Condannato due volte: come reo e come malato di Francesca de Carolis remocontro.it, 22 luglio 2018 Dopo la scarcerazione di Dell’Utri per motivi di salute ci si interroga sul destino delle tante persone con nomi forse meno risonanti, ma con patologie altrettanto se non più gravi, che rimangono in carcere. La tragica vicenda di Cosimo, trent’anni, epilettico, morto a maggio nel carcere di Secondigliano e i tanti interrogativi che pone. Ritorna stridente il mantra di un’obiezione che sento spesso fare, davanti a mie insistenze nel raccontare di storie che vengono da quel mondo buio che sono le nostre carceri. Certo, qualcosa avranno pur fatto. E certo “è facile immaginare la galera per chi ha commesso un reato ma, entrare in una sezione e vedere le persone recluse peggio degli animali, mi ha restituito la barbarie di cui è ancora capace l’umanità”… parole di Sandra Berardi, che dopo aver visto quello che ha visto ha sentito l’urgenza di creare un’associazione per i diritti dei detenuti, Yairaiha. E chissà che qualcosa non abbia visto anche Beppe Grillo se, come a sorpresa, riprendendo il pensiero del criminologo norvegese Nils Christie, arriva a parlare di carceri come “struttura progettata per infliggere legalmente dolore, uno strumento di controllo sociale e un vero e proprio business”. E vedremo se qualcosa per li rami del parlamento ne discenderà… Ma oggi la realtà è quella delle tante denunce, di condizioni estreme, a cui non è possibile non pensare, dopo aver saputo della scarcerazione, per motivi di salute, di Dell’Utri. Bella notizia, certo, peccato che per chi non abbia un nome con la sua risonanza, e avvocati e disponibilità economica, c’è da raccontare tutt’altra storia… E sono storie terribili. Non per rovinarvi la domenica al mare, ma perché forse, se liberi dalle ansie quotidiane, magari si apre lo spazio di un pensiero che non si fermi a “qualcosa in fondo hanno fatto”… questa storia ve la voglio raccontare, così come l’ho sentita dalla voce rotta dal dolore di Damiano. Suo fratello Cosimo, Cosimo Caglioti, è morto il 23 maggio scorso nel carcere di Secondigliano. Aveva trent’anni. In carcere con una condanna pesante, questione di faide del vibonese, raccontano le cronache locali. Qualcosa avrà pur fatto… già, ma non è certo motivo per morire, a trent’anni, in un sistema che fa raccapriccio. “Mio fratello - racconta Damiano- soffriva di epilessia da anni, patologia al momento curabile. La situazione si è aggravata mentre si trovava nel carcere di Cosenza, tanto che lì, dopo un’ulteriore visita, si stabilisce che non può stare. Il suo regime non è compatibile con lo stato di salute di mio fratello. Ma è l’inizio della catastrofe, Cosenza chiama il carcere di Parma (meglio attrezzato per le cure) che lo rifiuta, viene chiamato Secondigliano che lo accetta”. Lo accetta, ma qui la situazione peggiora e i familiari che vanno a trovarlo dopo due settimane … “lo trovano in condizioni disumane che solo a udirle si accappona la pelle… Mio fratello si trovava da tre giorni su una barella nel corridoio dell’ospedale, imbottito di psicofarmaci e sonniferi… tre giorni in ospedale e poi rimandato in carcere”. L’accusa è tremenda: “… e parlo di negligenza perché è stato lasciato morire… mio fratello non poteva stare solo, era scritto in cartella clinica, oltre che negligenza c’è la crudeltà…” Per Cosimo i legali avevano presentato istanza di scarcerazione per motivi di salute. E arriva una perizia medica (fatta su incarico di tribunale) che ritiene necessario il ricovero in istituto specializzato “per un iter diagnostico e terapeutico” ma… “Questa perizia è stata depositata in cancelleria poco dopo la morte di Cosimo… Cosimo è morto alle 13.00, la perizia è stata depositata alle 13,30, mentre il carcere ha comunicato la morte di mio fratello alla caserma di competenza alle 22:20 circa. Perché tutte queste ore di silenzio? Perché siamo stati noi a dover chiedere di fare un’autopsia? Ci sono dozzine vi domande da fare”. Damiano, con il suo dolore, intuisce, immagina, quello che oggi testimonia una lettera, che arriva dal carcere di Secondigliano, dai compagni di detenzione di Cosimo, sconvolti anche loro… “Già da qualche mese si era sentito male ed era stato soccorso in sezione, stamattina alle ore 06 il detenuto Caglioti Cosimo stava male, suonava il campanello di allerta, che risultava staccato e già da alcuni giorni… chiamato l’assistente di turno in sezione solo verso le ore 9 è stato visitato ma rimandato in sezione subito dopo. Avvisava dolori e si è adagiato in branda. Alle 12,30 alcuni compagni di sventura si sono avvicinati per vedere come stava, ma non dava segni di ripresa. Tutta la sezione si è precipitata, qualcuno cercava di rianimarlo, altri chiedevano, gridando, all’assistente di turno l’urgenza di un medico. E’ arrivato l’assistente che ha chiamato l’infermeria, dopo svariati minuti è arrivato l’infermiere con una siringa… ma avvicinatosi al povero ragazzo con molta calma visto che non dava segni di vita ci ha chiesto di scenderlo giù a braccia… (…) dico di più, chi ha portato giù il ragazzo si è accorto che il defibrillatore era chiuso a chiave e hanno dovuto chiamare la guardia con le chiavi prima di poterlo utilizzare. “Purtroppo questi brutti episodi sono ormai all’ordine del giorno… persone che si tolgono la vita, persone che aspettano visite ospedaliere da mesi, persone che muoiono per indifferenza e mancati soccorsi come oggi. Questo brutto episodio, che porteremo sempre con noi, in 50 possiamo testimoniarlo, anzi mi correggo, oggi in 49”. Cronache di ordinario medioevo. Damiano e la sua famiglia hanno presentato un esposto e aspettano risposte alle tante domande. “Non si può morire così, a trent’anni - ripete Damiano. Sarà non solo la mia battaglia, ma di tutta la mia famiglia e lotterò per tutti coloro che si trovano in quei luoghi di sofferenza che delle volte diventano punitivi in modo smisurato, dove la gente viene umiliata costantemente, com’è successo a mio fratello…, dove si perde ogni diritto di persona. “Chi sbaglia in qualche modo deve pagare, ma tutti devono avere una seconda possibilità e se un cittadino è detenuto è responsabilità dello Stato garantirgli le cure adeguate, non lo dico io ma la nostra Costituzione”. Non sarebbe atto particolarmente rivoluzionario (basterebbe applicare la legge) permettere di curarsi, anche a chi “qualcosa avrà pur fatto”. Nota personale. Per capire, per cercare risposte ai mille “perché” che mi si affollano da quando un po’ di carcere conosco, quest’estate mi sono assegnata un compito. La lettura di Diritto e Ragione, di Luigi Ferrajoli. Sono solo all’introduzione, ma una cosa è subito chiarita: “Il diritto penale, per quanto circondato da limiti e garanzie, conserva sempre un’intrinseca brutalità che ne rende problematica e incerta la legittimità morale e politica”. E, ancora, “la pena, comunque la si giustifichi e circoscriva, è una seconda violenza che si aggiunge al delitto e che è programmata da una collettività organizzata contro un singolo individuo”. Una collettività organizzata contro un singolo individuo. Un rapporto di forza, se ci pensate, che già da solo è violenza immane, disperante. Legittima difesa, duello Camera-Senato di Liana Milella La Repubblica, 22 luglio 2018 Montecitorio inette all’ordine del giorno tre proposte di modifica: parte la sfida tra i due rami del Parlamento per chi taglierà il traguardo del primo voto su una legge che pesa in termini elettorali. Favorito Palazzo Madama. La legittima difesa “raddoppia”. E parte la sfida tra Camera e Senato su chi riuscirà a conquistare il primato del primo voto su una legge che pesa molto in termini elettorali. Soprattutto mentre proseguono rapine violente come l’ultima di venerdì sera a Busto Arsizio contro il benzinaio Marco Lepri rimasto gravemente ferito. In cosa consiste il “raddoppio”? Nel fatto che i lavori per un nuovo articolo 52 del codice penale sulla legittima difesa si svolgeranno sia al Senato che alla Camera. Di palazzo Madama si sapeva, perché da martedì le cinque proposte presentate lì sono state incardinate e si andrà alle audizioni. Ma la novità è che mercoledì anche la commissione Giustizia di Montecitorio ha all’ordine del giorno la questione legittima difesa, con le proposte di Nicola Molteni, il leghista sottosegretario all’Interno, di Giorgia Meloni di Fdl, e del duo di Forza Italia Maria Stella Gelmini ed Enrico Costa. I due rami del Parlamento possono