In carcere non c’è più posto: “Impossibile inasprire le pene” di Matteo Indice La Stampa, 23 luglio 2018 I dati sulla crescita fuori controllo dei detenuti e le multe europee dimostrano che le celle andranno presto svuotate. Dopo gli ultimi fatti di cronaca affonderà presto la riforma, osteggiata da Lega e M5S, che allarga le misure alternative. La verità rischia di rivelarsi indigesta, per chi sull’annuncio d’una svolta securitaria ha consolidato il proprio indice di gradimento: l’Italia, a causa d’un sovraffollamento carcerario che cresce a ritmi incontenibili e senza la possibilità di costruire nuovi istituti a breve, potrebbe essere obbligata in tempi stretti a mettere i criminali “fuori”, anziché “dentro”. L’ultimo segnale della bomba innescata s’è materializzato sabato 14 luglio da Poggioreale (Napoli), 2.200 detenuti su una capienza di 1.659: in 40 hanno inscenato una sollevazione rifiutando di rientrare nelle proprie celle, appiccando un incendio e placandosi dopo l’intervento degli agenti. La notizia è passata inosservata e forse non è solo un caso di distrazione mediatica, poiché il tema da offrire all’opinione pubblica sarebbe assai più strutturato. Dice infatti il contratto siglato da Lega e Movimento Cinque Stelle: “Per garantire la certezza della pena è essenziale riformare i provvedimenti emanati nella legislatura precedente, tesi solo a conseguire effetti deflattivi, a totale discapito della sicurezza della collettività”. Si prevede l’inasprimento delle condanne per furti e violenze sessuali e “la valorizzazione del lavoro nei penitenziari quale principale sistema di recupero”. Il messaggio è netto: galera diffusa e condanne più severe, drastico abbattimento delle misure alternative che in base all’ultima riforma varata dal governo Gentiloni, bisognosa d’una ratifica della nuova maggioranza entro inizio agosto altrimenti affonderà, dovevano lievitare. Ma il tandem Salvini-Di Maio e il premier Conte possono davvero imprimere quest’accelerazione, imbottendo le prigioni con altre migliaia di persone? La contraddizione - A giudicare dai numeri pare impossibile e però tutti si tengono alla larga dall’argomento. Anche perché nel frattempo le denunce dei reati d’allarme sociale - omicidi, furti, rapine - continuano a calare, ma di sicurezza si dibatte senza sosta e le cronache contribuiscono: sabato un bimbo ferito nell’agguato a un boss di Reggio Calabria, in una giornata che ha contato tre omicidi in Italia legati alla criminalità organizzata; venerdì i casi del pedofilo ucciso a Benevento in permesso premio dopo che dieci anni prima aveva violentato una ragazzina, del romeno che ha stuprato una cameriera cinese a Piacenza evaso dai domiciliari e del benzinaio ferito dai ladri a Busto Arsizio. Per circoscrivere l’emergenza vanno squadernati un po’ di dati e pronunciamenti europei. L’Italia, aggiornamento al 30 giugno, ha 58.719 reclusi su 51.600 disponibilità, e il 33% sono stranieri. Ma è la velocità dell’escalation a impressionare: dal 2015 al 2016 la popolazione carceraria è aumentata di 1.908 unità, nell’anno successivo (2016/2017) di 2.847. Dopo è andata pure peggio, e la proiezione tagliata sul 2018 indica un inquietante +4.000. Il trend è destinato a deflagrare poiché dal 2019 diverranno esecutive centinaia di condanne per droga, secondo un nuovo intreccio di norme che allargherà la platea di chi è escluso dagli affidamenti in prova. Risultato: in meno di tre anni è certo si sfonderà quota 70.000, punto di non ritorno. Proprio l’Italia, dopo l’indulto varato nel 2006 che abbassò l’asticella da 59.000 a 39.000, dichiarò l’”emergenza nazionale” nel 2010, presenti nelle carceri da Nord a Sud 67.961 persone. È vero che da allora la capienza, con vari magheggi, è salita di circa 4.000 posti, ma al massimo nel 2020 saremo punto e a capo. Altra bordata: nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha condannato a pagare per il poco spazio vitale lasciato a chi sta dietro alle sbarre, e altri verdetti analoghi sono seguiti. L’Europa ci impone insomma di diminuire il sovraffollamento a colpi di multe. E dopo una serie di provvedimenti tampone, comprese le creative “porte girevoli” che estendono le ore di condivisione gonfiando i metri quadrati a tavolino, il centrosinistra con Andrea Orlando ministro della Giustizia aveva partorito ai tempi supplementari la sua riforma dell’ordinamento penitenziario, con tre capisaldi. Si prevedevano l’innalzamento della soglia di pena per accedere alle misure alternative (da 3 a 4 anni), più possibilità di ottenere sconti e benefici per chi s’è macchiato di reati gravi, decisioni sempre subordinate al via libera d’un magistrato. I decreti delegati hanno ricevuto ad aprile l’ok dal consiglio dei ministri a trazione Pd, quand’era ancora in sella dopo le elezioni; ma per diventare realtà necessitano di un ultimo via libera dalle commissioni parlamentari, nel frattempo rinnovate all’insegna della maggioranza giallo-verde. l blitz di Beppe Grillo Il primo a capire che le promesse d’incarcerare a destra e a manca rischiano di schiantarsi contro la realtà è stato Beppe Grillo. E con un post a sorpresa venerdì 13 luglio ha scritto il contrario del contratto: “Le carceri sono inutili e dannose, vanno azzerate, dobbiamo realizzare nuove misure alternative più umane”. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede, grillino, intervistato da La Stampa nello stesso giorno ha definito il garante M5S un “libero pensatore”, focalizzando temi più generali: “Il principio di certezza della pena è sacrosanto, da bilanciare con il recupero. Vogliamo carceri e percorsi rieducativi migliori, serve un investimento nel welfare, ma intanto dobbiamo dare risposte rapide”. Il suo predecessore dem Orlando dissente: “Si dovrebbe fare di necessità virtù. Partendo dagli studi che indicano la recidiva più bassa per chi ha espiato in un regime aperto (sul punto ci sono letture sovente discordanti, ndr), con più misure alternative uniremmo un principio di civiltà all’urgenza. Solo in Italia prevale chi sconta la condanna in cella (negli altri sistemi principali il dato è ribaltato, vedi tabella, ndr). Accentuando la valutazione del tribunale di sorveglianza, si selezionerebbero le uscite. Promettendo più severità ci si troverà invece con l’acqua alla gola e la necessità di varare svuota-carceri dozzinali: quelli sì, pericolosi”. Per capire meglio che fine farà la riforma si possono pesare le parole di Mattia Crucioli, vicepresidente M5S della commissione Giustizia al Senato, che nei giorni scorsi insieme ai colleghi della Camera ha già detto no su alcuni punti e il cui pronunciamento finale sarà decisivo: “La certezza della pena detentiva resta per noi fondamentale. Celle piene e tempi stretti? Problemi reali, ma da subito si può recuperare agibilità in immobili dismessi”. Le vittime beffate - Dalla politica ai tecnici, le reciproche distanze restano. Basta rievocare il pensiero che Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto a Catania, rilanciò in audizione al Senato: “Si rischia in teoria di favorire pure chi è collegato alla mafia, aumenterebbero i contenziosi e non si tiene conto delle necessità di giustizia delle vittime”. Stroncatura piena. Alessandro Vaccaro, nel direttivo dell’Organismo congressuale forense ovvero la cerniera romana tra avvocatura e politica: “Le pene alternative sono comunque pene, non un regalo. Pensare o promettere d’inserire altre persone in massa dentro le celle è una bufala. E lo Stato rischia di doversi arrendere fra due anni, con provvedimenti generalizzati di clemenza”. Gaetano Brusa, giudice di sorveglianza a Milano e poi a Genova: “Non siamo buonisti, vagliamo caso per caso. I soldi si potrebbero investire per verificare che chi è ammesso a soluzioni esterne sia seguito davvero”. “Rimpatriare gli stranieri” Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, profila un’opzione differente: “L’unica strada è far scontare la condanna agli stranieri nel loro Paese (soluzione spesso caldeggiata da Lega e M5S, ndr). Servirebbero accordi bilaterali almeno con Tunisia, Marocco, Romania e Albania, che li accetterebbero solo in cambio di finanziamenti. Difficile pensarla come un’exit strategy rapida, ma occorre lavorarci”. Le aggressioni annuali al personale sono raddoppiate dal 2010 al 2017 (da 294 a 587), come gli scontri fra detenuti (da 1.521 a 3.164). Gli agenti sono oggi 33.000 a fronte d’una base minima sulla carta di 40.000. E uno di loro di recente è rimasto ostaggio per tre ore ad Ariano Irpino (Avellino), dov’erano finiti sotto organico perché decine di colleghi, pur di beneficiare dei due mesi d’aspettativa retribuita, s’erano candidati alle elezioni comunali. Dai penitenziari, tanto sono invivibili, provano a tenersi alla larga il più possibile persino i poliziotti. E svuotarli in qualche modo, giunti a questo punto, è una strada obbligata. Solo che nessuno ha il coraggio di dirlo. L’ex mafioso viene recuperato, ma l’ex stupratore seriale no di Matteo Indice La Stampa, 23 luglio 2018 Sconti di pena per entrambi, però uno esce e aggredisce una ragazza. L’affiliato alla cosca, tornato in libertà, trova lavoro in una cooperativa. L’alfa e l’omega del contrasto alla recidiva nei criminali che hanno compiuto reati gravi si