è fragile e già incrinato. Ma gli effetti virtuosi che domani avranno le vostre parole, vi ripagheranno delle reazioni scomposte degli hater oggi. Il trucco per delegittimarvi lo conoscete, quindi partite (partiamo) in vantaggio. Vi diranno: guadagni? Non puoi parlare. Era così che Mussolini trattava Matteotti prima che venisse ammazzato: sei figlio di benestanti? Non ti puoi occupare di istanze sociali. Pensateci: ma davvero siamo tornati a questo? E soprattutto, davvero stiamo accettando tutto questo? Accettiamo di essere intimiditi da questa comunicazione criminale? Dovremmo vergognarci del frutto del nostro lavoro? Accettare, come vogliono, che autentico sia solo chi tiene la testa bassa? Scrittori, l’attacco al libro, alla conoscenza, al sapere è quotidiano. “Vai a lavorare” viene detto a chi scrive. Il primo passo di qualsiasi deriva autoritaria parte da disconoscere la fatica intellettuale, togliere alle parole la dignità di lavoro. In questo modo resta solo la propaganda. Editori, non sentite franare la terra sotto i vostri piedi? Prendete parte, non c’è salvezza nel prudente procedere. Bisogna investire casa per casa, strada per strada e conquistare lettori, ossia persone in grado di poter capire il mondo e non subirlo con le maree del rancore: la conoscenza è uno strumento preziosissimo di emancipazione dalla miseria personale, difendiamo questo strumento. Difendiamolo con tutte le nostre energie. Tra i soccorritori di Josephine, l’unica superstite del naufragio che ha mostrato ancora una volta l’inadeguatezza della Guardia costiera libica a compiere missioni umanitarie, c’era Marc Gasol, uno dei giocatori di basket più forti del mondo, una roccia di due metri e dieci. Dite un po’, cosa rispondereste a chi dice: Marc Gasol è ricco, non può occuparsi di chi soffre? Vi sembra un’obiezione plausibile, vi sembra che abbia senso o che siano i deliri di chi oggi ha paura? E allora uscite allo scoperto, oggi l’Italia ha bisogno delle vostre voci libere. Non abbiate paura di chi, più di ogni altra cosa, teme il dissenso perché non ha gli strumenti per poterlo gestire, se non in maniera autoritaria. E un ministro della Repubblica che querela uno scrittore su carta intestata del ministero sta mettendo in atto un gesto autoritario: sta utilizzando la sua posizione per intimidire non solo me, ma anche voi. Da una parte c’è chi critica, dall’altra tutto il governo, che a oggi non ha manifestato alcun fastidio a essere strumentalizzato. Non mi fa paura la querela e non mi fa paura la solitudine. Ma voi dove siete finiti? Ricordate quando dicemmo “strozzateci tutti” a Berlusconi che avrebbe voluto strozzare chi scriveva di mafie? E ora, dove siete? Quando ho criticato le politiche dei governi di centrosinistra mi veniva detto che diffamavo il Paese, che diffondevo disfattismo, che esponevo il fianco ai nemici della democrazia. In realtà attivare analisi e critica è il compito (direi il dovere) di chi racconta la realtà; e le sue parole vanno in soccorso della libertà, non la boicottano. Ci siamo ridotti a subire l’offesa che prendere posizione critica su questo governo sia un favore a qualche potente? A qualche interesse? Coraggio! Ho a lungo riflettuto prima di scrivere queste righe, non vorrei pensiate che vi stia chiamando a raccolta per difendere me, ma vorrei capiste che il tempo per restare nelle retrovie è finito. Se non prenderete parte vorrà dire che quello che sta accadendo sta bene anche a voi. In tal caso a me non resterà il rimpianto di non averci provato, ma voi dovrete assumervi la responsabilità di ciò che accadrà: o complici o ribelli. “La storia degli uomini - scrisse Vasilij Grossman in Vita e destino - non è dunque la lotta del bene che cerca di sconfiggere il male. La storia dell’uomo è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell’umanità. Ma se in momenti come questo l’uomo serba qualcosa di umano, il male è destinato a soccombere”. Voi siete il piccolo seme dell’umanità, senza di voi l’Italia è perduta. Allora, da che parte state? Michela Murgia: “Noi ci battiamo, ma la politica tace” di Caterina Pasolini La Repubblica, 25 luglio 2018 La scrittrice spiega che contro le parole di Salvini viene naturale schierarsi: “La Lega soffia sulle paure che ci uniscono, come perdere il lavoro, non sulle idee che ci dividono”. “Davanti a quello che accade oggi, alle parole xenofobe e razziste