Padova, sospeso il servizio “Mai dire Mail” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 luglio 2018 Sospeso nel carcere Due Palazzi di Padova il progetto “Mai dire Mail”, il servizio di corrispondenza telematica (email) tra detenuti ed il “mondo” esterno. Una convenzione stipulata nell’aprile del 2017 - da rinnovare annualmente - che ha permesso, per la prima volta, di inserire anche nel carcere il concetto di una comunicazione che può essere quotidiana, nonostante sia in forma scritta. Un modo rivoluzionario per chi vive in carcere dove bisogna aspettare giorni per fare una telefonata di dieci minuti ai proprio cari, o in alternativa le lettere per posta ordinaria dove passano altrettanti giorni. Un servizio in convezione con l’azienda Jailbook che lo gestisce direttamente e indirettamente in molti istituti di pena in Lazio, Toscana, Lombardia e appunto, Padova. Le motivazioni? Secondo il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Enrico Sbriglia i costi sarebbero onerosi e avrebbe espresso “inquietudine” per il fatto che la corrispondenza sia “maneggiata” da operatori esterni che non sono pubblici ufficiali, come lo sarebbe il personale dell’Amministrazione penitenziaria. Eppure il servizio, fino a qualche tempo fa, sottoscritto dalla direzione del carcere e l’azienda ideatrice Jailbook, è sempre stato così, senza generare alcuna perplessità da parte dell’amministrazione. A rispondere alle obiezioni poste dal provveditore è Francesca Rapanà, volontaria e operatrice del carcere, che gestisce il servizio al Due Palazzi. Spiega che “I costi dell’abbonamento sono stabiliti dall’azienda e che comunque non si possono paragonare alle email normali”. Perché? Il servizio consiste nella stampa attraverso un software dedicato ideato da Jailbook srl, verifica, catalogazione, spostamento presso l’Istituto, raccolta in tutti i piani della posta in uscita, richiesta di autorizzazione degli abbonamenti e dei rinnovi, rapporti con l’Ufficio Conti Correnti, scansione di ciascuna mail, invio, verifica. Nessuno di noi persone libere nell’invio di una mail deve affrontare una simile procedura”, spiega Rapanà. Se questo servizio funziona è perché ci sono volontari che ci dedicano circa cinque ore al giorno. Una mole di lavoro che sicuramente non può sobbarcarsi il personale di polizia penitenziaria. Per quanto riguarda la privacy dei detenuti violata, è paradossale perché le stesse persone abbonate sono perfettamente al corrente che una mail non può essere spedita in busta chiusa e al momento di abbonarsi accettano le inevitabili condizioni di spedizione “aperta”. Francesca Rapanà, la responsabile del servizio, sottolinea inoltre che “mai dire mail” non sostituisce la posta ordinaria, le raccomandate, i telegrammi, i fax, ecc. e che quindi le persone detenute possono continuare a utilizzare altri servizi nel caso in cui non fossero sicuri che la loro privacy sia adeguatamente tutelata. “L’assenza di lamentele in questo senso e la forte diminuzione nell’uso di telegrammi e fax - spiega Rapanà - ci conferma di aver lavorato seriamente, ma siamo disposti ad accettare indicazioni per fare meglio”. E sono proprio le indicazioni che mancano. Non c’è stato nessun tavolo di discussione tra l’amministrazione e volontari che gestiscono il servizio. Un occasione che sarebbe stata utile per evitare una sospensione, trovando un accordo per gestirlo diversamente. I costi, come già ribadito, ci sono perché c’è un lavoro enorme e materiali da utilizzare. Ogni mese l’associazione Granello di Senape produce alla ragioneria dell’Istituto una nota di debito con l’importo precedentemente verificato con il ragioniere. Il pagamento avviene tramite bonifico. In base alla convenzione, ogni mese Granello di Senape corrisponde a Jailbook il 15% di quanto incassato per il supporto tecnico del servizio. Il resto viene utilizzato per i costi del servizio che non sono solo l’abbonamento internet: la gestione del servizio richiede ad esempio un’importante quantità di risme di carta, toner, rimborsi carburante, oltre naturalmente a molte ore di lavoro. La responsabile del servizio Francesca Rapanà e la presidente dell’associazione Granello di Senape Ornella Favero, hanno indirizzato una lettera al direttore del carcere Due Palazzi Claudio Mazzeo, il provveditore Sbriglia e Roberto Piscitello del Dap, proprio spiegando nel dettaglio la funzione e svolgimento del servizio, proponendo di riscrivere il contratto di servizio, semplificando il linguaggio e prevedendo la traduzione dei termini del servizio in più lingue, chiedendo una collaborazione ai mediatori culturali in servizio presso l’Istituto. Tutto questo nell’ottica di continuare un servizio che fa restare i reclusi, uniti alle famiglie. In questi mesi ho provato a capire cosa significhi essere disconnessi dalle relazioni di Laura Rondello Ristretti Orizzonti, 24 luglio 2018 Ho avuto il primo contatto con la Casa di Reclusione di Padova circa un anno fa, una visita con l’Università alla scoperta di un mondo così lontano da me e da quello che fino a quel momento avevo vissuto. È stato come essere stati catapultati in un’altra realtà. Quella visita, seppur breve, mi ha spinto a volerne sapere di più, a provare, in un certo senso, a superare i miei limiti, come se da quel momento in poi le barriere e i pregiudizi che in parte avevano caratterizzato la mia esistenza fossero iniziati a crollare, a farsi da parte. Le persone che ho incontrato durante quelle poche ore non erano poi così diverse dalle quelle incontrate fuori, non erano diverse da un professore, da un padre, da un amico. Non c’erano facce da “delinquenti”, segni identificativi, espressioni particolari. Senza dubbio c’era stato qualcosa di importante che aveva segnato il loro passato, che ha segnato il loro presente, e non solo il loro, ma la vicinanza che ho percepito è stata determinante, fondamentale, è stata proprio quella che mi ha portato a mettermi in discussione. Ho deciso di approfondire e di svolgere il mio tirocinio magistrale in Psicologia con l’Associazione Granello di Senape, da febbraio a luglio. Tra le diverse attività di loro competenza mi sono prevalentemente occupata del servizio Mai Dire Mail. Posso dire che le soddisfazioni che mi ha dato questa esperienza sono state davvero tante, mi hanno segnato sia a livello professionale che a livello personale. In questi mesi ho capito quanto sia importante questo servizio. Siamo abituati a essere costantemente connessi, a ricevere continui stimoli dal contesto di cui facciamo parte. Siamo immersi nella tecnologia e nelle relazioni, più o meno a distanza, che esistono anche grazie al supporto di telefoni cellulari e computer. Talmente immersi, e sommersi, che non ci poniamo minimamente il problema di cosa voglia dire esserne fuori. In questi mesi ho provato a capire cosa significhi essere tagliati fuori, essere disconnessi dalle relazioni. Essere lontani da tutto e da tutti. Essere rinchiusi. E ho capito davvero quanto sia fondamentale avere l’opportunità di continuare a coltivare le relazioni con l’esterno. Relazioni che a un certo punto dell’esistenza si spezzano, o potrebbero spezzarsi, ma che possono essere ricostruite o restare in piedi anche grazie alla costanza e alla quotidianità di questo servizio. Relazioni che sono di supporto e di accompagnamento a un percorso di rieducazione e reinserimento. Più di una volta mi è capitato di venire ringraziata per la scelta di continuare a mandare avanti Mai Dire Mail, ritenuto fondamentale per tenere vivi i contatti con i propri cari, tra chi è riuscito a riallacciare i rapporti con una figlia che non sentiva da tempo; chi “si accontenta” di mandare o ricevere un semplice buongiorno, che con questa costanza non c’è mai stato prima, ma che ora c’è e acquista un significato del tutto diverso per un padre e per i suoi ragazzi; chi sta per diventare nonno e può ricevere giornalmente notizie su ciò che accade fuori; chi sarebbe disposto a pagare di più pur di continuare ad avere questa opportunità; chi avrebbe semplicemente bisogno di sentirsi meno solo e può riuscirci anche grazie a poche frasi scritte sulla carta. Questo è il significato e il valore di questo servizio, fare in modo che non si spezzino rovinosamente quelle relazioni affettive così fondamentali per chi sta dentro ma anche per chi sta fuori, per assicurare il mantenimento di un’identità che è destinata a perdersi se non viene permesso il confronto con altre identità. Per il futuro del singolo e per il futuro della società. La Camera Penale di Padova a sostegno di “Mai dire Mail” Ristretti Orizzonti, 24 luglio 2018 La Camera Penale di Padova ha appreso con viva preoccupazione la volontà da parte della Direzione della locale Casa di Reclusione e del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto di non rinnovare la concessione per il sevizio “Mai dire Mail” gestito dall’Associazione Granello di Senape. Tutti abbiamo avuto modo di apprezzare in questi mesi l’utilità di un servizio che consente ai detenuti di comunicare in tempi rapidi con i propri familiari e i difensori. Un servizio che indubbiamente contribuisce ad una umanizzazione della pena, secondo i principi costituzionali. Ulteriore motivo di preoccupazione è dato dal fatto che il servizio verrebbe interrotto proprio nel periodo estivo quando, anche a causa delle condizioni ambientali e del rallentamento o del venir meno di molte attività, la vita detentiva risulta particolarmente difficile. La Camera Penale di Padova, nel ribadire l’importanza fondamentale delle attività e dei progetti portati avanti in questi anni dalle Associazione all’interno della Casa di reclusione e, in particolare, dal “Granello di Senape” auspica che gli organi competenti vogliano rivedere la loro decisione e rinnovare la convenzione. Camera Penale di Padova “Francesco de Castello”- Commissione Carcere Incostituzionale subordinare al pentimento l’assistenza ai figli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 luglio 2018 La Corte costituzionale è intervenuta sull’automatismo assoluto dell’articolo 4bis. il caso è quello di una madre, con 3 ragazzi al di sotto dei 5 anni, che si era opposta al rifiuto giustificato con la mancanza del limite temporale di espiazione della pena dei due terzi. Ancora una volta la Corte Costituzionale prende posizione e dichiara l’illegittimità costituzionale sull’automatismo assoluto del 4bis che impedisce l’accesso al beneficio che consente alle madri detenute di essere ammesse all’assistenza all’esterno dei loro figli che abbiano meno di 10 anni. L’automatismo esclude le detenute per i reati del 4bis dall’accesso al beneficio o lo condiziona all’espiazione di una parte di pena, fermo restando che si verifichino le condizioni dell’art. 58 ter relativo ai collaboratori di giustizia. La vicenda giudiziaria trae le mosse dalla remissione degli atti del magistrato di Sorveglianza che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 bis, rispetto agli articoli 3, 9,30 e 31 della Costituzione. Si trattava del reclamo di una madre di 3 figli, tutti al di sotto dei 5 anni di età, che si era opposta al rifiuto giustificato con la mancanza del limite temporale di espiazione della pena nei due terzi. Nel rimettere la questione alla Corte, il magistrato richiama la preminenza del diritto alla cura del figlio minore, peraltro, come segnala, già riconosciuto dalla Consulta con la sentenza 76/ 2017 che consentiva di accedere alla detenzione domiciliare speciale ex art. 47-quinquies dell’Ordinamento penitenziario. Il magistrato non tarda a rilevare che la norma censurata contiene un “automatismo di preclusione assoluta” che contrasta “con il diritto del minore a mantenere un rapporto con la madre all’esterno del carcere (diritto, peraltro, già riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Cdf-Ue), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007)”. L’automatismo assoluto diviene ragione di censura perché limita il “superiore e preminente” interesse del minore ben oltre il bilanciamento di interessi contrapposti, laddove dall’latra parte ci sia la sicurezza sociale. La Corte si è dunque chiesta se fosse corretto che i requisiti previsti per ottenere un beneficio finalizzato a favorire il rapporto tra madre e figli in tenera età fuori da carcere, fossero identici a quelli prescritti per l’accesso al diverso beneficio del lavoro all’esterno, preordinato al reinserimento sociale del condannato. La risposta della Corte è negativa. L’automatismo integra un contrasto con l’art. 31 della Costituzione: infatti anche l’aver scontato una parte della pena, in assenza di collaborazione, non consentirebbe l’accesso al beneficio infra-murario. Per questo, la Corte accoglie la censura sull’automatismo dell’art. 21 bis, richiamandosi alla sua pronuncia n. 239/2014, che limita l’incentivazione alla collaborazione con la giustizia, attraverso il divieto della fruizione di benefici penitenziari, nei casi in cui ciò produca effetti non solo sulla condizione individuale del detenuto ma anche sui minori in tenera età, essendo preminente la tutela della continuatività dell’affetto e delle cure materne. Ancora una volta la Corte abbatte gli automatismi dei divieti, per coloro che hanno commesso un reato ostativo del 4bis, e lo fa ricorrendo al bilanciamento delle contrapposte esigenze, entrambe di rango costituzionale: da una lato la difesa sociale sottesa alla necessaria esecuzione della pena si contempera, e in questo caso soccombe, rispetto al diritto del minore alle cure materne e all’affetto continuativo. E cosi, fatte queste considerazioni, la Corte non può che concludere che i requisiti previsti per l’accesso a un beneficio finalizzato a favorire il rapporto tra madre e figli in tenera età al di fuori del carcere, non possano coincidere con quelli richiesti per l’accesso al beneficio del lavoro all’esterno, la cui limitazione non ha immediate ricadute su soggetti diversi dal detenuto. Diritti e 41bis, in attesa della Cassazione di Stefano Anastasia* huffingtonpost.it, 24 luglio 2018 Dunque la Cassazione sembra aver messo un primo punto fermo nella questione aperta ormai da più di un anno sui poteri dei Garanti delle persone private della libertà nominati dalle Regioni e degli Enti locali nelle sezioni carcerarie di massima sicurezza, dove sono custodite le persone soggette al regime di cui all’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario. Ne sono stato involontario protagonista, essendo due dei tre casi decisi dai giudici di merito lo scorso anno riferiti a richieste di colloquio con il sottoscritto, nelle mie funzioni di Garante dei detenuti delle Regioni Lazio e Umbria. Come è noto, a Sassari e a Terni i magistrati di sorveglianza hanno riconosciuto ai detenuti reclamanti la facoltà di svolgere colloqui riservati con i Garanti senza che fossero sottratti a quelli (video e audio-registrati) con i parenti. A Viterbo no. Poi, in appello, il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha confermato la decisione del magistrato di sorveglianza di Terni come il Tribunale di sorveglianza di Roma ha fatto con quella di Viterbo. Infine, la Cassazione ha annullato con rinvio la decisione di Perugia. Le motivazioni della I sezione penale della Cassazione non sono ancora depositate, e dunque non sappiamo quali siano gli argomenti usati dalla Suprema Corte per rinviare al Tribunale di Perugia la questione. Nel frattempo io continuo ad attenermi scrupolosamente alle personali linee-guida che mi sono dato ben prima che questo tourbillon giurisprudenziale cominciasse a volteggiarmi intorno. Quando un detenuto in regime di 41bis mi scrive, ovvero mi chiede un colloquio tramite la direzione dell’Istituto in cui è ospitato, io programmo una visita nella sezione in cui si trova e, nel pieno rispetto (oltre che della legge) anche delle circolari ministeriali, quando arrivo alla sua stanza, lo informo delle disposizioni dell’Amministrazione penitenziaria, secondo cui un colloquio con me dovrebbe svolgersi con il vetro divisorio, la registrazione audio-video e, infine, a scapito dell’unico colloquio mensile con la famiglia cui ha diritto. Se queste condizioni sono da lui