sono materializzate nei mesi scorsi quasi in contemporanea fra Milano e Sulmona. Da una parte il caso di un ex violentatore seriale tornato ad aggredire una ragazzina, dopo aver beneficiato di sconti in un carcere “aperto”, con possibilità di studiare, fare sport e lavorare all’esterno. Dall’altra un condannato per mafia e omicidio, ex detenuto al 41bis, che di concessione in concessione ottiene la possibilità di lavorare in una cooperativa e ne diventa sindacalista, ma quando deflagra la polemica finisce in una strana, e un po’ ipocrita, zona grigia. La prima storia è quella di Edgar Bianchi, oggi quarantenne, il “maniaco dell’ascensore”. Quando il 28 settembre la squadra mobile di Milano arresta colui che due giorni prima ha provato a stuprare una ragazzina sulle scale d’un condominio, non ha ancora chiaro d’aver inseguito la stessa persona che, tra il 2004 e il 2006, ha abusato di 25 adolescenti a Genova. Bianchi, grazie al rito abbreviato e ai bonus per la buona condotta, ha espiato in toto la pena (formale) di 12 anni e 8 mesi, inanellando relazioni positive dagli psichiatri che l’avevano visitato dietro le sbarre. Giulia Bongiorno, avvocato che oggi è ministro alla Pubblica amministrazione, interviene al tempo su due punti: “Vanno impediti gli sconti automatici a chi compie gravi reati seriali e occorre pensare a una forma di castrazione chimica volontaria, poiché evidentemente non saranno detenuti all’infinito”. Cosa si sta facendo per evitare che, una volta scontata la pena, Edgar Bianchi sia di nuovo un pericolo pubblico? “Dopo la nuova condanna a 8 anni - spiega il difensore Paolo Tosoni - abbiamo rinunciato all’appello e al momento è in cella a Pavia, ma contiamo in una risposta positiva dal penitenziario di Bollate (dove si attuano speciali programmi di recupero sui detenuti e in primis sui criminali sessuali abbattendo i tassi di recidiva, ndr). Bianchi ha colpito di nuovo perché non è stato sottoposto a un percorso specifico”. Agli antipodi la vicenda di Sulmona (L’Aquila). Qui il protagonista è stato Guerino Avignone, cinquantenne, ex affiliato alla ‘ndrangheta e pregiudicato per omicidio e mafia. Reiterando richieste d’ammissione al lavoro esterno ottiene la possibilità di entrare nella coop “CreaService”, che vince l’appalto per il servizio di vigilanza agli immobili del Comune. Sembra un po’ una contraddizione in termini, ma Avignone in prigione ha studiato Economia, è protagonista delle trattative sindacali per tenere in vita la società e partecipa pure ai tavoli in municipio, con un assessore regionale e il sindaco. Lavora per sei mesi abbondanti, finché le polemiche non inducono il ministero della Giustizia a spostarlo altrove. Legittima difesa: così funziona negli altri paesi di Giulia Merlo Il Dubbio, 23 luglio 2018 La proposta leghista di presunzione nel caso di violazione di domicilio avvicinerebbe l’ordinamento italiano a quello francese. L’istituto della legittima difesa, previsto dall’articolo 52 del codice penale, è una causa di giustificazione del reato. Il codice, infatti, recita che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”, con l’aggiunta di un ulteriore comma, introdotto dalla legge n. 59 del 2006: “Nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma (reato di violazione di domicilio, ndr), sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno, legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati, usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: la propria o altrui incolumità; i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione. La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. I limiti legali della legittima difesa, dunque, sono l’attualità del pericolo (che deve essere imminente e persistente) e la proporzionalità della reazione rispetto all’offesa (valutata tenendo in considerazione vari fattori, tra cui i mezzi utilizzati, i beni giuridici contrapposti, l’inevitabilità della reazione). La riforma del 2006 ha introdotto la “presunzione di proporzione” nel caso del reato di violazione di domicilio: in questo caso, la scriminante della legittima difesa si applica nel caso sia in pericolo l’incolumità di una persona o di beni propri, nel caso in cui ci sia pericolo di aggressione e l’arma utilizzata sia legittimamente detenuta. Secondo la dottrina, l’onere della prova è in capo a chi invoca l’istituto, il quale deve dimostrare in sede processuale che la vittima o il ferito si trovassero illegittimamente nella proprietà altrui, che stessero mettendo a rischio l’incolumità di qualcuno e che non esistessero mezzi alternativi di difesa. Nei casi in cui il magistrato giudica di aver ecceduto oltre i limiti, l’agente ha commesso eccesso colposo di legittima difesa e dunque la condotta è punita a titolo di reato colposo. In altri termini, se per un errore di valutazione o un errore nell’utilizzo dei mezzi di difesa si arreca un danno maggiore di quello in realtà necessario, si risponde penalmente del fatto. L’ipotesi di riforma presentata dalla Lega, prevede di modificare l’articolo 52 introducendo la “presunzione di legittima difesa” nel caso in cui “colui che compie un atto per respingere l’ingresso o l’intrusione mediante effrazione o contro la volontà del proprietario o di chi ha la legittima disponibilità dell’immobile, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di una o più persone, con violazione del domicilio, ovvero in ogni altro luogo ove sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. La proposta elimina, dunque, la discrezionalità nella valutazione della sussistenza della legittima difesa ed elimina il requisito della proporzionalità tra offesa e difesa. Nel dibattito sulla riforma, tra le critiche mosse anche quella di favorire la diffusione di armi da fuoco come strumento di difesa domiciliare. Attualmente, in Italia, non esistono dati precisi sul numero di armi da fuoco detenute da privati: il numero si aggira intorno ai 7 milioni (11,9 armi da fuoco ogni 100 abitanti). Il numero di morti con armi da fuoco, invece, è maggiore rispetto alla maggior parte dell’Unione Europea, con 7 assassinii ogni milione di abitanti. Germania - Nel codice penale tedesco, la Notwehr è “quella difesa che è necessaria per respingere da sé o da altri un attacco presente: pertanto, non agisce anti giuridicamente chi commette un fatto imposto dalla legittima difesa”. Inoltre, è prevista la non punibilità per chi “eccede i limiti della difesa per turbamento, paura o panico”. L’ordinamento tedesco prevede un solo limite alla legittima difesa: l’esistenza di un pericolo imminente. Invece, non esiste alcun riferimento alla proporzionalità. Comparandola con l’articolo 52 del codice penale italiano, la norma è però più stringente: il pericolo, infatti, deve essere già presente e non basta il “pericolo imminente”. La soglia, teoricamente, è posticipata nel tempo rispetto alla difesa “anticipata” prevista dal nostro ordinamento. Nei fatti, però, l’interpretazione non è molto diversa da quella italiana: per individuare il momento in cui inizia lo stato di legittima difesa che giustifichi la reazione, i giuristi tedeschi fanno riferimento al momento del “pericolo immediato e diretto”, oppure al momento in cui “l’aggressore passa dallo stadio degli atti preparatori a quello del tentativo”. Interessante è la causa di non punibilità dell’agente qualora ecceda i limiti della legittima difesa per turbamento, paura o panico. La legge, infatti, considera condizioni soggettive del “difensore” e le considera delle esimenti. I casi considerati dal legislatore sono quelli di un attacco a sorpresa, come il caso dell’intruso notturno in una casa di famiglia e uno degli abitanti, preso dal panico, reagisca in modo esagerato e irrazionale. È non imputabile chi eccede nel modo della difesa: chi spara un colpo, per esempio, anche quando sarebbe sufficiente minacciarne l’uso. Quanto ai limiti temporali di questo eccesso, le interpretazioni sono diverse ma, a titolo esemplificativo, nel caso di un aggressore già ferito alle gambe da un colpo di pistola, un secondo colpo è giustificabile solo se l’aggredito ha ecceduto per paura o turbamento, non però per rabbia o volontà di vendetta. Anche in ipotesi di questo tipo, tuttavia, le corti tedesche si sono espresse in modo diverso. Con 25 milioni di pistole e fucili, la Germania è il paese con più “armato d’Europa” (30 ogni 100 abitanti). I causati da armi da fuoco, invece, sono in media 1,9 per milione di abitanti. Spagna - La legittima defensa spagnola, come quella tedesca, non prevede esplicitamente la proporzione tra offesa e difesa e contiene l’ipotesi di scriminante dettata dal panico. I requisiti sono: l’aggressione ingiusta, il pericolo grave e imminente; la ragionevole necessità del mezzo impiegato per impedirla o respingerla; la mancanza di adeguata provocazione da parte dell’aggredito. Inoltre, “in caso di difesa della dimora o delle sue dipendenze, si considera aggressione ingiusta l’indebita introduzione in esse”. Il codice spagnolo differenzia il caso in cui la difesa riguardi le persone o i beni patrimoniali: nel secondo caso, l’aggressore deve aver esposto i beni ad un pericolo grave ed imminente e che costituisca reato. Inoltre, aggiunge l’elemento soggettivo per cui l’agente non