Riforma penitenziaria: a che punto siamo? di Marco Magnano riforma.it, 21 luglio 2018 Le commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno bocciato la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’ex ministro Orlando, ma il parere non è definitivo. In un recente articolo pubblicato sul suo blog, il comico e garante del Movimento 5 Stelle, Beppe Grillo, è tornato su un tema non del tutto nuovo per lui e per il movimento da lui fondato: il carcere. Sin dal titolo del suo intervento, Un mondo senza carceri, è chiara la sua posizione. Il sistema dell’esecuzione penale nel nostro Paese poggia ancora su una legge del 1975 e questo fa dire a Grillo che è “antico come il mondo e non funzionante”. “Il vero problema - aggiunge poi - sono i recidivi”, ovvero i detenuti che tornano in carcere dopo esserci già stati. Sulla base della considerazione per cui quasi due persone su tre (il 63%) tra quelle che si trovano in un istituto penitenziario lo avevano già frequentato in precedenza, per Grillo la reclusione “non funziona”. Tuttavia, se la sua posizione è piuttosto netta, non è scontato comprendere quale sia la visione del sistema penale in seno al Movimento 5 Stelle. Proprio nelle ore precedenti alla pubblicazione di questo articolo, infatti, le Commissioni Giustizia del Senato e della Camera, una dopo l’altra, avevano bocciato la riforma del sistema penitenziario, sulla quale il ministro Alfonso Bonafede, appena insediato, aveva espresso la propria contrarietà. Il riordino dell’esecuzione penale era stato avviato dal suo predecessore, Andrea Orlando, che l’aveva inserito nella riforma della giustizia, approvata dal Parlamento il 23 giugno 2017. Il Consiglio dei Ministri scriveva che “il provvedimento ha principalmente l’obiettivo di rendere più attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla riforma del 1975, per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza di Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e Corti europee”, in particolare “riducendo il ricorso al carcere in favore di situazioni che, senza indebolire la sicurezza della collettività, riportino al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata dall’art. 27 della Costituzione”. Il riferimento è al terzo comma, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Stando ai tassi di recidiva citati prima, è chiaro che il sistema non svolge questa funzione. Nel testo della riforma Orlando era espressa anche l’intenzione di muoversi nel tentativo di “diminuire il sovraffollamento, sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere, sia potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva”. Tuttavia, la riforma della giustizia, dopo l’insediamento del nuovo governo Lega-5 Stelle, è stata delegata ed è stata bocciata da Camera e Senato, anche se non in termini definitivi visto che dovrà essere discusso entro la deadline del prossimo 3 agosto, altrimenti il testo decadrà. “Il punto - secondo Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, che ha contribuito negli scorsi anni alla stesura della riforma - è l’idea di pena. I nostri padri costituenti avevano chiara la speranza che l’Italia riuscisse a utilizzare non solo la pena carceraria come sanzione, ma anche strumenti di tipo differente, che sono oggettivamente più utili all’intera società”. La bozza di riforma cercava infatti di allargare il perimetro delle misure alternative alla detenzione, le pene scontate almeno in parte fuori dalle mura del carcere, naturalmente sotto il controllo della magistratura e dei servizi sociali. Si tratta di un modello che ricalca quello delle Community Sanctions già presenti in molti ordinamenti in Europa. “Costano terribilmente di meno del carcere - aggiunge Marietti - e poi scontandosi nella comunità, quindi non recidendo i legami del cittadino con il resto della società, fanno sì che non ci sia bisogno di reintegrare, ma che ci sia una continuità dell’integrazione sociale”. Tra le critiche mosse alla riforma da parte di una componente del Movimento 5 Stelle e soprattutto da parte della Lega, spicca la posizione secondo cui il riordino dell’esecuzione penale in favore di misure alternative metta in dubbio il principio della “certezza della pena”, che per il ministro degli Interni Salvini corrisponde a “chi sbaglia paga”, minando di conseguenza la sicurezza sociale. “In realtà - ribatte Susanna Marietti - visto che con le sanzioni di comunità la recidiva viene abbattuta, la sicurezza dei cittadini è assolutamente garantita”. Di parere opposto proprio il Movimento 5 Stelle: subito dopo la bocciatura, il senatore Giarrusso si è rallegrato della decisione delle Commissioni, definendo la riforma “uno svuota-carceri mascherato”. Ogni pena che si svolge fuori dal carcere, insomma, viene considerato dai partiti al governo come un’assenza di pena. “È fattualmente falso - commenta Marietti - perché l’affidato si sveglia la mattina e dal momento in cui si alza dal letto al momento in cui vi ritorna deve seguire un rigidissimo programma di prescrizioni, stilate dal magistrato con la supervisione dei servizi sociali. È assolutamente soggetto alla pena, semplicemente invece che scontare questa pena sdraiato in una branda in una cella lo farà lavorando, studiando, facendo lavori di pubblica utilità e tutto quello che deve fare”. Inoltre, le commissioni hanno espresso contrarietà anche a una delle misure adottate negli scorsi anni in seguito alla sentenza Torreggiani, ovvero la sorveglianza dinamica per almeno 8 ore al giorno, un modello di controllo da parte degli agenti di Polizia Penitenziaria che si basa sulla conoscenza personale degli individui detenuti e delle dinamiche che si creano in una sezione, il modello delle cosiddette “celle aperte”. Si tratta di uno degli aspetti maggiormente criticati dal Movimento 5 Stelle, che su questo tema ha accolto pienamente la posizione dei sindacati di polizia più conservatori. Quando lo scorso aprile la Commissione speciali della Camera aveva deciso di non calendarizzare l’esame finale sul primo dei quattro decreti che compongono la riforma, l’allora ministro Orlando aveva inviato una lettera affermando che “la mancata attuazione della riforma rischierebbe di pregiudicare gli importanti passi compiuti, che hanno determinato la chiusura del monitoraggio al quale il nostro Paese era stato sottoposto a seguito della condanna della Corte Europea dei Diritti dell’uomo del gennaio 2013”. Dello stesso parere Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio sul carcere dell’Unione delle Camere penali italiane, secondo cui “la riforma dell’ordinamento penitenziario è necessaria, quasi un obbligo per l’Italia”. L’urgenza della riforma diventa evidente se si guarda a quel che succede nelle carceri: durante i primi tre mesi del 2018 si sono registrati undici suicidi, mentre il numero dei detenuti continua a crescere. Oggi sono infatti oltre 58.000 le persone recluse, ben oltre i 50.000 posti disponibili. A questo va aggiunto che più di un detenuto su tre è ancora in attesa di giudizio. “Questo processo va avanti dall’inizio del 2016, sta ritornando il sovraffollamento nei numeri che erano scesi dopo la sentenza Torreggiani. In carcere si ricomincia a vivere in maniera sovraffollata e in molte carceri è stata messa la terza branda nel letto a castello, quindi si ricomincia a vivere con detenuti che dormendo sfiorano col naso il soffitto. La situazione non è ancora allarmante come quella a cui siamo stati abituati alcuni anni fa, però si percepisce che tutto in carcere si sta di nuovo chiudendo. Stiamo tornando a una detenzione vecchio stile”. Francesco Sciotto, pastore delle chiese di Scicli e Pachino, spiega che “quello che cambierà se la riforma dovesse passare, sarà la qualità della vita dei detenuti. Ci saranno più prospettive di miglioramento della propria condizione: quando faccio un colloquio con una persona in carcere sapere che la sua situazione è più disposta a un mutamento in meglio è già una cosa che riempie la vita delle persone. Avere una riforma che faciliti il mutare della condizione di detenzione certamente cambia, si riverbera sui rapporti pastorali che hai con le persone. La riforma può cambiare le cose anche nel rapporto con la propria interiorità, con le sue prospettive di miglioramento”. Intervista a Glauco Giostra: “carceri, c’è una riforma da salvare” di Angelo Picariello Avvenire, 21 luglio 2018 Parla il presidente della commissione che ha lavorato alla normativa dell’ordinamento penitenziario, ora bocciata dalle Commissioni Giustizia. Non si può seppellire la riforma a colpi di slogan sulla certezza della pena. “Nessuno svuota-carceri, solo maggiore possibilità di ricorso