accettate, faccio il colloquio. Altrimenti, ascolto cosa ha da dirmi alla presenza dei funzionari penitenziari che mi accompagnano nella visita. Faccio così da quasi due anni, da quando una sera Rita Bernardini mi ha telefonato, segnalandomi il caso di una moglie, raggiunta telefonicamente dalla direzione dell’Istituto in cui era ristretto il marito perché fosse informata che l’indomani non avrebbe potuto incontrarlo perché qualche giorno prima aveva parlato con me e così aveva esaurito il suo credito di colloqui mensili. Da allora, mi preoccupo di informare i detenuti del conflitto esistente tra il loro diritto al colloquio familiare e quello al colloquio con il garante e lascio a loro la decisione sul diritto esercitabile nel corso di quel mese. Poi, quando la Cassazione avrà depositato le sue motivazioni, vedrò che fare, alla luce delle indicazioni che ne verranno. Nel frattempo, spero che la Suprema Corte voglia chiarire l’esatta portata dell’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario che riconosce ai detenuti la facoltà di avere colloqui con i garanti, sperando che voglia evitare quei curiosi argomenti che in questi mesi mi è capitato di leggere, anche da fonti autorevoli, secondo cui i garanti regionale e locali non potrebbero fare colloqui riservati con i detenuti in 41bis: perché (sulla base di una norma di diritto internazionale) li può fare il garante nazionale (come a dire che il riconoscimento del diritto di voto alle donne doveva far cadere quello agli uomini); perché sono espressione di enti territoriali senza competenza in materia penitenziaria, laddove è proprio la legge dello Stato che ha riconosciuto ai garanti territoriali la facoltà di visitare le carceri senza autorizzazione, di ricevere (anche in busta chiusa) reclami dai detenuti e di avere colloqui con loro; perché le loro procedure di nomina non sono determinate da legge statale, come del resto accade anche per i Presidenti e le Assemblee rappresentative regionali, in virtù del principio di autonomia regionale nella elezione dei propri organi stabilito dalla Costituzione; perché sono espressioni di istituzioni permeabili dalle organizzazioni mafiose (principio precauzionale in base al quale bisognerebbe chiudere tutte le assemblee elettive del nostro Paese, Parlamento compreso, e lasciare a un gruppo di ottimati unti dal Signore il governo della cosa pubblica); ovvero perché in questo modo il Comune di Corleone, anche se non è sede di un carcere, potrebbe nominare un Garante per consentire i contatti della cosca locale con i propri concittadini in 41bis anche se ristretti in Friuli o in Piemonte (come se gli infidi enti territoriali non fossero, per l’appunto, territoriali, e dunque con competenza sul loro territorio e non sui loro nativi); o infine perché i Garanti regionali e locali (quando non collusi con le organizzazioni criminali) sarebbero così stupidi da diventare strumenti delle organizzazioni criminali a loro insaputa (questo, è inutile dirlo, è l’argomento che, personalmente, mi brucia di più). Se la Suprema Corte eviterà questi argomenti, che dal punto di vista giuridico a me appaiono inconsistenti, potremo finalmente capire perché il regime speciale di cui all’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario derogherebbe anche all’art. 18, che viceversa consente colloqui dei detenuti con i garanti. In fondo questa è la puntuale questione di diritto su cui si dovrebbe essere pronunciata la Suprema Corte, che ne sottende solo un’altra, più generale: se il regime speciale del 41bis comporti deroghe anche nell’offerta di mezzi e strumenti per la tutela dei diritti fondamentali della persona, cui i garanti territoriali sono chiamati dalla legge dello Stato a concorrere. *Coordinatore dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Garante per le Regioni Lazio e Umbria In Italia il suicidio assistito c’è. In carcere di Fabrizio Maria Barbuto Libero, 24 luglio 2018 Marco Prato si è ucciso, com’era prevedibile. Probabilmente s’è fatto aiutare. Ma tanto non frega a nessuno: era un “mostro”. Un esubero di 173 detenuti, eppure Marco Prato, criminale dalla personalità proclive al suicidio, fu trasferito proprio a Velletri, dove non gli sarebbe stata certamente garantita la sorveglianza necessaria a scongiurare il peggio. Perché nessuno esige risposte in merito? Non la famiglia, non la società. Tanto Marco era solo un mostro che meritava di morire, poco importa se, ad uccidersi, sia stato lui. È così che la pensano gli innumerevoli utenti del web, i quali hanno già emesso sentenza prima degli organi competenti, come consuetudine nell’era digitale. Il Lazio si distingue per un triste primato in campo carcerario, “vanta” infatti le prigioni più straripanti della penisola, le quali superano in molti casi la capienza regolamentare. Come sostiene lo stesso garante dei detenuti Mauro Palma, quella di Velletri non era la struttura idonea a ospitare Prato e supportarlo nei suoi squilibri emotivi. L’uomo si è espresso sulla morte del ragazzo definendola un “suicidio annunciato”, ma c’è perfino chi ipotizza il “suicidio assistito”. Ad opera di chi? È davvero da considerare l’eventualità che qualcuno abbia agito sottobanco affinché l’assassino venisse trasferito lì dove gli fosse più facile dare riscontro al suo proposito di farla finita? È possibile che questa fosse una delle ultime volontà di Prato, o esse erano solo quelle trascritte sul foglietto testamentario ritrovato in cella al suo decesso, in cui pregava che alla sua salma venisse rigenerata la chioma emesso lo smalto rosso? Il caso Varani sembrava risolto con la cattura degli assassini del povero Luca, ma ora che uno di essi si è tolto la vita in circostanze non del tutto chiare, la sua trama si infittisce più che mai. “Aveva tentato il suicidio più volte, Marco, ma nonostante fossimo amici, l’ho scoperto solo dalle ricostruzioni tv” a parlare è Alfonso Stani, noto pr della capitale che conosceva bene Prato, e che dopo il delitto Varani ne ha cancellato ogni forma di rispetto e affezione. “Sprizzava vita da ogni poro, e venire a conoscenza delle sue manie suicide mi ha sorpreso quasi quanto scoprirlo assassino. Gli hanno fornito molte attenuanti, e tra queste c’è la droga, ma essa può solo amplificare la natura di un uomo, non le fa prendere un altro corso”. I tentativi di togliersi la vita operati da Prato, forse, si sono sempre rivelati fallimentari perché morire non era davvero il suo proposito, attaccato com’era alla materialità di quella vita che celebrava a ritmo accelerato, senza mai avere del tutto imparato a gestire un disordine emozionale che lo portò a eccessi di ogni tipo: sesso promiscuo, alcool a profusione e droghe pesanti. Fino al più tragico di tutti: l’omicidio di Luca Varani, perpetrato assieme al suo complice-amante Manuel Foffo, con centosette coltellate. “Le reciproche nature perverse si sono fomentate, e dalla loro fusione è scaturito il peggio” asserisce Stani, il quale, da persona che conosceva uno degli assassini e la sua indole suggestionabile, si dice certo che le responsabilità del crimine spettino solo al10% a Prato: “Sì, aveva una personalità complessa e a tratti torbida, ma nessuno avrebbe mai familiarizzato col suo lato oscuro se qualcuno non si fosse impegnato a portarlo in superficie. Lui voleva essere Dalidà, e in Foffo aveva trovato il suo Luigi Tenco”. Prato aveva infatti una vera e propria ossessione per la cantante francese della quale, ogni anno, celebrava sul suo profilo Facebook data di nascita, di morte e tappe di vita salienti. I suoi post pubblici terminavano sempre con la dicitura “applausi”, come a esprimere le sue smanie autocelebrative e quel narcisismo distruttivo dal quale appariva permeato, che, nonostante la sua omosessualità dichiarata, lo portò perfino a intrecciare relazioni con soubrette e donne dello spettacolo, pur di sfilare sui red carpet capitolini. Il suo suicidio ancora avvolto nel mistero si è svolto proprio con la stessa spettacolarità di uno dei suoi tanti post su Facebook: un decalogo di cose da fare dopo la sua morte e l’invito agli amici di continuare ad ascoltare Dalidà anche al posto suo. E nonostante l’intero scritto si concluda con l’addio alla famiglia, è tutto così lezioso e studiato a tavolino che sembra quasi avercela messa anche lì, da qualche parte, quella consueta esortazione: “Applausi”. Togliere la protezione umanitaria, cacciare i detenuti stranieri e rinchiudere i migranti nei Cie di Claudia Fusani* notizie.tiscali.it, 24 luglio 2018 Ecco il decreto sicurezza di Salvini. Scatterà entro Ferragosto. In assenza dei 500mila rimpatri promessi durante la campagna elettorale, Salvini sta studiando un decreto che possa rendere subito effettive alcune misure. I permessi umanitari sono il maggior numero di quelli rilasciati, il 25 per cento. Avviata la procedura per correggere il modello di accoglienza e ridurre il costo per ogni immigrato, da 35 a 25 euro al giorno. Sarà il decreto di Ferragosto. L’effetto speciale per dimostrare che è tutto vero e che il governo giallo-verde passa dalle parole ai fatti. Un decreto sicurezza non si nega a nessun governo, figurarsi a quello in cui Salvini è ministro dell’Interno. Dirà che ha provato a seguire le vie ordinarie: due giorni fa la nuova circolare alle Commissioni, la seconda in quindici giorni, che valutano le richieste dei rifugiati per dire che così non va, che bisogna abbassare il trend e cioè rilasciare meno protezioni a cominciare da quelle umanitarie; ieri la direttiva per razionalizzare i costi dell’accoglienza e abbassare il costo giornaliero di 35 euro “per portarlo nella media europea”. Ma non basta. Serve un testo coordinato, un decreto a due mani, Interno e Giustizia, che dovrà soddisfare le attese di tutti quegli elettori “convinti” dalla propaganda elettorale. Poiché non sarà possibile espellere 500 mila immigrati irregolari, come invece era stato promesso, il decreto servirà, nelle intenzioni di Salvini, a compensare almeno in parte quella promessa non mantenuta. Via la protezione umanitaria - Tiscalinews è in grado di anticipare alcuni punti del prossimo decreto. Una norma sarà destinata all’eliminazione della “protezione umanitaria”. L’Italia offre ai richiedenti asilo tre diversi tipi di protezione: lo status di rifugiato; la protezione sussidiaria e quella umanitaria. Nel 2017, di fronte a 130 mila domande e 83 mila esaminate, il 58% sono state respinte (dalle Commissioni territoriali, poi inizia l’iter giurisdizionale composto di due gradi di giudizio, primo grado e Cassazione), l’8% ha avuto la protezione sussidiaria, il 25 % quella umanitaria. Quest’ultima viene rilasciata a chiunque abbia motivi legati a persecuzione razziale, sessuale e religiosa, oppure viva in luoghi colpiti ad esempio di epidemia, carestie e siccità. È assai diffusa, ad esempio, la sussidiaria a ragazze che vengono dalla Nigeria dove sono fuggite dalla tratta della mafia nigeriana. Sono pochi i paesi europei che offrono questo tipo di protezione (oltre all’Italia sicuramente la Germania). L’alleanza di centrodestra aveva tra i punti del programma l’eliminazione di questo tipo di protezione. Il Contratto del governo del cambiamento non ne fa cenno. Ma le due circolari in due settimane alle Commissioni, una delle quali giudicata “disattesa”, sono già adesso una motivazione più che sufficiente per procedere in altro modo. Con un decreto, appunto. A cui daranno battaglia associazioni e giuristi in difesa delle norme nazionali e internazionali che sovrintendono la protezione umanitaria. 180 giorni nei Centri - Nel decreto troveranno posto altre misure. Ad esempio sarà raddoppiata la permanenza obbligatoria nei Centri per il rimpatrio, i vecchi Cie. Il decreto Minniti nel gennaio 2017 aveva “riaperto” i Centri che erano stati chiusi nel 2012 perché diventati luoghi di detenzione per stranieri irregolari in attesa di rimpatri che non arrivavano mai per le solite questioni legate all’identificazione e alle difficoltà con i paesi di origine dei flussi. In un anno e mezzo Minniti è riuscito a riattivare sei Centri in tutta Italia (il suo decreto ne prevedeva uno in ogni regione con capienze non superiore ai 100 posti m è stato ostacolato da molte regioni). Salvini cerca di raggiungere l’obiettivo (uno in ogni regione), e li vuole più grandi e con obbligo di permanenza fino a 180 giorni. L’obiezione è che sei mesi spesso non sono sufficienti per organizzare i rimpatri. E dunque i Centri, destinati nel giro di breve ad essere sovraffollati, torneranno ad essere carceri illegali e focolai di violenza. Prima si dovrebbero organizzare canali di rimpatrio certi, e poi procedere con i Cpr. Stop carte di identità - Una stretta dovrebbe arrivare anche per l’anagrafe dei cittadini stranieri. Il Viminale ipotizza di eliminare il rilascio delle carte di identità agli stranieri richiedenti asilo che vivono nello stesso comune per più di sei mesi nell’ambito dei progetti Sprar. Il rilascio del documento di identità condiziona l’erogazione di una serie di servizi sociali, ad esempio nell’ambito dell’istruzione e della sanità, a cui lo straniero richiedente ha accesso e di cui i Comuni del circuito Sprar si fanno carico con grossi sacrifici che ora non sono più disposti a sostenere. È chiaro che la misura è finalizzata a rendere sempre più difficile e incerto il soggiorno nel nostro paese per chi è ancora in quella zona grigia che è l’attesa (che può durare fino a tre anni) della certificazione dello status di rifugiato. Espulsione detenuti stranieri - Salvini ne ha parlato più volte, in trasmissioni TV e in vari punti stampa anche se la competenza, in questo caso, è del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. “Trasferiamo pena e detenuto straniero, vanno a scontare la pena a casa loro. A noi ci costano troppo e affollano le carceri” aveva detto il titolare dell’Interno. Il motivo è semplice: ci costano troppo; occupano spazio che può essere utilizzato per dare più certezza della pena ad altri responsabili di reati. I detenuti stranieri in Italia sono circa 20 mila (dati di fine maggio) e sono il 34% del totale, un terzo esatto. Circa il costo, l’Associazione Antigone fissa intorno a 137 euro il costo quotidiano di un detenuto, una cifra su cui pesa per l’80 per cento il prezzo del personale della polizia giudiziaria e amministrativo in servizio nelle 190 carceri italiane. I dati ufficiali del Ministero, per quanto datati, parlano di circa 300 euro al mese. Ancora una volta, si tratta di una iniziativa non inedita. La differenza, adesso, è che verrebbe tolto il vincolo del parere del detenuto, cioè il trasferimento diventa obbligatorio. Unica variabile, non da poco è l’esistenza di accordi con il paese di origine del detenuto. Gli stranieri più numerosi sono marocchini (18,5%), rumeni (12,9%), albanesi (12,7%) e tunisini (10,8%). Nigeria e Senegal sono al 6,2 per cento e del 2,4 per cento. L’Italia ha chiuso accordi con i primi quattro. Tagliare i prezzi - Domani Salvini esporrà in Commissione Affari costituzionali della Camera le linee guida del suo mandato al Viminale. Il ministro è molto “connesso” e ogni giorno annuncia e spiega quello che ha intenzione di fare. Possibile che in questa sede parli anche del decreto su cui, in ogni caso, gli uffici del Viminale sono al lavoro da giorni. Intanto ieri Salvini ha firmato la direttiva con i nuovi criteri per razionalizzare la spesa dell’assistenza ai richiedenti asilo. “Le linee di intervento delineate oggi con la direttiva - ha detto -permetteranno di razionalizzare la spesa uniformandoci alla media dei Paesi europei”. Viminale e Anac lavoreranno insieme e intendono proporre due livelli di prestazioni: a tutti i richiedenti asilo verranno assicurati i servizi assistenziali di prima accoglienza, mentre gli interventi per favorire l’inclusione sociale saranno riservati esclusivamente ai beneficiari di forme di protezione. Si creano così le condizioni per realizzare il punto del decreto che limita il rilascio della carta d’identità e relativi diritti che ne conseguono. Salvini intende, così dice, riportare i costi ai livelli standard europei, dai 35 euro al giorno attuali a 25 (tranne i 2,5 euro del pocket money, tutto il resto va alle cooperative che organizzano l’accoglienza). Il punto è che l’Italia è già in linea con la media europea. Ci sono Paesi come Svezia, Finlandia, Slovacchia che spendono di più (circa 40 euro), la Francia spende meno (circa 24) mentre nulla si sa della Germania. *Giornalista parlamentare Mattarella difende il diritto dei magistrati ad associarsi di Marzio Breda Corriere della Sera, 24 luglio 2018 Un paio di settimane fa Jacopo Morrone, sottosegretario alla Giustizia, aveva rinfocolato un vecchio capitolo del conflitto tra politica e toghe, dicendo di “augurarsi che la magistratura si liberi dalle correnti”. In particolare “quelle di sinistra” con le quali, ammetteva, il suo partito, la Lega, aveva “una questione aperta”, per l’inchiesta sui fondi elettorali spariti. Una bordata che aveva innescato polemiche e una blanda correzione del ministro Bonafede. Forse troppo blanda, per il capo dello Stato, che è anche presidente del Csm. Fatale che gli rispondesse, con i suoi tempi e modi. L’ha fatto ieri, ribadendo davanti ai magistrati in tirocinio che “il diritto ad associarsi liberamente costituisce condizione preziosa, da difendere contro ogni tentativo di indebita intromissione”. Naturalmente, ha aggiunto, “occorre evitare che l’aggregazione associativa possa trasformarsi in corporativismo o, peggio ancora, in forme di indebita tutela se non di ingiustificato favore, basate sul mortificante criterio di appartenenza”. Non è stato l’unico suo ammonimento. Dopo la protesta di un gruppo di costituzionaliste per le 21 nomine parlamentari a Csm, Consulta e magistrature speciali, dalle quali le donne sono state escluse in toto, Mattarella ha lanciato uno di quei memorandum di cui non ci dovrebbe essere bisogno: “La politica ricordi che il mondo, e in esso anche l’ordine giudiziario, non è composto solo dal genere maschile”. Da ultime ha ripetuto alcune raccomandazioni di rito ai neo-magistrati. Anzitutto “essere predisposti all’ascolto”, senza dunque coltivare “una presunta autosufficienza del sapere e della conoscenza”, ma assumendo una propensione al “dialogo con la realtà sociale e, negli uffici, con i colleghi di maggiore esperienza”. E poi, per quanto riguarda gli organismi rappresentativi, l’esortazione a impegnarsi facendo in modo che “il pluralismo degli orientamenti non si trasformi mai in faziosità o nelle forme distorte del prendersi cura soltanto degli interessi della propria parte”. Infine, concentrandosi sul ruolo del Csm, il richiamo al “rispetto di un’autentica logica democratica che non può - per definizione - mai trasformarsi in una dittatura delle maggioranze”. Mattarella e la rivolta delle donne del diritto di Liana Milella La Repubblica, 24 luglio 2018 Non è, e non vuole essere, un appello. Né il preannuncio di un ricorso, perché mancano gli estremi tecnici. Ma un’energica tirata d’orecchi sì. Lo è tutta, e pienamente giustificata. Dalla sua ha condivisibili ragioni per esserlo. Perché quando le costituzionaliste italiane - ben 60 firme su 78 iscritte all’associazione raccolte in un battibaleno e destinate a crescere - scrivono ai presidenti di Senato e Camera, Casellati e Fico, per lamentare che su 21 nomine per Csm, Corte dei Conti, giustizia amministrativa e tributaria, sono stati scelti 21 uomini e nessuna donna, fotografano la realtà. E non arretrano di fronte a una considerazione forte quando parlano di “grave vulnus costituzionale”, poiché quelle nomine hanno ignorato l’articolo 51 della Carta che assicura, come scrivono le studiose, “a uomini e donne il diritto di accedere in condizioni di uguaglianza agli uffici pubblici”. Un principio inderogabile, ovviamente ricorribile di fronte alla manifesta violazione. Non in questo caso, poiché la scelta è politica. Scelta bipartisan purtroppo. La responsabilità sta a destra, al centro e al sinistra, sono coinvolti vincitori e vinti del 4 marzo, chi sta al governo e chi sta all’opposizione, visto che alle nomine si è giunti con un accordo condiviso, come dimostrano non solo gli sms spediti dai capigruppo a tutti i parlamentari poco prima del voto, ma anche l’esito bulgaro delle votazioni stesse. Solo per il Csm si è giunti a toccare le 726 preferenze. E non basta, perché a protestare, ad accordo chiuso, sono state solo poche voci femminili, nell’indifferenza totale degli uomini. Lo “stupore” e la “preoccupazione” delle costituzionaliste arriva fino al Colle dove il presidente Mattarella ricorda che “il mondo, e in esso l’ordine giudiziario, è composto da donne e da uomini, e non soltanto dal genere maschile”. Ma come documenta Ginevra Cerrina Feroni, costituzionalista a Firenze, il cui nome compare in calce alla lettera, “in magistratura le donne superano ormai il 50 per cento”. Quindi il loro diritto a essere rappresentate è ancora più forte perché fondato anche sui numeri. Tant’è che le toghe sono state molto più “femministe” del Parlamento. Tra i 16 componenti togati eletti al Consiglio 4 sono donne, distribuite in tre delle quattro correnti. E se i seguaci di Davigo avessero conquistato un altro seggio forse sarebbero state cinque. Vorrà dire che a farsi sentire saranno soprattutto le toghe rosa. Congresso dei penalisti: perché il titolo è “Il Buio oltre la siepe” di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 24 luglio 2018 “Il Buio oltre la siepe” è il titolo che abbiamo dato al XVII Congresso ordinario dell’Unione delle Camere Penali che si terrà quest’anno a Sorrento. Un titolo che ricorda il famoso romanzo con il quale la giovane scrittrice americana Harper Lee vinse nel 1960 il premio Pulitzer. Erano gli anni delle lotte civili contro il segregazionismo e per i diritti civili. dei neri d’America. L’avvocato Atticus Finch combatte nell’Alabama sudista e razzista la sua battaglia in difesa del “negro” Tom Robinson, accusato ingiustamente di essere stato l’autore di una violenza sessuale nei confronti di una giovane bianca. Senza tuttavia riuscire a salvarlo. Tom Robinson finirà sulla sedia elettrica dopo che una giuria bianca, prevenuta e razzista, decidendo contro ogni evidenza emersa nel processo, condannerà a morte il giovane nero. “Il buio oltre la siepe” non è il titolo originario del romanzo, ma evoca l’atmosfera di sospensione nella quale l’intera vicenda si snoda e l’opprimente condizione di incertezza che ne domina l’orizzonte. Nell’Alabama in cui difendere un “negro” è una cosa riprovevole, le conquiste civili degli anni 60 sono ancora un miraggio tanto lontano che Atticus Finch, nel prendere le difese dell’accusato, dice alla giovane figlia, perplessa di una simile irragionevole scelta, che “non è una buona ragione non cercare di vincere per il semplice fatto che si è battuti in partenza”. Verranno poi il Civil Rights Act (1964), il Voting Rights Act (1965) ed il Fair Housing Act (1968), dimostrando che anche quella strenua difesa, abilmente condotta in quello sfortunato processo segnato dal pregiudizio, aveva in sé una qualche buona ragione. “Il buio oltre la siepe” non è dunque metafora di un male assoluto nascosto oltre il limite dello sguardo, bensì la metafora di una condizione che impedisce di decifrare il futuro e, con la comprensione di quel futuro, di cercare di porre rimedio alle ingiustizie del presente. Ciò che oggi è infatti visibile al nostro sguardo e la volatilità del presente, la sua continua reversibilità, e la conseguente impossibilità di prevederne gli sviluppi. Ciò che viene dichiarato come inevitabile non si fa avanti, ciò che avviene non si era invece mai presentato. Ciò che sembrava imminente svanisce e ciò che era ancora nel nulla assume le fattezze inequivoche della attualità e della realtà. Questa condizione di “buio” che sembra oggi propria della percezione dell’”oltre” è ciò con cui dobbiamo fare i conti. Non il Male, ma la sua incoerenza e la sua nuova terribile banalità. Non il Potere, ma la sua declinazione secolarizzata, che volge in pura e ottusa forza. Non l’Ideologia, ma la mancanza delle idee come vanto. Il nesso neurologico profondo che corre fra le parole e il pensiero fa infatti sì che a parole elementari e banali corrispondano pensieri banali ed elementari. Che gli slogan, le parole d’ordine e i luoghi comuni, che corrono veloci sui social, sostituiscano la forza e la libertà del pensiero. La banalizzazione prende così il posto dell’elaborazione, chiudendo in apparenza ogni possibile spazio al confronto. Tuttavia, rispondere con il pathos dell’anti-populismo al pathos del populismo significa instaurare dinamiche recessive destinate ad un inevitabile fallimento. Quando infatti nel dialogo di una collettività prevalgono i valori del pathos, logos ed ethos sono destinati a soccombere. Preservare questi valori nell’epoca dei populismi significa invece fermare proprio quella cultura recessiva che tipicamente alimenta le politiche illiberali e autoritarie, dentro e fuori il processo penale. “Difendere le garanzie nell’epoca dei populismi” è per questo una cosa certamente difficile, ma è la sfida che ci attende, consapevoli che in un mondo così mutato usare le stesse lenti e gli stessi strumenti del passato è forse la cosa più semplice e più istintiva che viene da fare, ma anche quella che meno serve alla soluzione dei problemi. A volte il solo fatto di avere uno strumento a portata di mano ci fa credere che sia proprio quello lo strumento più adatto a cambiare il mondo. Come scriveva Wittgenstein: “Date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”. Mentre oggi per analizzare la realtà e per affrontare i nuovi complessi problemi che essa ci pone servono strumenti meno vecchi e banali ed occorrono analisi più sottili e più profonde. Dobbiamo fare infatti i conti con “le magistrature” che hanno posizioni assai diverse circa i processi di trasformazione della giustizia penale (dalle parole d’ordine populiste della corrente davighiana, alla tutela delle garanzie, ed ai rapporti con la politica), e con “i governi” e con “i parlamenti” che spesso si divaricano in ordine a scelte di campo qualificanti (dalla gestione dell’immigrazione, alla riforma della legittima difesa), e con le diverse variegate forme di “informazione” e di “comunicazione”, con una realtà “molecolare” che si scompone e si ricompone quotidianamente, che apre e chiude spazi di intervento e di interlocuzione. Sarebbe sciocco, dunque, e per nulla ragionevole, sparare alla cieca contro quel “buio”, mentre conviene delineare fra le ombre ogni possibile sagoma di interlocutore, evitando di rimanere schiacciati nell’angolo di una sorda opposizione che non farebbe fare un solo passo in avanti all’avvocatura sulla strada della difesa dei valori fondanti della convivenza civile, dei diritti di tutti i cittadini e delle garanzie degli ultimi, dai migranti ai detenuti condannati e in attesa di giudizio, e della tutela della pari dignità di ogni essere umano. Come ha ricordato Beniamino Migliucci, “in una democrazia liberale gli elettori scelgono giustamente dove andare, ma saggiamente, in uno Stato di diritto costituzionale, principi, diritti e garanzie devono restare la bussola che impedisce a tutti noi di perdersi in quel viaggio”. Ed è per questo motivo - come ci è già capitato di dire all’indomani della pubblicazione del “contratto di governo” - l’Unione intende raccogliere attorno alla sua voce tutte le voci più autorevoli dell’accademia, della politica, della società e dell’informazione, confrontandosi con tutte le forze di governo e di opposizione, e con tutti coloro che nella magistratura e nei suoi organismi rappresentativi abbiano una idea ancora democratica e progressiva delle garanzie e del processo come patrimonio inalienabile di tutti i cittadini, che in uno stato di diritto non può certo trasformarsi in uno strumento illiberale ed oppressivo, sottratto a bilanciamenti e a controlli. Sappiamo bene che si tratta di un percorso complesso, da sviluppare al di fuori di ogni retorica, armati di un sano pragmatismo. E di una sfida minoritaria difficile e incerta che sconta un’onda contraria, alta e lunga, ma diversamente da Atticus Finch crediamo che non esistano sfide che riguardano i diritti e la dignità delle persone nelle quali si è mai “battuti in partenza”. *Segretario dell’Unione Camere Penali Italiane Stato-mafia: l’ardua verità del patto di Paolo Mieli Corriere della Sera, 24 luglio 2018 Il compito più duro per gli storici sarà quello di far quadrare la memoria “politica” di ciò che accadde nel 1992-94 con le incongruenze di quella “giudiziaria”. Prima di archiviare l’ennesimo giudizio (stavolta di primo grado) sulla trattativa Stato-mafia, è opportuno mettere agli atti qualche considerazione. Fortunati gli storici del futuro i quali, per quel che attiene ai rapporti tra vertici istituzionali italiani e Cosa nostra, avranno a disposizione sentenze, le più varie, al cui interno potranno trovare pezze d’appoggio a qualsiasi congettura li abbia precedentemente affascinati. Ad esser baciati dalla fortuna saranno, beninteso, solo gli storici disinvolti. Per gli altri - quelli seri che non cercano riscontri a ciò che avevano già “intuito” ma, anzi, si impegnano, con metodo, ad individuare elementi di contraddizione con le proprie ipotesi di partenza - saranno dolori. Perché la magistratura, allorché si è occupata di vicende nazional-siciliane, ha da tempo accantonato la terraferma che dovrebbe esserle propria, quella del “sì sì, no no”, per immergersi nell’immensa palude del “dico e non dico”, delle circonlocuzioni ipotetiche, delle allusioni non esplicite, delle porte né aperte né chiuse, dei verdetti double face. Gli imputati eccellenti in genere sono usciti indenni dai giudizi definitivi. Ma tali giudizi definitivi non lo sono mai per davvero perché, nei tempi successivi ad ogni sentenza, nuovi processi sono tornati (e torneranno) ad occuparsi delle stesse vicende, talché qualche macchia inevitabilmente resterà sugli abiti dei suddetti imputati. Anche nel caso in cui siano stati assolti dall’ultima sentenza prima del loro decesso. Ma il compito più arduo per gli storici sarà quello di far quadrare la memoria “politica” di ciò che accadde tra il 1992 e il 1994 con le incongruenze di quella “giudiziaria”. Per la memoria politica si ebbero in quel biennio (allungatosi poi al 1995) due stagioni tra loro assai diverse. La prima - dal ‘92 ai primi mesi del ‘94, sotto la regia dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro - fu in terremotata continuità con la cosiddetta Prima Repubblica e conobbe due capi di governo di sinistra moderata: Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. È in questo biennio che, mentre la vita parlamentare veniva sconvolta da Tangentopoli, si verificarono i più rilevanti fatti di sangue riconducibili alla mafia: l’uccisione di Falcone e Borsellino (‘92), gli attentati di via Fauro a Roma, di via dei Georgofili a Firenze, di via Palestro a Milano oltreché alle basiliche romane di San Giovanni e San Giorgio al Velabro, i quali provocarono complessivamente 15 morti e decine di feriti (1993). Ed è proprio in questo periodo che, stando alla sentenza appena depositata, tre carabinieri di medio-alto rango, Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, con la mediazione dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, avrebbero preso contatto con il vertice di Cosa Nostra (Totò Riina) provocando un’”accelerazione” dell’azione criminosa. A nome di chi si sarebbero mossi Mori, Subranni e De Donno? La sentenza non lo dice in modo esplicito ma lascia intendere che esponenti del governo Ciampi abbiano avallato l’iniziativa dei tre magari, come ha già fatto notare su queste pagine Giovanni Bianconi, senza averne una effettiva “consapevolezza”. Sarà arduo per gli storici del futuro dare conto dell’attività di questa nutrita schiera di “inconsapevoli” che da Scalfaro in giù si attivarono per quasi due anni a favorire l’”improvvida iniziativa” di Mori arrivando nell’autunno 1993 a “liberare dal 41bis”, per decisione del ministro della Difesa Giovanni Conso, 334 mafiosi. Mafiosi che forse non erano di primissimo piano ma la cui uscita dal carcere duro fu - secondo i magistrati - un segnale