abbia provocato l’aggredito e agisca al solo fine di difendersi. Esiste infine l’istituto della “difesa incompleta”, che garantisce all’agente solo una attenuazione della pena ma non lo scrimina. Si applica nel caso in cui manchino i requisiti non essenziali dell’esimente della legittima difesa: giurisprudenzialmente, i casi riguardano l’ipotesi di sproporzione tra difesa e offesa. In Spagna le armi sono circa 4,5 milioni (10 ogni 100 abitanti), con in media 2 morti causate da fucili e pistole, ogni milione di abitanti. Francia - In base all’articolo 122- 5 del codice penale, “non risponde penalmente la persona che, a fronte di un attacco ingiustificato contro di sé o un’altra persona, compie, nello stesso momento, un atto imposto dalla necessità della legittima difesa, salvo che vi sia sproporzione tra i mezzi impiegati per la difesa e la gravità dell’attacco”. Il secondo comma prevede che “Non risponde penalmente la persona che, per interrompere l’esecuzione di un crimine o di un delitto contro un bene, commette un atto di difesa, diverso da un omicidio volontario, allorché questo atto sia strettamente necessario allo scopo perseguito, fintanto che i mezzi sono proporzionati alla gravità dell’infrazione”. Come in Spagna, si distinguono le ipotesi di difesa della persona e difesa del patrimonio e, in questo secondo caso, si applica un regime più stringente (posticipando al massimo il momento in cui sia legittima la difesa e proporzionandola alla gravità del reato). Come in Italia, invece, si prevede il requisito della proporzionalità tra difesa e offesa. Inoltre, è prevista la legittima difesa in due circostanze: per respingere, di notte, l’ingresso con effrazione, violenza o inganno in un luogo abitato; per difendersi dagli autori di furto o saccheggio eseguiti con violenza. In questi casi, si inverte l’onere probatorio: è la pubblica accusa a dover dimostrare che non sussistano i requisiti della presunta legittima difesa. La Francia conta 19 milioni di armi (31 ogni 100 abitanti), ma il tasso di mortalità per armi da fuoco è tra i più bassi: 0,6 morti ogni milione di abitanti. Gran Bretagna - Il Regno Unito è un sistema di common law, dunque la self defence poggia le proprie basi in diverse fonti normative. In generale, si può dire che consista “nell’uso legittimo della forza, in difesa di un determinato diritto privato o pubblico, a determinati scopi”, come prevede il Criminal Law Act. Le forme di legittima difesa si differenziano a seconda degli scopi perseguiti: la legittima difesa privata (che più si avvicina alla legittima difesa di civil law) ricorre nel caso in cui l’uso della forza sia finalizzato a proteggere l’agente o un terzo da una aggressione ingiusta alla vita, all’incolumità fisica o alla compressione della libertà personale. Un altra forma di legittima difesa, prevista dal Criminal Damage Act, è volta “a proteggere la proprietà da una illegittima appropriazione”. I presupposti sono che l’uso della forza sia “necessario” e non ecceda il limite della “ragionevolezza”. Quanto alla necessità, la valutazione spetta alle corti, ma i requisiti fondamentali sono: se l’agente poteva ritirarsi dalla situazione di pericolo, se la minaccia era imminente, se l’agente ha commesso errori che hanno indotto a ritenere che il proprio agire era giustificato. L’imminenza della minaccia si ha nel caso in cui il “sussista un pericolo apprezzabile” e sia impossibile “far ricorso alla protezione della forza pubblica e di riceverne tutela efficace”, ma l’aggressione deve essere comunque almeno iniziata. Il limite di “ragionevolezza”, secondo la giurisprudenza inglese, si misura in rapporto alla necessità difensiva, ovvero alla situazione di pericolo che l’agente si trova a fronteggiare. Il parametro è il cosiddetto “reasonable person standard”, ovvero la condotta della persona media ordinariamente prudente. Il criterio è stato precisato nel Criminal Justice and Immigration Act del 2008, in cui si chiarisce che va valutata la percezione - “genuina e non alterata” - della vittima rispetto al pericolo a cui essa è stata esposta in diretta conseguenza dell’aggressione di terzi. La nozione di legittima difesa è stata ulteriormente delimitata nel 2012, che ha incluso la difesa dei propri beni. In questa circostanza, la legge fa esplicito riferimento alla possibile fuga dell’aggressore, che fa venire meno il pericolo per la vittima. L’anno successivo, nel Crime and Courts Act 2013, si è stabilito che un uso anche non proporzionato della forza è legittimo nel caso della difesa del proprio luogo di residenza dall’intrusione non autorizzata di terzi. Questo però non si può invocare nel caso di aggressore in fuga, né nel caso di agguati nei confronti degli intrusi in procinto di commettere reati. In Gran Bretagna le armi da fuoco sono circa 4 milioni (6,5 ogni 100 abitanti), con un tasso di mortalità dovuta a sparatorie di 0,7 morti ogni milione di abitanti. Usa - Negli Stati Uniti la legittima difesa opera in modo diverso da Stato a Stato, fermi però i principi costituzionali dell’inviolabilità della proprietà privata e del diritto a possedere armi. Alcuni Stati, come la Florida e il Nevada, sono i più permissivi e applicano il cosiddetto “stand your ground” (difendi il tuo territorio), per cui il cittadino ha diritto a rispondere con qualsiasi mezzo, anche con armi da fuoco, se sente minacciata la propria incolumità. Gli unici limiti sono che colui che ha agito non avesse alternative (come la fuga o la richiesta di aiuto) e che la sua percezione del pericolo imminente fosse fondata: entrambi devono essere dimostrati davanti al giudice. Anche il diritto a difendere la proprietà privata varia a seconda degli Stati. In Texas, per esempio, il proprietario è autorizzato a rispondere con forza letale se qualcuno entra nel suo terreno. Altri Stati, invece, impongono che per usare la forza sia necessario che l’intruso superi la porta di casa in modo deliberato. In materia oggi vige la cosiddetta “Castle doctrine”, recepita dalla maggior parte degli Stati, che prevede dei precisi requisiti per invocare la legittima difesa: il luogo in cui sia lecito difendersi è di regola la casa; chi intende difendersi deve occuparla in modo lecito; l’aggressione deve essere illecita; chi intende difendersi deve aver tentato una ritirata o una reazione non mortale, salvo che questo non risulti inattuabile o troppo rischioso; l’entità dell’offesa deve essere tale da far credere in modo ragionevole che l’aggressore intenda infliggere la morte o gravi lesioni a chi si trova in casa; chi si difende non deve aver precedentemente dato causa all’aggressione. Quanto ai dati sulla diffusione delle armi da fuoco, negli Stati Uniti circolano mediamente tra i 270 e i 310 milioni di armi (i media 88.8 armi ogni 100 abitanti) e hanno provocato - secondo i dati del 2014 - 105,4 vittime ogni milione di abitanti. Il cittadino ha facoltà di arrestare il delinquente di Francesco Barresi Italia Oggi, 23 luglio 2018 Un cittadino ha la piena facoltà di poter arrestare un delinquente. Lo chiarisce la II sezione penale della Suprema corte di cassazione nella sentenza 23901/2018, che ha esaminato un particolare ricorso da parte del procuratore della repubblica del tribunale di Savona. Questo perché il giudice monocratico, nel 31 gennaio di quest’anno, non aveva convalidato l’arresto di un uomo perché operato da un cittadino durante un tentativo di rapina. Da qui la querelle che si è protratta sino alle porte del Palazzaccio di Roma, dove i porporati di piazza Cavour hanno esaminato il ricorso accogliendo i motivi di doglianza del procuratore generale della Repubblica, redigendo il tutto in forma semplificata considerando la peculiarità della lite. Pertanto gli ermellini hanno chiosato che “il ricorso è fondato”, perché “va escluso, secondo quanto testualmente riportato nel verbale di arresto, che ci si trovi dinanzi a un’ipotesi in cui il privato non abbia proceduto all’arresto ma si sia limitato a invitare il presunto reo ad attendere l’arrivo degli organi di polizia”, proseguono i giudici, “in quanto si fa espresso riferimento a un intervento con cui si adoperava per far cessare la presunta rapina”. Quindi l’operato del cittadino è stato intenzionale per bloccare il tentativo di rapina, procedendo a un arresto autonomo e provvidenziale, “mentre altri si assicuravano che l’aggressore rimanesse sul posto sino all’arrivo della polizia”. Soprattutto perché “sussistevano ex ante gli elementi fattuali da cui poteva ragionevolmente desumersi la commissione, ai danni della vittima, del delitto di rapina e, dunque, legittimarsi, ai sensi dell’articolo 383 del codice di procedura penale, l’arresto facoltativo del privato”, spiegano i magistrati supremi in punto di diritto, “in quanto l’esclusione del fine di profitto non poteva ricavarsi in quel momento né dal movente riferito”. Avendo argomentato su tutta la linea, la Corte suprema di cassazione ha infine sciolto il dubbio sul piano della legittimità, confermando la sentenza “annullata senza rinvio l’ordinanza di non convalida impugnata, dichiarandosi legittimo l’arresto operato dai privati e la successiva consegna alla polizia”. L’errore del legale non è una questione di casualità Italia Oggi, 23 luglio 2018 Gli