alle misure alternative, in linea con la Costituzione e la stessa convenienza generale”. Il professor Glauco Giostra, presidente della Commissione che lavorò a lungo, la scorsa legislatura, alla riforma dell’ordinamento penitenziario difende l’impianto della normativa, che sembra invece avviata a un binario morto. Ma difficilmente il governo si discosterà dai pareri contrari che sono arrivati delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato... L’odierna maggioranza ha, rispetto alla riforma penitenziaria, un problema politico ed uno tecnico. Il problema politico è costituito dalle prese di posizione violentemente critiche espresse durante la campagna elettorale. Senza aver mai neppure fugacemente esaminato il progetto di riforma (perché altrimenti la cosa si farebbe molto più preoccupante), ci si è abbandonati ad invettive prive di qualsiasi fondamento, complice la contesa elettorale nel corso della quale tutte le forze politiche danno puntualmente il peggio di sé. Quando si ha alle spalle amenità del tipo “è una riforma che favorisce la mafia”, “ci sarà un allentamento del regime del 41bis”, “è una riforma criminale”, è poi quasi impossibile affrontare con obiettività la questione. A ciò si aggiunge una difficoltà di tipo tecnico: nessuno sarebbe in grado di analizzare in poche settimane questo complesso disegno riformatore che la precedente maggioranza ha lasciato in eredità all’attuale per calcoli elettoralistici: miopi, a giudicarli ex ante; patetici, a giudicarli ex post. Ma l’attuale governo, ove ritenesse importante ma migliorabile la riforma, avrebbe davanti a sé due vie: approvarla, farla divenire esecutiva e avvalersi del potere, che la stessa delega gli conferisce, di apportare entro un anno con decreto tutte le modifiche ritenute necessarie; oppure approvarla, differirne l’entrata in vigore di un anno o più, per avere un tempo ragionevole che gli consenta di elaborare modifiche attentamente meditate prima dell’entrata in vigore. Anche il Ministro della Giustizia ha più volte fatto riferimento alla necessità di salvaguardare il principio di certezza della pena… Quando si usano espressioni vaghe come questa, si ha l’onere di precisarne il significato. Se si intende affermare che il condannato - qualunque sia la sua evoluzione comportamentale - deve rimanere in carcere sino all’ultimo giorno della pena irrogata, si inventa un principio che non solo già oggi non trova attuazione, ma che è contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla Costituzione. Proprio in questi giorni la Consulta ha affermato che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato (…); ma che non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società”. O, ad esempio, la pena non è certa perché il giudice può infliggere al rapinatore da 4 a 10 anni? Se a nessuno è mai venuto in mente di sostenerlo è perché tutti comprendono che la discrezionalità concessa al giudice serve per meglio commisurare la pena alla gravità del fatto concreto. Perché, allora, quando le modalità di esecuzione e talvolta la durata della pena sono calibrate dal giudice sulla base dell’evoluzione comportamentale del soggetto, si parla di incertezza della pena? Come non si pretende che tutti i rapinatori siano puniti con “x” anni a prescindere dal fatto di cui si sono resi responsabili, non si dovrebbe pretendere che tutti i condannati scontino la stessa pena a prescindere dal loro comportamento nel corso dell’espiazione. Quindi lei contesta del tutto che la riforma si risolva in uno “svuota-carceri”? Se con il rozzo neologismo di “svuota-carceri” si intende alludere a provvedimenti di automatica fuoriuscita dal carcere le dico che la riforma in realtà abroga l’unica normativa “svuota-carceri” presente nel nostro ordinamento (la legge 199 del 2010, che prevede l’espiazione presso il domicilio delle pene sino a 18 mesi) e non introduce nessuna disposizione analoga. Prevede solo una più ampia possibilità di adottare misure alternative alla detenzione quando il condannato ha dato prova di potere rispettare prescrizioni impegnative (molto più di quelle attuali), anche nell’interesse della collettività, sotto il controllo dell’Uepe e della polizia penitenziaria. Bonafede: “riforma delle carceri, far stare insieme rieducazione e certezza della pena” Il Dubbio, 21 luglio 2018 “Stiamo lavorando su questa riforma fin dall’inizio, chiaramente non abbiamo condiviso la linea alla base della riforma, soprattutto sulla parte che riguarda l’esecuzione della pena, perché toglieva dei paletti importanti, secondo noi agendo in quel senso avrebbero eliminato la certezza della pena. Sappiamo che ci sono dei pareri negativi sul testo da parte delle Commissioni parlamentari e quindi stiamo cercando di agire nel senso di individuare quelle parti che possono migliorare la vita dei detenuti in carcere senza minare la certezza della penà. Lo dichiara il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede all’Agi, interpellato a margine del giuramento dei nuovi agenti della Polizia Penitenziaria, parlando della riforma del sistema carcerario, la cui delega scade il 3 agosto. “Intendiamo investire in tutto ciò che riguarda l’esecuzione della pena - ha aggiunto - c’è una parte della riforma penitenziaria che condividevano, quella che riguarda il lavoro come forma di reinserimento del detenuto nella società, quella che riguarda i minori, a cui tengo tantissimo!. Quindi il Guardasigilli ha sottolineato: !Su quelle parti è più semplice lavorare, sul resto che ha una scadenza immediata stiamo cercando di fare tutto il possibile nonostante l’atteggiamento della maggioranza che ci ha preceduto sia stato inaccettabile. Hanno portato avanti una riforma senza mai prendere in considerazione quello che diceva il Parlamento, ma non il M5S quando era all’opposizione ma nemmeno quello che dicevano i pareri Pd nelle Commissioni, avevano fissato dei paletti che sono stati totalmente ignorati. In campagna elettorale, siccome era impopolare, hanno fatto un passo indietro, dopodiché hanno perso le elezioni e sono andati avanti facendo trovare il governo in una situazione incredibile”. Quanto all’ipotesi di una proroga della riforma Bonafede ricorda: “Siamo stati costretti a fare i miracoli in pochi giorni ma non credo servirà una proroga perché c’è la necessità di intervenire e di dire quello che possiamo salvare. Alla base di tutto conclude - c’è l’esigenza di far stare insieme la rieducazione e la certezza della pena”. Scandurra (Antigone): “sistema carcerario tra sovraffollamento ed edilizia fatiscente” di Pietro Adami tg24.sky.it, 21 luglio 2018 I circa 200 istituti di pena ospitano una popolazione di 58.759 persone: nell’ultimo anno c’è stata una crescita di più di 2.000 detenuti. Spesso le condizioni non sono a norma. “Il patrimonio penitenziario è mediamente molto vecchio”, spiega Alessio Scandurra. L’ultimo episodio avvenuto nel carcere di Opera, a Milano, dove alcuni detenuti hanno protestato per la presenza di topi all’interno dell’istituto, riaccende i riflettori sulla condizione delle carceri italiane. I circa 200 istituti di pena italiani ospitano una popolazione di 58.759 persone: nell’ultimo anno c’è stata una crescita di più di 2.000 detenuti. Non aumenta, però, la capienza degli istituti, che registrano un sovraffollamento del 116%. “Una situazione preoccupante, che non mostra segni di miglioramento”, sottolinea a Sky TG24 Alessio Scandurra, coordinatore per Antigone dell’Osservatorio sulle condizioni carcerarie dei detenuti. Alla Lombardia il primato del sovraffollamento - Dal 1998 Antigone è autorizzata dal ministero della Giustizia a visitare le circa duecento carceri italiane. Dall’ultimo rapporto pubblicato ad aprile 2018 emerge come la Lombardia detenga il primato del sovraffollamento: il carcere di Como ha un tasso del 200% (462 detenuti per 231 posti), quello di Brescia arriva al 184%. Il rapporto evidenzia inoltre un dato paradossale, ovvero che, nonostante il numero dei detenuti sia in costante aumento dal 2015 (6mila in più), i reati registrati nel nostro Paese diminuiscono: nel 2016 gli ingressi in carcere erano circa 1.500 in più dell’anno precedente, mentre i reati denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria erano 200.000 in meno. Scandurra (Antigone): Si corre sempre dietro l’emergenza - Per quanto riguarda le condizioni interne agli istituti, visitando le strutture Antigone ha riscontrato che in 16 non vengono garantiti i tre metri quadri calpestabili a cui ciascun detenuto, dopo i pronunciamenti della Corte europea e della Cassazione, avrebbe diritto. In otto non è previsto il riscaldamento, in 37 non vi è spazio dedicato alle