di Salvini sui migranti, per me che sono militante è naturale schierarmi, espormi, pubblicamente come invita a fare Saviano nel suo appello, ma non è l’unica via”, dice Michela Murgia, scrittrice, che travolge con la sua passione civile e politica. Meglio denunciare o agire? “Ognuno trova la sua risposta, la sua strada per opporsi. Non c’è una via più giusta dell’altra, la battaglia va fatta in mille modi diversi. I gesti eclatanti servono come esempio a chi cerca fiducia e indicazioni, ma è nelle piccole cose quotidiane che cresce la resistenza”. È stata attaccata per questo? “Non è mai stato così difficile parlare, scrivere. Ti arriva una quantità di reazioni negative difficili da maneggiare e non solo dalla rete. Una cosa è certa: qualcosa è stato profondamente sottovalutato in questi anni, in cui la sinistra ha dimenticato gli svantaggiati”. Intellettuali latitanti? “Assolutamente no, ognuno si organizza: chi fa volontariato, chi viene alle presentazioni per discutere, chi organizza scuole d’italiano per stranieri, chi va in carcere. Tanti scrittori sono tornati a scrivere di politica. Gli intellettuali si cercano tra loro come non accadeva da quando Berlusconi tentò di far passare la legge bavaglio. Ecco, chi è veramente assente è la politica”. Partiti silenti? “Il Pd è troppo occupato a dare la colpa ai cattivi elettori che non hanno votato Pd per fare autocritica. La politica ora sembra occuparsi di se stessa invece che dei problemi del Paese”. Lei ha detto: bisogna tracciare un confine tra uomini e no... “La mia idea è che siamo esseri umani empatici che hanno superato la legge della giungla, migliori dei nostri istinti. E poi c’è una parte del paese che ha vinto, anche se ricordiamo che Salvini ha avuto il 17 %, e che pensa all’essere umano come a un predatore dominante”. Qual è la differenza? “La Lega soffia sulle paure che ci uniscono, come perdere il lavoro, non sulle idee che ci dividono. E le idee diverse fanno bene alla democrazia. Solo che la sinistra dovrebbe ripensare seriamente cosa significa essere di sinistra”. Migranti. Viminale, lista di “Paesi sicuri” per ridurre gli status di rifugiati di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 25 luglio 2018 Una lista di “Paesi sicuri” per ridimensionare il perimetro di concessione dello status di rifugiato. La discussione non è inedita ma da qualche giorno ha preso vigore nelle agende dei ministeri degli Esteri, dell’Interno e della Giustizia. Lo schema di base è: non si concede più la protezione a chi dice di fuggire da uno Stato considerato invece “sicuro”. L’input è del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il processo in realtà è tutt’altro che semplice. L’esito finale sarà politico, in capo ai ministri Salvini, Enzo Moavero Milanesi (Esteri), Alfonso Bonafede (Giustizia) e lo stesso presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ma va definita intanto la forma giuridica di questa “lista”: può essere una norma in Parlamento o un decreto interministeriale. D’obbligo un confronto con Bruxelles, indispensabile valutare il rispetto dei diritti costituzionali, gli accordi esistenti di rimpatrio, le relazioni economiche con i Paesi interessati. Al momento tra i membri dell’Unione risultano dodici stati, compresi Francia e Germania, con un elenco di “Paesi sicuri”. L’Italia ha messo sotto osservazione le nazioni africane e lo Sri Lanka. Il dossier ormai è aperto e avviato. Sulla spinta di Salvini non c’è da dubitare ma bisognerà fare i conti con i numerosi passaggi tecnici e istituzionali. La questione migranti resta in piena fibrillazione. Oggi a Bruxelles alla riunione del Coreper (il comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue) si vedrà la reazione degli Stati membri ai due “non paper” sui centri di transito nell’Unione e le piattaforme di sbarco regionali nei Paesi terzi, documenti della Commissione. I due obiettivi, indicati nel Consiglio di fine giugno a Bruxelles, hanno ricevuto già molti dissensi. Ieri poi, secondo un’indiscrezione del Financial Times, la Commissione avrebbe previsto mila euro di contributo per ogni profugo accolto. Ipotesi rispedita al mittente da Salvini: “L’Italia non ha bisogno di elemosina”. Il presidente Conte sui “non paper” ha detto che molti aspetti sono “interessanti” come la costituzione di una cabina di regia a Bruxelles proposta proprio da Roma. Secondo il