errori non appartengono alla casualità. Così la Cassazione, nella sentenza 18085/2018 del 21 marzo, ha respinto il ricorso di un legale che, per una distrazione o una valutazione estemporanea, non ha esaminato completamente il dispositivo della sentenza tralasciando, forse, il dato più determinante: i tempi per proporre il ricorso. Stando ai fatti riportati dal dispositivo di legge il collega che lo aveva sostituito “gli aveva erroneamente riferito che si era limitato a leggere il dispositivo, non indicando i termini per il deposito della motivazione”. Scaduti i 15 giorni previsti per il deposito della motivazione, e vedendo che il deposito non era avvenuto, il difensore di fiducia si limitava ad attendere la notifica dell’avviso di deposito della sentenza da parte della Cancelleria. Quando il legale però ricevette la notifica di esecuzione per la carcerazione del suo cliente, solo allora capì “che il giudice si era riservato il termine di 60 giorni per il deposito e che la sentenza era stata, pertanto, depositata nei termini”. La Corte d’appello ha ravvisato incuria e negligenza nell’operato dei legali che, sul gradino della Cassazione, hanno provato a spiegare l’incidente come “una falsa rappresentazione iniziale della realtà, dettata dalla errata percezione in udienza da parte del collega di studio”. Ma i porporati hanno sentenziato in maniera molto chiara, perché “il mancato o inesatto adempimento da parte del difensore di fiducia dell’incarico di proporre impugnazione, a qualsiasi causa ascrivibile, non è idoneo a realizzare le ipotesi di caso fortuito o di forza maggiore”, spiegano i giudici, “che si concretano in forze impeditive non altrimenti vincibili, le quali legittimano la restituzione in termini, sia perché l’omesso o inesatto adempimento deriva da una falsa rappresentazione della realtà, superabile mediante la normale diligenza e attenzione, sia perché non può essere esclusa in via presuntiva la sussistenza di un onere dell’assistito di vigilare sull’esatta osservanza dell’incarico conferito, nelle ipotesi in cui il controllo sull’adempimento defensionale non sia impedito al comune cittadino da un complesso quadro normativo”. Nulla la sentenza in anticipo sull’orario Italia Oggi, 23 luglio 2018 Nulla la sentenza pronunciata in anticipo rispetto agli orari concordati. Lo conferma la IV sezione penale della Cassazione, nella sentenza 18431/2018 del 23 marzo, che si è pronunciata sull’emissione di una sentenza “frettolosa” rispetto al consueto iter giudiziario. Nel 2017 il gip del tribunale di Larino, su indicazioni del pubblico ministero, ha condannato due uomini per detenzione di arma da fuoco, di taglio e spaccio di droga. Pena concordata: 3 anni, 8 mesi e 30 mila euro di multa. Il procedimento era stato fissato alle 13,45 presso il tribunale di Larino, gli avvisi regolarmente inviati sia ai difensori che agli interpreti albanesi. Ma nel momento in cui i due condannati venivano trasferiti in carcere la sentenza, intorno le 10,20, era già stata emessa “in assenza degli imputati e con nomina di un difensore di ufficio”. A quel punto le parti difensive hanno proposto ricorso contro la celebrazione anticipata del processo, richiamando la nullità ai sensi dell’articolo 97, comma 4, del codice di procedura penale (difensore d’ufficio) “in quanto, anche la trattazione anticipata della causa, rispetto all’ora prefissata impedisce l’intervento dell’imputato e l’esercizio del diritto di difesa, equivalendo, ad una omessa citazione”. Inoltre la sentenza non era stata tradotta in lingua albanese. E il procuratore generale, con requisitoria scritta, chiese l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con trasmissione degli atti al tribunale di Larino per l’ulteriore corso. A questo si aggiunsero le motivazioni della Corte di cassazione che, bacchettando in sordina il giudice, accolse il motivo di ricorso dei legali. “Occorre rilevare come l’anticipazione dell’udienza rispetto all’ora prefissata”, commentano i porporati di piazza Cavour, “integri una nullità assoluta, in quanto, impedendo l’intervento dell’imputato e l’esercizio del diritto di difesa, equivale alla sua omessa citazione. E risulta evidente la fondatezza del primo motivo di ricorso formulato da entrambi gli imputati”, chiosano gli ermellini, “stante la palese illegittimità della celebrazione del processo a loro carico in orario anticipato rispetto a quello stabilito e comunicato nell’avviso”. Diritto d’autore: protezione penale del software. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2018 Diritto d’autore - Reato ex art. 171 bis, c. 1, l. 633/1941 - Programmi privi di contrassegno Siae - Detenzione e utilizzo in ambito professionale - Configurabilità - Esclusione. Mentre non integra il reato di cui all’art. 171 bis, comma primo, L. 27 aprile 1941, n. 633, la detenzione e utilizzazione, nell’ambito di un’attività libero professionale, di programmi per elaboratore privi di contrassegno Siae, non rientrando tale attività in quella “commerciale o imprenditoriale” contemplata dalla fattispecie incriminatrice (l’estensione analogica non sarebbe possibile in quanto vietata ex art. 14 Preleggi, risolvendosi in un’applicazione “in malam partem”), la stessa detenzione e utilizzazione di programmi software (nella specie Windows, e programmi di grafica, Autocad o Catia) nel campo commerciale o industriale integra il reato in oggetto, con la possibilità del sequestro per l’accertamento della duplicazione. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 4 luglio 2018 n. 30047. Beni immateriali: tutela penale - Diritti di autore sulle opere dell’ingegno (proprietà intellettuale) - Attività professionale di assistenza in campo informatico - Detenzione di programmi per elaboratore elettronici non originali - Finalità di commercio della detenzione - Reato previsto dall’art. 171 bis, comma primo, della legge n. 633 del 1941 - Configurabilità - Fattispecie. In tema di tutela penale del diritto di autore, la detenzione di programmi per elaboratore elettronico abusivamente duplicati dagli originali da parte di soggetto esercente professionalmente l’attività di assistenza in campo informatico può integrare il reato previsto dall’art. 171-bis, comma primo, della legge 22 aprile 1941, n. 633, poiché la finalità di commercio della detenzione medesima non deve essere valutata esclusivamente con riguardo alla vendita diretta dei programmi, ma anche alla installazione dei medesimi sugli apparecchi affidati in assistenza e, più in generale, alla loro utilizzazione in favore dei clienti. (In motivazione, la Corte ha precisato che, ai fini della configurabilità del reato, la detenzione di supporti abusivamente duplicati e privi di contrassegno Siae in epoca precedente all’entrata in vigore del D.P.C.M. 23 febbraio 2009, n. 31, assume rilevanza solo se ai medesimi detentori sia ascrivibile anche la condotta di abusiva duplicazione). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 13 febbraio 2014 n. 6988. Beni immateriali: tutela penale - Diritti di autore sulle opere dell’ingegno (proprietà intellettuale) - Programmi per elaboratore elettronico - Creatività dell’opera - Requisiti. Ai fini dell’integrazione del reato previsto dall’art. 171-bis, legge 22 aprile 1941, n. 633, sono tutelati dal diritto d’autore, quale risultato di creazione intellettuale, i programmi per elaboratore elettronico, intesi come un complesso di informazioni o istruzioni idonee a far eseguire al sistema informatico determinate operazioni, che siano completamente nuovi o forniscano un apporto innovativo nel settore, esprimendo soluzioni migliori o diverse da quelle preesistenti. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 1° marzo 2012 n. 8011. Professioni - Studi professionali - Programmi informatici - Duplicazione abusiva - Concorso nel reato - Presupposti - Prova - Illecita detenzione - Scopo professionale - Analogia - Supporti privi del contrassegno Siae - Diritto comunitario - Regole tecniche - Comunicazioni alla commissione - Difetto - Obbligo del privato - Incidenza - Conseguenze penali. Il reato di illecita detenzione di programmi privi del contrassegno Siae, contestabile quando la detenzione ha luogo a scopo commerciale o imprenditoriale, non si riferisce anche alla detenzione e utilizzazione nell’ambito di un’attività libero professionale. Né può opporsi al riguardo l’assunto secondo cui ogni utilizzo che non sia personale possegga i requisiti di uno degli scopi sanzionati dalla menzionata disposizione perché tale assunto muove da un’erronea e vietata applicazione analogica della stessa disposizione a casi che ne sono estranei. L’illecita detenzione, per gli scopi sanzionati, riguarda i programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla Siae, ma non i programmi abusivamente duplicati. Poiché lo Stato italiano non ha rispettato l’impegno di comunicare alla Commissione europea l’introduzione nel proprio ordinamento dell’obbligo di apposizione del contrassegno Siae quale regola tecnica in materia di commercializzazione di programmi informatici, tale obbligo non è opponibile ai privati e, pertanto, non è contestabile a questi né la relativa violazione né la conseguenza sul piano penale dettata dall’articolo 171-bis della legge sul diritto d’autore. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 dicembre 2009 n. 49385. Beni immateriali: tutela penale - Diritti di autore sulle opere dell’ingegno (proprietà intellettuale) - Detenzione, a scopo imprenditoriale o commerciale, di programmi privi del contrassegno Siae - Riferibilità anche ai programmi abusivamente duplicati - Esclusione. Il reato di illecita importazione, distribuzione, vendita, detenzione, concessione in locazione di programmi per elaboratore ha a oggetto esclusivamente programmi contenuti su supporti privi del contrassegno Siae e non anche quelli abusivamente duplicati. (In motivazione la Corte ha precisato che tale estensione analogica è vietata dall’art. 14 Preleggi, in quanto determinerebbe un’applicazione “in malam partem” della fattispecie incriminatrice). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 22 dicembre 2009 n. 49385. Sardegna: carceri, su 2380 detenuti solo il 37% è sardo La Nuova Sardegna, 23 luglio 2018 L’analisi di Sseo sulla base dei dati Istat: appena 45 le donne recluse nei penitenziari isolani. In Sardegna i detenuti sono complessivamente 2.380. Solo il 2% di loro sono donne, mentre il 63% non è nato in Sardegna. Il Sseo, Sardinian socio economic observatory, ha scattato una fotografia sulla composizione della popolazione carceraria in Sardegna utilizzando i dati Istat relativi al 2017. In particolare ha scorporato i dati per capire quante donne siano rinchiuse nei penitenziari sardi, e da quali regioni e da quali paesi provengano i detenuti. I numeri che vengono fuori dall’indagine rivelano alcuna sorpresa, soprattutto per quanto riguarda la provenienza geografica dei detenuti. Secondo gli analisti dell’Osservatorio, al 31 dicembre del 2017 erano presenti in Sardegna 2.380 carcerati di cui appena 45 rappresentati da persone di genere femminile, pari al 2% del totale. Per quanto riguarda la provenienza va segnalato che il 37,6% risulta essere nato in Sardegna (ossia 895 detenuti, comprese 23 donne), mentre il restante 63,4% risulta essere nato al di fuori dell’isola: 650 sono i detenuti nati in Italia (pari al 27,3%) mentre i restanti 835 (pari al 35,1%) provengono da tutti gli altri paesi esteri. Per quanto riguarda i detenuti nati in altre regioni italiane va segnalato che le comunità più numerose sono quelle formate dai nati in Sicilia (211 soggetti pari all’8,9%) e in Campania (203 soggetti pari all’8,5%). Segue la comunità carceraria dei calabresi, con il 4,3% del totale: sono 111 le persone detenute provenienti da quella regione. Complessivamente, proviene dalle regioni del sud Italia il 25% dei detenuti presenti in Sardegna, lo 0,6% dalle regioni del centro Italia e poco meno del 2% dalle regioni del nord Italia. Per quanto riguarda invece la provenienza da altri paesi, la distribuzione per continente ci dice che complessivamente appena l’1% proviene dalle Americhe e principalmente dall’America del Sud, il 3% dall’Asia equamente distribuiti tra medio oriente e altri paesi asiatici, dall’Europa l’8% (esclusi i cittadini nati in Italia ed in Sardegna), mentre il restante 22%, pari a 529 soggetti, proviene dai paesi africani principalmente e da quelli del nord Africa. A guidare la graduatoria dei paesi esteri con più detenuti presenti nelle carceri sarde è invece il Marocco, con 192 detenuti, seguito dalla Tunisia con 88 e dalla Nigeria con 72. Chiudono la classifica l’Algeria, con 47 detenuti, l’Albania con 44. Infine la Romania, la comunità meno numerosa, con soltanto 19 detenuti. Lombardia: ai detenuti un aiuto per le pratiche Italia Oggi, 23 luglio 2018 Raccogliere le richieste e le segnalazioni di disagi da parte dei detenuti; facilitare il loro rapporto con gli enti della p.a. (Inps, Aler, Agenzia delle entrate) per il disbrigo delle pratiche su pensioni, invalidità, tasse; monitorare l’effettivo accesso ai servizi sanitari (prenotazioni esami clinici, somministrazione delle cure) e il regolare svolgimento di corsi e certificazioni scolastiche e professionali. Queste alcune delle competenze che verranno svolte dallo “Sportello del garante”, aperto dal 21 giugno scorso nel carcere di Opera (Mi) e che presto sarà replicato negli istituti penitenziari di Monza, Bollate e San Vittore. Un ufficio a disposizione dei detenuti e delle loro famiglie per consentire, anche a chi si trova in condizioni di restrizione della libertà personale, di accedere ai servizi previsti dalla legge, garantendo la reale fruizione dei diritti civili. L’iniziativa illustrata dal difensore regionale della Lombardia, Carlo Lio, che svolge anche le funzioni di garante dei detenuti, è stata avviata grazie a un accordo con il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. “Obbiettivo di questo progetto è avvicinare i detenuti all’istituzione che li tutela aprendo sportelli direttamente accessibili all’interno del carcere. È un segnale di vicinanza e di attenzione da parte della regione. Il mio intento è portare il lavoro che inizia oggi in tutte le carceri della Lombardia, avviando collaborazioni con gli uffici dei Garanti dei cittadini nei comuni sedi di case di reclusione”, ha spiegato Carlo Lio. Quella avviata dal difensore regionale della Lombardia è una delle prime esperienze di sportello aperto da un’istituzione direttamente nel carcere. Molti paesi europei prevedono una fi gura di garanzia dei diritti delle persone private della libertà. Scopo dell’Ombudsman è individuare eventuali criticità e, in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare soluzioni per risolverle, limitando quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami da parte dalle persone ristrette. Torino: i detenuti del Ferrante Aporti si raccontano in rima attraverso il rap torinoggi.it, 23 luglio 2018 Due laboratori, a Torino e Bari, organizzati dall’associazione Defence for Children Italia, con la collaborazione del rapper e attivista Kento. Sono usciti i videoclip delle due canzoni - “Carta e Penna” e “Dimenticati” - scritte dai giovanissimi detenuti degli Istituti Penali per i Minorenni di Bari (Ipm Fornelli) e Torino (Ipm Ferrante Aporti). Musica e video sono il frutto di due laboratori organizzati dall’associazione Defence for Children Italia nell’ambito del progetto europeo “Favorire la partecipazione dei ragazzi privati della libertà - Crbb 2.0” e con il supporto del rapper e attivista Kento. Attraverso una riflessione basata sui diritti umani sanciti dalla Convenzione Onu sui Diritti del Fanciullo, i ragazzi hanno ripensato alla propria esperienza di vita e le loro prospettive sono state raccolte all’interno delle due canzoni. I videoclip sono stati realizzati con la regia di Michele Imperio. “Il tentativo del percorso condotto con i ragazzi” afferma il direttore di Defence for Children Italia, Pippo Costella, “è stato quello di uscire dalla classica narrazione carceraria, che tende spesso a stigmatizzare e rischia di richiudere le storie all’interno di percorsi circolari che non trovano possibilità di cambiamento”. I diritti sono stati utilizzati come mezzo per dare un senso all’esperienza penale dei singoli ragazzi perché, come cita una delle canzoni, “di certo questa cella non racchiude la mia storia”. I due testi descrivono i messaggi e le prospettive dei ragazzi sul mondo. Appaiono piuttosto duri quando affermano: “siamo dei ragazzi con i sogni bombardati, chiusi in gabbia, dallo stato dimenticati”; ma sono anche pieni di speranza e lungimiranza (“chiuso in questa casa la mia mente sfasa, i miei sogni oltre gli obiettivi della Nasa”) e consapevolezza sulle possibili alternative (“quello che mi porta fuori dalla prigione sarà la cultura e l’educazione”). Per il rapper Kento non si tratta della prima esperienza da “docente dietro le sbarre” ma probabilmente la più significativa: “La scuola, la comunità di recupero, il carcere minorile sono delle realtà solo apparentemente molto lontane. L’esigenza dei ragazzi di esprimersi, e la voglia di farlo attraverso il rap, sono due costanti che attraversano tutte le fasce sociali e culturali. Il nostro primo obiettivo era quello di aiutare questi giovanissimi detenuti a “dire la loro”. Adesso puntiamo all’obiettivo più ambizioso, che è quello di far sentire la loro voce e le loro giustissime richieste in tutta Italia”. Il progetto, condotto da Defence for Children in Italia, in sinergia con il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità del Ministero della Giustizia, è co-finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione Europea e coinvolge un partenariato transnazionale che comprende cinque organizzazioni internazionali con esperienza nell’ambito della giustizia minorile in Europa. Le musiche su cui i ragazzi hanno scritto sono state composte da Gian “Knot” Flores e Mastafive, alla registrazione e mastering hanno collaborato anche Egidio Rondinone ed Andrea Mondi. Entro fine anno sarà prodotto e diffuso un documentario che contiene voci, esperienze e prospettive dei ragazzi e degli operatori che hanno preso parte al progetto. Sondrio: note per “evadere”, la musica in carcere è sempre più di casa di Filippo Tommaso Ceriani La Provincia di Sondrio, 23 luglio 2018 “L’Orchestra Immaginaria” ha conquistato tutti. Originale concerto nel cortile della Casa circondariale. Da settembre via a