occuparsi e legiferare sulla stessa questione? È impossibile, ma i berlusconiani hanno stretto d’assedio la presidente della commissione Giustizia, la grillina Giulia Sarti. Costa, reduce dalla stessa battaglia nella scorsa legislatura, ha chiesto a Sarti che si aprisse subito il dossier sulla legittima difesa, rivendicandola in quota all’opposizione. Alla storica proposta Di Molteni, identica a quella del Senato, si è aggiunto il progetto Gelmini-Costa che punta a cancellare l’onere della prova oggi sulle spalle di chi si difende e spara. Dice Costa: “Poiché la difesa è un diritto per la vittima di un’aggressione, dovrà essere il pm, e non la vittima, a dimostrare che non ha compiuto l’atto illecito. Solo così chi spara per difendersi non finirà più iscritto nel registro degli indagati”. Un obiettivo che perseguono tutti i progetti sulla questione. Ma che, per i magistrati, non ha fondamento perché in presenza di un grave fatto di sangue in cui chi spara è il protagonista, non si può prescindere dalla minuziosa ricostruzione dei fatti e quindi dall’iscrizione dei soggetti coinvolti nel registro degli indagati. Ma che chance ha la Camera di andare avanti strappando il ddl al Senato? A decidere saranno i due presidenti, Roberto Fico e Elisabetta Casellati. Dice Giulia Sarti: “Ho l’obbligo di segnalare al presidente della Camera Fico che deve partire la cosiddetta “procedura di intesa”, per cui saranno gli stessi vertici di Camera e Senato a valutare lo stato dei provvedimenti e decidere a quale ramo affidare il prosieguo della discussione”. Tutto lascia pensare che la “guerra” può vincerla il Senato perché la commissione Giustizia è partita giusto una settimana prima e ha già convocato le audizioni, ma soprattutto deve fare i conti con la proposta di iniziativa popolare dell’Idv di Ignazio Messina che nella scorsa legislatura aveva già raccolto oltre un milione di firme e a cui il Senato deve rispondere entro tre mesi. Calano le rapine ma l’allarme-sicurezza rimane alto di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 22 luglio 2018 A leggere i dati sull’andamento delle rapine in Italia, dal 2015 al 2017, si resta alla fine con l’amaro in bocca: c’è un calo generale, è vero, da 21.607 denunce o arresti avvenuti nel 2015, siamo passati a 20.077 l’anno scorso. Una flessione minima, contro cui la riforma della legittima difesa, cara al nuovo governo, secondo Tissone non darà i risultati sperati: “Se il delinquente che ti vuole rapinare sa che sei armato - esemplifica Tissone - poi si arma anche lui e il rischio è che si arrivi a un’escalation di violenza. Io eviterei, perciò, di trasformare il nostro Paese in un Far West. Piuttosto per offrire maggiore sicurezza ai cittadini, tornerei ad assumere poliziotti, carabinieri e finanzieri. Almeno 5 mila all’anno, per fronteggiare il numero di quelli che vanno in pensione. Nel 2008 gli agenti di polizia erano 108 mila, oggi siamo 99 mila. E l’età media è di 48 anni, cioè la polizia più vecchia d’Europa. Non solo: 6 mila poliziotti, anziché occuparsi di indagini e intelligence, sono impegnati negli uffici per il rilascio dei permessi di soggiorno agli stranieri e altri mille si occupano del rilascio dei passaporti. Non è così che si controlla un territorio...”. Calano di pochissimo, secondo i dati di polizia, quasi tutte le forme di rapina: nelle abitazioni, in banca, negli uffici postali e nei negozi. Ai rappresentanti di preziosi, ai trasportatori di merci, valori bancari o postali. Solo in un caso, le rapine vengono date in aumento: quelle “nella pubblica via”, che nel 2016 furono 8.264 e l’anno scorso sono state 8.277. Le cosiddette rapine col coltellino? “Già - dice il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato, che per mesi è stato alle costole del feroce “Igor il russo” - Il problema, allora, diventa poi questa schizofrenia tutta italiana per cui si grida all’allarme e la gente protesta perché il rapinatore incensurato o il piccolo spacciatore non vanno in galera. Ma ricordo che c’è un preciso contesto normativo in cui ci muoviamo: la legge 47 del 2015 sulle misure cautelari è assai rigorosa sulla loro possibile applicazione. E comunque non è un problema di leggi, perché certi reati si combattono soprattutto con la prevenzione”. Il sociologo Maurizio Fiasco, responsabile del progetto sicurezza della Camera di Commercio di Roma e docente di sociologia della sicurezza pubblica nelle scuole di polizia statali, però è scettico: “Dire che ci vuole più sorveglianza non vuol dire nulla. Oggi gli obiettivi sensibili si sono moltiplicati, ci sono troppi luoghi dove si concentra il denaro contante che sono di facile accesso per il delinquente: benzinai, tabaccai, sale scommesse, farmacie, supermercati. Esercenti e forze di polizia, perciò, devono parlarsi, collaborare di più, per programmare insieme la sorveglianza. Chissà se un ispettore o un maresciallo era mai andato a parlare col benzinaio di Busto Arsizio, prima dell’ultima rapina”. Umbria: nelle carceri umbre più di un detenuto su tre è straniero di Claudia Sensi terninrete.it, 22 luglio 2018 Nelle quattro carceri dell’Umbria - Perugia, Terni, Orvieto e Spoleto - su un totale di 1.369 detenuti 518 sono stranieri: ci sono 249 stranieri a Capanne, 121 a vocabolo Sabbione, 91 a Maiano e 57 nell’Icat di Orvieto. Secondo i dati aggiornati dal ministero della Giustizia al 30 giugno la percentuale è del 38% mentre quella nazionale non arriva neppure al 34%. A fronte di questi numeri i parlamentari umbri di Fratelli d’Italia Franco Zaffini ed Emanuele Prisco ritengono necessario “accelerare il rimpatrio dei detenuti stranieri reclusi perché solamente in questo modo potrà essere ridotto il fenomeno del sovraffollamento”. In effetti la capienza regolamentare in Umbria viene di poco viene superata: i detenuti dovrebbero essere 1.331 mentre sono 1.369. Tunisia, Marocco, Romania, Albania e Nigeria sono le nazionalità più presenti, i reati spaccio di droga, narcotraffico, furti, rapine, violenze sessuali, ma anche favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sfruttamento della prostituzione e omicidi. Zaffini e Prisco hanno poi fatto i conti di quanto costano i 518 carcerati. Secondo l’associazione Antigone l’aggravio quotidiano è pari a 137 euro al giorno. L’ultima stima del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria risale al 2013 e ammonta a 124 euro. Secondo i parlamentari umbri, tenuto conto dell’esclusione di alcune spese, i costi sono decisamente superiori. “Il costo medio giornaliero di un detenuto - spiegano - supera i 300 euro. Insieme al vitto e all’alloggio nelle prigioni ci sono da sostenere le spese per il mantenimento delle prigioni, gli stipendi degli agenti penitenziari, la manutenzione dei mezzi sempre più obsoleti utilizzati per le scorte e le traduzioni, quindi le spese sanitarie (farmaci, visite specialistiche e scorte di metadone) alle quali si aggiungono figure professionali come, tra gli altri, educatori e psicologi”. Quindi, per mantenere quei 518 detenuti stranieri ogni giorno vengono spesi dallo Stato oltre 155 mila euro, che diventano 4,6 milioni al mese e 56 milioni di euro ogni anno. “Una spesa altissima e insostenibile, affermano Zaffini e Prisco, considerato il bilancio dell’Italia. Risparmiamo per investire risorse nelle dotazioni della polizia penitenziaria e nella sicurezza. I detenuti stranieri devono scontare le pene nei loro Paesi di provenienza, vanno rivisti e incrementati gli accordi bilaterali per trasferire immediatamente gli stranieri condannati anche quando non viene prestato il consenso. Il numero di reclusi effettivamente rimpatriato - sottolineano - è ben inferiore rispetto al numero dei provvedimenti di espulsione deliberati poiché gli interessati propongono quasi sempre opposizione al tribunale di sorveglianza ottenendo il correlato effetto sospensivo dell’esecuzione del provvedimento. I trattati con gli Stati dell’Est Europa, soprattutto l’Albania e la Romania, devono viaggiare veloci perché con la mancanza delle intese bilaterali molti governi stranieri lasciano all’Italia il problema esclusivo di risolvere la gestione dei criminali. Un altro pericolo è rappresentato dalla presenza di detenuti di religione islamica che anche in Umbria non hanno mancato di manifestare segnali compatibili con processi di radicalizzazione. Vogliamo - concludono i parlamentari di Fratelli d’Italia - carceri civili e misure differenti da quelle adottate dai governi