a Cosa nostra dei passi avanti compiuti, appunto, dalla trattativa di cui si è detto. Dopodiché venne una seconda stagione, più breve (otto mesi tra il 1994 e il gennaio ‘95), in cui dominus politico fu Silvio Berlusconi alla sua prima esperienza di governo. Berlusconi, tramite Marcello Dell’Utri, avrebbe proseguito, intensificandola, l’interlocuzione con Cosa nostra avviata dai suoi predecessori. Strano: la memoria politica ci dice che tra Scalfaro e Berlusconi i rapporti furono pessimi e lo stesso discorso vale, anche se con minore intensità, per presidenti del Consiglio e ministri dei governi della legislatura ‘92-’94: tutti, nessuno escluso, ostili a Berlusconi e Bossi. Marco Taradash ha fatto notare che l’unico campo in cui - stando alla sentenza - ci sarebbe stata un’assoluta opaca continuità tra la stagione dominata da Scalfaro e quella successiva di Berlusconi sarebbe stato il terreno dei patteggiamenti tra lo Stato italiano e Cosa nostra. Per i giudici questo non è un problema ma per gli storici lo sarà quando dovranno spiegare come mai le due Italie, quella berlusconiana e quella antiberlusconiana, si scontrarono su tutto tranne che sul rapporto con Riina e i suoi successori sul quale l’intesa fu pressoché totale. E come mai queste diaboliche relazioni siano iniziate ai tempi dell’ultimo centrosinistra quando la “discesa in campo” di Berlusconi era (forse) solo nei propositi del padrone della Fininvest. La sentenza lascia intendere - ma è un’interpretazione nostra - che ci sarebbe stato un salto dalla stagione della “inconsapevolezza” a quella della “consapevolezza”, quando Berlusconi sarebbe stato informato da Dell’Utri (che aveva nello “stalliere” Vittorio Mangano il trait d’union con Cosa nostra) di ogni passaggio della trattativa, trattativa alla quale avrebbe dato incremento con specifici atti di governo. Prendiamo per buona questa tesi. C’è però un particolare di cui si è accorto Marco Travaglio che è destinato a complicare il lavoro degli storici. Di che si tratta? Procediamo con ordine: nell’estate del 1994 (13 luglio) ci fu il decreto del ministro della Giustizia berlusconiano Alfredo Biondi, che avrebbe dovuto porre un argine agli arresti dei corrotti, ma anche favorire i mafiosi. Quasi tutti i giornali si accorsero della parte che riguardava gli imputati di Mani Pulite talché quel pacchetto di norme fu ribattezzato “decreto salvaladri”. Il capo del pool giudiziario milanese, Francesco Saverio Borrelli, fece caso al fatto che il decreto Biondi fosse stato approvato all’unanimità (e subito controfirmato da Scalfaro) mentre ai mondiali di calcio era in corso una partita contro la Bulgaria (vinta dall’Italia): il magistrato ironizzò sulla circostanza che il governo volesse nascondere quel suo atto di considerevole rilievo “dietro un pallone”. Subito dopo i pm di Milano Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Francesco Greco e Gherardo Colombo protestarono a gran voce e chiesero pubblicamente di essere assegnati “ad altro e diverso incarico”. Al che il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni “scoprì” che il testo del dispositivo era diverso da quello approvato in Consiglio dei ministri e nel giro di poche ore Berlusconi fu costretto a ritirare il decreto. Passarono pochi mesi, a fine anno il governo cadde e, con quello che fu definito un “ribaltone”, venne sostituito da un nuovo gabinetto guidato da Lamberto Dini, ex titolare berlusconiano del Tesoro, futuro ministro del centrosinistra. Il tutto ancora una volta sotto la regia di Scalfaro. E qui veniamo al punto messo in evidenza dal direttore del Fatto: nel 1995, quella norma del decreto Biondi riguardante i mafiosi (solo quella) fu entusiasticamente votata dalle due Camere ai primi di agosto, quando Scalfaro, dopo aver negato a Berlusconi le elezioni anticipate, aveva ripreso in mano le redini dell’intera politica italiana. E fu approvata, sottolinea Travaglio, “grazie al fondamentale apporto del centrosinistra”. E nel silenzio, aggiungiamo noi, di tutta (o quasi) la società civile che si era ribellata al “salvaladri”. Tutti di nuovo “inconsapevoli”? Curiosa coda della “trattativa”. È facile per i giudici collocare una tale bizzarra successione di eventi sullo sfondo sfocato della loro ricostruzione. Ma sarà problematico per gli studiosi di storia dar conto in maniera rigorosa e ad un tempo plausibile di come in quei mari in tempesta l’unica imbarcazione che riuscì a navigare tranquilla, trovando sponde compiacenti sia sul versante del centrodestra che su quello antiberlusconiano, sia stata la zattera, non priva di falle, del generale trattativista. Anche la Consulta trattò con la mafia? di Francesco Damato Il Dubbio, 24 luglio 2018 Più leggo stralci delle 5.253 pagine della sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Palermo sulla presunta trattativa Stato mafia - se mai troverò il tempo e la voglia di leggerle tutte, magari nelle modalità di stampa annunciate dal Fatto Quotidiano - e più ne diffido. Mi ha colpito, per esempio, un inciso sull’avvicendamento al Viminale, nell’estate del 1992, fra i democristiani Vincenzo Scotti e Nicola Mancino con la formazione del primo governo del socialista Giuliano Amato. In quell’avvicendamento, lamentando in particolare “l’assenza di pubbliche e plausibili spiegazioni” della mancata conferma di Scotti a ministro dell’Interno dopo la sua “azione di contrasto contro le mafie”, la sentenza ha indicato un sostanziale “segnale” di disponibilità alla trattativa dopo la strage di Capaci. Dove erano stati uccisi Giovanni Falcone, la moglie e quasi tutti gli uomini della scorta. Un segnale prezioso - avverte la sentenza - per fare prendere sul serio dal capo della mafia Totò Riina gli approcci tentati dall’allora colonnello Mario Mori e altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri attraverso l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Ma le “spiegazioni” della mancata conferma di Scotti al Viminale erano notissime già all’epoca del fatto. Non retroscena ma cronache politiche vere e proprie raccontarono nel mese di giugno del 1992 dello sconcerto che lo stesso Scotti e l’allora guardasigilli socialista Claudio Martelli provocarono nei segretari dei loro partiti, Arnaldo Forlani e Bettino Craxi, per un incontro avuto al Quirinale con l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il quale li convocò per essere informato di alcuni provvedimenti legislativi in cantiere dopo la strage di Capaci ma colse l’occasione, diciamo così, anche per parlare con loro della formazione del nuovo governo: il primo della legislatura uscita dalle urne del 5 aprile di quell’anno. Preoccupato per la precarietà della situazione politica, aggravata dai contraccolpi dell’inchiesta giudiziaria milanese su Tangentopoli e dal clima di emergenza creatosi con l’attentato di Capaci, clima in cui era maturata anche la sua elezione al Quirinale, Scalfaro aspirava alla formazione di un governo di tregua, magari capace di guadagnarsi l’astensione o la benevola opposizione dei comunisti. E si lasciò andare a immaginare uno scenario in cui i suoi due interlocutori, muovendosi all’uopo all’interno dei loro partiti, potessero scambiarsi i ruoli di presidente e vice presidente del Consiglio. Marco Pannella, allora in eccel- lenti rapporti con Scalfaro, informò dell’udienza quirinalizia e dei suoi contenuti Bettino Craxi, che a sua volta ne riferì ad Arnaldo Forlani. Entrambi non gradirono per niente, ciascuno nel suo stile. Craxi, che ancora aspirava a fare lui il presidente del Consiglio, imprecò contro il “tradimento” di Martelli e Forlani aprì alla richiesta della sinistra del suo partito di riservarle nel nuovo governo un Ministero di grande peso, come quello dell’Interno, da destinare al loro uomo di punta in quel momento, che era il capogruppo del Senato Nicola Mancino. Quando si arrivò all’incarico a Giuliano Amato - con la forzata rinuncia di Craxi all’ambizione di tornare a Palazzo Chigi, non avendo il capo della Procura di Milano escluso in un incontro irrituale con Scalfaro un suo coinvolgimento nell’indagine famosa come “Mani pulite” - le trattative concrete per la lista dei ministri presero una piega a dir poco scontata. Scotti finì alla Farnesina e Mancino al Viminale. Martelli riuscì a rimanere al ministero della Giustizia con una telefonata di chiarimento a Craxi, cui chiese di poter continuare in via Arenula “il lavoro cominciato con Giovanni”, cioè Falcone, da lui nominato direttore degli affari penali nei mesi precedenti: lavoro drammaticamente interrotto a Capaci. Scotti non protestò per la sua nuova destinazione ma per la incompatibilità fra cariche di governo e mandato parlamentare introdotta da Forlani all’interno della Dc come segnale di cambiamento. Egli preferì restare deputato - con le relative e ancora intatte immunità, dissero i malevoli - piuttosto che fare il ministro degli Esteri. Martelli rimase al ministero della Giustizia sino al 10 febbraio del 1993, quando si dimise per un avviso di garanzia ricevuto dalla Procura di Milano. Che lo coinvolse in Tangentopoli non credo proprio per allontanarlo da via Arenula allo scopo di mandare a Totò Riina un altro “segnale” favorevole alla trattativa, per seguire la logica applicata nella sentenza di Palermo alla partenza di Scotti dal Viminale. Con quella logica qualcuno potrebbe vedere un “segnale” favorevole alla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia persino nella sentenza della Corte Costituzionale del 28 luglio 1993 in materia di carcere duro. Ad essa si attenne in autunno per non rinnovare il trattamento speciale a 334 detenuti di mafia il guardasigilli Giovanni Conso, presidente emerito della stessa Corte, subentrato a Martelli in via Arenula e confermato nel governo di Carlo Azeglio Ciampi. Quella decisione non portò Conso sul banco degli imputati solo perché i pubblici ministeri avrebbero dovuto passare la pratica ad altri uffici: quelli del tribunale dei ministri, con le procedure previste dalla legge, comprensive di un coinvolgimento del Senato. Essa tuttavia è incorsa nelle critiche dei giudici della Corte d’Assise di Palermo per la “speranzella”, coltivata tanto in buona fede da Conso da esprimerla pubblicamente, che l’allentamento delle tensioni nelle carceri potesse produrre anche un cambiamento nell’organizzazione mafiosa. Che continuava a eseguire e progettare attentati anche dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta il 15 gennaio 1993. Da sola, peraltro, quella cattura poteva o doveva smentire il sospetto di una tresca, penalmente tradotta poi nel reato di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, per assecondare l’organizzazione criminale guidata da u curtu in latitanza dal lontano 1969. Una parola di troppo (mafia) nel necrologio di Dario Montana La Repubblica, 24 luglio 2018 Se la mafia non esiste allora non puoi neanche pubblicare un necrologio per ricordare alla collettività che tuo figlio, il commissario Beppe Montana, capo della sezione catturandi della squadra mobile di Palermo, è stato ucciso dalla mafia. E soprattutto non puoi affermare di voler rinnovare ogni disprezzo alla mafia e ai suoi anonimi sostenitori. Questo è quanto successo a mio padre, tre mesi dopo l’omicidio di Beppe. La Sicilia, di Catania, è il giornale che ha respinto il necrologio presentato da papà su espressa disposizione del direttore/editore Mario Ciancio Sanfilippo, come riferito dall’addetto allo sportello, che quando ha letto il testo: “La famiglia con rabbioso rimpianto ricorda alla collettività il sacrificio di Beppe Montana - commissario P.S. - rinnovando ogni disprezzo at mafia e suoi anonimi sostenitori”, ha detto che avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione: “Sa, conosco il mio mestiere”. Ritornando dopo un po’, con orgoglio e con un sorriso beffardo che sembrava dire: “Ha visto, avevo ragione io, certe cose qui non si possono dire”, afferma: “Avevo ragione, ho parlato personalmente con il direttore Mario Ciancio. Gli inserzionisti non devono fare apprezzamenti, mi ha risposto, a combattere la mafia ci pensa il giornale.” Oggi, quell’episodio è oggetto, assieme a tanti altri, di un processo per concorso esterno con l’associazione mafiosa Cosa nostra nei confronti di Mario Ciancio Sanfilippo, perché avrebbe messo a disposizione dell’organizzazione criminale la propria attività economica, finanziaria ed imprenditoriale: editoria, emittenza televisiva, attività edilizia legata alla realizzazione di vari centri commerciali, centri turistici, aeroporti, posteggi, altre lottizzazioni, società alle quali partecipavano soggetti legati ad organizzazioni criminali, e per aver affidato i lavori per la realizzazione dei progetti e affari da lui promossi ad imprese mafiose. Da quanto emerge dalle accuse, l’oggetto del processo in corso è proprio la sede di quel giornale, il luogo nel quale sono state decise le più importanti ed invasive scelte urbanistiche della città di Catania. Tutto questo è avvenuto nel silenzio generale di un’intera classe politica compiacente, opposizione di ogni colore compresa. Oggi io e mio fratello siamo costituiti parte civile in quel processo che pochi avrebbero voluto celebrare ma che potrebbe, invece, svelare rapporti indicibili e inconfessabili di un’intera classe dirigente desiderosa di fare affari con le mafie e di assicurarsi le proprie rendite di posizione. La nostra costituzione di parte civile è per noi un dovere morale anche nei confronti di nostro padre, che si ribellò a quel rifiuto così ingiusto ed offensivo denunciandolo su tutti gli organi di stampa ed anche dal palco del Teatro Lirico di Milano, in occasione di uno dei primissimi incontri organizzati dal Circolo Società Civile, alla vigilia del maxiprocesso, che per la prima volta ha dato voce ad alcuni familiari delle vittime della criminalità organizzata: Nando Dalla Chiesa, Claudio Fava, Rosetta Giaccone e Saveria Antiochia. Come Beppe, siamo certi che le mafie si possono sconfiggere, basta volerlo. Deve cambiare la cultura; per questo è fondamentale il ruolo dell’informazione e della formazione dei giovani; non vogliamo accettare l’idea di vivere in una terra dove al detto “non vedo, non sento e non parlo…” deve essere ahimè aggiunto, “...ometto e non pubblico”. Detenute per “reati ostativi”, no all’esclusione dall’assistenza esterna ai figli minori di 10 anni Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2018 Corte costituzionale - Sentenza 23 luglio 2018 n. 174. Subordinare il beneficio dell’assistenza esterna ai figli minori di 10 anni alla scelta di collaborare con la giustizia significa condizionare in via assoluta e presuntiva la tutela del rapporto tra madre e figlio in tenera età al “ravvedimento” della condannata. Come già affermato nella sentenza n. 239 del 2014, mentre è possibile condizionare alla collaborazione con la giustizia l’accesso a un beneficio se quest’ultimo ha come scopo esclusivo la risocializzazione del detenuto, questa possibilità, invece, non sussiste se al centro della tutela c’è un interesse “esterno”, in particolare il peculiare interesse del figlio minore - costituzionalmente garantito - a un rapporto quanto più possibile normale con la madre (o, in via subordinata, con il padre). Perciò è incostituzionale la norma (articolo 21 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354) che, nei confronti delle detenute per i “reati ostativi” elencati nell’articolo 4bis, commi 1, 1 ter e 1 quater, della legge 354 del 1975, preclude l’accesso a questo beneficio oppure lo subordina all’espiazione di una frazione di pena, salvo che sia accertata una collaborazione attiva con la giustizia. È quanto si legge nella sentenza n. 174 della Corte costituzionale depositata il 23 luglio. La Corte ha richiamato, tra l’altro, la sentenza n. 76 del 2017 in cui si afferma che là dove il legislatore, attraverso presunzioni insuperabili, nega in radice l’accesso della madre a modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare caso per caso la concreta sussistenza di esigenze di difesa sociale, bilanciandole con il migliore interesse del minore, si è di fronte ad un automatismo basato su indici