un corso di percussioni per i detenuti. Grandissima serata quella di giovedì scorso alla Casa Circondariale di via Caimi: ennesima conferma di come la musica, in tutte le sue - tante - forme, riesca a unire e a coinvolgere veramente chiunque. Una felicissima Stefania Mussio, direttrice del penitenziario del capoluogo, ha introdotto la serata musicale che ha visto esibirsi “L’Orchestra Immaginaria”, ossia il duo formato dagli eclettici Alex De Simoni e Alessandro Balatti, musicisti e compositori ben noti sia a livello locale che fuori provincia. Strumenti sorprendenti Pur con un tempo abbastanza incerto (le nuvole c’erano, così come qualche goccia si è fatta sentire) la direttrice ha voluto mantenere l’evento all’esterno, nel cortile del carcere, e la scelta si è rivelata delle migliori: tutti hanno così potuto apprezzare, in uno spazio sicuramente più ampio dell’interno, sia il suono di strumenti noti quali la fisarmonica e l’eufonio, che quello di altri non convenzionali, tipo il clacson della bicicletta, che De Simoni e Balatti sono riusciti a unire perfettamente, creando così melodie originalissime. Il gruppo de “L’Orchestra Immaginaria” è - hanno spiegato i due musicisti - “un viaggio, una raccolta di immagini, una collezione di cose immaginate”. E appunto De Simoni e Balatti sono riusciti per un’oretta a far “evadere” dai pensieri di tutti i giorni le persone detenute e anche gli altri presenti, tra cui alcuni volontari che qui prestano servizio e il cappellano don Ferruccio Citterio, sempre attivo e vicino a questa realtà cittadina che, a poco a poco, sicuramente grazie all’energia della direzione, sta iniziando a farsi conoscere ad un pubblico sempre più numeroso. La collaborazione con la Civica “Ringrazio i due Alessandro (Balatti e De Simoni) e la Civica Scuola di Musica - così ha detto la direttrice Mussio, rivolgendosi anche a Luca Trabucchi in rappresentanza della Civica - per la vicinanza e l’aiuto: già due anni fa i componenti dell’Orchestra giovanile Alpinae Gentes (ramo della stessa scuola di musica) erano riusciti a farci emozionare, così ha fatto anche “L’Orchestra Immaginaria”. E sempre in tema di musica introducendo i due artisti, Mussio ha anticipato un’attività che vedrà protagoniste le persone detenute a partire da settembre, ossia un corso di percussioni all’interno della casa circondariale con la collaborazione della Civica Scuola di Musica di Sondrio. Terminato il concerto i presenti hanno avuto modo di cenare in compagnia con la pasta senza glutine “1908”. “1908” a Torre Santa Maria Tra pochi giorni ancora un altro evento, questa volta non all’interno del carcere, ma a Torre di Santa Maria, avrà come protagonista la pasta prodotta all’interno dell’istituto penitenziario: al “Tec de Tucc” in via Lipalto mercoledì 25 ci sarà la possibilità, grazie alla Cooperativa Ippogrifo e all’Aido Valmalenco, dalle 19.30, di degustare e conoscere il prodotto, adatto a tutti in quanto appunto privo di glutine. A seguire, dalle 21, la direttrice Mussio terrà una conferenza dal titolo “Carcere: quale futuro”. Varese: “Voci Spiegate”, l’ultimo album tratto dal laboratorio hip hop nel carcere exhimusic.com, 23 luglio 2018 Il progetto “Voci spiegate” si compone di una serie di laboratori incentrati sul rap e la cultura Hip Hop in luoghi come carceri e centri di accoglienza. Il progetto si pone come obiettivo quello di sviluppare il lato creativo ed espressivo dei partecipanti, nato da un’idea di Mirko Filice in arte Kiave, il primo laboratorio risale al 2014 nel carcere di Monza. È da oggi disponibile l’ultimo album frutto del laboratorio dei detenuti della casa circondariale di Varese. Attraverso 15 lezioni Kiave ha lavorato con alcuni detenuti del carcere varesino offrendo loro i mezzi tecnici e artistici per poter scrivere autonomamente testi musicali Rap e cantarli, utilizzando così la musica e la scrittura come strumento per combattere la noia, la rabbia o la rinuncia al desiderio di esprimersi che un luogo come una cella può imporre. Il 21 aprile si è tenuto il live di conclusione del progetto durante il quale si sono esibiti i ragazzi detenuti affiancati da Kiave. La squadra sul palco composta da Pach, Tony, Domino e Labi, ha superato ogni aspettativa durante l’esibizione dimostrando come la musica può vincere ogni barriera fisica e personale. È disponibile anche il video del live diretto da Ambra Parola. Il successo del progetto ha portato Kiave alla collaborazione con la Street Arts Academy, un’ associazione di promozione sociale che si occupa di progetti e attività educative condotte attraverso le discipline classiche e gli elementi della cultura Hip Hop. Una realtà che incarna perfettamente lo spirito con il quale il rapper cosentino affronta la responsabilità derivante dall’impatto che la musica può avere nella società. Il progetto “Voci spiegate” prende vita nel 2014. I primi laboratori vengono portati avanti nella Casa circondariale di Monza riscuotendo ottimi risultati tanto da guadagnarsi la riconferma per i due anni successivi (2014 - 2015 - 2016). In seguito il progetto è stato proposto e portato a termine nel Carcere minorile Beccaria di Milano (2016), allo Sprar di Rho (2017) e infine al carcere di Varese (2018). Tutti gli incontri del laboratorio sono collegati da un filo rosso che attinge ai valori originali che la cultura Hip Hop offre. Un’attenzione particolare viene data alla lotta contro le discriminazioni (di qualsiasi tipo, sia razziali, sociali che sessuali), che risultano sempre attuali, ma, se combattute attraverso l’arte, potenzialmente affrontabili. Il Rap viene proposto come mezzo per allontanarsi dalla vita di strada, e far confluire le energie negative in impulsi creativi. Kiave è uno dei rapper più apprezzati del panorama nazionale, capace di far convivere testi profondi con il più puro intrattenimento: partito come indiscusso campione di freestyle è diventato con gli anni un abile liricista e fine compositore della forma canzone più classica, amato soprattutto per la sua abilità nello storytelling. Da sempre attento all’influenza e all’impatto che la musica può avere nella società, negli ultimi anni è stato protagonista di molte attività legate al sociale, tra cui diversi workshop con i detenuti e richiedenti asilo. Firenze: a Sollicciano la partita detenuti contro la Softball Sestese reportsport.it, 23 luglio 2018 Sabato 21 luglio 2018, dalle 9 alle 12, sul campo sportivo di Sollicciano si è svolta una partita di softball tra un gruppo di detenuti di Sollicciano e gli atleti della Società Softball Sestese. La partita è arrivata a conclusione di uno dei molteplici progetti scolastici, realizzati all’interno delle carceri fiorentine dal Cpia 1 Firenze, che si è svolto tra maggio e luglio di quest’anno e ha coinvolto 30 allievi della scuola dell’ordinario maschile, di nazionalità diverse. il progetto è stato realizzato e condotto dall’ins. Simona Grateni, dall’ex l’ex manager della nazionale italiana femminile Marina Centrone e in partenariato con il Comitato Regionale Toscana Baseball e Softball. “Nel contesto carcerario “L’attività ricreativa e sportiva ha un particolare significato nel quadro del programma rieducativo che, per come è concepito dalla Legge n. 354 del 1975, è inteso a promuovere lo sviluppo armonico e globale della personalità del detenuto.” Il progetto si è svolto all’interno dell’Istituto in palestra e/o campo da gioco; nell’anno scolastico 2018/19 l’insegnante proverà, di nuovo, a proporlo anche presso la sezione Femminile. Il progetto è unico nel panorama scolastico, carcerario, sportivo nazionale. Per la cronaca Sollicciano 8-Sestese 6. Abstract del progetto (descrizione sintetica della proposta progettuale) Il progetto intendeva offrire alle persone recluse presso la Casa Circondariale N.C.P. di Sollicciano(Firenze) la prospettiva di una possibile e completa integrazione dando loro la possibilità di realizzare le proprie capacità atletiche, di fare squadra e condividere una tattica di gioco. Perché lo sport, unito all’attività scolastica, può essere un veicolo di socializzazione e di reintegrazione sociale. Ciò si verifica, soprattutto, negli sport di squadra e comunque nelle attività fatte in gruppo: esistono delle regole, sia quelle che riguardano il gioco stesso (baseball/softball) che sono preesistenti, sia quelle che riguardano la preparazione tecnica ed atletica, che ogni gruppo si dà liberamente, tenendo conto della propria esperienza. Il progetto prevede il sostegno all’attività sportiva come fattore di recupero e integrazione sociale all’interno di un luogo di particolare fragilità, disagio e disadattamento per favorire l’inclusione delle persone recluse in quanto adulti socialmente svantaggiati per le cause più differenti, e che solitamente presentano alcune delle seguenti caratteristiche: periodi di carcerazione più o meno lunghi; esperienze di tossicodipendenza o alcol-dipendenza; assenza dei diritti minimi di cittadinanza (stranieri irregolari); un ambito relazionale di forte disagio, di esclusione o autoesclusione; scarse o nulle competenze tecniche lavorative, comunque poco spendibili sul territorio; incapacità a svolgere le funzioni minime genitoriali, in caso di presenza di minori. Il diritto di escludere non è