piano ci sarebbero anche 6mila euro per ogni rifugiato ricollocato. Sottolinea Conte: “La solidarietà europea non ha un prezzo. Non è una logica corretta dire che ce ne occupiamo noi, ci date i soldi e gli altri possono essere totalmente indifferenti a quello che succede”. Oggi il vicepremier Salvini illustrerà al Senato le linee programmatiche del suo dicastero. A a Tripoli si è svolta ieri la terza visita di un ministro italiano del nuovo governo al presidente del Gna (governo di accordo nazionale) Serraj. Dopo Salvini e Moavero Milanesi è stata la volta d Elisabetta Trenta (Difesa) accompagnata dal capo di Stato maggiore della Difesa Sergio Graziano e dall’ambasciatore Giuseppe Perrone. La visita ha un valore particolare perché svoltasi all’indomani di quella a Serraj del ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian. A riaffermare, una volta di più, l’impegno italiano per sostenere la ricostruzione della nazione libica. Trenta ha sottolineato come “la aiuteremo a non rimanere vittima di ingerenze dall’esterno”. E ha aggiunto: “Servono tre azioni: riconciliazione, recupero della sicurezza e lavoro sul piano politico. Non crediamo che un’accelerazione sul processo elettorale possa portare stabilità se non è accompagnata dagli altri due fattori”. L’accelerazione per elezioni a dicembre era stata invocata a Parigi il 18 maggio al termine del vertice tra il presidente Emmanuel Macron, Serraj, il maresciallo Khalifa Haftar, il presidente della Camera dei rappresentanti Aguila Salah e quello del Consiglio di stato, Khaled al-Meshri. Trenta ha confermato la disponibilità italiana a fornire mezzi e risorse per rafforzare le capacità del sistema difesa e sicurezza della Libia. “L’immigrazione incontrollata e il terrorismo sono facce della stessa medaglia: c’è il rischio che attraverso l’immigrazione incontrollata - ha detto il ministro della Difesa - arrivino jihadisti e per questo daremo ai libici ogni appoggio richiesto che possa aumentare la loro capacità operativa”. Nel “processo inclusivo” per la stabilizzazione libica Trenta ha annunciato di voler “in un secondo tempo incontrare anche il generale Haftar”. L’ultima offerta di Bruxelles: 6.000 euro a migrante accolto di Leo Lancari Il Manifesto, 25 luglio 2018 Europa. Presentato l’ennesimo piano per gli sbarchi. Salvini: “Non chiediamo l’elemosina”. Hotspot nei quali dividere i migranti economici da quanti hanno invece diritto a richiedere la protezione internazionale. Uomini, mezzi e fondi per accelerare l’esame delle domande di asilo ma anche per sveltire i rimpatri. E l’impegno a distribuire i profughi tra gli Stati membri che si diranno disponibili ad accoglierli. Non c’è proprio niente di nuovo nelle proposte con cui la Commissione europea risponde alle richieste italiane di una maggiore condivisione dei migranti che arrivano in Europa, e che oggi pomeriggio verranno discusse dagli ambasciatori del Coreper, il comitato che ha il compito di preparare i documenti per le riunioni di Consiglio europeo. Neanche l’offerta di un contributo di 6.000 euro per ogni migrante accolto è nuova, salvo che per l’entità della cifra. Al punto che Matteo Salvini va come al solito giù duro nel commentare le notizie che arrivano da Bruxelles. “Non siamo qui a chiedere l’elemosina, anche perché nel corso del tempo ogni richiedente asilo costa agli italiani tra i 40 e i 50 mila euro”, fa sapere in mattinata il ministro leghista degli Interni. Concetto poco dopo ribadito, anche se con altri termini, da Giuseppe Conte: “La solidarietà europea non ha un prezzo” dice infatti il premier, per il quale “non è un logica corretta ridurre tutto allo schema “ce ne occupiamo noi, ci date i soldi” o “se ne occupa uno Stato singolo, si prende i soldi”, con gli altri totalmente indifferenti a quello che succede”. Insomma il solito muro contro muro che non porta a niente. Va detto che gran parte delle proposte rese note ieri erano state anticipate già la scorsa settimana nella lettera con cui il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker aveva risposto alle richieste avanzate in precedenza da Conte. La più importante delle quali, l’istituzione di una cabina di regia europea per coordinare gli sbarchi in Europa dei migranti salvati nel Mediterraneo, è stata respinta. Bruxelles darà sì vita a una “cellula centrale di coordinamento”, ma non si occuperà di dare indicazioni