lavorazioni, in 50 c’erano celle senza doccia e in quattro il wc non era in un ambiente separato dal resto della cella. “Il patrimonio di edilizia penitenziaria è mediamente molto vecchio - spiega Scandurra - una situazione incomparabile rispetto a qualsiasi altro Paese al mondo”. Secondo il coordinatore, mancano investimenti manutentivi e spesso “si corre dietro l’emergenza, come quando piove dentro”. Anche se si ristrutturano i vecchi edifici e le condizioni generalmente migliorano, ci si “muove molto lentamente”. Anche i suicidi in aumento - Nel 43% dei penitenziari visitati da Antigone non ci sono corsi di formazione professionale attivi, mentre solo un detenuto su cinque va a scuola in carcere. Se si considera il più drammatico degli indicatori del benessere detentivo, quello del numero di suicidi, negli ultimi dieci anni il numero dei morti è salito dai 46 del 2008 ai 52 del 2017. “Al momento, secondo il nostro Osservatorio la cosa più importante è difendere le celle aperte”, spiega Scandurra, riferendosi alla possibilità per i detenuti dal 2011 di uscire dal proprio spazio detentivo durante il giorno, per almeno otto ore. “Siamo molto preoccupati - conclude - dal clima che si respira in Italia: fra due anni potremmo essere solamente in una situazione peggiore”. Nuovo Csm, e la cultura di genere? di Antonio Rotelli Il Manifesto, 21 luglio 2018 Non conta che l’attuale Parlamento sia quello con più donne elette della storia repubblicana. Per l’organo supremo della magistratura sono stati scelti solo uomini. Abbiamo il nuovo Consiglio superiore della magistratura (Csm), che entrerà in carica a settembre 2018. Tutti i suoi componenti sono stati eletti: 2/3 dai magistrati e 1/3 dal Parlamento, come recita la Costituzione. In tutto i membri sono 24, a cui si aggiungono il Presidente della Repubblica, il Primo presidente e il Procuratore generale della Cassazione. Tutto bene, quindi. Anzi no, tutto male. Il potere, anche se esercitato nelle forme vere o apparenti della democrazia, ci ricasca sempre e compie scelte che frenano la cultura e la civiltà di questo nostro Paese: nel caso specifico mi riferisco all’assenza o alla poco significativa presenza femminile nelle funzioni direttive o apicali dei nostri uffici e delle nostre istituzioni. Il potere è maschio e tende a conservarsi come tale. Non conta che quello da poco eletto sia il Parlamento con più donne della storia repubblicana (ma la percentuale è molto vicina a quella della passata legislatura, segno che la legge elettorale, con i suoi escamotage, ha ridotto notevolmente gli effetti dei limiti delle candidature per genere) e non conta che il gruppo parlamentare con il maggior numero di donne sia quello del Movimento 5 Stelle. Su 8 membri laici da mandare al Csm, il Parlamento ha eletto: Alberto Maria, Filippo, Fulvio, Stefano, Emanuele, Alessio, Michele e David. Tutti uomini! E il partito con più donne in Parlamento, ha anche svolto le primarie sul suo sito, inserendo nella rosa dei papabili solo uomini e nessuna donna da far votare ai suoi iscritti. Con buona pace di chi si ostina a pensare che il Parlamento sia non solo la sede istituzionale dove si fanno le leggi sulla parità di trattamento, ma il primo presidio dove questa si attua. Per completare il fosco quadro e le tendenze del potere, per il quale sono cambiate le persone che lo incarnano, ma non la sostanza, e quindi non la loro cultura, il Parlamento ha finalmente eletto - dopo quasi due anni da che il posto si era reso vacante - il quindicesimo giudice della Corte costituzionale. E quale donna è stata eletta? Luca, ancora un uomo. Così, dopo oltre 70 anni dalla sua nascita, il Parlamento repubblicano è fermo alla elezione di una sola donna alla Corte costituzionale (nel 2014), dopo una lunga campagna perché ciò accadesse, portata avanti da tante donne, uomini, tra cui il sottoscritto, e associazioni. Ma sembra che sia servito a poco, dal momento che non siamo riusciti a cambiare la cultura del centro della democrazia. Quattro anni fa, il Parlamento aveva eletto al Csm 2 donne, che erano già poche, mentre peggio erano riusciti a fare i giudici ordinari votando tra i membri togati 1 sola donna su 16 eletti. Questa volta tra i giudici togati è andata meglio, perché le donne elette sono 4 e così nel complesso, il Csm avrà una donna in più della volta precedente, quando in tutto erano 3. Ma che delusione! Esiste un problema culturale e i numeri lo rendono evidente, ma soprattutto ci sono delle conseguenze che sottovalutiamo. Per comprendere la gravità della situazione, bastano alcuni dati statistici. Le donne in magistratura oggi sono il 52% e nei concorsi ormai da un pezzo dimostrano di essere migliori dei colleghi maschi. Nell’ultimo concorso, ad esempio, il 63% delle vincitrici sono state donne. Ma se si guardano le statistiche degli incarichi direttivi e semi-direttivi in magistratura, le percentuali delle donne si invertono, scendendo rispettivamente al 27% e al 36%. E chi sceglie i magistrati a cui affidare quegli incarichi? Il Consiglio superiore della magistratura! Non mi pare possa negarsi che la composizione di genere abbia un impatto a mio avviso determinante su queste scelte. È la storia del potere (maschile) che tende a conservarsi e rigenerarsi. La stessa cosa vale per gli uffici a giurisdizione o di competenza nazionale, dove le donne sono solo il 33% (tutti i dati che ho fornito provengono dall’Ufficio statistico del Csm e sono aggiornati a luglio del 2017). Il Parlamento aveva il dovere di scegliere alcune tra le tantissime professioniste che hanno i requisiti per diventare componenti del Csm. Anche in questo caso, i numeri fanno la differenza: le avvocate italiane, anche se di poco, sono più numerose dei colleghi maschi, mentre nel mondo accademico sono donne il 52% dei dottori di ricerca, il 48% dei ricercatori, il 37% dei professori associati, il 22% degli ordinari (dati al 31 dicembre 2016). Il basso numero delle ordinarie è l’emblema del potere maschile, che nelle università si conserva con grande maestria. Ma proprio per questo, in quel 22% per cento, andavano scelte quelle giuriste e ce ne sono tante - che molto lustro avrebbero potuto dare al Csm. Come vogliamo che le cose cambino, che venga assimilata da tutti la cultura di genere e la sua importanza per ogni questione che interessa il Paese, se il Parlamento e la nuova classe politica dirigente dimostrano ignoranza e tracotanza del potere su questi temi? Davigo: “Ecco il mio piano per il Csm. Toccare la legittima difesa? Dissennato” di Lorenzo Lamperti affaritaliani.it, 21 luglio 2018 Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite, spiega ad Affaritaliani.it il suo piano per il Csm. Piercamillo Davigo, che cosa può portare lei al Csm? Io sono stato eletto sulla base della linea che ho prospettato e cioè che per i magistrati la prima regola non può che essere il rispetto delle regole. Siccome, specialmente nelle nomine, non erano più comprensibili i criteri a cui il Csm si è attenuto, sono convinto che sia necessario riportare alla comprensibilità queste scelte. E opererò per questo. Le correnti hanno troppo peso all’interno del Csm? Il problema non è questo. Si tratta di un fatto spontaneo che secondo me le leggi non hanno risolto, anzi hanno aggravato. Per esempio, il nostro sistema elettorale con tre collegi unici nazionali (uno per giudici di merito, uno per i magistrati del pubblico ministero e uno per i magistrati di legittimità) ha rafforzato il potere delle correnti, anziché indebolirlo. Innanzitutto perché un candidato è difficile che sia conosciuto dappertutto e quindi ha bisogno di qualcuno che gli procuri i voti. E questo richiede un’organizzazione. In secondo luogo, se uno deve girare tutta l’Italia ha bisogno almeno di qualcuno che lo vada a prendere alla stazione e lo porti al palazzo di giustizia, visto che arriva in una città che nemmeno conosce. Quindi un collegio unico nazionale rafforza le correnti, non le indebolisce. Detto questo, il problema non sono le correnti. La libertà di associazione vale per tutti, anche per i magistrati, ed è garantita dalla Costituzione. Il problema è che le correnti si sono trasformate da centri di elaborazione culturale, che è la ragione per cui erano nate, in organizzazioni di tutela degli interessi degli appartenenti. E questo va molto meno bene. In che modo si può intervenire su questa situazione? Si può intervenire con una diversa legge elettorale e con la trasparenza delle scelte consiliari. Questo è un altro degli argomenti. Se fosse messo su intranet tutto quello che viene esaminato, per esempio dalla commissione direttivi, probabilmente i magistrati potrebbero farsi un’opinione