di Sinistra che per evitare il sovraffollamento sono stati capaci di emettere decreti pericolosi come lo “svuota carceri”. Brescia: carceri, arriva un direttore unico Corriere della Sera, 22 luglio 2018 I dettagli della “rivoluzione” (per numero di funzionari coinvolti in tutta Italia proprio di rivoluzione si tratta), arriveranno nelle prossime settimane, ma le linee guida sono già fissate. Dall’autunno gli istituti di pena bresciani - la Casa circondariale Nerio Fischione (Canton Mombello) e la Casa di reclusione di Verziano - avranno un unico direttore. Si tornerà all’antica, quando Verziano era praticamente considerata una dependance di Canton Mombello, dopo che il ministero tempo fa ha elaborato una razionalizzazione della dirigenza accorpando alcune direzioni. Probabilmente (manca solo l’ufficialità delle carte) la direzione dei due penitenziari (340 detenuti a Canton Mombello, 130 a Verziano) sarà affidata a Francesca Paola Lucrezi, 48 anni, già direttrice del carcere di Verziano e attualmente reggente anche dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna di Brescia. Lascerà quindi Brescia (dovrebbe essere destinata alla direzione di una delle carceri sotto la giurisdizione del provveditorato del Triveneto: Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia) Francesca Gioieni, 48 anni, approdata a Brescia nel 2010 dopo una esperienza in Puglia, sua terra di origine, come vicedirettore delle case circondariali di Trani e Bari. In un carcere difficile come quello di Canton Mombello in otto anni di lavoro Francesca Gioieni è riuscita - facendo i classici “salti mortali”, una costante quando bisogna fare i conti con strutture fatiscenti e risorse ridotte all’osso - a garantire un miglioramento della qualità della vita all’interno del penitenziario, alleggerendo il sovraffollamento, che resta pesante, ristrutturando, spesso in economia, le celle e sperimentando, fra i primi in Italia, nuovi modelli di sorveglianza dinamica con i detenuti liberi di circolare in sezione. Restano le grosse carenze di carattere strutturale (nei prossimi mesi si dovrebbe capire come il nuovo governo affronterà il tema della dismissione di Canton Mombello e dell’ampliamento di Verziano) e le difficoltà tipiche di una Casa circondariale: grosso turn over di ospiti e la maggior parte dei detenuti in attesa di giudizio o di una pena definitiva. Nelle prossime settimane, questo è invece ufficiale, lascerà Canton Mombello anche il comandante degli agenti di polizia penitenziaria (sono circa 200 agenti), il commissario capo Maria Luisa Abossida, destinata ad una Casa circondariale del Lazio. Sarà sostituita sempre da un comandante donna, il commissario capo Letizia Tognali, che attualmente comanda gli agenti della casa circondariale di Mantova. Napoli: la camorra borghese di Giovanni Tizian L’Espresso, 22 luglio 2018 Notai, avvocati, medici, commercialisti. All’ombra del conflitto fra le paranze dei bambini, che tanto clamore mediatico hanno suscitato, cresce il Sistema. Un Sistema che prolifera tra i professionisti, si alimenti delle insospettabili complicità dei colletti bianchi. Il ruolo che si sono ritagliati i clan storici della camorra è stato agevolato da una società civile spesso indifferente, da una borghesia indolente che spesso vede nell’illegalità una possibilità di arricchimento. Così, corrotti e camorristi si incontrano, due forme di criminalità che si saldano e diventano due facce della stessa medaglia. Capi di quei clan del gotha della camorra che hanno siglato con pezzi della borghesia napoletana un patto d’acciaio. Con l’obiettivo di concludere affari. Affari milionari: dal petrolio ai grandi appalti, dalla ristorazione a noti brand di giocattoli commercializzati in Italia e in Europa. Le paranze dei bambini hanno deposto le armi. La guerra tra le gang di adolescenti, che aspirano a un ruolo nel gotha della camorra, è cessata. Ma non per volere loro. Hanno desistito dopo l’intervento dei pezzi da novanta del “Sistema”: un network di clan con decenni di storia criminale alle spalle e di boss eredi di dinastie camorristiche degne del film Il Padrino. “Belli guaglioni, vedete di apparare, altrimenti il problema adesso lo avete anche con noi”. L’ultimatum è dell’emissario del clan Contini. Ed è rivolto ai baby boss delle paranze dei bambini che avevano messo a soqquadro l’armonia criminale della città. I re della camorra napoletana, irritati da soldatini insolenti e senza una strategia di lungo termine, hanno recapitato un messaggio chiaro: cessate il fuoco, altrimenti noi, i Contini e quindi l’Alleanza di Secondigliano, saremo il vostro più grande problema. Grazie a questo intervento “hanno fatto pace”, si legge negli atti dell’indagine su tre imprenditori di successo, i fratelli Esposito, legati ai Contini. Il padre dei tre, intercettato, sintetizza così il potere del clan: “Solo questi qua contano, tengono i soldi assai” C’è un gruppo che incarna alla perfezione il concetto di camorra borghese. È l’Alleanza di Secondigliano, dal nome dell’omonimo quartiere in cui comandano i Licciardi, fondatori del cartello insieme ai Contini del centro città e ai Mallardo di Giugliano. Questa triade di camorra gode anche dell’appoggio esterno di un altro potentissimo brand criminale, quello della famiglia Di Lauro di Scampia, padroni del famigerato quartiere del film e della fiction Gomorra. I Di Lauro, camorristi da tre generazioni. Che oggi vantano il latitante più giovane e tra i più ricercati d’Italia, Marco Di Lauro. Introvabile come Matteo Messina Denaro. In alcuni rapporti della Direzione investigativa antimafia si citano episodi in cui non è il Sistema a cercare i professionisti, ma questi ultimi a bussare a casa dei boss. C’è un anziano avvocato d’affari, per esempio, che propone un business da 20 milioni a un luogotenente dell’Alleanza di Secondigliano. Discutono di scarti petroliferi e grandi appalti. Un pianeta sommerso attraversato anche da consulenti finanziari, che offrono la loro merce migliore: società estere, holding maltesi e londinesi, scatole vuote da utilizzare per far perdere le tracce del denaro sporco. Il disordine delle paranze dei bambini per loro è stato un beneficio. Sono loro i veri vincitori di un conflitto che non li ha neppure sfiorati. Perché mentre tra i vicoli del centro di Napoli i ragazzini sparavano e morivano, i re di Napoli si sono inabissati. A debita distanza dall’attenzione dei media, delle istituzioni e della politica, tutti concentrati sull’acuirsi del gangsterismo urbano. Nello scacchiere del crimine organizzato napoletano troviamo famiglie che gestiscono veri e propri imperi. Un Sistema moderno, flessibile, fatto da reti di imprese. Con società di capitali utilizzate per riciclare i soldi della droga e per trafficare carburante sull’asse Malta-Est Europa. Senza dimenticare le ramificazioni finanziarie fuori confine, che arrivano fino a Dubai. Avellino: detenuti psichiatrici, l’Asl riorganizza l’assistenza in Rems Antonello Platì Il Mattino, 22 luglio 2018 Asl: attivata la Residenza sanitaria assistenziale per disabili (Rsa) di Bisaccia e approvati gli atti per l’affidamento esterno delle attività nella Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di San Nicola Baronia e per l’articolazione della salute mentale presso la Casa circondariale di Sant’Angelo dei Lombardi. Da domani sarà operativa, dunque, operativa la Rsa di Bisaccia con l’avvio delle attività di ricovero per le persone affette da disabilità di tipo fisico, psichico e sensoriale, non assistibili presso il proprio domicilio, e l’erogazione dì prestazioni a carattere sanitario, infermieristico, riabilitativo, alberghiero e sociale, nonché interventi di sostegno psicologico. La Residenza, l’unica in provincia, è dotata di 20 posti letto per disabili a medio carico assistenziale e rappresenta un Centro per la cura, il recupero e il mantenimento delle abilità strutturalmente collocato nella Struttura polifunzionale per la salute di Bisaccia. “L’obiettivo - spiega la manager Maria Morgante - è quello di offrire una risposta organizzata e tecnicamente innovativa ai bisogni socio assistenziali e clinici delle persone con disabilità, non assistibili presso la propria abitazione, L’organizzazione si ispira ai principi di centralità della persona e appropriatezza dell’assistenza, attraverso l’accoglienza, la cura e il recupero funzionale delle persone portatrici di disabilità per periodi programmati e temporalmente