presuntivi, che “comporta il totale sacrificio di quell’interesse”. Conclusione ora ribadita con riferimento al beneficio dell’assistenza all’esterno ai figli minori di 10 anni per le donne detenute per uno dei reati previsti dall’articolo 4bis, comma 1, la cui collaborazione con la giustizia sia impossibile, inesigibile o irrilevante. Un conto sono i benefici prevalentemente finalizzati a favorire, fuori dal carcere, i rapporti tra madre e figli in tenera età, altra cosa sono invece benefici come il lavoro all’esterno, preordinati esclusivamente al reinserimento sociale del condannato e senza immediate ricadute su soggetti diversi. È evidente che i requisiti richiesti per gli uni e per gli altri non possono essere identici. A conclusione della sentenza la Corte ha ricordato che l’incostituzionalità della norma non pregiudica affatto le esigenze di sicurezza poiché la concessione del beneficio “resta pur sempre affidata al prudente apprezzamento del magistrato di sorveglianza chiamato ad approvare il provvedimento disposto dall’amministrazione penitenziaria”. Morte sul lavoro: posizione di garanzia per il coordinatore della sicurezza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 23 luglio 2018 n. 34805. Il coordinatore per l’esecuzione dei lavori ha una posizione di garanzia e risponde, in caso di morte dell’operaio, per l’omesso controllo sulla corretta osservanza da parte dell’impresa appaltatrice delle disposizioni contenute sul piano di sicurezza e coordinamento oltre che sulla scrupolosa applicazione delle procedure a garanzia dell’incolumità dei lavoratori. La Corte di cassazione con la sentenza 34805conferma la condanna per omicidio colposo dell’amministratore delegato, per l’insufficiente stesura del piano operativo di sicurezza e per la mancata formazione e del coordinatore della sicurezza per l’omessa vigilanza e le carenze del piano di sicurezza e coordinamento. Un responsabilità che risultava ai giudici in base alla ricostruzione dei fatti. Il lavoratore, dipendente della Spa subappaltatrice, era rimasto folgorato a causa di un “arco voltaico” che si era creato su una linea elettrica di 15 mila volt, mentre lavorava in altezza su una pedana mobile. Secondo i ricorrenti il comportamento del lavoratore era stato, se non abnorme comunque “esorbitante”. Ad avviso della difesa, infatti, l’uomo si era avvicinato alla linea elettrica più di quanto non fosse consentito e lo aveva fatto tenendo in mano un ombrello per ripararsi dalla pioggia: fattore che, insieme all’umidità dell’aria, aveva favorito il propagarsi della corrente anche senza il contatto con i cavi. Per la Cassazione però il comportamento del dipendente, anche se imprudente, è esente da profili di colpa. Sul luogo di lavoro mancava la presenza di un collega a terra che monitorasse l’intervento e certamente, oltre alla lacune sui piani di sicurezza, non c’era a monte un’adeguata preparazione. La Cassazione precisa che in caso di un operaio straniero, come nell’ipotesi esaminata, non si può certo dare per scontata né considerare usuale la lettura del Pos e la comprensione di alcuni termini come ad esempio “elettrocuzione”. Nello specifico inoltre il Pos sul punto rimandava alla lettura del manuale d’uso dove era indicata anche la distanza di sicurezza, di almeno 5 metri dai cavi elettrici. Per i giudici le cautele indicate erano troppo vaghe e non utili a mettere in guardia il lavoratore, non formato, dai rischi che correva. La Suprema corte avverte che al dipendente privo di competenze tecniche e linguistiche, non si può richiedere di leggere autonomamente il piano di sicurezza e neppure il manuale d’uso del macchinario che impiega. Ciò che serviva era un’adeguata formazione e la predisposizione di dispositivi di sicurezza ad iniziare da quello che avrebbe impedito alla piattaforma di avvicinarsi più del dovuto all’alta tensione. Nessuna colpa può essere dunque attribuita al lavoratore che non è messo nella condizione di valutare i pericoli che corre e di valutare la pericolosità del suo comportamento. Utilizzabilità delle intercettazioni e limiti di ammissibilità Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2018 Prova penale - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni - Limiti di ammissibilità - Reati ex art. 266 c.p.p.- Procedimento per uno di tali reati - Utilizzabilità per altri reati - Condizioni e limiti. In tema di intercettazioni, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento per uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili, senza alcun limite, per tutti gli altri reati relativi al medesimo procedimento, mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso “ab origine”, l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’art. 270 cod. proc. pen., e, cioè, l’indispensabilità e l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 6 luglio 2018 n. 30731. Prova penale - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni - Divieto di utilizzazione - Art. 271, comma 1, c.p.p. - Portata - Conseguenze. Per l’utilizzabilità delle intercettazioni è sufficiente che esse siano state eseguite nei casi previsti dalla legge, avendo riguardo cioè al loro momento genetico. I requisiti che devono sussistere perché l’intercettazione sia legittimamente eseguita sono indicati dall’articolo 266 c.p.p. che richiede che si operi nell’ambito di un procedimento concernente reati sussumibili sotto una delle categorie tipizzate. Tale disposto non può che essere interpretato nel senso che è sufficiente che il procedimento in cui viene disposta l’attività intercettiva riguardi almeno un reato incluso in una delle categorie elencate: ragionando diversamente si arriverebbe alla irragionevole conclusione per cui è possibile procedere a intercettazioni solo se tutti i reati per cui si procede rientrano nell’elenco di cui all’articolo 266 c.p.p. • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 4 luglio 2017 n. 31984. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Ammissibilità (limiti) - Intercettazioni disposte per un reato fra quelli previsti dall’art. 266 cod. proc. pen. Utilizzabilità per i restanti reati dello stesso procedimento - Sussistenza. In tema di intercettazioni, qualora il mezzo di ricerca della prova sia legittimamente autorizzato all’interno di un determinato procedimento concernente uno dei reati di cui all’art. 266 cod. proc. pen., i suoi esiti sono utilizzabili anche per gli altri reati di cui dall’attività di captazione emergano gli estremi e, quindi, la conoscenza, mentre, nel caso in cui si tratti di reati oggetto di un procedimento diverso “ab origine”, l’utilizzazione è subordinata alla sussistenza dei parametri indicati espressamente dall’art. 270 cod. proc. pen.,e, cioè, all’indispensabilità e all’obbligatorietà dell’arresto in flagranza. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 8 marzo 2016 n. 9500. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - Provvedimento di autorizzazione - Presupposti e forme. L’autorizzazione delle operazioni di intercettazione postula la sussistenza di gravi indizi di reato ai sensi dell’art. 266 cod. proc. pen. e non già che il titolare o l’usuario della utenza telefonica intercettata sia anche sottoposto a indagine per il medesimo reato per il quale si procede. I gravi indizi richiesti dall’art. 267, comma primo, c.p.p. non attengono infatti alla colpevolezza di un determinato soggetto ma alla esistenza di un reato; ne consegue che per sottoporre l’utenza di una persona a intercettazione non è necessario che gli stessi riguardino anche la riferibilità a questa del reato. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 10 agosto 2000 n. 4979. Campania: lavoro per detenuti adulti e minorenni, arrivano 4 milioni dalla Regione internapoli.it Pubblicati sul Burc gli esiti relativi all’avviso pubblico per la realizzazione dei percorsi formativi per l’inclusione socio-lavorativa dei detenuti e delle detenute, adulti e minori della Regione Campania con una dotazione finanziaria di 4 milioni di euro. In particolare, saranno finanziati percorsi sperimentali di formazione e di inclusione socio-lavorativa volti al conseguimento di qualifiche professionali, anche tramite esperienze lavorative e soprattutto la certificazione delle competenze pregresse, anche non formali ed informali. I percorsi nascono dalla collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria-Provveditorato Regionale della Campania e il Dipartimento della Giustizia Minorile per la Campania con il supporto del Garante dei detenuti della Regione Campania. “La Regione Campania - spiega l’Assessore Chiara Marciani - vuole fornire uno strumento innovativo capace di attivare percorsi formativi con il coinvolgimento delle organizzazioni del terzo settore, delle forze produttive e delle parti sociali, volti a potenziare le competenze professionali dei detenuti e delle detenute ed a favorire la loro futura occupabilità, anche tramite percorsi personalizzati”. Gli interventi formativi, strutturati in accordo con gli Istituti penitenziari, tengono conto dei diversi requisiti di ingresso e delle caratteristiche soggettive dei destinatari, nonché delle esigenze dei fabbisogni formativi espresse dagli istituti penitenziari campani, in particolare nei settori edilizia, idraulica, elettricità- elettrotecnica, cucina-ristorazione, giardinaggio-floricoltura, sartoria, acconciatura. Padova: pena alternativa, ragazzo condannato al Cammino di Santiago di Giulia Busetto Corriere Veneto, 24 luglio 2018 Ammessa per un padovano la pena alternativa del pellegrinaggio. È la prima volta. Una messa alla prova, che ha dello straordinario. L’ha decisa il giudice per i minori del tribunale di Venezia nei confronti di un giovane padovano: “Niente processo se fai il Cammino di Santiago”. Ha camminato fino all’orizzonte della sua colpa. A un passo dal cancellarla. Lo ha fatto ininterrottamente per tre mesi, due Stati e tutto il fiato che aveva nei polmoni, fino a non sentire più le gambe, fino all’oceano e ritorno. Siviglia, via de la Plata, via Sanabrese, Santiago, Finisterre, di nuovo Santiago, Leone di ritorno per la via francese: 1500 chilometri di sudore e redenzione che potrebbero annullare il processo a suo carico. Sì, questi aspirano ad essere i primi 1500 chilometri capaci di immunizzare la fedina penale di un ragazzo. Ora è tutto nelle mani del giudice del tribunale minorile di Venezia, che per la prima volta in Italia ha accolto il cammino di Santiago de Compostela come “messa alla prova” di un ragazzo difficile sottoposto a processo. Una formula alternativa al percorso giudiziario che permette di annullare il procedimento in corso. Non un’assoluzione, non uno sconto di pena, ma un reato derubricato dal giudice. Se il magi- strato dirà di sì, il giovane padovano sarà riscattato di ogni torto causato alla collettività. Non ci credeva nemmeno lui quando si è infilato le sneakers e si è intascato quel patto scritto piegato in quattro. Lì le regole nero su bianco: niente alcol, niente stupefacenti, niente smartphone, meno di 40 euro giornalieri da spendere per rimediare un letto e qualcosa da mettere nello stomaco. E la promessa di arrivare fino alla fine. La firma in calce è la sua e quella del suo accompagnatore, un sessantottenne mestrino, “un certo Fabrizio”, dice lui, un uomo mai visto prima dal ragazzo. Quel “certo Fabrizio” ha messo in pausa la sua vita per tre mesi, diventando la sua ombra, “o la mia spina nel fianco”. “Nonno e nipote” si definivano agli sguardi insistenti. E forse in questi 85 giorni di cammino lo sono anche diventati. Era la giustificazione più plausibile da dare ai passanti, poi un’abitudine, poi un’affettuosità tinta di scherno. Ai viaggiatori in grado di scorgere oltre, la loro storia l’hanno raccontata per davvero: l’ormai 22enne commette reato quando di anni ne ha 15. Un italo nordafricano problematico e ribelle. Famiglia difficile, vita sregolata, dipendenze acari colo portano presto davanti al banco degli imputati. È un’ associazione mestrina, la neonata”Lunghi cammini”, che tra carcere e delinquenza scopre un asso vincente sopra il tavolo del ragazzo: il cammino di Santiago. E il giudice ha detto sì, approvando un programma personalizzato dall’Ufficio di servizio sociale per i minorenni: il cammino ne è motore, insieme a frequentazione del Sert, attività lavorativa e di volontariato. “Il giudice attende e dà credito. Poi arrivano le relazioni dei servizi coinvolti e il dialogo con il ragazzo” racconta Isabella Zuliani, presidente dell’associazione veneziana, l’ unica in Italia impegnata a sostenere i ragazzi fragili con lo strumento del cammino. Iter giudiziario che con questa svolta sembra riscattare anche se stesso: la sua lungaggine ha lasciato che l’adolescente superasse abbondantemente la maggior età. “Essere chiamato a giudizio da adulto per aver messo le mani nella marmellata da adolescente ha montato un senso di ingiustizia nel ragazzo”, sospetta Zuliani. E c’è da chiedersi se abbia considerato ingiuste anche le alzatacce all’alba di questi tre mesi, considerata l’abitudine di svegliarsi alle 13. Ci ha pensato quell’angelo custode “in pensione”, Fabrizio, che con lui ha fatto un viaggio nel viaggio, imparando a non reagire alle provocazioni, a incassare, a prendere tempo. E a portarsi a casa il ragazzo. “Ho scoperto che camminare è un pensatoio” è la prima cosa che ha detto il giovane di ritorno dal suo “itinerario (quasi) impossibile”. Diventato possibile grazie “alla mia spina nel fianco, sì, ma buona”. Sulmona (Aq): erba alta e manutenzione, ci pensano i detenuti ilgerme.it, 24 luglio 2018 “Se ciascuno di noi tenesse sempre pulito il proprio uscio il mondo sarebbe splendente” e al carcere di via Lamaccio di Sulmona i detenuti non se lo sono fatto ripetere due volte e dal detto iraniano al “chi fa da sé fa per tre” il passo è breve. Così per sistemare la situazione inselvatichita del penitenziario peligno ci ha pensato si il direttore dell’istituto e un ispettore di polizia penitenziaria, ma con l’aiuto dei detenuti i quali hanno contribuito a liberare l’area antistante il carcere, piazzale del Vittime del Dovere, da erbacce e arbusti talmente alti da ostruire “pericolosamente” la visuale. Insieme, insomma, si è ovviato ad una certa carenza nella cura del verde che, nonostante il “contesto” che pare cadere nel dimenticatoio, resta di dominio pubblico. Ma qui la questione è forse un’altra (o anche un’altra) e se la pone il sindacalista Uil Pa Mauro Nardella su chi, in pochissime parole, ha la competenza nella gestione del verde in quell’area. Chissà. E se il punto è allora questo Nardella propone un nuovo accordo tra direzione del supercarcere e l’amministrazione. “Di certo c’è che da diversi mesi il piazzale che da dinanzi al carcere di Sulmona dovrebbe essere già divenuto di pertinenza comunale e questo dovrebbe far pensare ad una sua esclusiva competenza per ciò che attiene la viabilità e tutto il contesto che ve ne fa parte in termini di gestione e mantenimento ivi compresa la segnaletica sia verticale che orizzontale allo stato in condizioni davvero pietose” denuncia ancora il sindacalista. Un’area off limits dalle descrizioni fatte proprio da Nardella, lasciata un po’ allo stato brado e, nel minimo indispensabile, “curata” dalle persone che, a vario titolo, quel carcere lo vivono, come personale penitenziario e come detenuti. Milano: raccolta differenziata, vincono i detenuti di Maurizio Giannattasio Corriere di Milano, 24 luglio 2018 Detenuti di Bollate battono Milano 91 a 66. È una partita sui generis quella che si è giocata tra i detenuti della casa di reclusione e i milanesi. Anche il campo è particolare: la raccolta differenziata dei rifiuti. Ebbene, i primi hanno stracciato i secondi che pur vantano un record non indifferente, essendo Milano una delle tre capitali europee dove la percentuale di differenziata è più alta. Se i milanesi raccolgono il 29 per cento di organico, il 15 di carta, il 9 di plastica il 13 di vetro e lasciano il 33 nel sacco nero, gli “ospiti” di Bollate fanno meglio: 58 organico, 7 plastica, 2 carta, 24 pane. Solo il 9 per cento va nell’indifferenziata. “Merito di un gruppo di