più precisa sull’operato del Csm di quanto non possano fare oggi. Quale sarebbe una corretta legge elettorale? Se dovessi proporla io direi una serie di collegi uninominali, distrettuali per i distretti più grandi e pluri-distrettuali per i distretti più piccoli. Lei ha preso quasi un voto su tre ma i candidati al ruolo di giudici di merito della sua corrente non sono stati eletti. Che analisi ha fatto sull’esito del voto? Noi non siamo riusciti a eleggere i nostri candidati a giudici di merito per una manciata di voti. Questo è accaduto in parte perché io ho sottovalutato il quorum, nel senso che nel precedente Consiglio gli ultimi eletti avevano preso meno voti di quanti ne hanno invece presi i miei candidati non eletti. Ciò è successo a causa della maggiore affluenza al voto, elemento che ho sottovalutato perché i cosiddetti indipendenti avevano invitato a non andare a votare. Ho pensato avessero un seguito che in realtà non avevano. Come si può giudicare il fatto che il Parlamento non abbia eletto donne tra i membri laici del Csm? Non mi occupo di quello che fa il Parlamento. Faccio solo notare che tra di noi sono state elette delle donne. Che cosa risponde a chi accosta le sue idee in materia di giustizia a quelle del M5S? Trovo assurda questa cosa. Io faccio il magistrato, non mi sono mai occupato di politica e non mi interessa farlo. Ho sempre detto che non esistono governi amici e non esistono governi nemici. Il governo fa il mestiere suo e noi facciamo il nostro. Sono cose e piani assolutamente diversi. Da anni, forse decenni, si parla di “scontro” tra politica e magistratura. Ma questo scontro esiste? Non c’è nessuno scontro. Noi reprimiamo i reati. Se uno è accusato di un reato noi facciamo il mestiere nostro. Chi non fa il proprio mestiere è la politica perché quando uno dice che bisogna aspettare le sentenze rinuncia a esercitare il controllo politico che gli compete. Io uso spesso la metafora dell’argenteria: se invito il mio vicino di casa a cena a casa mia e lo becco uscire con l’argenteria in tasca non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo più a cena. È sufficiente che io l’abbia visto uscire con l’argenteria. Ora uso un paragone più pesante. Ma se il mio vicino di casa è stato condannato in primo grado per pedofilia io gli affido mia figlia di sei anni per accompagnarla a scuola dicendo che bisogna aspettare la sentenza della Cassazione? Ma non scherziamo. La politica però fa l’esatto opposto. Se io dico queste cose mi dicono che non sono garantista. Ma non sono garantista di che? Non sono garantista della mancanza di buon senso? Perché questa è mancanza di buon senso. Ci sono poi casi in cui magari delle azioni non punibili dal punto di vista penale ma che possono essere comunque estremamente riprovevoli. C’è una valutazione del tutto autonoma e indipendente che dovrebbe fare la politica. Se invece si dice che bisogna aspettare la sentenza definitiva si lascia alla magistratura la selezione della classe politica, che non è compito nostro. Tra i temi di attualità in materia di giustizia c’è quello della legittima difesa. Lei che cosa ne pensa? C’è bisogno di un intervento legislativo? Si parla di questa storia della legittima difesa da molti anni e c’è già stata una riforma. Vorrei fare solo un’osservazione: la legittima difesa, così com’era concepita nel testo originario del codice, non l’aveva scritta un pericoloso sovversivo ma Alfredo Rocco, il Guardasigilli di Mussolini. È stata in piedi 60 anni e a nessuno è mai venuto in mente di cambiarla. Se poi c’è un problema di preoccupazione dell’opinione pubblica questa deriva dalle leggi che hanno fatto per tirare fuori di galera i delinquenti. Trovo dissennato mettere fuori i delinquenti e poi dire alla gente che li può ammazzare. A proposito di carceri, da una parte c’è chi parla di riforma e dall’altra (per esempio Grillo) chi sostiene siano inutili e insiste sulle pene alternative. Lei che cosa ne pensa? Come sempre è questione di serietà. Le pene alternative sono una cosa importante che va benissimo se sono fatte seriamente. Il problema è che se non c’è il modo di fare controlli effettivi ed efficaci, che cosa sono le pene alternative? Faccio solo questo esempio: se si vanno a vedere le statistiche delle persone messe agli arresti domiciliari o al servizio sociale si scopre che nel giro di uno, due o tre giorni queste trovano un lavoro. In un Paese dove c’è una disoccupazione altissima. Saranno lavori veri? È una domanda legittima da porsi. Perché se invece basta mettere uno agli arresti domiciliari per far sparire la disoccupazione la ricetta è subito trovata dal punto di vista dell’economia. Quindi, evidentemente, non si tratta di lavori veri. Trattativa Stato-mafia: i Ros e le strane dimenticanze di chi sapeva di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 21 luglio 2018 Nelle motivazioni della condanna degli ex ufficiali dell’Arma coinvolti vengono sottolineati i contatti con “interlocutori mafiosi”. Il fatto che i carabinieri del Ros cercassero “coperture politiche” per i loro contatti con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino dopo la strage di Capaci, è la dimostrazione che l’obiettivo non era solo l’acquisizione di notizie utili alla ricerca dei boss latitanti, ma volevano “instaurare un dialogo con Cosa nostra per ottenere che questa ponesse termine alla strategia di contrapposizione totale con lo Stato”. Così scrivono i giudici della Corte d’Assise per motivare la condanna degli ex ufficiali dell’Arma Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno (insieme a Marcello Dell’Utri e alcuni “uomini d’onore”) per il reato di “minaccia a corpo dello Stato” nella cosiddetta trattativa fra le istituzioni e le cosche. Non solo. Mori e De Donno “si accreditarono verso gli interlocutori mafiosi dicendo loro (o facendo credere loro) di rappresentare le istituzioni dello Stato o coloro che, comunque, avrebbero avuto il potere di soddisfare eventuali richieste indicate dai vertici mafiosi”. Testimonianze tardive - La vicenda delle “coperture politiche” è racchiusa nelle informazioni giunte all’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli attraverso Liliana Ferraro, che dopo Capaci aveva preso il posto di Giovanni Falcone; al segretario generale della presidenza del Consiglio Fernanda Contri; al presidente della commissione antimafia dell’epoca, Luciano Violante. Lo hanno raccontato gli stessi destinatari dei contatti, “sia pure tardivamente” e solo dopo che ne aveva accennato Massimo Ciancimino, il figlio di “don Vito”. La sentenza parla di “eclatanti dimenticanze” della Ferraro, e sottolinea i silenzi pluriennali sia di Violante che di Contri; solo la nuova indagine avviata nel 2009 con le prime dichiarazioni di Ciancimino jr ha “fatto “recuperare la memoria” a molti esponenti delle istituzioni di allora”, e i giudici inseriscono nell’elenco pure gli ex Guardasigilli Martelli e Giovanni Conso. Non ci sono indicazioni sulle ragioni delle “reticenti dichiarazioni” nelle precedenti inchieste della Ferraro e degli altri, che dal 2009 hanno contribuito a costituire l’ossatura dell’accusa e - oggi - delle motivazioni delle condanne. La Corte d’Assise ritiene invece di aver individuato il vero motivo per cui Mori volle avvisare quelle persone dei suoi incontri con Vito Ciancimino (non però i i suoi superiori nell’Arma, né lo stesso Paolo Borsellino, come gli aveva consigliato la Ferraro): la trattativa per “superare la loro contrapposizione frontale” tra Stato e mafia. Che nella lettura dei giudici ha ottenuto l’effetto contrario, rafforzando il ricatto di Cosa nostra. “Può ritenersi provato oltre ragionevole dubbio - si legge nella sentenza - che fu proprio l’improvvida iniziativa dei carabinieri del Ros a indurre Riina a tentare di sfruttare ai propri fini quel segnale di debolezza delle istituzioni pervenutogli dopo la strage di Capaci”. Ministro condizionato - In un altro passaggio delle motivazioni è scritto che “la storia non si fa con i se, ma è ferma convinzione della Corte che senza l’apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina si sarebbe inevitabilmente esaurita con l’arresto di quest’ultimo nel gennaio 1993”. Operato proprio dal Ros di Mori, e caratterizzato dalla “anomala omissione della perquisizione” del covo. Per quella vicenda Mori è stato assolto con sentenza definitiva, così come per la mancata cattura di Provenzano nell’ottobre 1995, ma i giudici ritengono che si possa “inquadrare nel contesto delle condotte del Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa”. I giudici ritengono che ci sia Mori anche dietro la mancata proroga di oltre 300 decreti di “carcere