legittimo di Donatella Di Cesare Corriere della Sera, 23 luglio 2018 La migrazione di oggi nasce nella modernità, quando si scopre che il globo è finito e va condiviso. Migrare è un atto esistenziale e politico, dovuto a numerosi motivi, patito, ma anche scelto. Si può dire che la cultura europea taccia sul tema della migrazione? Se le voci di intellettuali, scrittori, filosofi, non trovano risonanza, è perché sono coperte dal frastuono assordante dei benpensanti che si nutrono d’indifferenza e dei criptorazzisti che praticano il gergo dell’aggressione. Questo vale tanto più per l’Italia dove si preferisce dare la parola a vip, cantanti, cuochi (con tutto il rispetto per loro), piuttosto che lasciar parlare un intellettuale. Vale la pena ricordare che il dibattito sulla migrazione è iniziato nell’America degli anni ‘80. Già per John Rawls il fenomeno avrebbe dovuto essere eliminato o disciplinato. Ma il primo a teorizzare i confini chiusi è stato Michael Walzer che si è sempre mosso nel solco di una politica reazionaria e normativa. Oltre a essere stato il teorico della “guerra giusta”, può vantare un altro grave primato: dopo di lui la democrazia diventa compatibile con la politica dell’esclusione. I partigiani dei confini chiusi sostengono tre argomenti: l’autodeterminazione del popolo; la difesa dell’integrità nazionale; la proprietà territoriale. I promotori dei confini aperti, per primo Joseph Carens, si limitano alla richiesta di circolazione. Non è che l’altra faccia del neoliberismo. Ma chi ha subìto le sevizie della guerra, cha sopportato la fame, la miseria, non chiede di circolare liberamente dove che sia; spera piuttosto di essere accolto. Mentre il dibattito angloamericano ha assunto toni morali, in Europa si è posto il problema dell’ospitalità. Lo ha fatto, in modo forse assoluto, Jacques Derrida. Ma una parte della filosofia europea è stata ed è chiara: riconoscere la precedenza dell’altro vuol dire aprirsi a un’etica della prossimità e ad una politica della coabitazione. Come dimenticare poi il duro monito contro i campi di internamento lanciato da molti, di recente dal francese Michel Agier? No, la cultura europea non tace. Tanto meno quella italiana dove, scrittori come Alessandro Leogrande, scomparso troppo presto, hanno raccontato il naufragio dalla parte delle vittime. Migrare non è un dato biologico. Sbagliato impostare la questione partendo dall’homo sapiens. La migrazione di oggi nasce nella modernità, quando si scopre che il globo è finito e va condiviso. Migrare è un atto esistenziale e politico, dovuto a numerosi motivi, patito, ma anche scelto. Rinvia al paesaggio in cui s’incontra l’altro, dove l’incontro potrebbe precipitare nello scontro, l’ospitalità volgersi in ostilità. L’accoglienza, però, non può essere affidata solo alla fede religiosa né relegata alla morale privata. Prima di essere culturale, la questione è politica. Si riassume in questa domanda: possono gli Stati impedire l’immigrazione? Hanno i cittadini il diritto di escludere l’immigrato, il potere sovrano di dire “no”? Se sarà forse legale, questo diritto non è legittimo. E si basa su un equivoco: che essere cittadini significhi essere comproprietari del territorio nazionale. Di qui il gesto discriminatorio che rivendica a sé il luogo in modo esclusivo. Il problema è lo Stato nazionale. Quello che viviamo è uno scontro epocale fra lo Stato e i migranti, dove i cittadini sono spinti a giudicare quel che avviene lì fuori con un’ottica stato-centrica. Difendono perciò i loro privilegi, non i diritti umani. Immaginano di avere la proprietà del suolo, rivendicano una discendenza di nascita, finiscono per credere che al démos corrisponda un éthnos, che il popolo debba avere confini etnici o “razziali”, immaginano di avere il diritto di decidere con chi coabitare. Già Arendt aveva denunciato in questo preteso diritto il cuore della politica nazionalsocialista. Bisogna conoscere per riconoscere. Migranti. Gli sbarchi lacerano l’Italia, ma la “debolezza di Stato” spaventa più dello straniero di Federico Fubini Corriere della Sera, 23 luglio 2018 Sulla percezione noi più divisi dei Paesi con molti rifugiati. Non sorprende se solo il 18% degli italiani consideri positivo l’impatto dell’immigrazione, mentre il 59% lo valuti come “globalmente negativo”. Le migrazioni dividono l’opinione pubblica in tutti i Paesi europei, ma in uno più degli altri. In Italia le fratture di fronte alle immagini degli sbarchi e alle 600 mila richieste di asilo negli ultimi quattro anni sono più numerose che in paesi con molti rifugiati come Francia o Olanda e la battaglia civile per la persuasione delle coscienze è aperta più che mai. Lo è, a maggior ragione, perché ciò che porta gli italiani a deprecare i rifugiati e gli stranieri in genere è piuttosto la percezione della debolezza del sistema nazionale che una vera ostilità verso chi è diverso. Paure identitarie radicate - Sono le conclusioni di un’inchiesta fatta di sondaggi e indagini su gruppi selezionati che More in Common, una rete internazionale attiva sui problemi della convivenza, ha svolto in Italia con Ipsos. Le conclusioni immediate parlano da sole e, con domande poste all’inizio della campagna elettorale, prefigurano i risultati del voto del 4 marzo. Il 53% dei cittadini vede nell’Italia una nazione debole e solo il 5% la dipinge come aperta, ottimista e fiduciosa. La stragrande maggioranza indica nella disoccupazione, non nell’immigrazione, il problema nazionale. Eppure le paure identitarie sono più radicate di quanto i partiti moderati non abbiano mai compreso: metà della popolazione interrogata riferisce di essersi sentita, a volte, straniera nel proprio Paese e il 59% teme che l’identità nazionale stia scomparendo. Non sorprende se solo il 18% degli italiani considerino positivo l’impatto dell’immigrazione, mentre il 59% lo valuti come “globalmente negativo”. In parte vengono addotte ragioni di natura economica (“gli stranieri sono disposti a lavorare di più per una paga più bassa”). Ma a quanto pare gli argomenti puramente razionali (“gli stranieri pagano per le nostre pensioni”) convincono solo chi non ha bisogno di esserlo, perché lo è già. Nel frattempo risultano molti di più gli italiani convinti che gli stranieri non facciano sforzi per integrarsi (44%) piuttosto che il contrario (29%). “Moderati disimpegnati” - Questa è la parte prevedibile del sondaggio di More in Common e Ipsos, alla luce del 4 marzo. Perché poi c’è l’altra, quella che va a fondo sulle motivazioni. Qui gli italiani sembrano un popolo più frustrato dalla cattiva gestione dei flussi, che ostile agli stranieri in sé (il 72% sostiene il diritto di asilo, il 61% teme un aumento del razzismo). Quanto meno una quota importante dell’opinione pubblica (48%) non è pregiudizialmente né a favore né contro l’immigrazione. Non è né chiusa come il gruppo dei tradizionalisti e dei “nazionalisti ostili” (24%), né aperta a priori come quel 28% fatti di “cosmopoliti” (prevalentemente di centrosinistra) e i “cattolici umanitari” (di solito elettori del Pd e di Forza Italia). Gran parte degli italiani nel mezzo, smarriti, divisi e preoccupati. Segmenti così variegati che nella stessa indagine in Francia, Germania o Olanda non si trovano. C’è un 19% di “moderati disimpegnati”, spesso giovani preoccupati del proprio futuro e elettori di M5S, che capiscono bene la questione migratoria, si considerano essi stessi potenziali migranti ma hanno troppi problemi per pensare davvero agli stranieri. C’è un 17% di “trascurati”, disoccupati o precari adulti, elettori spesso della Lega che deprecano i migranti che trovano davanti a sé nelle file in ospedale o per le case popolari. Infine c’è un 12% di “preoccupati per la sicurezza”, dai piccoli reati al terrorismo. Non sono gruppi a priori ostili agli immigrati in sé, ma italiani che vorrebbero soprattutto una risposta più efficiente del sistema ai loro problemi concreti di oggi. Torture e milizie tribali in guerra, ecco perché la Libia non è un porto sicuro di Paolo G. Brera La Repubblica, 23 luglio 2018 La Corte Ue accusa Tripoli di non rispettare i diritti umani. E i racconti di chi ha vissuto nei centri di detenzione lo confermano. Non ti abitui mai, al racconto delle torture che i trafficanti riescono a infliggere ai migranti in Libia. L’ultimo “lo ha fatto l’altro giorno un ragazzo del Mali. L’abbiamo ricoverato con un piede rotto da una spranga”, racconta il portavoce dell’Oim in Italia, Flavio Di Giacomo: “Un dito glielo avevano tagliato a colpi di trapano, e un gomito era stato bruciato con un ferro rovente. Aveva trascorso otto mesi in un centro di detenzione non ufficiale. Ce ne sono decine, in Libia”. Se il paese fosse un “luogo sicuro” come prevedono le leggi internazionali, i migranti salvati su bagnarole in fuga dalla Libia potrebbero essere legittimamente riconsegnati al mittente. Quando ci provò il primo ministro leghista degli Interni, Roberto Maroni, l’esito fu una condanna - inflitta all’Italia all’unanimità - dalla Corte europea dei diritti umani per aver violato l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani sui trattamenti degradanti e la tortura. “Un’incomprensibile picconata del buonismo peloso”, brontolò Maroni. La legge dice che se una persona