relative ai porti (“non è compito della Commissione”) che quindi continueranno a essere a carico dei Paesi di primo approdo, bensì solo di distribuirli tra gli Stati in maniera completamente volontaria. Bisognerà vedere adesso quanti tra i 28 si faranno avanti. Per il resto si tratta, come detto, in gran parte di idee alle quali l’Ue sta lavorando da tempo senza però riuscire a fare passi in avanti. A partire dai “Centri controllati” da aprire all’interno dell’Ue per separare le persone bisognose di protezione internazionale dei migranti economici. Lavoro che andrebbe svolto anche con l’aiuto di squadre di sbarco formate dalla Guardia di frontiera europea, esperti di asilo, addetti alla sicurezza e ai rimpatri i cui costi sarebbero coperti dal bilancio Ue. Si tratterebbe di una “fase pilota”, in attesa di una più generale riforma del diritto di asilo europeo. Parallelamente, la Commissione punta a realizzare con Unhcr e Oim delle “intese regionali sugli sbarchi” con paesi terzi verso i quali portare i migranti. Bruxelles spinge perché i Paesi costieri del Mediterraneo si dotino di una propria zona Sar (salvataggio e soccorso) e di un Mrcc, una sala di controllo in grado di coordinare gli interventi dei mezzi navali. Qui i migranti potranno ricevere protezione internazionale con l’aiuto dell’Unhcr ed eventualmente entrare in un programma di reinsediamento, oppure, se lo vorranno, essere rimpatriati con l’assistenza dell’Oim. I Paesi che accetteranno di far parte di un’”intesa regionale”, potranno contare su un sostegno personalizzato, ritagliato sulla specifica situazione economica, politica e di sicurezza di ognuno. “Ora più che mai abbiamo bisogno di soluzione europee”, ha spiegato ieri il commissario Ue per l’Immigrazione Dimitris Avramopoulos. “Siamo pronti a sostenere gli Stati membri e i Paesi terzi a cooperare meglio allo sbarco di coloro che sono stati soccorsi in mare, ma per far funzionare immediatamente i terreno dobbiamo essere uniti non solo ora, ma nel lungo termine”. Se l’unità auspicata da Avramopoulos si davvero realizzabile o meno si capirà già oggi con le decisioni degli ambasciatori del Coreper. Migranti. Contro-piano di Salvini: entro l’estate via la protezione umanitaria di Angela Mauro huffingtonpost.it, 25 luglio 2018 Insoddisfatto delle risposte Ue, il ministro vuole abbattere una legislazione radicata da 20 anni: primo governo Prodi. “Se vogliono dare soldi a qualcun altro lo facciano, l’Italia non ha bisogno di elemosina”. Matteo Salvini boccia la proposta della Commissione Europea sull’immigrazione (6mila euro per ogni migrante accolto) e prepara il suo contro-piano. È un decreto, al Viminale i tecnici ci stanno lavorando e sperano di sfornarlo per l’estate. Due i punti cardine: via la protezione umanitaria istituita dal primo governo Prodi nel ‘98 e istituire centri di identificazione ed espulsione (Cie), uno per ogni regione. “L’ipotesi non esiste. L’Italia non chiede l’elemosina, anche perché nel corso del tempo ogni richiedente asilo costa tra i 40mila e i 50mila euro”, continua Salvini sulla proposta della Commissione Europea che ha l’obiettivo di rendere operative le intese firmate nell’ultimo Consiglio europeo a fine giugno. Si tratta delle intese che lo stesso ministro dell’Interno esaltò, quantificando la vittoria italiana al vertice europeo con un grasso “70 per cento”. Anche il premier Giuseppe Conte si disse soddisfatto, addirittura “all’80 per cento”, proprio mentre tutto intorno le intese erano già belle e naufragate: nate su base volontaria, in poche ore si ritrovarono abbattute dagli Stati che ritiravano la propria disponibilità a ospitare i nuovi ‘centri controllati’ per migranti. Ora su queste intese scritte sulla sabbia si cimenta la Commissione Ue per cercare qualcosa di concreto per il 30 luglio, giorno dell’incontro Ue con Unhcr e Oim a Ginevra. Domani a Bruxelles ne discuteranno gli ambasciatori dei paesi europei riuniti nel Coreper (il Comitato dei Rappresentanti Permanenti presso l’Ue). Per fare una sintesi, la Commissione propone centri controllati nei paesi europei, gestiti dagli Stati che li ospitano su base volontaria e non dall’Ue come previsto in partenza. Servirebbero per smistare coloro che hanno diritto all’asilo da coloro che invece devono essere rimpatriati. I paesi che accettano i rifugiati trasferiti da questi centri hanno diritto a 6mila