limitati, favorendo il rientro a domicilio dell’utente”. La gara - L’altro giorno, la manager Morgante ha anche sottoscritto una delibera con la quale concede il via libera all’indizione del bando Rems, con basa d’asta di 5 milioni 19mila e 722,80 euro. Resta da fissare solo il termine ultimo per la consegna delle offerte: il partner che s’aggiudicherà l’appalto gestirà ì servizi per 24 mesi con possibilità di rinnovo per altri 12. L’Azienda di via Degli Imbimbo, si legge nel documento, “in occasione della scadenza del contratto di attivazione della Rems ha già posto l’accento sulla circostanza che in tema di reclutamento del personale, in assenza delle previste autorizzazioni ministeriali, cui fa riferimento il decreto dirigenziale del 6 novembre 2017, non si sarebbe potuto far fronte all’esigenza di continuare a garantire il servizio, permanendo la carenza di personale strutturato, se non ricorrendo alla prestazioni di ore in outsourcing”. Sul punto, l’Asl ribadisce che “in assenza delle richiamate autorizzazioni ministeriali al reclutamento, non potrà in alcun modo ridurre il ricorso alle prestazioni in outsourcing al fine di evitare la chiusura della Rems”. Di qui, la necessità impellente di indire una gara per l’affidamento delle attività sanitarie e dell’articolazione della salute mentale presso le due strutture dell’Alta Irpinia. Stando al disciplinare, il servizio è articolato in un unico lotto “attesa l’unicità delle prestazioni determinata dalla finalità da perseguire”. Le figure richieste sia per la Rems sia per il carcere di Sant’Angelo dei Lombardi sono quelle di infermiere professionale (13 nella Rems, 7 al carcere), Osa (2 e 1), Oss (14 e 5), tecnico della riabilitazione psichiatrica (3 e 1), assistente sociale (2 e 1) e un amministrativo per la sola Rems. Volterra (Pi): la Compagnia della Fortezza festeggia trent’anni di attività di Fulvio Paloscia La Repubblica, 22 luglio 2018 Porta in scena il nuovo spettacolo “Beatitudo”. Punzo: “Viviamo nel presente, siamo tutti parte della storia”. “Agli studenti che vengono a Volterra per toccare con mano l’esperienza della Compagnia della Fortezza, finisco sempre col chiedere: ma qui, secondo voi, siamo in un teatro o in un carcere? La risposta è ogni volta la stessa: in un teatro. Ecco, questo significa che siamo riusciti a mettere in crisi una certezza. Se potessimo fare così per con tutte le parole del vocabolario, vivremmo in un mondo diverso”. E una delle parole fondamentali del personale lessico teatrale, culturale, etico, emotivo che il regista Armando Punzo è andato costruendo in questi primi 30 anni della vertiginosa esperienza nella casa circondariale di Volterra, è “altro”. Oggi depauperata, orribilmente strumentalizzata ad uso politico, svuotata, svilita. Ma questo rende ancora più attuale il teatro di Punzo e dei detenuti. Una freccia scagliata nel fianco di un sistema che gioca tutte le proprie stupide carte sulla paura del diverso. A Punzo, però, la rabbia d’occasione non piace: “Certo, noi tutti viviamo nella Storia - dice il regista alla vigilia del nuovo spettacolo, Beatitudo, seconda tappa borgesiana del progetto Hybris, in scena in carcere dal 23 al 26 luglio, e poi il 29 al Teatro Persio Flacco sempre a Volterra - ma mi sono voluto affrancare dalla mania dell’attualità, che considero una trappola. Il percorso con i detenuti ha permesso di staccarci dall’idea che la realtà davanti ai nostri occhi sia l’unica possibile, e questa è una conquista enorme. La certezza del contingente è troppo comoda, perché porta a pensare a quello che si è, e non a quello che potremmo essere. Se partiamo da questo punto di vista, l’altro e l’alterità saranno sempre un ostacolo. Col tempo mi sono reso conto che il mio bisogno di fare un teatro in un luogo di detenzione, con i suoi limiti apparentemente invalicabili, rispondeva al desiderio di cercare altre possibilità che parevano inesistenti, sopite, rimosse”. All’inizio c’è stato un atteggiamento di difesa dall’”intrusione”, e a tutti i livelli, “ma col tempo in quel sistema rigido si sono aperte crepe attraverso cui siamo passati portando la bellezza, che fa fiorire anche il luogo più inospitale”. Addosso, dice Punzo, l’uomo sente ancora “l’inquietante messa a fuoco dei propri limiti che il Novecento ha portato con sé. È arrivato il momento di andare oltre, dall’homo sapiens all’homo felix: capace cioè di passare all’azione, di osare, di provare a sfidare i ricatti terreni e ultraterreni, di guardare dove non si è mai guardato. Borges è il faro in questa nuova fase della nostra ricerca, perché la sua scrittura mette in crisi il lettore dichiarando guerra alla realtà univoca, confonde il vero con il falso, mette tutto in discussione”. La “felicità dell’azione” è il cuore di Beatitudo, “uno spettacolo sulla possibilità di sognare in un presente dove non lo si fa più. Noi, invece, siamo il sogno che vorremmo sognato da altri”. E onirico sarà anche Le Rovine Circolari - Cerco il volto che avevo prima che il mondo fosse creato, l’evento site specific il 4 agosto alla Centrale geotermica di Larderello, con cui si celebrerà non solo il trentennale della Compagnia, ma anche i 200 anni dalla scoperta della geotermia: due torri di raffreddamento diverranno un tempio-luogo teatrale sospeso sull’acqua, installazione permanente in cemento che potrà essere utilizzata per futuri spettacoli; oltre 100 persone tra attori e tecnici saranno coinvolti in un’opera d’arte offerta alla comunità a futura memoria. Forse, l’evento è la “metafora” di ciò che Punzo vagheggia da tempo: un teatro nel carcere di Volterra, “l’amministrazione penitenziaria e le istituzioni stanno lavorando con convinzione perché finalmente possa nascere”. Ma il regista ambisce anche ad altro: “Mi aspetto che questa nostra esperienza venga inquadrata dal Ministero in modo peculiare: essendo fuori dagli schemi, vorrei una legge che tenesse conto di questa nostra anomalia, e di altre anomalie in bilico diffuse in Italia”. Un riconoscimento, intanto, è arrivato. Non dalla Toscana, ma da Urbino: Punzo è stato infatti insignito del Sigillo d’Ateneo, massima onorificenza dell’Università Carlo Bo. “Questa occasione - dice - accende un riflettore su tutte quelle esperienze coma la nostra che sono a rischio. Non parlo solo della loro esistenza. Ma del travisamento malizioso, che è sempre in agguato”. Olbia: un libro racconta vita ed esperienze in carcere di Sebastiano Depperu La Nuova Sardegna, 22 luglio 2018 I detenuti di Nuchis protagonisti del volume “La luna del pomeriggio” curato da Giovanni Gelsomino. Un libro con i racconti e le sensazioni dei detenuti del carcere “Pittalis” di Nuchis. È quello che ha reso possibile Giovanni Gelsomino, maestro e giornalista, che li ha ascoltati e guidati nel loro percorso fino a vedere pubblicato, nero su bianco, il volume “La luna del pomeriggio”, da qualche giorno nelle librerie. Da diversi anni la casa di reclusione di Nuchis da a chiunque la possibilità di frequentare il corso di scrittura creativa, tenuto dallo stesso Gelsomino, che ha già portato alla pubblicazione di un romanzo d’amore scritto a 14 penne e che ora ha visto come nuova creatura “La luna del pomeriggio”. Gelsomino ha accompagnato Christian, Mario, Massimiliano, Carmelo, Salvatore, Enrico, Nicola, Michele e tanti altri nella scoperta di sé stessi e nel saper raccontare agli altri, attraverso la scrittura, le loro emozioni e i loro stati d’animo. “Se dovessi ridurre tutto a due parole - spiega Giovanni Gelsomino - direi che questo è il libro del “buttar fuori”. Buttare fuori le emozioni: il dolore, le frustrazioni, la forza, la paura, ma anche il sollievo, l’orgoglio, lo stupore, l’amore, la noia. Nel libro si scrive di sé e ci vuole un grande coraggio per farlo con sincerità e trasparenza”. Per vedere concluso il volume, c’è voluto un anno e mezzo di lavoro. Ogni lunedì pomeriggio. E ogni volta la sfida si rinnovava. “Non sono sicuro che ognuno di loro - aggiunge Gelsomino - sia come si è descritto (e come io l’ho descritto nelle poche righe dell’introduzione). Sono, invece, sicuro che ognuno di loro vorrebbe essere così come si è descritto. E non è poco”. Il volume conta anche di una presentazione (curata da Caterina Sergio, direttrice della Casa di Reclusione di Nuchis) e una postfazione di Anna Maria Madeddu (responsabile dell’area educativa al Pittalis). Quest’ultima scrive: “Grazie a Giovanni Gelsomino che ha unito alla sua intelligenza e competenza