duro” nei confronti di altrettanti detenuti per mafia, nel novembre 1993, da parte dell’ex Guardasigilli Conso. Il quale ha sempre detto di non aver mai saputo di trattative “e non v’è alcuna ragione di dubitarne”, sostiene la Corte; tuttavia decise “in piena autonomia”, e anche su questo i giudici gli credono, di alleggerire la pressione per sollecitare un atteggiamento “meno esageratamente ostile” di Cosa nostra. E qui interviene la ricostruzione della Corte, secondo la quale questa via gli fu in qualche modo suggerita da Mori, attraverso la mediazione forse inconsapevole (giacché non è provata la sua “consapevolezza della trattativa”) del vice-capo dell’amministrazione penitenziaria Francesco Di Maggio. In ogni caso la minaccia di “ulteriori gravi conseguenze”, cioè nuove stragi dopo quelle di luglio, era giunta a destinazione e “condizionò la decisione del ministro, che si determinò a lanciare un segnale percepibile da Cosa nostra, nella dichiarata “speranziella” (espressione di Conso, ndr) che servisse a mutare la frontale contrapposizione dell’organizzazione mafiosa”. Per la Corte è la prova del reato commesso dai carabinieri. Misure cautelari: valutazione interdisciplinare dello stato di salute e motivazione personaedanno.it, 21 luglio 2018 Cass. pen. 30976/18. Non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l’imputato è persona affetta da una malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere. Disposizione che, per quanto statuito in Cass. Pen. 45645/13, deve essere intesa nel senso che il detenuto non può essere mantenuto in vinculis allorquando nell’istituto carcerario non sono praticabili adeguati interventi diagnostici e terapeutici, atti a risolvere o ad alleviare lo stato morboso. Ai sensi della legge recante norme sull’ordinamento penitenziario e dal relativo regolamento di attuazione ogni istituto deve, infatti, essere dotato di servizio medico (e farmaceutico) corrispondente alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati e l’assistenza sanitaria viene di norma ivi prestata. Nell’ipotesi in cui siano necessari cure o accertamenti diagnostici che non possono essere forniti in tale luogo, i condannati e gli internati sono trasferiti in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura (si tratta, d’altra parte, di situazione che non intacca l’assunto iniziale; non può essere disposta nè mantenuta la custodia cautelare al ricorrere dei presupposti). Ove il giudice disponga una misura cautelare custodiale in presenza delle indicate condizioni di salute, il motivo di censura avverso tale provvedimento dispositivo viene di norma fatto valere a mezzo di richiesta di revoca o sostituzione (delle misure). Supporta quest’affermazione il fatto che con il procedimento di riesame si richiede al giudice la semplice rivalutazione della sussistenza dei presupposti giustificativi della privazione della libertà e che, inoltre, non è ivi possibile estendere la peculiare attività di istruzione consentita, invece, in sede di procedimento per la revoca o sostituzione delle misure (vedasi, però, Cass. pen. 20390/17). Si ricorda anche in questa sede, infatti, che qualora, in ipotesi di richiesta di revoca o sostituzione della misura di custodia cautelare, si verta sulle menzionate condizioni di salute ed il giudice non ritenga di accogliere la richiesta sulla base degli atti, devono essere disposti da quest’ultimo gli accertamenti medici del caso. Corte costituzionale. Illegittima la partecipazione della toga alla vita di partito di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2018 Deciso il “caso Emiliano”. Ammessa la candidatura, sanzionata l’iscrizione. Candidarsi sì. Partecipare alla vita dei partiti invece no. La Corte costituzionale, con la sentenza depositata ieri e scritta da Nicolò Zanon, ha considerato infondate le questioni di legittimità sollevate dalla sezione disciplinare del Csm sull’illecito a carico del magistrato che si iscrive o partecipa sistematicamente e continuativamente all’attività di una forza politica. In discussione c’era il caso di Michele Emiliano, attuale governatore della Regione Puglia, in precedenza, tra altro, segretario regionale del Pd pugliese e presidente dello stesso. La sentenza nega che il divieto possa compromettere i diritti fondamentali di natura politica del magistrato: un conto è l’iscrizione o comunque la partecipazione sistematica e continuativa alla vita di un partito politico, che la fattispecie disciplinare vieta, un altro è l’accesso alle cariche elettive e agli uffici pubblici di natura politica che, a determinate condizioni, la legislazione vigente consente. Non è irragionevole, come invece riteneva il Csm, operare una distinzione tra le due ipotesi, e perciò considerare non solo lecito, ma esercizio di un diritto fondamentale la seconda ipotesi, mantenendo nello stesso tempo rilevanza disciplinare alla prima. Tanto più in un contesto normativo che permette tuttora al magistrato di tornare alla giurisdizione (anche se uno dei punti del contratto di governo Lega - 5 Stelle intende cancellarne la possibilità), in caso di mancata elezione oppure al termine del mandato elettivo o dell’incarico politico, “va preservato il significato dei principi di indipendenza e imparzialità, nonché della loro apparenza, quali requisiti essenziali che caratterizzano la figura del magistrato in ogni aspetto della sua vita pubblica”. Certo, prosegue poi la sentenza, non si possono ignorare il ruolo che la stessa Costituzione assegna ai partiti nella rappresentanza politica e il fatto che lo stesso magistrato, in qualsiasi sistema elettorale, non si candida certo “da solo”. Anche le candidature indipendenti, cioè, e motivate dal prestigio del candidato stesso devono trovare spazio all’interno di liste di partito, come pure le nomine a incarichi amministrativi (ministro o assessore) sono tutt’altro che svincolate dalle dinamiche delle forze politiche. E però deve rimanere fermo che il riconoscimento della particolare natura della competizione e della vita politica, alla quale il magistrato può partecipare, non può convertirsi nella legittimità né della sua iscrizione, né della sua partecipazione stabile e continuativa all’attività di un determinato partito. In ogni caso, conclude la Consulta, il giudice disciplinare ha margini di discrezionalità nell’applicazione dell’illecito perché, si ammette, “non ogni partecipazione a manifestazioni politiche o a iniziative di partito assume significato disciplinarmente rilevante”. Fatta salva l’iscrizione, già di per se stessa prova oggettiva della partecipazione alla vita del partito, su tutte le altre forme e sfumature la misura disciplinare non è certo automatica. Se fossi stato un cittadino della Russia... di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 21 luglio 2018 Se fossi stato un cittadino della Russia e detenuto ingiustamente li per sei anni, avrei sicuramente avuto dalla corte europea di Strasburgo un risarcimento milionario! Pochi giorni fa alle Pussy Riot condannate in Russia per due anni, la corte europea ha deciso che la condanna è ingiusta e devono essere risarcite! A me la stessa corte, affidando il giudizio monocratico a una giudice macedone totalmente filo potentati europei, ha deciso di non concedermi nulla per l’ingiusta detenzione di sei anni. D’altro canto non avrebbe potuto criticare i tribunali italiani! Se fossi stato detenuto ingiustamente in Russia la stessa corte mi avrebbe sicuramente concesso milioni di euro di risarcimento! Avrebbe obbligato la Russia a pagare, con l’Italia no. Questa è la giustizia, della corte europea di Strasburgo, due pesi e due misure. Pussy Riot condannate, ma la corte europea entra nel merito del giudizio penale e decide che è una sentenza ingiusta e devono essere risarcite! A me decidono l’inverso, una sentenza assolutoria da non considerare e mi ritengono ugualmente colpevole e da non risarcire! Giustizia europea a senso unico! P.S. Sulla vicenda del mio mancato risarcimento per ingiusta detenzione, ho deciso di “arrendermi”. Ma di fronte a queste incredibili ingiustizie, voglio solo esprimere il mio pensiero. Rimanere silente mi è impossibile. Bari: caso Palagiustizia, ricorso degli avvocati alla Corte europea dei diritti dell’uomo La Repubblica, 21 luglio 2018 La Camera Penale di Bari contro il decreto legge che ha sospeso a Bari i processi penali senza detenuti fino al 30 settembre: proposta una eccezione di legittimità costituzionale. Un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e la citazione per danni del ministero della Giustizia dinanzi al Giudice di Pace di Bari proponendo una eccezione di legittimità costituzionale sono stati