detenuti - spiega Anita Pirovano, presidente della Commissione carceri - Sono partiti loro, spontaneamente. Non capivano perché in carcere non si facesse la raccolta differenziata. Sono partiti dal loro reparto e l’iniziativa si è estesa a tutto il carcere”. Il gruppo di chiama Keep the Planet Clean. Nel 2018 ha raccolto 127 tonnellate di rifiuti. Tutte le 569 celle sono state dotate di un cestello per l’umido. L’Amsa ha fornito 256 tra cassonetti e trespoli. La loro speranza è che la raccolta si estenda a tutto il sistema carcerario. Per non stare con le mani in mano hanno presentato un progetto per il parco della Barona: “Vogliono mettere la loro esperienza a disposizione della città” dice Pirovano. E magari, uscire un po’ dal carcere. Verona: “picchiato da quei poliziotti, voglio giustizia” di Laura Tedesco Corriere Veneto Tedesco, 24 luglio 2018 “Mi hanno rubato la vita, quei poliziotti mi picchiarono a sangue senza pietà. E adesso che finalmente il mia caso è stato riaperto e ci sarà un nuovo processo, voglio ricevere quella giustizia che finora non mi è mai ancora stata data”. È successo 13 anni fa, ma da allora nulla per lui è stato più come prima: il 24 settembre 2005 Paolo Scaroni era un ragazzo in perfetta salute, un tifoso bresciano in trasferta a Verona per sostenere la sua squadra del cuore nel match contro l’Hellas. Oggi è un uomo sposato, invalido e “la mia esistenza è fatta di terapie, fisioterapisti, visite, cure”. Per lui, gli strascichi dell’autentico pestaggio che subì quel giorno alla stazione di Porta Nuova - “feroci colpi alla testa, manganellate, calci e pugni” - dopo esserci costati 64 giorni di coma lo costringeranno per tutta la vita a dipendere da medici e ospedali. Una vera condanna: “I colpevoli, invece, finora non hanno ricevuto alcuna condanna per avermi ridotto così”. In primo grado, infatti, i sette poliziotti (che all’epoca svolgevano tutti servizio alla Celere di Bologna) vennero tutti assolti per carenza di prove dai giudici del Tribunale di Verona. Indagini e processo, purtroppo, non erano riusciti a individuare con esattezza chi avesse materialmente colpito Paolo. Lui, però, non si è mai dato per vinto e, nel frattempo, ha ottenuto dallo Stato un risarcimento pari a un milione e quattrocento mila euro. “Ma la mia speranza - confidava ieri al telefono - era che a pagare fossero quegli agenti che mi picchiarono in quel modo”. Anni di attesa finché la Corte d’appello di Venezia ha ora disposto la riapertura del caso fissando per fine ottobre l’inizio del processo d’appello contro i 7 poliziotti sotto accusa. “Verranno esaminate nuove prove, e oltre a Scaroni - secondo le previsioni dell’avvocato di parte civile Alessandro Mainardi - verranno sentiti in aula un tifoso e un agente che finora non erano mai stati ascoltati e che sarebbero in grado di fornire elementi utili a ricostruire finalmente l’accaduto”. Sia il legale che il pm Beatrice Zanotti avevano evidenziato che in primo grado non venne tenuto conto delle dichiarazioni della vittima e di altri due testimoni: di qui la svolta decisa dai magistrati dell’Appello, mentre Paolo si prepara a “presentare un conto-danni agli imputati da 700 mila euro”. Da quel maledetto pomeriggio di 13 anni fa, “non vado più allo stadio, il calcio lo seguo a malapena in tv, cerco di vivere soffrendo il meno possibile. Se sarò in aula per il nuovo processo? Ma certo assicura. Come potrei non partecipare alle udienze? Aspetto quel giorno da 13 anni”. Firenze: sigaretta elettronica in carcere, a Sollicciano un progetto pilota? agenpress.it, 24 luglio 2018 Invito a Regione Toscana, Prap e direzioni istituti penitenziari. Le carceri italiane tornano a essere gravemente sovraffollate, e la prima emergenza da affrontare è quella sanitaria. Un detenuto su due, secondo le rilevazioni della Agenzia Sanitaria della Regione Toscana, soffre di almeno una patologia; tra le affezioni più diffuse i disturbi psichici e subito a ruota quelle dovute al fumo di tabacco, attivamente consumato o passivamente subito. Ci sembra necessario e urgente chiedere che sulla malattia in carcere le istituzioni inizino seriamente a occuparsi di prevenzione e riduzione del danno. Il consumo di sigarette, per esempio, può essere combattuto introducendo la sigaretta elettronica tramite il “sopravvitto” (l’acquisto di beni di consumo in carcere). Il Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) ha autorizzato la e-cig negli istituti penitenziari già nel dicembre 2016. Da allora però nulla si è fatto. Chiediamo perciò alla Regione Toscana, al Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, e alle direzioni del carcere di Sollicciano e del Gozzini (Solliccianino) di considerare la possibilità di attivare un progetto pilota che per promuovere l’uso della sigaretta elettronica al posto delle sigarette nelle carceri fiorentine. Per parte nostra, ci rendiamo disponibili a illustrare le esperienze già fatte in altri Paesi con buoni risultati. Affrontare le problematiche del carcere è spesso difficile, ma a volte anche con piccole iniziative come questa si possono ottenere ottimi risultati e favorire la costruzione di un ponte di umanità e di civiltà tra il carcere, come luogo della pena, e il mondo fuori. Vincenzo Donvito, Presidente Aduc Massimo Lensi, associazione “Progetto Firenze” Volterra (Pi): il regista Armando Punzo “nelle carceri ho trovato il sud del mondo” di Anna Spena Vita, 24 luglio 2018 Dal 23 al 26 luglio 2018 nel Carcere di Volterra va in scena in anteprima nazionale lo spettacolo Beatitudo della Compagnia della Fortezza fondata 30 anni fa dal regista e drammaturgo Punzo. L’esperienza delle casa di reclusione di Volterra rappresenta un’eccellenza italiana. Acri, associazione di Fondazioni e Casse di risparmio, la prende ad esempio e prova a replicare in altre carceri la straordinaria esperienza. “Chi usa il teatro solo come strumento di educazione ne riduce la grandezza e le potenzialità. Io non sono un educatore. Il mio obiettivo, il nostro obiettivo, non è rendere più umane le carceri, quanto quello di mettere alla prova il teatro in queste condizioni”. Quando Giorgio Righetti, direttore generale di Acri, associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio, ha assisto per la prima volta ad uno spettacolo della Compagnia della Fortezza, nella casa di reclusione di Volterra, racconta di non aver visto neanche per un solo attimo un detenuto che recitava. “Ho visto un uomo. Ed è stato commovente. Non un carcerato, ma un uomo con le sue difficoltà, fragilità, paure”. L’attenzione di Acri ai contesti come le case di reclusione è presente fin dalla nascita dell’associazione. “Gli interventi”, spiega Righetti, “hanno due obiettivi fondamentali: alleviare il peso della pena nella quotidianità e offrire percorsi formativi e professionalizzanti che consentano ai detenuti un più facile reinserimento nella società una volta scontata la pena. Si va da progetti di assistenza di carattere psicologico, a laboratori di arti e mestieri, dal tutoraggio per il conseguimento di titoli di studio, alla costruzione di percorsi professionalizzanti nell’ambito delle pene alternative”. Ma il nostro problema, il nostro obiettivo non è rendere più umane le carceri, quanto quello di mettere alla prova il teatro in queste condizioni. Per noi, paradossalmente, il carcere può diventare il luogo dove reinventare il teatro e restituirgli la sua necessità”. Sul valore e l’efficacia di queste attività ai fini del reinserimento nella vita sociale e civile dei detenuti vi è unanime consenso. Lo dimostrano i numerosi studi che evidenziano come il tasso di recidiva, cioè la probabilità di commettere nuovamente un reato da parte di un ex-detenuto. “Un particolare filone di interventi delle Fondazioni a favore dei detenuti”, continua Righetti, “si concentra sulla realizzazione di attività culturali e laboratori artistici. Nello specifico il teatro rappresenta un campo artistico di particolare attenzione da parte di alcune Fondazioni. Proprio per questo motivo, la Commissione Beni e Attività culturali di Acri si è interrogata sul ruolo delle Fondazioni nella diffusione della pratica teatrale all’interno degli istituti di pena. Da questa riflessione è emersa l’esigenza di creare una occasione di confronto tra le Fondazioni che consentisse di fare il punto della situazione e cogliere eventuali opportunità di ulteriore sviluppo”. Ne è nato un seminario, tenutosi a Volterra il 9 giugno 2017 alla presenza di numerose Fondazioni che sono attive nel settore o desiderano entrarvi. La scelta del luogo non è stata casuale: nella casa di reclusione di Volterra, da circa 30 anni, è lavora la Compagnia della Fortezza, che nel 2018 festeggia i 30 anni di attività, e rappresenta un caso di assoluta eccellenza sul piano della qualità e del valore artistico dell’attività svolta all’interno dell’istituto di pena. “La filosofia della Compagnia della Fortezza”, dice Righetti, “è riassumibile da una frase, apparentemente provocatoria, ma che pone il tema del teatro in carcere in una prospettiva inusuale e capovolta rispetto al comune sentire: “Ma il nostro problema, il nostro obiettivo non è rendere più umane le carceri, quanto quello di mettere alla prova il teatro in queste condizioni. Per noi, paradossalmente, il carcere può diventare il luogo dove reinventare il teatro e restituirgli la sua necessità”. Proprio partendo da questa sollecitazione, a seguito del seminario, si è deciso di approfondire l’opportunità di dare vita a un percorso che consenta di mettere assieme le migliori esperienze e prassi presenti in diversi contesti territoriali, farle dialogare e diffonderne l’approccio a beneficio di altri contesti e operatori. Ne è nato il progetto sperimentale “Per aspera ad astra” cui hanno dato la propria adesione le seguenti sei Fondazioni associate ad Acri: Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo, Fondazione con il Sud, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra. Il progetto si articola in una serie di eventi formativi e di workshop, alcuni realizzati a Volterra altri all’interno degli istituti di pena localizzati nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti, rivolti a operatori artistici, operatori sociali, partecipanti alla Scuola di formazione e aggiornamento del Corpo di polizia e del Personale dell’Amministrazione Penitenziaria, detenuti. Quella delle compagnia della fortezza è un’esperienza straordinaria. Trent’anni anni di costruzione continua di Architetture dell’impossibile hanno fatto di questo Impossibile un’utopia concreta. Nata come esperienza di “teatro in carcere”, come i più hanno provato inizialmente a etichettarla, la Compagnia della Fortezza si è affrancata da questa categorizzazione, dimostrando come il teatro non ha bisogno di alcuna aggettivazione che lo costringa. Questi trent’anni sono un traguardo unico, per un’esperienza unica, che per prima ha creato un nuovo genere, un nuovo modo di immaginare e fare il teatro, ha aperto nuove strade, diventando un modello artistico, culturale e operativo insuperato, da seguire e da studiare e a cui fanno riferimento da tutto il mondo. “La Compagnia della fortezza”, dice Armando Punzo, fondatore, drammaturgo e regista, “nasce dalla volontà di un giovane artista di trovare un suo modo di lavorare. Io ho avuto bisogno di queste pietre, frammento di realtà, che è il carcere per confrontami e mettere alla prova il teatro. Non volvo lavorare con gli attori e i teatri ufficiali, ma con i non professionisti e immaginare un’altra possibilità per il teatro”. Si pensa spesso al teatro in carcere come uno strumento di rieducazione, ma quello non è un aspetto che interessava o interessa Punzo. “Il carcere è una situazione dove la realtà si mostra in tutta la sua forza, come artista non ti puoi illudere mai di niente. La realtà è sempre presente in questo confronto quotidiano. Lavoro tutti i giorni qua dentro, è il mio teatro. E il carcere arricchisce la possibilità di trovare altre strade. Hai di fronte una realtà dura e da questa nasce il teatro vero, la poesia, l’arte”. Gli attori non sono professionisti. “Ma il professionismo”, sottolinea Punzo, “non è la base di ogni cosa. Alcune delle persone che hanno lavorato e lavorano con me hanno acquisito con il tempo competenze e professionalità. Anche se nel non professionismo non c’è nessun limite”. “Entrando in carcere ho trovato il sud del mondo: volti, corpi, voci, dialetti, lingue. Un mondo rimosso che sembrava non avesse diritto di andare in scena: e questo non è un problema di reclusione e detenuti. Ho avuto la possibilità di toccare anche altri temi, testi e autori che sembravano ingialliti superati invecchiati e che invecchiati invece non lo sono”. In 30 anni di attività sono stati oltre 80 gli spettacoli realizzati dalla compagnia : “Bisogna essere chiari con le persone con cui si lavora”, dice Punzo. “A me interessa il teatro. Non l’aspetto educativo del teatro. Quando lavoriamo non parliamo mai direttamente delle storie delle persone. È come se lavorando alla Scala di Milano parlassimo delle storie personali del direttore d’orchestra, o di un componente del coro. Perché dovremmo parlare della loro storia. Parliamo invece di quello che è il lavoro da fare. Ed è così che poi emergono possibilità e sensibilità diverse. Che sì, quelle dipendono anche dalla storia personale”. Armando Punzo non ha mia lavorato in altre case di reclusione. “Io ho bisogno di avere un gruppo di persone con cui lavorare crescere, pensare, immaginare. Non fare solo gli spettacoli. Io non sono un educatore aggiunto che fa progetti in giro. Io faccio questo lavoro e voglio difendere il teatro. Poi è evidente che tutto il lavoro che facciamo comporta una riflessione, negli altri come in me stesso”. Chi ricerca solo “educazione” riduce le possibilità del teatro. Lo usa solo come strumento e ciò lo rende una riduzione e non un potenziamento. Il viaggio dentro i 30 anni della Compagnia della Fortezza si fa più intenso durante i mesi estivi, attraversando multiformi atti di scena e di arte. Si inizia con la presentazione dello spettacolo Beatitudo in anteprima nazionale dal 23 al 26 luglio 2018 nel Carcere di Volterra, spettacolo che sarà poi allestito in una versione speciale per un grande teatro all’italiana e presentato il 29 luglio al Teatro Persio Flacco di Volterra. Beatitudo debutterà in prima nazionale al Teatro Verdi di Pisa il 6 e 7 ottobre 2018, poi in tournée in tutta Italia. Beatitudo, ultimo lavoro della Compagnia, regia e drammaturgia di Armando Punzo, liberamente ispirato all’opera di Jorge Luis Borges, trae le sue radici dal primo studio presentato lo scorso anno. Beatitudo è lo spettacolo dei trent’anni, frutto di un lavoro lungo ed impegnativo che si pone quasi più come una pratica filosofica che teatrale, nel quale Armando Punzo ha deciso di affrontare la sfida di rappresentare l’irrappresentabile. “Voleva sognare un uomo, sognarlo con minuziosa interezza, e imporlo alla realtà”, dice Punzo. “Asciugare le acque di un fiume in piena, prosciugarle prima che inondino le pianure circostanti travolgendo tutto quello che incontrano sul loro cammino, procurando distruzione e morte, è questo il teatro che cerca di arginare la vita che dilaga in noi senza nessun freno, vita che rompe gli argini e si insinua in tutte le pieghe della nostra esistenza per possederci e soffocarci con il suo fluido limo, è questo il teatro che solleva solide barriere e svela in noi spazi inesplorati e segreti, impermeabili e irraggiungibili da queste acque sinistre e violente. Il fiume della vita scorre fino a che non inizia a scorrere la montagna che in esso si specchia immobile, silenziosa e imprevedibile. Il 4 agosto andrà in scena l’evento di punta del primo anno di attività dal titolo Le Rovine Circolari - Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato, ispirato all’opera di Borges, evento site specific della Compagnia della Fortezza, con l’ideazione e la regia di Armando Punzo e la cura di Cinzia de Felice. Il progetto nasce dalla volontà condivisa di creare un grande evento collettivo in occasione dei 30 anni della Compagnia della Fortezza in concomitanza