professionale la curiosità del bambino che non lo ha mai abbandonato ma soprattutto la costanza, la serietà e la perseveranza che sole possono trasformare il genio delle intuizioni in un lavoro profondo”. Migranti. Open Arms denuncia Libia e Italia: “omissione di soccorso” Corriere della Sera, 22 luglio 2018 E 15 profughi sbarcano a Lampedusa. Mentre altri 15 tunisini sbarcano sulle nostre coste, la nave di migranti al centro della contesa col governo italiano approda in Spagna. Quindici migranti sono arrivati ieri sera a Lampedusa a bordo di una piccola imbarcazione e sono stati soccorsi da una motovedetta della Guardia costiera a poche miglia dall’isola. I migranti, 6 uomini e 9 donne di cui una incinta, hanno detto di essere salpati dalla Tunisia. Quattro sono nordafricani mentre gli altri 11 provengono dal Congo e dalla Costa d’Avorio e hanno raccontato di aver trascorso tra gli 8 e i 10 mesi in Libia, dove hanno subito torture, prima di trasferirsi in Tunisia per affrontare la traversata. I migranti sono stati trasferiti nell’hotspot di Lampedusa. La denuncia di Open Arms - Intanto resta altissima la tensione sul fronte migranti. L’ong Proactiva Open Arms ha denunciato per omissione di soccorso e omicidio colposo la Guardia Costiere di Libia e Italia. L’ong ha presentato la denuncia dopo aver sbarcato nel porto delle Baleari Josefa, l’unica sopravvissuta al naufragio di cui ha attribuito la responsabilità alla Guardia Costiera libica e poi, per omissione, agli italiani. Secondo il quotidiano Diario de Mallorca, dopo essere sbarcata a Palma anche Josefa denuncerà alle autorità spagnole la guardia costiera della Libia per aver speronato la barca a bordo della quale si trovava, e l’Italia per il suo rifiuto di sbarcare i corpi nel porto di Catania. A Palma sono stati lasciati infatti anche i due cadaveri, tra i quali quello di un bambino di circa cinque anni, recuperati in mare, su un zattera di legno, a circa 80 miglia dalle coste libiche lo scorso martedì. “Dopo quattro giorni di navigazione - ha scritto il fondatore della Ong Oscar Camps su twitter - la nave entra finalmente nel porto sicuro di Palma di Mallorca”. Un riferimento fin troppo chiaro ai porti italiani, che lo stesso Camps aveva definito non sicuri, a causa dell’atteggiamento ostile dei ministri Matteo Salvini e Danilo Toninelli. La replica di Viminale e Guardia Costiera - Il titolare del Viminale ha intrapreso nei giorni scorsi un braccio di ferro con le organizzazioni non governative che salvano i migranti: e anche oggi, nel commentare un’intervista di SkyTg24 all’operatore di una cooperativa, ha ribadito su Twitter la sua posizione. “Più informazione nei Paesi d’origine eviterebbe tante morti e tante nuovi schiavi. Ascoltate questa testimonianza, illuminante”, scrive Salvini.”Non meritano risposta le Ong che insinuano, scappano, minacciano denunce ma non svelano con trasparenza finanziatori e attività” fanno eco fonti interne al ministero dell’Interno. “La denuncia di Josefa? Qualcuno strumentalizza una vittima per fini politici: denunceremo chi, con bugie e falsità, mette in dubbio l’immensa opera di salvataggio e accoglienza svolta dall’Italia”. “Se la Ong spagnola ha preferito rifiutare l’approdo in Italia per scappare altrove, è un problema suo - proseguono le stesse fonti -. I porti siciliani erano aperti anche per accogliere i cadaveri a bordo e per questo alla ong era stata esclusa l’opzione Lampedusa: l’isola è infatti sprovvista di celle frigorifere per i corpi”. Anche la Guardia Costiera italiana respinge ogni addebito: “Non è mai stata coinvolta nel soccorso al gommone ritrovato successivamente - afferma il comando generale -. Dopo il ritrovamento è stata data piena disponibilità a trasferire la donna, ancora in vita, nel porto di Catania, per ricevere assistenza sanitaria” ed “effettuare le operazioni di sbarco per tutti i migranti a bordo”. C’è un rapporto tra immigrazione e criminalità? L’inchiesta sui morti di Pozzallo - La Open Arms è solo una delle ultime imbarcazioni “rifiutate” dal governo italiano. Dall’Aquarius alla Lifeline, la linea del Viminale è stata durissima nelle ultime settimane. Anche la nave avvistata in acque maltesi, al largo di Linosa, il 13 luglio era stata “avvisata”: “C’è una nave nelle acque di Malta. In Italia non può e non deve venire”, aveva twittato il ministro dell’Interno, aprendo una fase di stallo terminata solo ore dopo, quando i 257 migranti erano stati soccorsi da due motovedette della Capitaneria di Porto e trasbordati nella nave Monte Sperone della Guardia di Finanza. Quando domenica scorsa la nave è arrivata a Pozzallo si è scoperto che 4 somali, tra cui un bambino, non erano riusciti a raggiungere l’imbarcazione di soccorso ed erano morti. Oggi, sabato 21 luglio, anche la Procura di Agrigento- dopo quella di Ragusa - ha aperto un fascicolo: magistrati, guidati dal procuratore Luigi Patronaggio, vogliono capire quando, perché e in che punto, si siano gettati in acqua. E soprattutto se il numero di chi manca all’appello sia più alto. Il gip di Ragusa, che ha convalidato il fermo di 11 scafisti, ha fatto cadere l’accusa di morte come conseguenza di altro reato: i migranti scomparsi si sarebbero infatti lanciati in mare volontariamente. Ma ora la Procura di Agrigento intende approfondire le circostanze in cui i quattro sarebbero annegati. La parola straniero ci inquieta. Perché è il nostro specchio di Wlodek Goldkorn L’Espresso, 22 luglio 2018 Diverso. Straordinario. In una terra non sua. E ci mette di fronte ?alla nostra identità sconosciuta. “L’incontro con gli altri è ricchezza ma anche scontro. Perciò migrare è un atto politico. E solo chi non si sente tutt’uno con una nazione può dissentire”. Coloquio con la filosofa Donatella Di Cesare. Tra le parole che suscitano più emozioni in questi tempi e che più dividono l’opinione pubblica e la stessa sinistra in Europa e in Italia, c’è la parola straniero; declinata talvolta come migrante, profugo, immigrato e via elencando. Ma sappiamo veramente di che cosa parliamo quando parliamo degli stranieri? Lo abbiamo chiesto a Donatella Di Cesare, filosofa, studiosa di Heidegger, anarchica, femminista, donna impegnata nella lotta per i diritti dei migranti e pensatrice tra i più radicali nella critica dello stato delle cose esistenti nel nostro Continente. Cominciamo dalla definizione: cosa è uno straniero? “Lo straniero è una persona che viene da lontano ma che è prossima, perché si è avvicinata. In tutta la storia del pensiero la definizione dello straniero è stata molto problematica perché la parola straniero indica una relazione e non uno status fisso. Per me, la parola straniero ha almeno quattro significati. Prima di tutto, lo straniero è l’esterno, lo è rispetto a quello che sta dentro. È come se parlassimo dell’assegnazione dei posti; indicando lo straniero traccio un confine e dico: io sono dentro, tu straniero sei fuori. Il secondo significato è più semplice: lo straniero è estraneo, è estraneo rispetto al proprio”. Proprio come proprietà? “Esatto. La definizione si basa sul possesso. È dirimente la terra e il territorio. Straniero in questo contesto è uno che non è proprietario della terra e del territorio. Ma attenzione, un estraneo lo è anche rispetto all’identità”. Ci torneremo. Intanto il terzo significato? “Lo straniero è l’insolito, stravagante, strano, inquietante. Lo straniero incarna tutto quello che è fuori dall’ordinario e dall’ordine stabilito. Lo straniero è quindi straordinario. Dove però straordinario ha un significato ambivalente. Chiamiamo straordinario un genio ma straordinario è anche un folle. E di fatti c’è un’affinità tra lo straniero e il folle. Infine, lo straniero, essendo straordinario eccede l’ordine; quindi è eccezionale, rivoluzionario, è colui che può ribaltare l’ordine”. Ha appena detto che lo straniero è come il folle. “Ha presente “Stultifera navis”? La nave dei folli (opera di fine Quattrocento di Sebastian Brant che ebbe una grande popolarità in Europa, ndr). In alcune città, alle soglie della Modernità, non sapevano come liberarsi dei folli. Ad Amburgo o Brema, o a Venezia, li mettevano su un battello e li mandavano via. In alcuni casi li affidavano ai marinai. Si pensava che il folle, viaggiando potesse recuperare la ragion perduta, oppure che il marinaio fosse così coraggioso da essere folle. Lo stesso avviene per gli stranieri. Il folle sconfina nello straniero. Lo straniero diventa folle e viceversa”. Lo