depositati dalla Camera Penale di Bari contro il decreto legge che ha sospeso a Bari i processi penali senza detenuti fino al 30 settembre. Una decisione assunta dal ministro Bonafede a causa della inagibilità del Palazzo di Giustizia di via Nazariantz. Lo rende noto il presidente della Camera Penale di Bari, Gaetano Sassanelli. Il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, spedito a Strasburgo, da parte di un giovane avvocato penalista barese e promosso dalla Camera Penale, si fonda sul presupposto che il giovane penalista, Fabio Di Nanna, da poco iscritto all’albo degli avvocati, stava cominciando a raccogliere le prime nomine, ma subito gli è stato impedito di svolgere la propria attività professionale nei processi penali “non urgenti”, sospesi fino al 30 settembre per mancanza di un Tribunale penale agibile. “La sua - spiega la Camera Penale - è una situazione simile a quella di tanti giovani avvocati penalisti, costretti a subire uno stop proprio all’inizio dell’attività e quindi a soffrire, da un lato, la perdita di guadagno e di opportunità lavorative e, dall’altro, l’infruttuoso esborso dei costi d’iscrizione alla Cassa previdenziale”. “È un altro fronte su cui attaccare l’ingiusto e sconsiderato decreto legge - spiega il presidente dei penalisti baresi Gaetano Sassanelli - con cui lo Stato ha pensato di risolvere comodamente l’annosa questione delle criticità edilizie e funzionali dello stabile di via Nazariantz, solo sul piano procedimentale, senza prevedere misure logistico - previdenziali di contrappeso per porre rimedio a quello che è frutto solo della sua insipienza”. “I lavori al Senato - continua il presidente - cominceranno il prossimo 24 luglio e la Camera Penale di Bari si augura di contribuire, con le iniziative adottate, quanto meno alla possibilità di opportuni emendamenti”. Per quanto riguarda l’atto di citazione risarcitorio davanti al giudice di pace di Bari per danno ingiusto, i penalisti, tramite l’avvocato Ascanio Amenduni, hanno eccepito l’illegittimità costituzionale del decreto ritenendo “ingiusto che tale situazione di sostanziale impedimento dell’attività professionale penale, costituzionalmente garantita nell’interesse dei cittadini, debba ricadere solo sugli avvocati, senza conseguenze risarcitorie a carico del Ministero: gli altri operatori di giustizia, infatti, continuano a percepire regolarmente lo stipendio statale, mentre gli avvocati non possono avanzare richieste di pagamento ai propri clienti dato il rinvio delle udienze, e devono, per giunta, continuare regolarmente a sostenere i costi di gestione dello studio ed a far fronte, come se nulla fosse accaduto, agli adempimenti verso la loro Cassa Nazionale di Previdenza”. L’avvocato Amenduni ha chiesto anche la condanna sanzionatoria del Ministero della Giustizia per non aver risposto all’invito alla negoziazione assistita obbligatoria, quantificando in mille euro il danno per ciascuna udienza rinviata e altri mille euro per danni morali. Pisa: inaugurata “Misericordia Tua”, la Casa d’accoglienza della diocesi per ex detenuti pisatoday.it, 21 luglio 2018 Finiti i lavori, la struttura sarà operativa a partire dal prossimo autunno quando accoglierà i primi due ospiti. Dopo un anno e mezzo di cantiere e circa 300mila euro di interventi, finanziati da Fondi Cei 8 per mille, Fondazione Pisa e colletta diocesana per il Giubileo della Misericordia, è stata inaugurata lo scorso mercoledì £Misericordia Tua”, la casa d’accoglienza per carcerati in permesso ed ex detenuti di Calci. La cerimonia ha visto la partecipazione dell’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto e del sindaco Massimiliano Ghimenti. La struttura è pronta ad essere operativa: in autunno è previsto l’arrivo dei primi due ospiti in semilibertà. Gli interventi di ristrutturazione nella casa canonica della parrocchia di Sant’Andrea a Lama, iniziati ad aprile 2017, sono finiti nei giorni scorsi: 160mila euro dei 300 sono provenuti dagli stanziamenti dell’otto per mille per la carità della Cei, 100mila da un contributo della Fondazione Pisa e 60mila dai fondi raccolti in occasione del Giubileo della Misericordia. I lavori hanno comportato il risanamento igienico sanitario dell’intera costruzione, l’abbattimento delle barriere architettoniche, la ricostruzione del tetto, il consolidamento dei solai del piano terra, la realizzazione dei tre nuovi bagni e la riqualificazione dell’area esterna. La casa si estende su due piani: salotto e cucina (donata dal Rotary Club Pisa) al piano terra, quattro camere e i bagni al primo. E può accogliere fino ad un massimo di otto persone, ma si comincerà gradualmente con solo due ospiti. Il nastro lo ha tagliato Vittorio Cerri, per 17 anni direttore del Carcere ‘Don Bosco’ di Pisa: sarà lui il nuovo responsabile e padrone di casa di ‘Misericordia Tuà, coadiuvato da un educatore professionale della cooperativa sociale ‘Il Simbolo’ e Marfi Pavanello e Elio Della Zuanna, i due sacerdoti dehoniani della Cappellania carceraria, che si occuperanno dell’assistenza pastorale e spirituale delle persone accolte oltreché della selezione dei futuri ospiti. La benedizione, invece, à stata dell’arcivescovo: “Il bene, quando è fatto bene, alla fine ha sempre il sopravvento: se c’impegniamo in questa direzione non solo possiamo sostenere chi fa più fatica, ma ne usciamo anche arricchiti perché l’amore è l’unica cosa che, una volta dato, non si perde ma ritorna moltiplicato”. Prima, il saluto del capo di gabinetto della Prefettura di Pisa Roberta Monni e del Sindaco di Calci Massimiliano Ghimenti: “Con questo progetto anche la nostra comunità potrà dare il suo contributo ad una delle principali finalità costituzionali, ossia la rieducazione dei condannati - ha detto il primo cittadino - grazie, dunque, per questo intervento e anche per un intervento di recupero importante di una struttura storica del nostro territorio, un altro tassello importante di quel percorso di collaborazione stretta fra l’amministrazione comunale e la chiesa locale”. Presente anche il vescovo di Pescia Roberto Filippini, per 16 anni cappellano del carcere ‘Don Bosco’ e ideatore della casa d’accoglienza: “Abbiamo semplicemente raccolto un bisogno, quello di un punto d’appoggio e un luogo d’accoglienza per chi si accinge ad uscire dal carcere: non sapete quanti detenuti, al momento di tornare in libertà, ci hanno detto di aver paura e ci hanno chiesto aiuto. Da qui l’idea di realizzare una struttura esattamente come questa”. Milano: detenuto ha il cancro, il Tribunale “si curi in carcere” rainews.it, 21 luglio 2018 Un ratto lo morde nel centro clinico di Opera. Malasanità in carcere. I detenuti del carcere di Opera protestano per la massiccia presenza di topi nella struttura e mettono nero su bianco in una lettera alla direzione dell’Istituto penitenziario il caso di uno di loro, malato di tumore e ricoverato nel centro clinico del carcere, morso da un topo saltato fuori dal carrello del cibo. Rita Bernardini (Partito Radicale): la salute in carcere è una emergenza umanitaria. Tweet 20 luglio 2018 Nella lettera una trentina di reclusi lamenta la presenza di ratti “anche di dimensioni notevoli nella doccia del reparto infermeria”. Questi casi “si stanno ripetendo da mesi ma, nonostante le numerose segnalazioni, non si è giunti a nessuna soluzione da parte della direzione.” La situazione, concludono, è diventata intollerabile “considerando il luogo in cui siamo e soprattutto l’alto numero di detenuti ristretti con gravi patologie”. Tra questi, nella lettera si racconta la vicenda paradossale di L., malato di cancro e sottoposto a cure chemioterapiche che gli abbassano le difese immunitarie e che, recentemente, è stato morso da uno di questi ratti. L. aveva chiesto nei mesi scorsi la scarcerazione e i domiciliari per “incompatibilità del regime carcerario con le sue condizioni di salute”, ma prima la Corte d’Appello e poi il Tribunale del Riesame di Milano gli hanno detto di no. L., 44 anni, condannato in primo grado a 18 anni col rito abbreviato per associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico, si è ammalato in carcere dove, poco dopo l’arresto nel 2016, gli è stato diagnosticato un linfoma non-Hodgkin (LNH). Negati i domiciliari Per i giudici del Riesame, “pur dovendosi dare atto della assoluta serietà e complessità delle patologie dalle quali risulta affetto L., la detenzione, come nel caso in un centro clinico, non palesa insuperabili problematiche connesse alla patologia”. La consulenza della difesa e la perizia del Tribunale concordano che i cicli di chemioterapia a cui si sta sottoponendo il detenuto determinano “un elevato rischio di complicanze