fugge e intende chiedere asilo politico, ha diritto a essere condotta in un luogo sicuro e ascoltata. Per arginare il passaggio a Est, quello che portava in Europa dalla Turchia, la Ue ha stretto un accordo oneroso con Ankara. Ma Tripoli è altro mondo. Come può essere considerato “luogo sicuro” quello in cui l’unico paese occidentale ad aver riaperto l’ambasciata è l’Italia? In cui persino la Farnesina, nel sito Viaggiare sicuri, sconsiglia “assolutamente i viaggi in ragione delle precarie condizioni di sicurezza”? E lo ha ricordato ieri in una intervista a Repubblica il commissario Ue alle Migrazioni Dimitris Avramapoulos. Il paese è diviso e politicamente instabile, con il governo Serraj - riconosciuto dalla comunità internazionale - che controlla solo una parte del paese e anche lì è in forte difficoltà: è costretto a trattare con le milizie, cui delega persino il controllo di infrastrutture fondamentali come la sicurezza dell’aeroporto. E le tribù burrascose sono in perenne stato di guerriglia, senza contare la minaccia e le violenze degli islamisti. D’altronde, per fermare gli sbarchi già l’ex ministro Minniti aveva scelto la strada dell’accordo con la Libia. Fornì aiuti e formazione, denaro e vedette alla guardia costiera libica: la ricetta ridusse drasticamente gli sbarchi, meno 77%, provocando nausee a sinistra perché chiudeva un occhio e mezzo sulle reali condizioni in cui veniva a trovarsi chi aveva provato a fuggire. Ora che il bastone di comando lo ha preso Salvini, tenendo al largo le Ong e aumentando l’affidamento alla Libia con nuove motovedette (promesse) e ulteriori aiuti, i numeri già esigui sono calati ancora: meno di cinquemila sbarchi da quando è diventato ministro. Ma la linea dura ha effetti collaterali drammatici: con la decina di vedette di cui dispone la guardia costiera libica non riesce a controllare centinaia di chilometri di costa in cui operano i trafficanti, e i numeri delle morti in mare sono tornati a salire. È l’effetto più drammatico, ma non l’unico: “Da quando la guardia costiera libica riporta qui i migranti - racconta il capo missione dell’Unhcr a Tripoli, Roberto Mignone - la situazione già difficile è peggiorata. I centri di detenzione sono sovraffollati”. “Noi siamo presenti al momento dello sbarco - spiega Di Giacomo dell’Oim - ma poi le persone vengono mandate nei centri di detenzione arbitraria in cui vengono tenuti anche i bambini in condizioni di vita inaccettabili”. “Purtroppo in Libia le milizie controllano tutto - dice Francesca Mannocchi, ultima giornalista italiana ad aver visitato i centri di detenzione - hanno ottenuto persino il diritto di intercettare i telefoni e le mail di giornalisti e attivisti. Ho incontrato ottime persone, tra gli operatori dei centri, ma in maggioranza sono sotto ricatto. Se i trafficanti vogliono ragazze minorenni da spedire in Italia come prostitute, le ottengono. Si compra tutto, la corruzione è estremamente diffusa anche nelle istituzioni”. “La Libia non ha firmato la convenzione per i diritti dell’Uomo - ricorda Mignone - e chiunque non sia in regola con i documenti viene detenuto in condizioni molto difficili: viene rilasciato solo se torna volontariamente in patria, o evacuato in paese sicuro se rifugiato”. Molti migranti portati in Europa raccontano di essere usciti pagando. E i rapporti di organizzazioni come Amnesty denunciano “centinaia di testimonianze di persone che hanno descritto con dettagli raccapriccianti gli abusi cui sono state sottoposte o hanno assistito”. Salvini, come già Minniti, punta sul Niger per le evacuazioni: “Da dicembre ne abbiamo fatte 1.800 - dice ancora Mignone - la maggior parte delle quali, 1.500, in Niger. I paesi europei avevano promesso di prenderne 4.000: a metà anno ne hanno presi 207. Così si forma un collo di bottiglia: il Niger ha capacità di accogliere 1.500 persone, ed è satura”. I centri di detenzione ufficiali, in Libia, sono 17. Secondo l’Unhcr ospitano 11mila persone. E ci sono 53mila rifugiati, molti dei quali non hanno intenzione di venire in Europa: “Molti vengono da paesi arabi e sono integrati. Quelli dall’Africa subsahariana invece sono a rischio, e cerchiamo di evacuarli”. Verso un porto sicuro che non può essere la Libia: non sono le Ong a dirlo; sono i rapporti ufficiali. Quello edito tre mesi fa dell’Onu denunciava la “detenzione arbitraria di intere famiglie su base tribale”, e l’assenza “di accesso alla giustizia per le vittime mentre le milizie - pagate anche con soldi italiani - godono di totale impunità”. Siria. Ottocento “caschi bianchi” in pericolo di vita, Israele li scorta nella fuga La Repubblica, 23 luglio 2018 L’intervento umanitario richiesto da Usa e Paesi europei. Il gruppo è stato accompagnato fino al confine con la Giordania. Con una complessa operazione logistica, Israele ha aiutato ieri 800 “caschi bianchi” siriani (membri della difesa civile) e loro familiari a uscire dal territorio siriano, dove la loro incolumità era in pericolo, e a raggiungere la Giordania da dove proseguiranno verso alcuni Paesi che daranno loro asilo. I cittadini siriani sono passati dal valico di Kuneitra e sono così entrati nelle alture del Golan da dove l’esercito israeliano li ha accompagnati fino al confine con la Giordania. I “caschi bianchi” si autodefiniscono volontari, impegnati nel soccorso alla popolazione civile nelle zone devastate dalla guerra in Siria. Nonostante operino solo in zone controllate dai ribelli antigovernativi, sostengono di non essere coinvolti con nessuna delle parti in conflitto. Il regime di Bashar al-Assad, e la Russia sua alleata, accusano i Caschi bianchi di essere sostenitori dei ribelli e anche di avere connessioni con i gruppi jihadisti che operano nella regione. L’intervento di Israele, che non aveva mai compiuto operazioni in territorio siriano, potrebbe rafforzare questa posizione, tanto più perché porta il marchio delle forze occidentali. L’operazione, ha infatti precisato un portavoce militare israeliano, è stata condotta su richiesta degli Stati Uniti e di alcuni Paesi europei. “Quei civili - ha aggiunto - sono stati evacuati da zone di combattimento nella Siria meridionale perché si trovavano esposti a una minaccia immediata di morte”. Si è trattato, ha precisato il portavoce, di un gesto umanitario “di carattere eccezionale”: Israele cioè non consentirà l’ingresso nel suo territorio di altri profughi o sfollati siriani. “Israele continua a mantenere una politica di non intervento per quanto concerne il conflitto in Siria”, ha precisato ancora il portavoce. Secondo la radio militare, i “Caschi bianchi” siriani operano nelle zone controllate dai ribelli e sono specializzati nel soccorso alle zone bombardate dall’esercito di Bashar Assad e dall’aviazione russa. Con l’avanzata dell’esercito siriano nel sud della Siria, ha aggiunto la emittente, la loro vita è adesso in pericolo. Cinquanta di queste famiglie, circa 250 persone, saranno ospitate in Canada. Più di 3.700 caschi bianchi, tra cui alcune donne, sono attualmente operativi in ??Siria, secondo il loro leader Raed Saleh. Più di 250 sono stati uccisi dal 2013. Alcuni anni fa, la loro rete era attiva in tutti i territori ribelli della Siria, in particolare nella parte orientale Ghouta, ex roccaforte dei ribelli alle porte di Damasco. Ma man mano che il regime avanzava riprendendo una dopo l’altra le roccaforti dell’opposizione, le attività dei caschi bianchi si sono ridotte e sono ora principalmente limitate ai territori ribelli nel nord e nel nord-ovest. Alcuni hanno ricevuto una formazione all’estero, quindi hanno assunto il controllo in Siria per addestrare altri volontari nelle tecniche di ricerca e soccorso. Il gruppo è stato finanziato da diversi paesi, tra cui Gran Bretagna, Paesi Bassi, Germania, Giappone e Stati Uniti. Ha anche ricevuto donazioni da privati ??per l’acquisto di attrezzature, compresi i caschetti, distintivi del gruppo. Candidati per il Premio Nobel per la Pace 2016, e poi premiati lo stesso anno dallo Swedish Right Livelihood Award, che è un “Nobel alternativo”. In questa occasione i responsabili del premio hanno elogiato “il coraggio eccezionale, la loro compassione e il loro impegno umanitario”. Nel febbraio 2017, un documentario dedicato al loro lavoro ha vinto l’Oscar come miglior cortometraggio. Il loro slogan “Chi salva una vita salva tutta l’umanità” è tratto da un versetto del Corano. I “white helmets” insistono sulla neutralità dei volontari, che vanno in soccorso di tutte le vittime, indipendentemente dalla loro religione. “Siamo indipendenti, neutrali e imparziali, non siamo affiliati a nessun gruppo politico o armato”, ha detto il loro leader Raed Saleh alla France Presse. Il gruppo è però oggetto di attacchi da parte dei suoi detrattori, sostenitori del regime siriano o della Russia. Alcuni lo accusano di essere un burattino nelle mani dei governi che sostengono la ribellione. Altri dicono che i combattenti ribelli o anche i jihadisti fanno parte degli aiutanti volontari. Lo stesso presidente Assad, in un’intervista con l’Afp nell’aprile 2017, ha accusato i membri del gruppo di far parte del gruppo jihadista al-Qaeda. “Si sono rasati la barba, hanno indossato elmetti bianchi e sono apparsi come eroi umanitari, il che non è vero”.