sconfinamento è dovuto alla non appartenenza? “Sì, il folle, come lo straniero non appartiene alla città; è straordinario, usa altri codici. Ma la cosa interessante è il passaggio nell’Ottocento. Avviene che il folle perde l’aura di estraneità e diventa una sorta di rifiuto: nascono i manicomi”. Cose descritte da Foucault in “Storia della follia”. “Certo. Ma io voglio dire che c’è il parallelo tra il folle e il migrante. Il punto è che noi usiamo parole che sembrano sinonimi: profughi, rifugiati, migranti, immigrati, stranieri. Ma non sono sinonimi. Il migrante è il grado zero dell’umanità. Lo straniero invece ha l’aura dell’altrove; è l’esotico. Lo straniero è più rassicurante del migrante. Lo straniero viene d’altrove, ma prima o poi andrà via”. La differenza è di classe? Hanna Arendt, intellettuale e borghese anche da apolide era straniera non migrante? “Sì. Il migrante è la spoglia nuda dello straniero. E la sua nudità ci fa paura. Il migrante è privo dell’aura e sebbene sembra di passaggio, minaccia di restare qui. Il migrante è colui o colei che viene, sbandierando la propria povertà”. Sta dicendo che il migrante ha solo il proprio nudo corpo? “Certo. E aggiungo che ha molte colpe, ai nostri occhi gravissime. La prima: essersi mosso. E questa è la colpa originaria; il migrante è un pre-giudicato”. Infatti lo chiamiamo clandestino. “Clandestino vuol dire uno che nascostamente non rispetta il confine. Il clandestino dal momento che si è mosso ha messo a repentaglio l’ordine del mondo. Non avrebbe dovuto farlo. Il migrante non rispetta la relazione fuori-dentro, a differenza dello straniero”. Una volta, in una conversazione, Zygmunt Bauman mi disse: per me essere straniero è un privilegio. Posso dire certe cose che un autoctono difficilmente direbbe. Poi aggiunse: in fondo questa è la situazione di molti intellettuali stranieri in Occidente. “È così. Il migrante, a differenza di un intellettuale dissidente, viene per ragioni economiche. Da qui, la retorica: il rifugiato sì, il migrante no. Ma si tratta di una distinzione fittizia. Sappiamo bene che è impossibile distinguere davvero tra un rifugiato e un migrante. Rifugiato poi, sembra una parola che promette redenzione”. Perché promette redenzione? “Perché il rifugiato chiede asilo e quindi viene redento dalla comunità che lo ospita. Il migrante no. Ma qualcuno dovrebbe spiegare perché i diritti economici debbano essere meno importanti e meno pregnanti di quelli politici. Del resto, sappiamo quanto tutte le cause siano concatenate. Ripeto: il rifugiato lo redimo, il migrante no, viene trattato da colpevole”. Altre colpe del migrante? “Resta e non si lascia assimilare. Non si adegua agli usi e costumi della comunità”. Noi tutti ci definiamo rispetto ad Altro. E chiediamo ad Altro di integrarsi, di assimilarsi, di diventare come noi. Ma nel momento in cui l’Altro lo fa gli ricordiamo: guarda che tu sei Altro, fai solo finta di essere uno di Noi. La dialettica di inclusione-esclusione degli ebrei nella Modernità (descritta da Arendt e da Bauman) è simile alla attuale dialettica rispetto agli immigrati. All’immigrato si dice: ti vogliamo integrato, ma non oltre un certo punto, perché anche da integrato devi ricordarti che sei Altro. L’esempio più banale (e innocuo, quasi tenero): congratularsi con lo straniero che sta qui da decenni e lavora con la lingua italiana, per come sa bene l’italiano. Come se ne esce? “Rispondo così: ci fa comodo essere cittadini. Ci fa comodo che lo Stato ci difenda. Ci fa comodo che lo Stato preservi i nostri diritti. La grande contraddizione dell’epoca della globalizzazione è quella tra i diritti civili e i diritti umani”. È la tesi di Agnes Heller. La filosofa ungherese dice che fin dai tempi della Rivoluzione francese i diritti civili e i diritti umani sono in contraddizione. Quelli civili spettano ai cittadini, ed escludono l’umanità. Quegli umani annullano la nozione di cittadino. “In questo ambito siamo tutti complici. Secondo questa visione del mondo, i cittadini essendo sovrani, hanno il diritto di decidere chi far entrare e chi non far entrare nel loro Stato. Si tratta di una materia che divide la stessa sinistra. Anche Heller, da questo punto di vista è una sovranista”. I cittadini dovrebbero poter decidere con chi condividere il territorio. Basta che i criteri non siano razzisti, xenofobi... “La sua annotazione tradisce l’adesione a un sovranismo, direi moderato, socialdemocratico. Io invece sono radicalmente anti-sovranista. C’è un punto che voglio sottolineare: essere cittadini non significa essere proprietari del territorio nazionale. Le racconto una storia. Un giorno, un mio collega tedesco mi ha detto: per me un migrante è come un intruso in casa mia; a nessuno piace aprire la mattina la porta del salotto e trovare un estraneo”. E lei cosa ha risposto? “Che un conto è la proprietà di un appartamento, altra cosa è territorio nazionale. Per questo motivo io dico che il cittadino non è legittimato a decidere chi entra e chi no. Io posso decidere con chi convivere, ma non con chi coabitare. Ma torniamo al concetto della sovranità. Noi abbiamo la visione del cittadino che è sovrano. Quindi quando arriva il migrante, la prima cosa che sente dire è: non puoi entrare. Ma poi esiste il dispositivo del capitalismo per cui lo facciamo entrare lo stesso perché serve forza lavoro. E per rispondere alla sua domanda sulla dialettica esclusione inclusione: nel caso in cui il migrante diventa immigrato il cittadino gli dice: ti devi integrare assimilare ma non del tutto. Perché se ti assimili del tutto, io non ti posso più identificare e quindi controllare”. A questo punto però non è chiaro chi è, secondo lei, il sovrano. “È la grande domanda della filosofia. Io sono radicale: per me il sovrano è solo Dio e non esiste altra sovranità e penso anche che sia arrivato il momento di deporre ogni sovranità. Ciò detto; nel concreto la sovranità esiste e appartiene al popolo. Ma il popolo, in una democrazia, è demos non etnos”. Stabilito che siamo lontani da ogni tentazione di etnocentrismo, dovrà ammettere però che un immigrato, nella fattispecie, non cristiano, farebbe bene a sapere chi fossero Dante, Michelangelo, Manzoni e che per poter davvero apprezzare le loro opere occorre sapere cosa sono i Vangeli e qual è il significato di un crocifisso... “Evidente. L’incontro con altri è ricchezza. Ma l’incontro delle religioni, delle tradizioni, delle culture, può però essere anche uno scontro. Ecco perché migrare non è solo muoversi. Migrare è un atto esistenziale e politico: incontro e scontro. Faccio un esempio. Sono stata a Palermo in un centro di prima accoglienza dei minori non accompagnati. È giusto che quei ragazzini imparino l’italiano, che leggano Verga e Dante. Ma è giusto anche che ci sia un interesse dalla parte nostra per il loro bagaglio. L’incontro deve essere dialogico. Non lo dico per retorica ma perché l’identità non è fissa, non è granitica, è sempre fluida. E vorrei aggiungere: l’accoglienza non è un gesto di carità né etico, ma un atto politico. Io salvo la tua vita ma poi ti chiedo chi sei e cosa hai in testa”. Abbiamo parlato prima dei confini. Il confine cosa è? È un’invenzione? “È un’invenzione, certo. Fino alla prima guerra mondiale non c’era tutta quella ossessione dei confini che viviamo oggi e che nasce con la fase degli Stati nazionali. Ripeto: oggi è un’ossessione, pensi ai muri che si innalzano: Trump, gli spagnoli. Poi c’è un confine interno, della nostra quotidianità: tra il ricco e il povero, tra l’italiano e l’immigrato. È una frontiera molto forte”. Se lo immagina un mondo senza confini e quindi senza stranieri? “Non credo che lo vedremo, ma me lo immagino. Restano comunque i confini tra me e l’Altro”. Lo straniero è anche uno specchio? “Sì. Nello straniero vediamo la nostra estraneità, che ci fa paura. Gli esempi sono banali; ci fa paura sentire la nostra voce registrata, o guardarci allo specchio osservandoci. Noi questa estraneità la cerchiamo di rimuovere. Dal punto di vista della nostra psiche è la questione centrale. Mi spiego: tendiamo a pensare che la nostra identità sia fissa e immutabile. E invece non è così: oggi siamo diversi rispetto a ieri, per fare un’osservazione banale. Vede, lo straniero è uno specchio della nostra scissione intima, della ferita che ciascuno di noi si porta dentro la psiche. Ora, ci sono persone capaci di introspezione e che quindi sopportano la non integrità. E c’è