infettive a breve e a lungo termine” perché il paziente é immunodepresso. Ma le conclusioni divergono. Per il medico incaricato dalla difesa, questo quadro clinico rende molto pericolosa la permanenza dietro le sbarre dal momento che “in ragione della terapia in corso L. presenta un rischio aumentato di eventi infettivi”. Il perito del Tribunale invece si limita a indicare le precauzioni a cui dovrebbe attenersi il detenuto - “le norme igieniche devono essere garantite e verificate, evitando bagni a uso promiscuo o la scarsa pulizia degli ambienti” - ma sostiene “di non essere in grado di verificare quale sia la concreta situazione della casa circondariale, ad esempio “quante volte lavano i pavimenti o quante persone sono contemporaneamente presenti nel medesimo luogo”. La decisione del Tribunale Davanti al Tribunale del riesame L. ha mostrato i segni del morso e ha raccontato la storia di questo sgradito e pericoloso incontro ravvicinato: “Il 29 aprile del 2018 alle 4 del mattino, un topo sbucato dai cestini portacibo mi ha morso sul braccio destro ed è poi scappato. Lo ha ucciso il mio compagno di cella con una scopa e io ho deciso di conservarlo in un contenitore per alimenti per farlo vedere al medico che mi ha visitato il giorno dopo”. L., che aveva appena terminato un ciclo di chemio, è stato visitato dal medico infettivologo del carcere che gli ha fatto una puntura antitetanica prescrivendogli una cura di antibiotici per alcuni giorni. Sul punto, il Riesame sostiene: “In assenza di elementi obbiettivi di riscontro, prende atto delle dichiarazioni del detenuto” e “nell’incertezza dell’effettività di quanto rappresentato da L., segnala che sono state adottate le cautele del caso attivando un’adeguata profilassi attraverso la somministrazione di vaccino e antibiotici a riprova dell’adeguatezza della reazione sanitaria”. La reazione della difesa Giuseppe Gervasi, legale del detenuto, critica aspramente i giudici: “Il fatto è certo. L’animale è stato conservato e consegnato al medico, il mio assistito è stato sottoposto alla profilassi del caso in carcere e in udienza ha mostrato i segni del morso. È grave che il Tribunale si limiti a prenderne atto e a dire che il problema è stato superato dall’antitetanica senza preoccuparsi di svolgere accertamenti sull’episodio e sulla presenza di topi a Opera.” E, prosegue il legale, “è assurdo il passaggio del provvedimento in cui i giudici sottolineano che il perito ha fatto presente a L. la pericolosità della conservazione e del contatto con la carcassa, possibile causa di infezione. Come se fosse responsabilità sua essersi messo a rischio, quando invece è stato morso in carcere”. I difensori di L. hanno presentato ricorso alla Cassazione contro la decisione del tribunale. Salute in carcere: “Un’emergenza umanitaria” “Quotidianamente ci arrivano segnalazioni da tutta Italia di veri e propri casi di abbandono sanitario nelle carceri che puntualmente come Partito Radicale rappresentiamo al Dap. Del resto, la situazione è ben conosciuta anche dalla magistratura (in particolare quella di sorveglianza) che però fa finta di non vedere omettendo di intervenire.” Commenta così l’ennesimo caso di malasanità che proviene dalle carceri italiane Rita Bernardini che aggiunge: “Quella sanitaria è un’emergenza umanitaria che sarebbe stata in parte affrontata dal decreto legislativo di attuazione della riforma penitenziaria (quello impostato dal precedente governo e finito in un binario morto al termine della legislatura, ndr)”. “Speravamo” - conclude l’esponente radicale da anni in prima linea nella lotta per i diritti dei detenuti - “che con l’attenzione mediatica sul caso Dell’Utri Parlamento e governo mutassero atteggiamento sulla situazione penitenziaria italiana e, invece, abbiamo appreso dell’intenzione di affossare tutto nel nome di una sicurezza tanto sbandierata quanto falsamente attuata. Dispiace constatare che in tema di giustizia le uniche istituzioni attive per la salvaguardia dei diritti umani fondamentali, sono le giurisdizioni superiori nazionali ed europee”. Savona: nuovo carcere, il Sappe all’attacco “non c’è volontà politica per costruirlo” La Stampa, 21 luglio 2018 Carcere a Savona: Donato Capece, segretario del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, denuncia la mancanza di volontà politica per realizzarlo. “Chiudere il carcere S. Agostino di Savona - osserva Capece - è stato un grave errore, che ha scontentato tutti, poliziotti, detenuti, familiari e ha penalizzato il territorio savonese. Avrebbe avuto un senso chiudere il S. Agostino se e quando fosse stata disponibile una nuova struttura detentiva, di almeno 300 posti letto, per la quale sembra da tempo esserci la volontà di individuarla in un’area della Valbormida. Ma chiudere il S. Agostino così, dall’oggi al domani, senza alcun confronto con il Sappe e con gli altri sindacati, senza alcuna garanzia e certezza per poliziotti e detenuti, è stato un grave errore, al quale mi sembra evidente che non si vuole trovare rimedio”. Prosegue Capece: “Non si può promettere più sicurezza in campagna elettorale e poi chiudere presidi di legalità come le carceri quando si è al Governo. Altro che trattamento rieducativo: chiudere un carcere vuol dire interrompere ogni attività finalizzata alla rieducazione del reo. Che senso ha avuto chiudere un carcere senza prima averne una nuovo, operativo, sul territorio savonese? Che senso ha avuto spendere milioni di euro per la ristrutturazione della struttura di S. Agostino se poi si è deciso di chiuderla? Altro che territorialità della pena: così facendo si sono trasferiti i detenuti un po’ in tutta la Regione ed in tutta Italia con gravi disagi anche per i familiari dei ristretti stessi, che dovranno macinare chilometri per raggiungere e fare visita ai proprio cari. E deportati sono stati anche gli agenti di polizia Penitenziaria”. E conclude: “Abbiamo fatto una proposta alternativa alla chiusura del S. Agostino: ossia destinare la struttura a casa di arresto o presidio per l’esecuzione penale esterna, per coloro cioè che scontano una pena sul territorio senza però essere fisicamente detenuti in una struttura. Ed è singolare che qualcuno si è ricordato della priorità del nuovo carcere per Savona solamente quando le elezioni politiche erano imminenti, sapendo che erano promesse da marinaio…”. Palermo: “Una pizza per un sorriso”, un corso per i giovani detenuti del Malaspina palermotoday.it, 21 luglio 2018 Lunedì 23 luglio prossimo, alle ore 11, presso l’Istituto penale per i minorenni Malaspina, verrà presentata la manifestazione “Una pizza per un sorriso”, giunta alla sua seconda edizione. Promossa dalla Federazione Italiana Pizzaioli vede impegnato in prima persona Lorenzo Aiello, Delegato Provinciale della FIP nel mondo. L’iniziativa e il successivo corso che si svolgerà a cominciare da ottobre prossimo non avrà alcun costo per l’istituto Malaspina. Saranno docenti Lorenzo Aiello e Domenico Suraci e avrà la durata di 16 ore. Il corso, rivolto a tutti i giovani presenti nella struttura penale minorile, ha lo scopo di avviare i giovani alla figura professionale di aiuto pizzaiolo. Avrà un percorso teorico indirizzato alla conoscenza delle materie prime, delle tecniche di impasto e delle modalità e tempi di cottura, e uno pratico nel quale dimostrare la capacità di apprendimento e di messa in opera delle lezioni. Al termine del corso gli allievi saranno chiamati a preparare una “pizza innovativa” e i più meritevoli riceveranno un Attestato di partecipazione. Il successo di precedenti percorsi volti alla preparazione al mondo del lavoro dei giovani ospiti dell’istituto, ha finora portato risultati positivi. Questa dell’“arte bianca” è soltanto l’ennesima iniziativa portata avanti dal “Malaspina” volta ad avvicinare e proiettare i suoi giovani ospiti all’esterno e al mondo del lavoro, certa possibilità di riscatto, di crescita e, quindi, di inserimento in una società che sarà più pronta all’accoglienza. Tra le personalità invitate dal Direttore dell’Istituto Michelangelo Capitano, Francesco Micela, Presidente del Tribunale per i minorenni, Maria Vittoria Randazzo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni, Mariarosaria Gerbino, Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale per i minorenni, Rosanna A. Gallo, Direttore del Centro per la Giustizia Minorile per la Sicilia, Rosalba Salierno, Direttore dell’Ufficio di Servizio Sociale per i minorenni Palermo, Amelia Pinello, Direttore del Centro di Prima Accoglienza, Giovanna Cangialosi, Direttore del Centro Diurno Polifunzionale, Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e Giulio Cusumano, consigliere