con le iniziative per i 200 anni della Geotermia. Un evento che non sia solo uno spettacolo fine a sé stesso, presentato con l’intenzione di richiamare un grande pubblico, ma concepito come la creazione di una grande opera d’arte, fruibile da tutta la comunità, che rimanga nella memoria collettiva e che possa diventare simbolo di un territorio. L’opera che prenderà forma nell’area della Centrale Geotermica Enel Green Power Nuova Larderello, già Larderello 3, all’interno della quale una monumentale torre di raffreddamento è stata trasformata in un’arena per spettacoli: la nuova struttura sorge all’interno di una vecchia torre di raffreddamento la cui parte superiore è stata demolita, mentre il basamento e l’opera inferiore sono stati mantenuti e ristrutturati per dare forma a una grande arena all’interno della quale sorge un ampio e suggestivo spazio per spettacoli a cielo aperto. La monumentale scenografia in cemento, progettata come la gradinata di un antico tempio circolare sospeso su di uno specchio d’acqua, diventerà un’installazione permanente all’interno del sito di archeologia industriale, trasformandolo in un teatro all’aperto unico al mondo, una grande opera d’arte offerta a tutta la comunità, simbolo e metafora dell’esperienza della Compagnia della Fortezza. Il refrigerante geotermico sarà invaso di acqua come a creare un immenso lago di forma circolare e il pubblico sarà fatto entrare al suo interno e collocato in sospensione sullo specchio d’acqua. Immagini, luci, azioni performative, parole, sonorizzazioni, musiche e ritmi percussivi eseguiti dal vivo, enfatizzati attraverso la rielaborazione e la manipolazione dello straordinario riverbero del luogo, risuoneranno nel cuore e nella mente delle persone e trasformeranno lo spettacolo in una gigantesca opera d’arte, che sarà fruita dal pubblico in maniera totalmente diversa, dallo stesso pubblico partecipante quasi ri-creato in una nuova veste e con anche quest’ultimo trasformato, a sua volta, in opera d’arte. L’immagine guida è quella di uno specchio d’acqua sul quale ci si raccoglie per compiere un rito collettivo di purificazione e rinascita. “Stando sulla riva di un lago è possibile dare libero sfogo ai sogni, alle riflessioni, all’immaginazione. “Occhio liquido della terra spalancato ai confini della conoscenza, dove tutto ciò che è solido si dissolve nello specchio a doppia faccia”, Armando Punzo. La bontà al posto del buonismo di Dacia Maraini Corriere della Sera, 24 luglio 2018 Contro il buonismo, parola denigratoria e senza senso, perché non recuperare la parola bontà che è cugina di parole come solidarietà, comprensione, attenzione, cura? Nel 2009 scrivevo su queste pagine un articolo sul buonismo. Sentendomelo ripetere oggi come un insulto, sono andata a rileggerlo. E mi sono detta, avvilita, che le cose sono peggiorate. Si dà del buonista oggi a chi vuole accogliere gli stranieri e non farli morire in mare, a chi chiede comprensione per coloro che scappano dalla miseria e dalla fame e cercano sostegno in terre altrui. Certo, creando problemi. Ma i problemi non si risolvono con il rifiuto, l’odio e l’autarchia, bensì confrontando la realtà e trovando rimedi comuni, razionali e umani. Purtroppo la pratica di aggredire l’interlocutore mostrando i muscoli e ammiccando al pubblico, cresce ogni giorno. Viene accettato come norma la distorsione della verità, l’attribuzione all’avversario di intenzioni delittuose, invocandone a gran voce le dimissioni. Parlo della rete soprattutto, lì dove si è trasferito il dialogo nazionale. I giornali cercano ancora di approfondire il discorso, di analizzare la realtà, ma vengono letti sempre di meno. Nel frattempo il nuovo potere tende avidamente a occupare gli spazi istituzionali, soprattutto quelli che riguardano la comunicazione. Ma in democrazia, il solo modo di bilanciare un potere è quello di crearne altri. Poteri e contropoteri ravvivano ed equilibrano la convivenza democratica, contro quella che Stuart Mill chiama la “deleteria dittatura della maggioranza”, che agisce in nome di un popolo astratto e muto. Molti, troppi, invece credono nella formula “o con noi o contro di noi”, senza rendersi conto che questo è il motto di ogni totalitarismo! Il problema è che chi dovrebbe costruire i contropoteri, si attorciglia in risse fraterne che suscitano rancori e vendette personali. Eppure avremmo tanto bisogno di spazi per confronti rispettosi, avremmo tanto bisogno di un discorso pacato e razionale, basato sulle idee e non sulla sistematica denigrazione dell’altro. Contro il buonismo, parola denigratoria e senza senso, perché non recuperare la parola bontà che è cugina di parole come solidarietà, comprensione, attenzione, cura? Ricordando che essere buoni significa semplicemente mettere in moto l’immaginazione, il motore più potente del nostro cervello. Ci vuole immaginazione per capire il dolore degli altri e quindi stendere una mano anziché prepararla al pugno, e non basta storpiare la parola per eliminare un valore che dovrebbe stare alla base del nostro comportamento sociale. Lo strabismo etico sui migranti di Michele Ainis La Repubblica, 24 luglio 2018 Migrante sì, migrante no. Il primo lo accogliamo (sia pure a denti stretti), perché scappa da una guerra o da un tiranno, perché è dunque titolare del diritto d’asilo, garantito dalla Costituzione. Il secondo lo respingiamo alla frontiera, perché è un migrante economico, perché scappa dalla fame. Su questa gerarchia delle sciagure si regge, da sempre, la nostra politica verso gli immigrati. Il nuovo ministro dell’Interno ha trasformato il sì in un nì, però la distinzione rimane inossidabile, scolpita nelle sentenze e nelle circolari amministrative, reputata ovvia a sinistra come a destra. Diciamolo: è un falso giuridico. Avallato dagli stessi giuristi, sulla scia d’una lettura avara delle garanzie costituzionali. Incoraggiato dall’assenza di una legge che restituisca qualche grammo di chiarezza sui requisiti dell’asilo, benché la nostra Carta - settant’anni fa - ne avesse stabilito l’adozione. E infine vestito con il manto dell’ipocrisia, l’unico comune sentimento in quest’Italia dei risentimenti. Non è forse un’impostura, o quantomeno uno strabismo etico, impietosirsi per chi muore di spada chiudendo gli occhi su chi muore di fame? Difficile negarlo, anche se in queste faccende comanda la ragion di Stato. Così, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (articolo 13) riconosce a chiunque il diritto d’uscire dal proprio Paese e di rientrarvi, ma non il diritto d’accasarsi altrove, non di scegliere il Paese in cui ricominciare un’esistenza dignitosa. Tuttavia l’asilo investe un grumo di situazioni estreme, d’esperienze tragiche, funeste. Ne è prova la stessa etimologia della parola (dal greco sylàn, che indicava l’azione predatoria dei pirati), nonché le sue costanti storiche (chi chiede asilo teme sempre per la propria vita). Ne è prova, soprattutto, l’articolo 10 della Costituzione italiana. In Assemblea costituente i comunisti volevano circoscriverlo ai perseguitati politici; prevalse invece la posizione dei cattolici, con una formula più larga, più indifferenziata. Sicché la norma costituzionale promette asilo nel nostro territorio allo straniero, qualora in patria gli venga impedito “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Senza altri limiti, senza condizioni. Il limite, difatti, non alberga nella norma, bensì nella sua interpretazione. Ma davvero le “libertà democratiche” consistono unicamente nelle libertà politiche? Davvero l’ombrello costituzionale s’apre soltanto per i rifugiati (ossia per quanti subiscano specifici atti di persecuzione, secondo la Convenzione di Ginevra del 1951) e per chi fugga da un teatro di violenze? Il buon senso, quel poco che ne rimane in circolo, s’oppone a questa lettura riduttiva. Le libertà elencate nella Costituzione italiana sono ben più ampie delle libertà politiche, giacché comprendono l’arco dei diritti sociali: libertà “nello” Stato, anziché “dallo” Stato. E in ogni caso la prima libertà è quella di togliersi la fame, come disse un ex presidente della Consulta (Francesco Casavola) nel 1994. Infine la democrazia in sé, con i suoi riti, con le sue procedure, è il primo antidoto contro la miseria. Ne sono testimonianza gli studi di Amartya Sen, giacché i Paesi più poveri sono anche i meno democratici. Conclusione: se l’asilo spetta a chiunque resti orfano delle “libertà democratiche”, allora esso spetta di diritto ai migranti economici, o almeno pure a loro. Si dirà: belle intenzioni (oppure pessime, dipende dai punti di vista); però mica possiamo metterci in casa tutta l’Africa. Risposta: allora ne riceveremo quanti sarà possibile, magari cominciando da donne e bambini, ma senza discriminare fra migranti economici e politici. Si dirà ancora: coi tempi che corrono, con Salvini che ordina ai prefetti di negare asilo ai rifugiati che ne avrebbero diritto, come potremmo accogliere chi non ne ha avuto mai diritto? È l’argomento del realismo, che in realtà sprofonda nel cinismo. E poi un diritto costituzionale c’è o non c’è, la sua esistenza non dipende dal governo di turno. Dipende da noi, dalla nostra capacità di riconoscerlo, e dargli forza, e sorreggerne il legittimo esercizio. Perché i diritti, come i migranti, muoiono, senza un popolo che offra il proprio asilo. Emergenza droghe sintetiche, a buon mercato e devastanti di Andrea Sparaciari businessinsider.com, 24 luglio 2018 Quando al prof. Fabrizio Schifano, psichiatra e farmacologo responsabile del National Programme on Substance Abuse Deaths inglese, invitato a un convegno di esorcisti dal Vaticano, hanno chiesto cosa fosse per lui il diavolo, non ha esitato. “Per me, il diavolo è chi ha inventato questa”. E sullo schermo è apparsa la struttura chimica della Sts-135, meglio nota ai consumatori di droghe sintetiche come Psycone, una sostanza di inaudita potenza. Un mostro, perché in sé racchiude gli effetti di tutti i tipi di droghe conosciute. È un cannabinoide mille volte più potente della marijuana; ma è anche un allucinogeno come l’Lsd, estremamente potenziato; e possiede gli effetti dissociativi della chetamina. Inoltre, è stata progettata per arrivare dritta al sistema nervoso centrale. È una super bomba - uno spinello di Psycone è equivalente a 4 mila canne “tradizionali”, in grado di generare psicosi già alla prima somministrazione - liberamente disponibile a quanti posseggano una carta di credito e una connessione internet. L’STS-135 è solo una delle oltre 5 mila sostanze sintetiche censite dal 1998 a oggi in Europa e chiamate dagli specialisti “nuove sostanze psicoattive” (Nps). Una lista che cresce a velocità incredibile. Se infatti fino ad inizio 2000 il mercato del sintetico si riduceva sostanzialmente al Mdma, cioè all’Ecstasy, che in Europa produce un giro d’affari di circa 700 milioni di euro, nel giro di 15 anni il menu delle sostanze costruite in laboratorio si è fatto pressoché sterminato. Tra il 1998, anno di inizio del monitoraggio delle droghe sintetiche in Europa, a fine 2017, l’Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Emcdda) ha identificato oltre 670 nuove sostanze psicoattive (ma per l’Onu sarebbero 739), alle quali si devono aggiungere i loro derivati. Tutte sostanze non sottoposte a controlli antidroga internazionali e spesso in vendita negli “smart shop”. Una proliferazione che ha messo in crisi i sistemi di lotta alla droga tradizionali. Chi ha visto il film “Smetto quando voglio”, commedia su una banda di ricercatori che s’inventano una molecola psicotropa, sa che finché una sostanza non viene inserita nella lista delle sostanze stupefacenti, cioè viene “tabellata” dal Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio, essa può essere venduta liberamente. E questo è un problema. “In Italia viene classificata come stupefacente solo la sostanza descritta in ogni componente chimica”, spiega Schifano, “ma se noi, stamattina decidiamo che la molecola A1 è una droga e la tabelliamo, sappiamo che oggi pomeriggio in un villaggio cinese, hanno già creato A2, A3, A4”. In Gran Bretagna l’hanno capito, tanto che con il Psychoactive Substances Act del 2016, hanno stabilito che se A è una droga, lo sono anche A1, A2, A3, senza bisogno di catalogarle ogni volta da capo. In Italia no. Le sostanze si dividono in tre categorie: gli oppiacei sintetici (soprattutto derivati dal Fentanil); i cannabinoidi sintetici come le “Spice” (spesso commercializzati come sostituti legali della cannabis e venduti come “erbe da fumare”); i catinoni sintetici (stimolanti che si rifanno agli effetti della pianta del Qat, ma mille volte più potenti). A produrle in grossi quantitativi sono “aziende chimiche e farmaceutiche situate in Cina” dove i controlli sono nulli e la collaborazione interforze di polizia inesistente, denuncia l’Emcdda e “da qui vengono spedite in Europa, dove sono trasformati in prodotti, confezionate e vendute”. Alcune sostanze sono poi commercializzate sotto forma di medicinali. La scoperta di numerosi laboratori in Europa, del Nord e dell’Est, fa però pensare che negli ultimi tre anni la produzione si stia spostando direttamente nel nostro continente. Nel 2016 in Ue si sono registrati 71 mila sequestri di nuove sostanze psicoattive. Dal 2011, 13 Paesi europei hanno segnalato il consumo delle sostanze sintetiche, pur con livelli diversi. Sebbene la diffusione sia ancora limitata rispetto a cocaina, eroina e marijuana, questa è in continua crescita, soprattutto nelle fasce più umili della popolazione. Tra i giovani adulti (15-34 anni) si va dallo 0,2% dell’Italia all’1,7% della Romania, con punte assai preoccupanti in Polonia e Gran Bretagna, come si legge nel rapporto European Drug Report 2018. Nel Regno Unito, per esempio, un’indagine del National Health Service (NHS) del 2016 ha scoperto che il 33% dei detenuti aveva fatto uso di cannabinoidi nei 30 giorni precedenti all’arresto. Negli Stati Uniti invece i cannabinoidi sintetici - chiamati “fake weed” - sono già una realtà conosciuta: a maggio 2018, 25 persone sono state ricoverate a Brooklyn (New York) dopo aver assunto “K2”, la droga che per la polizia “trasforma le persone in zombie”; alcuni mesi prima i ricoveri erano stati 153 e 4 i decessi a Chicago, sempre a causa della marijuana sintetica. Il New England Journal of Medicine a gennaio 2017 ha descritto gli effetti delle sostanze: Una bustina di K2, un cannabinoide sintetico. “Sonnolenza, vertigini e battito cardiaco veloce o irregolare. Sono stati notati anche aspetti clinici più gravi, tra cui psicosi, delirio, cardiotossicità, convulsioni, danno renale acuto, ipertermia e morte”. L’ultimo allarme risale a giovedì 18 luglio, quando nello stato di Whashington in quattro giorni si sono registrati oltre 100 pazienti in overdose da K2. L’Emcdda, occupandosi di Europa, ha lanciato l’allarme soprattutto sugli oppiacei sintetici derivati del Fentanil: “Queste sostanze possono essere particolarmente potenti, poiché in quantità minime sono in grado di causare avvelenamenti potenzialmente mortali da depressione respiratoria rapida e grave”. Ciò li rende particolarmente pericolosi nei confronti di consumatori ignari che credono di acquistare eroina o altre sostanze medicinali, come gli antidolorifici. Oltretutto, queste sostanze sviluppano una rapida dipendenza. Solo nel 2016 cinque derivati del Fentanil hanno causato 160 decessi. A spingere la diffusione delle sostanze sintetiche sono diversi fattori, oltre ai prezzi più bassi, il fatto che la maggior parte di queste non sia identificabile dagli esami delle urine, a differenza di cocaina e marijuana. Inoltre sono estremamente più potenti. Quindi possono usarle tutte quelle categorie di persone sottoposte ciclicamente a esami come piloti, poliziotti, chirurghi. O semplicemente i ragazzi che escono la sera e possono passare indenni agli eventuali controlli della polizia, che sono tarati per riscontrare 5 o 6 prodotti, non certo per 5.000. A caccia delle droghe sintetiche nel Deepweb. Se si vuole sapere quali sostanze sono in circolo in un determinato paese, le autorità fino a oggi hanno agito in due modi: vedere cosa finiva