chi non la sopporta. Lo spiego nel mio libro sui marrani (“Marrani. L’altro dell’altro”, Einaudi, ndr). Loro dicevano “Mirar por dentro” (guardare dentro). Il marrano è costretto a guardarsi dentro. E a vedere la scissione, la non identità. E non sa se il segno della croce lo fa perché ci crede o perché è costretto. In fondo, la psicoanalisi è questo: è accettare la scissione, la grande ferita che ciascuno di noi porta in sé. Pensi a Spinoza, marrano per eccellenza, straniero in tutte le patrie. Ecco, solo uno straniero in patria può dissentire. Una persona invece che si sente tutt’uno con una nazione e con una patria non lo può fare”. Come Antigone, che viola la legga della polis perché si sente straniera in patria. Forse perché è donna? “Sì. Sicuramente c’è un’estraneità delle donne rispetto all’identità maschile, che poi è un’identità per eccellenza. Pensi a Diotima. Però ci sono anche donne che assomigliano ai maschi”. Lei come vede il futuro della sinistra, rispetto alle questioni che abbiamo discusso? “Sono temi che la sinistra ha aggirato, eluso. La sinistra, tra cittadino e migrante si è schierata con il cittadino. Tutti i discorsi della sinistra sono su come governare i flussi, gli sbarchi, l’immigrazione. Del resto, i cittadini votano i migranti no. Quindi la sinistra si occupa dei “propri” poveri, del welfare nel “proprio” Paese e quello che succede fuori dai confini è come se non la riguardasse”. Sinceramente, dove è il problema nel pensare ai propri cittadini e votanti? “Il problema è che la giustizia sociale non è possibile in un Paese solo e certamente non nell’epoca della globalizzazione. La storia della sinistra è la storia dell’Internazionale. Non ci piace più la parola Internazionale? Bene, usiamo un altro termine, ma non si può tradire una vocazione e una tradizione. Altra parola diventata tabù per la sinistra è “proletariato” Ma il proletariato è per eccellenza la classe solidale. Il proletariato non è la classe ripiegata su se stessa, egoista, il proletariato combatte per i diritti di tutti, altrimenti è una corporazione. Il proletariato è la classe che emancipa le altre, quindi deve essere necessariamente solidale e internazionalista. Vorrei aggiungere un’altra cosa: il populismo è la sinistra diventata sovranista”. Egitto. Caso Regeni, Fico fa sul serio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 luglio 2018 L’attivismo del presidente della Camera, il tempo e l’attenzione dedicati alla famiglia Regeni, la volontà d’incontrare anche Amnesty International che ha promosso, ormai due anni e mezzo fa, la campagna “Verità per Giulio Regeni”, sono segnali che Roberto Fico fa sul serio. E, sul piano dei comportamenti istituzionali, è un’importante novità. Nei giorni scorsi, Fico aveva pronunciato parole chiare. Ecco quelle dette in occasione della tradizionale cerimonia del ventaglio: “Il caso Regeni è per me una questione fondamentale. Lo Stato non può rinunciare a perseguire la verità, ne va della dignità dell’Italia. I genitori di Giulio sono combattenti straordinari e non mi arrenderò mai su questo tema. La ricerca della verità sull’uccisione di Giulio Regeni è fondamentale per il nostro Paese. Una battaglia per Giulio, i suoi genitori, il Paese e i diritti umani”. Ieri, altre parole importanti nel corso dell’incontro col presidente del parlamento egiziano. Per la prima volta dal sequestro, dalla sparizione, dalla tortura e dall’omicidio di Giulio Regeni non è stata usata quella congiunzione avversativa, quel “ma” che fin qui ha preteso erroneamente - anche con l’intempestivo e improvvido rientro dell’ambasciatore italiano al Cairo, il 14 settembre 2017 - di tenere insieme la ricerca della verità per Giulio e la necessità di mantenere buoni rapporti con l’Egitto. Quel “ma” precedeva accrediti importanti nei confronti dell’Egitto: dalla qualifica di “partner ineludibile” da parte dell’ex ministro degli Esteri Alfano) fino all’affermazione del vicepresidente del Consiglio Salvini, secondo il quale la ricerca della verità era una mera questione familiare di fronte all’importanza dei rapporti con l’Egitto. Poi il vicepresidente Salvini al Cairo c’è andato e, tra molte altre cose per lui più importanti, ha fatto anche il nome di Giulio Regeni. Come aveva fatto il presidente della Repubblica Mattarella, isolato nel mezzo di un messaggio di congratulazioni per la rielezione del presidente al-Sisi. Dalle parole di Roberto Fico è scomparsa quella congiunzione. I rapporti con l’Egitto saranno migliori, ha detto, se vi sarà piena collaborazione nella ricerca della verità sull’assassinio di Giulio. La verità “vera”. Perché questa fa parte del nostro interesse nazionale. Ho solo una perplessità sulle parole del presidente della Camera. Dichiararsi “contento che la questione sia oggetto di grande attenzione da parte di tutte le istituzioni” è un’affermazione ottimista. Io credo che al momento Roberto Fico sia solo nel pronunciare quel nome e quel cognome con sincerità e sentimento. Sarò felice di ricredermi. Una tragedia africana: migliaia di lavoratori stranieri espulsi dall’Algeria in Niger di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 22 luglio 2018 Il fenomeno è relativamente nuovo, ma viene registrato dalle agenzie Onu e dalle organizzazioni non governative. Lo confermano all’Unhcr, l’agenzia Onu sui profughi. E lo denunciano con forza i responsabili dello Iom, l’Organizzazione Internazionale sulle Migrazioni. Mentre i Paesi europei sono impegnati in polemiche furibonde sulla gestione del fenomeno migratorio, l’Algeria sta tranquillamente espellendo nella totale impunità migliaia di lavoratori africani senza alcun rispetto per i loro diritti e con modalità da crimine organizzato. Il fenomeno è relativamente nuovo, ma viene registrato dalle agenzie Onu e dalle organizzazioni non governative in Niger. Lo confermano allo Unhcr, l’agenzia Onu sui profughi. E lo denunciano con forza i responsabili dello Iom, l’Organizzazione Internazionale sulle Migrazioni. “Da febbraio i lavoratori africani espulsi in malo modo sui due piedi dalle autorità di Algeri verso il territorio del Niger sono tra i 10.000 e 15.000. Ma potrebbero essere molto più alto, visto che solo una parte si registra ai nostri uffici”, ci spiegava il 18 luglio Alberto Preato (nato 35 anni fa a Verona), dal 2016 responsabile del quartier generale di Niamey. Le modalità sono molto simili nei racconti delle vittime. Non si tratta affatto di migranti appena arrivati nella gerontocrazia di Abdelaziz Bouteflika senza lavoro, oppure impegnati a sopravvivere con mezzucci di ripiego al limite della legalità. Quelli che noi stessi abbiamo incontrato nei campi locali della Iom, gli ultimi scacciati sono originari del Mali e del Camerun, lavoravano da almeno due o tre anni nella regione di Algeri. Operai edili, imbianchini, artigiani di ogni tipo. “In maggioranza raccontano di essere vittime di retate dalla polizia algerina. Gli agenti si sono fatti consegnare tutto: soldi, auto, cellulati e documenti. In qualche caso hanno voluto vedere le abitazioni dei loro prigionieri per derubarle indisturbati. Poi, senza alcuna spiegazione, li hanno scortati al confine. Un lungo viaggio in jeep in pieno deserto a sud di Tamanrasset, quindi a piedi, da soli sotto il sole”, aggiunge Preato. Alcuni hanno dovuto marciare per oltre 20 chilometri senza una goccia d’acqua prima di arrivare a Assamka, il posto di blocco dove i soldati del Niger li hanno finalmente dissetati. Tunisia. La tratta delle “bimbe domestiche”, le bambine vendute alle famiglie dei ricchi di Cécile Debarge L’Espresso, 22 luglio 2018 Succede in Tunisia, dove quasi il 10 per cento dei minori tra i 5 e ?i 17 anni lavora anche se la legge lo impedirebbe. E mentre i maschi vengono impiegati nel commercio e nell’agricoltura, le ragazze vengono sfruttate dalle famiglie benestanti. Erano le 16 più o meno. Una Audi A6 gira attorno alla grigia rotonda della piazza principale di Fernana. La città di 5 mila abitanti, nel nord-ovest del paese, è considerata la capitale delle bimbe domestiche. La macchina si affianca a uno degli alberi che fa ombra sulle terrazze che si riempiono appena cala il caldo soffocante di questo mese di luglio. Whalid Ghazouani, trentenne, vede tutta la scena dalla sua postazione. “Qualche minuto dopo arrivano due uomini accompagnati da due bambine, parlano, contrattano, scambiano soldi e le due bimbe salgono sull’Audi”, commenta il trentenne. Le due bambine hanno 10 e 