euro per migranti. In più, la Commissione propone accordi regionali per gli sbarchi con i paesi africani, esclusa la Libia che resta paese non sicuro per rimpatriare i migranti. Ma a Roma pare non ci credano più. A metà estate, dopo un Consiglio europeo tanto denso di parole quanto povero di fatti, dopo un vertice dei ministri degli Interni a Innsbruck altrettanto fumoso e anzi ricco delle ovvie contraddizioni tra alleati sovranisti, dopo ben due lettere del premier Giuseppe Conte a Juncker e Tusk solo la settimana scorsa, il governo gialloverde ha deciso di non scommettere più sull’aiuto europeo. Anche Conte, che si è esposto in prima persona nelle richieste di sostegno europeo, oggi non si dice entusiasta della proposta della Commissione. “Non è una questione di soldi”, commenta, alludendo ai 6mila euro. Ed è in questo vuoto che scatta la mossa del Viminale. Dovrebbe essere un decreto che dispone una vecchia proposta del centrodestra: l’abolizione della protezione umanitaria per chi non ha diritto all’asilo politico o alla protezione sussidiaria, ma non può essere rimpatriato perché ha gravi problemi di salute oppure perché il suo paese d’origine è interessato a catastrofi naturali. La protezione umanitaria fu uno degli ultimi atti del primo governo Prodi, che la istituì nel luglio del ‘98 con il decreto n.286. Serviva a comprendere tutti i casi esclusi dal diritto allo status di rifugiato (stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 1951, riguarda i perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinione politica) oppure esclusi dalla protezione sussidiaria (riconosciuta a chi andrebbe incontro a danno grave, come la pena di morte, la tortura o altri trattamenti inumani o degradanti, qualora tornasse nel paese d’origine). Già il 4 luglio scorso Salvini ha diramato una circolare ai prefetti, alla commissione per il diritto d’asilo e ai presidenti delle commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. La richiesta: ridurre le protezioni umanitarie. Nel 2017 in Italia sono state presentate 130mila domande di protezione internazionale: il 52 per cento delle richieste è stato respinto, nel 25 per cento dei casi è stata concessa la protezione umanitaria, l’8 per cento dei richiedenti ha ottenuto lo status di rifugiato, un altro 8 per cento la protezione sussidiaria, il restante 7 per cento è rientrato in altri tipi di protezione. Ma la circolare non ha soddisfatto il ministro. Del resto, se non cambia la legge, gli uffici competenti possono ben poco. E allora ecco Salvini all’opera per cambiare la legge. Appena nato il governo gialloverde, fu uno dei suoi fedelissimi, Massimiliano Fedriga, neoeletto governatore del Friuli, ad accendere i riflettori sulla protezione umanitaria retaggio dell’era Prodi: “La prima cosa è togliere la protezione umanitaria perché esiste solo in Italia”. Ora Salvini ha chiesto ai tecnici del Viminale di studiare il dossier. Oltre all’eliminazione della protezione umanitaria, il decreto prevede anche l’istituzione di nuovi Cie, uno per ogni regione. Punto di difficile attuazione perché si fonda sulla disponibilità dei governatori nonché dei sindaci a ospitarli: complesso. I centri di identificazione ed espulsione erano stati aboliti, perché in pratica si erano trasformati in carceri di migranti in attesa di risposte sul loro destino in Italia. Già l’ex ministro Marco Minniti li aveva riaperti, riuscendo però istituirne solo 6. Riuscirà Salvini a convincere le regioni? Di certo, i trionfalismi sbandierati agli ultimi vertici europei si stanno rivelando vuoti: era chiaro fin da subito eppure il governo gialloverde cantò vittoria. Ora Salvini cerca di affondare. Dopo aver chiuso i porti alle ong, dopo aver accusato anche la Guardia costiera, ora va all’attacco del diritto: quello che finora ha disegnato un approccio solidaristico da parte dell’Italia nei confronti di chi arriva, connotati propri del Belpaese da ben 20 anni che nessun governo finora aveva pensato di cambiare. Il caso dei Campi Rom. Uno spettro per l’Europa: la giustizia creativa di Carlo Nordio Il Messaggero, 25 luglio 2018 La decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha sospeso lo sgombero di un campo Rom disposto dal Comune di Roma, si inserisce in quel filone di cosiddetta giustizia creativa, che a sua volta rappresenta l’epilogo di un lungo processo di irrazionalismo