nei sequestri operati dalle polizie; comprendere cosa avessero ingerito e quanti si presentavano negli ospedali. Oggi quei due metodi si sono dimostrati insufficienti. L’unico modo per essere aggiornati è monitorare il web. È nella rete, infatti, che la sostanza sintetica trova il suo habitat. Ed è da lì, che i cosiddetti “psiconauti”, riuniti in una quindicina di siti, provano le nuove sostanze e le recensiscono, presentandole sul mercato. Tornando alla nostra STS-135, il suo percorso è stato più o meno questo: creata in un oscuro villaggio della Thailandia nel 2013, la sostanza è stata portata a Hong Kong o Singapore, dove è stata spedita via nave in Europa, dove è stata preparata e divisa in dosi. È a questo punto che sono intervenuti gli “psiconauti”, i tester, che l’hanno provata - ignorandone composizione chimica ed effetti - e ne hanno avviato la diffusione. Per un po’ la STS135 è stata venduta liberamente nell’open web, poi, è stata individuata per la prima volta in Ungheria, è stata studiata ma non è stata ancora messa fuorilegge. Ancora oggi è acquistabile su un sito indiano come “designer drug”. Quando - speriamo presto - sarà tabellata, il commercio si sposterà nel Deepweb. E mentre la burocrazia fa il suo corso, la STS135 semina l’Europa di vittime, utilizzatori finiti al pronto soccorso con manie omicide o suicide, delle quali i medici spesso non comprendono le cause perché ignorano anche solo l’esistenza della sostanza. A soccombere sono soprattutto giovanissimi: secondo i dati del Progetto europeo di indagini scolastiche sull’alcol e altre droghe (Aspad) 2015, il 3,2% dei giovani europei tra i 15 e i 16 anni ha dichiarato di aver utilizzato droghe sintetiche negli ultimi 12 mesi. Soprattutto miscele di erbe da fumare, seguito da cristalli e polveri da inalare. Nel Regno Unito hanno stimato che durante i rave party clandestini - luogo d’elezione per l’utilizzo delle droghe sintetiche - il 93% dei frequentatori faccia ricorso a sostanze. La guerra dei narcos - Il 28 giugno 2018 Guardia Civil spagnola, Polizia federale austriaca ed Europol, hanno effettuato il più ingente sequestro di droghe sintetiche della storia europea. Hanno smantellato una rete criminale che produceva e distribuiva sostanze in 100 Paesi attraverso la Rete, bloccando oltre 100 tipi diversi di NPS e 800 mila dosi di Lsd. Sequestrati anche 5,5 milioni di euro in Bitcoin (valuta utilizzata per le transazioni nel Darkweb) e 1,6 milioni in contanti. In manette sono finiti in otto tra spagnoli, francesi e austriaci che operavano dal 2012, importando la materia prima dalla Cina e lavorandola ad Amsterdam, Granada e Valencia. Il gruppo vendeva esclusivamente tramite pagine nel Darkweb, il cui accesso era limitato agli utenti precedentemente invitati e reindirizzati da alcuni forum chiusi. Per gli investigatori si tratterebbe di un’organizzazione non riconducibile a quelle storicamente coinvolte nel traffico di droga tradizionale (narcos, ‘ndrangheta, mafia, ecc…), ma di un gruppo a sé. È quindi ipotizzabile che, al crescere della diffusione delle droghe sintetiche, aumenteranno anche gli attriti tra le grandi major dello sballo e questi “nuovi produttori indipendenti”. Uno scontro destinato a diventare una vera e propria guerra commerciale e probabilmente fisica, combattuta sulla pelle dei consumatori. Il Regno Unito non si oppone alla pena di morte per due presunti terroristi dell’Isis di Alfonso Bianchi La Stampa, 24 luglio 2018 Il Regno Unito è pronto a estradare due presunti terroristi dell’Isis negli Usa, nonostante rischino la pena di morte o di finire a Guantánamo. In una lettera inviata al Procuratore generale statunitense Jeff Sessions, il ministro dell’Interno Sajid Javid ha assicurato che Londra non chiederà garanzie che i due, cittadini britannici, non vengano giustiziati. “Sono dell’opinione che vi siano forti ragioni per non richiedere una garanzia rispetto alla pena di morte in questo caso specifico”, ha scritto Javid in una lettera che è stata rivelata dal Telegraph. I “Beatles” A rischiare l’estradizione sono Alexanda Kotey e Shafee El-Sheikh, due membri di una cellula jihadista conosciuta con il nome di “The Beatles”. Furono gli stessi ostaggi, più volte torturati, a denominarla così nel sentire l’accento britannico dei suoi quattro componenti che furono ribattezzati John, George, Ringo e Paul. Era uno dei gruppi più conosciuti e temuti del Paese, responsabile di decine di decapitazioni, tutte filmate e pubblicate su internet, tra cui quelle dei giornalisti statunitensi James Foley e Steven Sotloff e del cooperante Peter Kassig. Il loro leader, conosciuto come Jihadi John e il cui vero nome era Mohammed Emwazi, fu ucciso in un attacco con un drone in Siria nel 2015. Kotey e El-Sheikh sono invece stati catturati nel gennaio scorso mentre cercavano di scappare dal Paese fingendo di essere rifugiati. Da mesi gli Usa chiedevano la loro estradizione ma Londra finora non si era dichiarata disponibile. L’Fbi avrebbe collezionato su di loro oltre 600 testimonianze oculari in un’indagine durata 4 anni e che ha coinvolto 14 nazioni. “Ho incaricato i miei funzionari di dare seguito alla richiesta” di estradizione, ha scritto il ministro pur precisando che “la nostra decisione in questo caso non riflette un cambiamento nella nostra politica di ricerca di assicurazioni nei casi di pena di morte” né un cambio nella “posizione del governo britannico in merito all’abolizione globale della pena di morte”. La notizia però ha creato scandalo e anche diversi conservatori si sono opposti alla decisione. La premier Theresa May nei fatti ha appoggiato la scelta pur lasciando intendere di stare lavorando per evitare la pena di morte. “Il nostro obiettivo è che questi uomini passino il resto della loro vita in carcere e questo è al centro dei nostri colloqui con gli Usa”, ha affermato il suo portavoce. Stati Uniti. Lo sceriffo che non vuole arrestare italiastarmagazine.it, 24 luglio 2018 “Dare un’altra chance”. Reati e detenuti dimezzati. L’incredibile storia dello sceriffo di Gadsden, Florida che per i reati minori preferisce evitare di mandare le persone in carcere. “Gli arresti non risolvono necessariamente il crimine, e quando gli arresti devono essere fatti, è proprio il momento in cui dovrebbe iniziare il recupero”. Il programma è solo una parte di come lo sceriffo Morris Young di Gadsden, Florida, concepisce il “rientro” dei detenuti nella società per superare l’ostacolo della lrecidiva. “Credo che dare alla gente due, tre, quattro e cinque possibilità sia positivo”, ha detto. Fin dalla sua prima elezione nel 2004, Young ha spinto i pubblici ministeri per concedere ai delinquenti di basso livello fuori di lunghi soggiorni in carcere, e ha incoraggiato i deputati ad usare il potere di arresto con discrezione. “Se prendiamo un giovane con una dose di cocaina in tasca, invece di fare un arresto, metterlo a terra e malmenarlo, ditegli: “ok, ma la prossima volta…”. E mentre è difficile attribuire causa ed effetto a questioni sociali come il crimine, nel “regno” di Young a Gadsden si sono dimezzati i reati da strada e gli arresti di minori sono diminuiti di oltre il 75%. La contea sta inoltre inviando il 65 per cento in meno di detenuti nelle carceri di Stato rispetto a otto anni fa, con un risparmio per l’Erario non indifferente. Young è il più longevo sceriffo nero nella storia dello stato della Florida, nonostante la sua filosofia di fronte a sfide anche popolari. I pubblici ministeri hanno tentato di eseguire giovani fuori ufficio nel 2014 per il suo uso liberale delle norme che permettono ai detenuti fuori custodia brevi periodi di libertà, di solito pochi giorni. Young crede che la resistenza al suo approccio sia dovuta agli incentivi finanziari che la detenzione crea nei privati che le gestiscono. Come dice Major Shawn Wood, il loquace braccio destro di Young: “Nessuno in questo paese dovrebbe guadagnare un centesimo per rinchiudere persone rinchiuse in catene”. “Abbiamo l’ambizione di catturare i veri delinquenti”, ha detto Young che teme di essere male interpretato da buonisti e liberal. “gli arresti vanno circoscritti a chi commette reati davvero gravi, per il resto il recupero è più funzionale alla società”. Russia. Avvocata minacciata costretta a lasciare il paese di Riccardo Noury Corriere della Sera, 24 luglio 2018 Venerdì scorso l’avvocata Irina Biryukova (nella foto) ha diffuso un video in cui si vede un suo assistito, il detenuto Yevgeny Makarov, venire torturato da 18 agenti all’interno della colonia penale IK-1. Siamo nella regione di Yaroslavl, nella Russia centrale, e i fatti risalgono al 2017. L’avvocata Biryukova viene informata che le persone riprese nel video stanno pianificando una rappresaglia violenta nei suoi confronti. Da qui la sua decisione immediata di lasciare il paese. Amnesty International ha subito sollecitato le autorità russe a garantire protezione a Yevgeny Makarov e a indagare immediatamente per scoprire chi siano gli autori delle minacce nei confronti dell’avvocata Biryukova. Un primo sviluppo è stato l’arresto, oggi, di sei agenti della colonia penale IK-1. Resta il fatto inaccettabile che un atto di coraggio, come quello di denunciare le torture nel sistema penitenziario della Russia, debba spingere un’avvocata all’esilio per evitare ritorsioni. Per questo, sta alle autorità russe garantire che l’avvocata Biryukova possa tornare nel suo paese ed esercitare la sua professione senza timore di rappresaglie. Ecuador pronto a consegnare Assange al governo inglese di Stefania Maurizi La Repubblica, 24 luglio 2018 Dopo aver concesso protezione nella sua ambasciata londinese per sei anni, il nuovo presidente potrebbe revocare l’asilo politico al fondatore di WikiLeaks. Che così rischia l’arresto e l’estradizione negli Usa. L’Ecuador consegnerà presto Julian Assange al governo inglese. Dopo avergli concesso protezione nella sua ambasciata londinese, dove è confinato da ben sei anni, l’Ecuador è determinato a revocare l’asilo politico al fondatore di WikiLeaks, esponendolo così all’arresto da parte delle autorità inglesi e alla possibilità molto concreta che venga estradato negli Stati Uniti e incriminato insieme con il suo team di WikiLeaks per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano. A rivelare il retroscena è “The Intercept”, il quotidiano online fondato dal giornalista americano Glenn Greenwald, citando fonti del ministero degli Esteri e dell’ufficio di presidenza di Lenin Moreno, il presidente che sei anni fa ha concesso asilo politico a Julian Assange. Il fondatore di WikiLeaks è chiuso nell’ambasciata dal 19 giugno 2012, senza accesso alla luce del sole e a cure mediche appropriate: negli ultimi sei anni, non ha mai messo un solo piede fuori dalla minuscola sede diplomatica, che non ha né un giardino né un cortile interno, dove prendere una boccata d’aria fresca. Se l’Ecuador nei prossimi giorni gli revocherà l’asilo, Assange verrà arrestato dalle autorità inglesi, per aver violato le condizioni del rilascio su cauzione, nel 2012, quando si rifugiò nell’ambasciata per chiedere protezione. La notizia della revoca dell’asilo circola ormai da qualche settimana, ma conferme ufficiale al momento non ce ne sono perché la decisione è al centro di una complessa partita diplomatica tra l’Ecuador, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’Australia - Assange è cittadino australiano - e perfino la Spagna, il cui precedente governo di Mariano Rajoy avrebbe avuto un ruolo importante nella decisione di Lenin Moreno di tagliare ad Assange ogni comunicazione via internet e ogni possibilità di incontrare visitatori e giornalisti, dopo che il fondatore di WikiLeaks aveva duramente condannato il comportamento delle autorità spagnole nella crisi catalana. Tutto è iniziato nel 2010, quando WikiLeaks iniziò a pubblicare i documenti segreti della guerra in Afghanistan (Afghan War Logs) e il governo americano aprì immediatamente un’inchiesta del Grand Jury ad Alexandria, in Virginia, lo stato in cui hanno sede alcune delle più importanti agenzie di intelligence Usa, come la Cia. Da allora l’inchiesta americana su WikiLeaks non è mai stata chiusa. Due settimane dopo l’inizio della pubblicazione degli Afghan War Logs, Assange finì in un’inchiesta per stupro in Svezia, rimasta sempre alla fase preliminare, senza che lui venisse incriminato o scagionato una volta per tutte e con la procura svedese che non ha mai voluto interrogare il fondatore di WikiLeaks a Londra, dove si trovava in stato di arresto su ordine di Stoccolma, ma ha sempre insistito con la richiesta di estradarlo in Svezia per interrogarlo in merito alle accuse. Assange si è sempre opposto all’estradizione in Svezia, temendo che fosse solo il primo passo per quella negli Stati Uniti: quando ha esaurito ogni opzione legale per opporsi all’estradizione, si è rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador e ha chiesto asilo politico. Era il 19 giugno 2012: l’Ecuador, allora guidato dal presidente Rafael Correa, gli concesse protezione, ritenendo fondate le sue preoccupazioni di finire estradato negli Usa e incriminato per la pubblicazione dei file segreti. Da allora, il fondatore di WikiLeaks vive rintanato nell’ambasciata ecuadoriana a Londra e il Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite ha stabilito che si trova in uno stato di detenzione arbitraria che va avanti dal 2010. Nel maggio del 2017, la procura svedese ha archiviato l’inchiesta per stupro contro Assange e il mandato di arresto europeo è decaduto, eppure Assange si è guardato bene dall’uscire: se solo dovesse mettere un piede fuori, l’Inghilterra lo arresterebbe per aver violato le condizioni del rilascio su cauzione, nel 2012, quando, invece di consegnarsi alle autorità svedesi, si rifugiò nella sede diplomatica ecuadoriana. Una volta arrestato, il governo inglese potrebbe estradarlo negli Stati Uniti, dove all’inchiesta del Grand Jury, aperta nel 2010, si è aggiunta l’inchiesta del procuratore Robert S. Mueller III sulla pubblicazione delle email dei Democratici Usa, anche se nell’indictment emesso una settimana fa da Mueller, Assange e WikiLeaks non risultano incriminati. Con la fine dell’era di Rafael Correa, in Ecuador è in atto un profondo cambiamento politico e Lenin Moreno non sembra avere alcun interesse a proteggere Julian Assange, tanto da averlo ridotto al silenzio, tagliandogli ogni contatto con l’esterno, a parte l’accesso ai suoi legali. Per una persona già confinata in un minuscolo edificio senza neppure quell’ora d’aria concessa perfino ai detenuti delle prigioni di massima sicurezza, le restrizioni imposte dal governo di Moreno sono a dir poco pesanti. Negli ultimi due mesi, Repubblica ha provato ripetutamente a chiedere alle autorità di Quito il permesso di poter far visita a Julian Assange, come il nostro giornale ha ripetutamente fatto nel corso degli ultimi sei anni: il governo ecuadoriano non ha mai risposto alle nostre richieste. Se Julian Assange e il suo staff finissero estradati negli Stati Uniti e incriminati per la pubblicazione dei documenti segreti, sarebbe la prima volta nella storia degli Usa in tempo di pace che un’organizzazione giornalistica finisce in prigione per il suo lavoro: uno scenario che costituirebbe un precedente pericoloso per tutti i media americani e non solo, perché gli Stati Uniti sono tra i pochi paesi del mondo che garantiscono una protezione costituzionale alla stampa, attraverso quel formidabile scudo che è il First Amendment della Costituzione. Se una grande democrazia incrimina la stampa per le sue pubblicazioni, non è difficile immaginare come si regoleranno società autoritarie, come quella russa, cinese, iraniana, nordcoreana. Le dichiarazioni delle autorità americane lasciano poco spazio al dubbio che gli Usa puntino a incriminare Assange e WikiLeaks: nel 2017, l’allora capo della Cia, Mike Pompeo, che oggi guida il dipartimento di Stato, ha attaccato in modo virulento Assange e la sua organizzazione, dicendo che non godono della protezione del First Amendment, mentre l’attuale Attorney General, Jeff Sessions, ha dichiarato che arrestare Assange è una priorità.