14 anni, vendute dal loro padre per lavorare come domestiche nelle famiglie di un dirigente di Tunisi. Appena capisce che è stato testimone di una vendita di bambine, Whalid Ghazouani si alza per parlare con i due uomini e capire chi sono prima di denunciarli alla polizia. “Non volevano mandare nessuno sul luogo dell’accaduto, non volevano neanche il numero della targa che siamo riusciti a scrivere”, ricorda. Ci vorranno più di undici ore e l’intervento di un giornalista locale che ha dovuto informare il governatore regionale sulla situazione per recuperare le due bimbe. A solo 160 chilometri dalla capitale, Jenduba, capoluogo del governatorato dello stesso nome, svela un altro volto della Tunisia: povero e marginalizzato. Più avanti ancora, quando si lasciano le strade asfaltate per salire sui fianchi delle montagne verso il confine con l’Algeria, solo qualche villaggio resiste ancora alla desolazione. La zona ha una brutta reputazione, quella di essere il rifugio di trafficanti di benzina e di gruppi terroristi. Dopo un’ora di mulattiera percorsa solo da asini, si arriva ad Ouled Khmissa. Una casa di cemento dipinta di bianco accoglie delle donne che raccontano le loro storie. Come tutte le ragazze del villaggio, Hela K., 18 anni, ha rinunciato alle scuole medie : “La strada è brutta, nessun mezzo arriva fino a qua”. Camminava due ore all’andata, due ore al ritorno. Quattro ore a giorno, in cui i genitori temono che le loro figlie siano aggredite lungo le strade deserte. “Io invece sono andata a lavorare a Tunisi per due anni e mezzo”, bisbiglia Neila, 19 anni. Sono sette anni che ha lasciato la scuola e subito dopo ha iniziato a lavorare. Dice di aver badato i bambini della famiglia e di essere stata trattata bene al contrario di altre ragazze: “Ce ne sono che vengono picchiate, maltrattate. Spesso i padroni cercano bimbe molto giovani che non sanno nemmeno pulire per terra e le insegnano a farlo prendendole a legnate”. “Io ho smesso perché mi sentivo sempre sola e triste”, racconta Neila prima di essere interrotta da un rumore metallico che fa calare il silenzio. La porta sbatte, un adolescente ci urla di andarcene, tira le sedie a terra. È il fratello di una delle ragazze, il capofamiglia da quando è morto il padre. Ha deciso che nessuno doveva parlare a degli stranieri. Cinque minuti dopo, altri uomini ci raggiungono e ci suggeriscono di lasciare il posto. Il lavoro dei minorenni è vietato in Tunisia ed è ancora un enorme tabù. Però secondo il primo rapporto nazionale pubblicato lo scorso inverno, i bambini lavoratori tra i 5 e 17 anni sarebbero quasi il 10 per cento del totale. Per i maschi, l’agricoltura o il commercio. Per le femmine, il lavoro domestico. Ouchia Hnia si ricorda di un adolescente di 15 anni che ha accolto nella sua classe. “Sua sorella aveva nove o dieci anni quando i genitori l’hanno mandata a lavorare”, inizia quest’assistente pedagogica del governatorato di Jenduba, “ha sofferto così tanto che si è suicidata”. Il corpo della piccola è stato sepolto di notte, in un altro villaggio. “Le famiglie preferiscono tacere su quello che succede. È risaputo che le bambine che vanno a fare le domestiche subiscono di tutto, che vengono violentate, ma rimane segreto”, denuncia Ouchia Hnia. Da trent’anni, visita tutte le scuole della zona. Da sempre vede i banchi svuotarsi quando i bambini compiono dieci o undici anni. Ma mai come negli ultimi anni. Ora anche le famiglie un po’ più ricche mandano le loro figlie a fare le domestiche, per loro sono sempre soldi che arrivano”, spiega la presidente dell’associazione Donne per la Cittadinanza e lo Sviluppo di Jenduba. Di recente, diversi casi hanno rotto il silenzio. A Fernana, Whalid Ghazouani è diventato attivista da quando ha pubblicato su Facebook la sua testimonianza. Una decina di abitanti si sono riuniti e hanno organizzato una manifestazione per denunciare la vendita delle bimbe e il lavoro domestico. Era la prima volta che Fernana vedeva una tale iniziativa. Spesso, le autorità sono accusate di chiudere gli occhi su queste pratiche. Slah Hyadri, il commissario regionale per la donna, il bambino, la famiglia e gli anziani a Jenduba lo promette, quel caso è stato preso molto sul serio. “Abbiamo parlato con le madri delle bambine e le abbiamo integrate al nostro programma per impedire che le figlie siano costrette a lavorare”, dice con orgoglio il politico. A luglio 2017, il Parlamento ha votato all’unanimità una legge contro le violenze sulle donne. Una parte è dedicata specificamente al lavoro delle minorenni. “È storico”, commenta Neziha Labidi. Nell’ambiente ovattato di un grande hotel della periferia chic di Tunisi, la Ministra della Donna, della Famiglia e dell’Infanzia, non nasconde il problema : “La sfida più grande che abbiamo è sensibilizzare i genitori che pensano solo a guadagnare soldi ma anche gli intermediari e questo per noi è un modo di lottare contro la violenza e la corruzione”. Nel febbraio 2017, la Tunisia si è dotata della sua prima piattaforma nazionale contro la tratta degli esseri umani. Il caso delle lavoratrici domestiche è uno dei più classici che gestisce. Due numeri verdi e un sito internet devono ricevere le segnalazione che ogni cittadino può fare. “Per porre fine a questo fenomeno, dobbiamo sensibilizzare, certo, pero innanzitutto applicare la legge, nel momento in cui le persone capiscono che rischiano dieci anni di galera, otterremo risultati impressionanti”, conclude Neziha Labidi. Nel 2016, al livello nazionale, i servizi di protezione dei minorenni hanno ricevuto 141 segnalazioni di bambini sfruttati lavorativamente. Una cifra stabile, mentre sarebbero più di 215 mila i minorenni che lavorano nel paese. Russia. Il colpevole ritardo della Corte di Strasburgo sul delitto Politkovskaja di Roberto Persia L’Espresso, 22 luglio 2018 Le parole del capo redattore di Novaja Gazeta, Vjacheslav Izmailov, nel 2007 e quelle della Corte europea del 2018 concordano sulle trame intorno all’omicidio della giornalista. Quello che non coincide sono gli anni. “Sappiamo chi è stato ad ucciderla”. Lo affermava nel 2007 Vjacheslav Izmailov, capo redattore di Novaja Gazeta, il giornale su cui Anna Politkovskaja ha pubblicato i suoi articoli fino al 7 ottobre del 2006, quando un sicario l’ha uccisa sulla porta di casa, a Mosca. “La prima conclusione certa è che Anna è stata uccisa per i suoi articoli. Noi non vogliamo dire in modo superficiale che il mandante sia Putin o Kadyrov”, insiste Izmailov, “stiamo cercando esecutori e mandanti”. Proprio per questo motivo la madre, la sorella e i figli della giornalista sono ricorsi alla corte di Strasburgo nel 2007. Il 13 luglio del 2018 la corte si è espressa così: “lo stato russo ha mancato agli obblighi relativi alla effettività e alla durata delle indagini”, violando in questo modo la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo la corte, le autorità “hanno sviluppato una teoria sull’istigatore all’omicidio, dirigendo la loro indagine su un uomo d’affari russo che risiedeva a Londra, ora deceduto” e ha comminato una multa di 20.000 euro al governo di Mosca. Il Cremlino avrebbe dovuto studiare altre piste che avrebbero portato agli agenti dell’FSB o all’amministrazione della Repubblica cecena, si legge dal rapporto. L’uomo di Londra era Boris Abramovic Berezovski, oligarca russo anti-Puti, e a parlarne 11 anni fa era stato sempre Vjacheslav Izmailov. “Cercano di depistare le indagini verso Berezovski”, diceva nel 2007 il capo redattore di Novaja Gazeta. La paura era rivolta all’operato del Fsb, ex Kgb, che puntava ad ottenere l’estradizione dell’oligarca russo, cercando di coinvolgerlo nell’avvelenamento dell’ex ufficiale del FSB avvenuto a Londra. Secondo Izmailov, “per poi fargli fare la fine di Kodorkovski”, il magnate finito in galera, perché “dai servizi segreti non si esce mai”. Nel frattempo, durante questi anni, il primo processo nel 2009, si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati per mancanza di prove. A distanza di tre anni l’inchiesta è stata riaperta: è stata condannato ad undici anni di carcere un ex colonnello della polizia, responsabile della sorveglianza della reporter. Nel terzo processo, quello del 2014, sono stati condannati cinque sicari, esecutori materiali dell’omicidio. I figli di Anna Politkovskaja, Vera e Ilya, non si sono mai accontentati e hanno continuato a chiedere la verità sul mandante dell’omicidio della madre, ancora oggi “ignoto”.