modernista. Possiamo partire dall’arte che, come è noto, anticipa, nell’evoluzione dello Spirito, i risultati del comportamento pratico: dal cubismo e dall’astrattismo, che hanno scomposto la forma e l’immagine; dalla dodecafonia, che ha frantumato le armonie dei suoni, e dall’ermetismo, che ha destrutturato la parola, ancor prima che Derrida ne destrutturasse il significato. Da lì il processo è stato inarrestabile, sino ad arrivare alla finanza creativa, che ha devastato conti pubblici e risparmi privati, e finalmente alla giustizia creativa, di cui si è avuto il massimo esempio nella sentenza che ha condannato il derubato a risarcire il ladro. In attesa che arrivi quella che condanna il postino a risarcire il cane, eccoci a quella attuale: il Comune di Roma deve lasciare i nomadi dove sono. Va detto subito che se lo sgombero fosse stato disposto “tout court”, lasciando i destinatari senza tetto e dissolvendo l’unità delle famiglie, la decisione sarebbe sacrosanta. Ma il realtà il Comune di Roma ha proposto, o così afferma di aver fatto, “reiterate offerte alloggiative, di inclusione abitativa e lavorativa”. Il che, al netto del burocratichese, starebbe a significare che il sindaco ha indicato alternative accettabili e dignitose, e che i nomadi le hanno rifiutate. E così hanno fatto ricorso alla Corte. Ora quest’ultima ha chiesto sul punto una documentazione ulteriore. Poiché non crediamo che il Comune sia stato così improvvido da resistere in causa senza allegare la prova delle “reiterate offerte alloggiative”, possiamo solo supporre che la Corte sia stata colta da uno di quegli entusiasmi del politicamente corretto per il quale tutte le regole tradizionali del buon senso sono saltate, e continuano a saltare. La Corte sa benissimo che questi campi non danno alcuna garanzia di sicurezza, di igiene e di presenze. Nessuno sa chi ci sia dentro, come viva, come possa permettersi auto di lusso e come allevi i minori. L’accusa di razzismo, che paralizza ogni iniziativa volta a riportare ordine, ha sinora impedito anche quel famoso “ censimento” che altro non è se non la normale registrazione che grava su ciascuno di noi sin dal momento della nascita, e di cui ha dato benemerita applicazione la Chiesa cattolica, che con i suoi atti parrocchiali ha nei secoli sopperito alle carenze di Stati inefficienti e di organismi corrotti. In questo senso, lo sgombero disposto dalla Raggi non è altro che un ritorno alla legalità. La decisione, comunque è interlocutoria, e probabilmente dopo le integrazioni fornite dal Comune consentirà l’esecuzione dell’ordinanza di sgombero. Ma intanto il dubbio è stato seminato. È il dubbio che questa giustizia cosiddetta sovranazionale, che già all’Onu ha dato pessima prova di sé condannando Stati democratici e premiando dittatori sanguinari, sia in forte crisi, e stia perdendo rapidamente credibilità. Essa costituisce un’ulteriore picconata alla già traballante Unione Europea, e se vogliamo evitarne la dissoluzione è inutile e puerile lanciare allarmi in modo scomposto e generico per i risorgenti sovranismi. Bisogna piuttosto evitare che i cittadini guardino con sfiducia, o peggio ancora con rabbia, a provvedimenti presi sulla loro testa da organismi lontani. Come, appunto, questa decisione creativa della Corte Europea. Perché mentre l’arte può, e anzi deve permettersi una creatività emotiva, la Giustizia poggia su basi più solide e convenzionali. Il cittadino che non apprezzi le distonie dodecafoniche può sempre spegnere la radio, o ascoltare altro. Ma non può spegnere il programma della Giustizia, può solo cambiare canale. Ed è quello che oggi minaccia, e con buone ragioni, di fare. Tailandia. Italiano in carcere, la moglie in sciopero della fame: “hanno sbagliato” Ansa, 25 luglio 2018 “Mio marito è vittima di un errore giudiziario per questa ragione ha iniziato lo sciopero della fame e della sete. Oggi è svenuto davanti a me durante i colloqui. Qualcuno deve intervenire”. È l’appello lanciato attraverso l’Ansa da Sabina Locci, moglie di Stefano Bulla, il 48enne già campione del mondo ed europeo di Tae-kwon-do, arrestato nel febbraio scorso in Tailandia perché doveva scontare sei anni e dieci giorni per un cumulo di condanne relative a reati contro il patrimonio e la persona (truffe, riciclaggio, violenza privata) commessi in provincia di Cagliari dal 2005 al 2009. L’esperto di arti marziali era in Tailandia da due anni insieme ai figli e alla moglie e aveva aperto una palestra. Secondo l’accusa si era allontanato dall’Italia proprio per evitare il carcere. “Viveva alla luce del sole, non si nascondeva affatto - racconta Sabina Locci - pubblicava costantemente sui social le sue foto, non si sentiva certo un ricercato. Ma lo hanno arrestato ed estradato”. Inizialmente Bulla è stato rinchiuso nel carcere di Civitavecchia, poi il trasferimento in Sardegna, nel penitenziario cagliaritano di Uta. “Da 15 giorni - spiega la moglie - ha iniziato lo sciopero della fame: è vittima di un errore giudiziario, ma nessuno lo ascolta. Gli è stata infatti conteggiata una pena relativa al riciclaggio che invece ricadeva nell’indulto”. A settembre sono fissate una serie di udienze, e in quell’occasione Bulla potrà difendersi e far valere le sue ragioni. Nel frattempo, però, ha deciso di avviare una forma estrema di protesta: lo sciopero della fame e della sete. “Ha già perso 17 chili - sottolinea Sabina Locci - oggi mentre parlavamo durante il colloquio si è sentito male ed è stato trasferito in infermeria: qualcuno lo aiuti, o si lascerà morire”. Stati Uniti. A sette anni prigioniero nelle carceri di Trump di Giuseppe Bizzarri Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2018 I genitori arrestati alla frontiera; i bambini portati in istituti di New York. Fra loro, uno di appena 7 anni. L’ennesima vicenda di famiglie smembrate al confine americano secondo la tolleranza zero del l’Amministrazione Trump, riguarda anche il Brasile. “Abbiamo 52 bambini separati dai loro genitori: emblematico il caso di C., immaginate un bambino di sette anni detenuto in un luogo per lui strano, dove parlano una lingua incomprensibile. La madre è in Brasile, il padre è in America e il governo brasiliano non riesce a risolvere il caso, anzi non fa nulla o fa pochissimo; oltre a non esserci nessun avvocato a New York per seguire il caso”; la denuncia è del presidente nazionale dell’Ordine degli avvocati del Brasile, Claudio Lamachia. Il legale ha tentato di liberare il bambino, invano. La madre vive a Carmo do Paraiba a Minas Gerais e vuole che il bambino torni a casa. Secondo il legale, il governo del presidente Michel Temer sta sottovalutando il problema. Lamachia era negli Usa, per un seminario quando è esplosa la crisi ed è riuscito ad avere un contatto con uno dei bambini brasiliani, un ragazzino di sette anni, recluso sin da maggio in un edificio dell’immigrazione americana vicino a New York. “Non parlo dei genitori, quello che mi preoccupa al momento sono i bambini. Loro non hanno commesso nessun crimine, non sono imputabili e devono restare sotto custodia brasiliana e non certo americana” aggiunge Lamachia. Giacché i bambini non possono entrare nelle prigioni federali americane, sono separati dai genitori e affidati all’Office of Refugee Resettlement (Orr), un ufficio per il ricollocamento dei rifugiati. Dopo essere stati separati dai genitori, i minorenni sono affidati entro 72 ore dalle guardie di frontiera all’Orr. Da quel momento sono considerati come “minori stranieri non accompagnati”, una categoria che in genere si riferisce ai minori che arrivano al confine statunitense da soli. I bambini sono ospitati in strutture gestite dal governo e vi trascorrono settimane o mesi mentre i funzionari cercano parenti o sponsor che siano pronti a prendersene cura, mentre la loro richiesta di asilo è pendente dinanzi al tribunale. La situazione dei bambini migranti è stata trattata alla fine di giugno a Brasilia dal presidente Michel Temer e dal vicepresidente Usa Mick Pence. Il vice di Trump ha usato un tono duro rispetto alla migrazione: “Se non siete in condizione d’entrare legalmente, non venite!”. Circa 410 mila brasiliani vivono negli Stati Uniti, un quarto sono illegali. I brasiliani rappresentano quasi il 10 per cento della popolazione di 42,1 milioni d’immigrati negli Usa, cui circa 11 milioni senza documenti. Russia. La fuga di Biryukova torna a far parlare di torture in carcere di Marco Caldera eastjournal.net, 25 luglio 2018 Irina Biryukova, l’avvocato responsabile di aver procurato al quotidiano russo Novaya Gazeta il video di un detenuto vittima di torture da parte della polizia russa, ha lasciato il proprio Paese in seguito alle minacce ricevute. I fatti sono stati così riportati il 23 luglio dalla Ong Public Verdict. Biryukova, che collabora con l’associazione nella lotta per i diritti umani, si è più volte appellata alle autorità legislative russe per ottenere protezione per sé e la sua famiglia. Il filmato - Il video è stato pubblicato dal quotidiano indipendente il 20 luglio, suscitando reazioni di indignazione sia in Russia che all’estero. Nei dieci minuti di filmato si vede il detenuto Yevgeny Makarov che, disteso su due tavoli negli uffici del centro di detenzione di Yaroslavl, a nord-est di Mosca, viene tenuto fermo da due agenti e torturato da almeno altri dieci colleghi in divisa. Gli ufficiali, tutti nella stessa stanza, si accaniscono sugli arti inferiori della vittima dandosi il cambio l’uno con l’altro. Questo nonostante le continue urla di dolore e le ripetute implorazioni da parte di Makarov. Novaya Gazeta ha comunicato che la vicenda risale al giugno 2017. Il 22 luglio, il prefetto regionale di Yaroslavl ha riferito che, in seguito alla diffusione del materiale, i responsabili delle violenze sono stati individuati e sono stati presi provvedimenti di detenzione nei loro confronti. In seguito a ciò, alcuni familiari e conoscenti degli agenti avrebbero fatto pervenire minacce direttamente alla Biryukova, convincendola a prendere la decisione di lasciare il Paese. Le violenze nei penitenziari russi - Sempre Public Verdict aveva dichiarato nell’aprile 2017 Makarov e altri due detenuti - Ruslan Vakhapov e Ivan Nepomnyashchikh - avevano subito violenze da parte di personale in divisa nella stessa sede. Il secondo dei due era stato incarcerato in seguito agli scontri di protesta alla vigilia della cerimonia di insediamento del Presidente Vladimir Putin nel 2012 e stava scontando una pena di 30 mesi. La Corte Europea dei Diritti Umani ha ordinato a Mosca di indagare approfonditamente sull’accaduto, che si aggiunge ai sempre più frequenti casi di violenze e torture nei penitenziari russi. Vietnam. In carcere 10 manifestanti che protestavano contro la “svendita del Paese” asianews.it, 25 luglio 2018 L’Assemblea nazionale si era impegnata il mese scorso a deliberare sulla creazione di tre importanti poli economici a Vân Phong e sull’isola di Phú Quic. Gli oppositori hanno dato vita a numerose manifestazioni. Mai nella storia del regime comunista vietnamita se ne erano registrate così tante, soprattutto al Sud. Le autorità vietnamite hanno condannato al carcere dieci persone per aver partecipato alle proteste scoppiate il mese scorso in tutto il Paese contro un disegno di legge sulle “unità amministrativo-economiche speciali”. L’Assemblea nazionale si era impegnata a deliberare sulla creazione di tre importanti poli economici a Vân Phong (Khánh Hòa) e sull’isola di Phú Quic (Kiên Giang). Con sostanziosi incentivi e senza particolari restrizioni, i territori verrebbero ceduti agli investitori per 99 anni. Molti vietnamiti temono che i territori sarebbero consegnati alla Cina. A partire dallo scorso 9 giugno, gli oppositori hanno dato vita a numerose manifestazioni. Le proteste sono proseguite il giorno seguente con maggiore intensità. Mai nella storia del regime comunista vietnamita se ne erano registrate così tante, soprattutto al Sud, dove la repressione del governo è stata maggiore. Nella provincia di Binh Thuan, le proteste sono rapidamente sfuggite al controllo delle autorità. In alcune zone, i manifestanti hanno attaccato la polizia antisommossa, bruciato le auto di pattuglia e preso d’assalto alcuni edifici governativi. Il tribunale di Binh Thuan ha inflitto pene tra i due ed i tre anni e mezzo di carcere a dieci persone, che durante il processo durato un giorno sono state accusate di aver preso parte alle violenze. Gli imputati sono stati riconosciuti colpevoli di “massicci attacchi contro gli schieramenti della polizia; aver ferito alcuni ufficiali, danneggiando due veicoli governativi e causando blocchi al traffico per 15 ore sull’autostrada nazionale”. Molti altri manifestanti sono già stati condannati per aver partecipato alle proteste. Tra essi vi è lo studente americano William Nguyen, condannato per “aver provocato disordini pubblici” la scorsa settimana e deportato dal Paese dopo oltre un mese di prigione. Il suo caso ha suscitato le ire di diversi parlamentari statunitensi che hanno chiesto il suo rilascio ed è stato sollevato dal segretario di Stato Mike Pompeo in visita ad Hanoi questo mese.