comunale. Trento: l’importanza di vincere il pregiudizio con la Biblioteca vivente di Veronica Manca* Il Dubbio, 21 luglio 2018 Con l’ultimo appuntamento di Trento si è conclusa una esperienza culturale molto coinvolgente. L’ultimo appuntamento con la Biblioteca vivente - “Narrazioni oltre le mura del carcere”, c’è stato il 7 luglio scorso a Lavis (Trento). Si tratta di un collaudato e felice presidio culturale, riconosciuto dal Consiglio d’Europa, come “metodo innovativo di dialogo e strumento di promozione di coesione sociale”. Dopo Riva del Garda (16 giugno), Trento (25 giugno), la Biblioteca vivente è giunta nel piccolo comune di Lavis, dove la comunità ha partecipato numerosa, avvicinandosi con interesse a un mondo forse lontano e sconosciuto, ma allo stesso tempo così vicino e sentito, fatto di persone, storie e vissuti. Si tratta di una delle tante proposte nella realtà trentina, elaborate da una vera e propria “rete” di intervento che secondo un agire comune ha ideato un Progetto biennale, dal nome emblematico “Liberi Da Dentro” (per maggiori info: www.sps.tn.it). Al progetto partecipano moltissimi miei colleghi, con cui condivido da sempre la passione e l’onere di assistere e difendere i diritti umani delle persone recluse (cito solo, per affetto e stima, Dalla Viva Voce, Apas, Cinformi, Museo Diocesano Trentino, Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Trentino Alto Adige, Fondazione Caritro, oltre che la Provincia Autonoma di Trento, Comuni di Trento, Riva del Garda e Lavis, Sistema bibliotecario di Trento, etc.). In sintesi, “il progetto individua nei pregiudizi che circondano le problematiche legate al carcere un campo su cui è importante lavorare per conoscere e approfondire questo tema così delicato. Intensificando le iniziative volte al coinvolgimento della cittadinanza nel processo di accoglienza nel tessuto sociale delle persone sottoposte a condanne penali, il progetto mira a diffondere nella cittadinanza una conoscenza reale del mondo del carcere, delle pene e del loro effetto sulle persone, superando i relativi stereotipi e pregiudizi attraverso eventi e incontri pubblici, conferenze, spettacoli e film”. Ricco e articolato il calendario di seminari, “Punire, Rieducare, Riparare? Riflessioni sulla sanzione penale oggi in Trentino? “, grazie all’impegno dell’insegnante Antonella Valer, che ha visto la partecipazione dei principali attori coinvolti nell’esecuzione della pena, oltre che la diretta testimonianza di chi ha vissuto personalmente l’esperienza del carcere. Il recital - gestito dall’Associazione Dalla Viva Voce e Quadrivium - ha messo in scena frammenti di storia autobiografica di detenuti (sotto la guida dell’insegnante Amedeo Savoia). Interessanti i percorsi di educazione alla citta- e di sensibilizzazione alla tematica del carcere nelle scuole, in presenza di uno o due testimoni che raccontano come e perché sono arrivati in carcere (per ulteriori info: #liberidadentro; rivista online “Under Trenta” del Servizio Attività Culturali della Provincia Autonoma di Trento). Coinvolgente l’iniziativa di “prendere in prestito un libro umano”. Poche e semplice le regole da rispettare: 1) prima di prendere in prestito un libro umano, è necessario iscriversi e ricevere la tessera della Biblioteca vivente; 2) scegliere il libro da consultare per circa 30 minuti: ogni libro racconta un frammento della propria vita; 3) recarsi alla postazione ed iniziare l’ascolto; 4) rilasciare al termine dell’esperimento una breve recensione del libro consultato. Ho volutamente scelto di conoscere la storia di una donna detenuta (il perché è semplice: le donne in carcere sono poche, a Trento, 15 circa, sono la minoranza). Il mio libro è Angela, una signora di circa 40 anni, di nazionalità rumena, con una situazione familiare drammatica: giunta in Italia per poter mantenere la sua famiglia - un marito invalido e due figli - ha scoperto da subito l’amarezza di una realtà di povertà, emarginazione ed abbondano. In tale contesto, Angela ha conosciuto il carcere, per circa due anni complessivi: nonostante la lontananza dai figli, la preoccupazione per la salute del marito, Angela non si è mai data per vinta; ha saputo convincere gli educatori della sua buona volontà ed entusiasmo ed è riuscita ad accedere al regime dell’art. 21 dell’Ordinamento penitenziario, con mansioni di responsabilità e autogestione. Il frammento da lei riportato (anche se poi è inevitabile che l’incontro spazi anche su altri aspetti della storia sia del libro sia dell’utente, come nel mio caso) riguardava il suo incontro con il direttore della Casa circondariale di Trento, per il quale ha potuto lavorare, in regime di art. 21 dell’Ordinamento penitenziario: una figura autoritaria ed autorevole, dalla quale era spaventata, essendo consapevole delle conseguenze negative che la sua condotta avrebbe potuto avere. Nonostante i primi timori e la comprensibile agitazione, Angela ha saputo svolgere il suo lavoro, grata dell’opportunità che le veniva offerta. Non solo. Per Angela la possibilità di poter usufruire di un percorso extra-murario - in permesso - a contatto con le persone, al centro dell’attenzione, in cui per una sera la sua storia drammatica e triste va in scena, come una protagonista, è un’esperienza preziosa di “abbraccio” virtuale, ma anche fisico, con la comunità che ha scelto come sua, un momento importante di rielaborazione del passato e della rottura del suo equilibrio con la giustizia, un’occasione per ringraziare se stessa, per la sua forza di volontà, e tutti gli operatori che hanno saputo credere in lei, dagli educatori ad Apas, offrendole possibilità concrete di lavoro. Devo confessare che, nell’attesa, ho avuto modo di conoscere anche gli altri libri, che per una sera da reclusi, sono tornati liberi: per tutti, tale esperienza è un’occasione importante per rielaborare il proprio passato e riabbracciare la comunità a piccoli passi; un modo per rientrare in carcere con un bagaglio umano e culturale più forte, più vivo. L’impatto emotivo per gli altri libri, per cui l’esperienza carceraria è ormai solo un ricordo lontano, non sempre è positivo: per alcuni, ritornare a parlare della propria esperienza, è come un pungolo che va a riaprire ferite ancora aperte, tanto da volersene estraniare; per altri, invece, è un’opportunità preziosa di riflessione sul proprio passato e sulla svolta che ora la libertà può offrire con grande forza di volontà e sacrificio; un percorso in salita, tra pregiudizi, preclusioni, tra mille no e opposizioni, ma che nonostante ciò vale la pena percorrere. Emblematica la storia di Daniel, per cui la possibilità di studiare in carcere, gli ha garantito la possibilità di apprendere nozioni importanti, una lingua nuova, fondamentale per sapersi muovere sul territorio, un mestiere e delle capacità professionali, oltre che l’occasione di conoscere delle persone che lo hanno accompagnato nella comunità, come una famiglia. Ritengo che, in un momento storico così particolare, ricordare a noi stessi quanto la comunità fa per le persone disagiate, per tentare - anche controcorrente - di recuperarle, lungo un percorso di responsabilizzazione, secondo un patto di fiducia/ gratificazione, può aiutarci a comprendere meglio quanto noi tutti possiamo contribuire per rendere la nostra comunità di appartenenza (al di là di formalismi giuridici inutili) salutare, strutturata e legale, senza opposizioni, radicalismi, perché l’obiettivo è pur sempre l’inclusione, mai l’esclusione. *Avvocato del Foro di Trento e responsabile della sezione Diritto Penitenziario per Giurisprudenza penale Cagliari: l’Ipm di Quartucciu apre spazio per gli incontri all’aria aperta di Simona Tessitore unicaradio.it, 21 luglio 2018 L’Istituto Penitenziario Minorile di Quartucciu, martedì 24 Luglio alle 18 apre lo spazio per gli incontri dell’aria aperta, un ambiente progettato e costruito da Alice Salimbeni, laureata magistrale in architettura dell’università di Cagliari. L’Istituto Penitenziario Minorile (Ipm) di Quartucciu, Martedì 24 luglio alle 18, inaugurerà lo “Spazio per gli Incontri all’aria aperta”, progettato e costruito da Alice Salimbeni, laureata magistrale in Architettura, nel corso del lavoro di tesi coordinato da Barbara Cadeddu, docente di Composizione architettonica e urbana, e Maurizio Memoli, docente di Geografia economico-politica. Con il Rettore Maria Del Zompo parteciperanno all’evento Cristina Cabras, referente di Ateneo per il protocollo d’intesa con il Prap della Sardegna, Ministero della Giustizia e referente alla Crui di Ateneo per le attività portate avanti con gli istituti penitenziari, Antonello Sanna, direttore del dipartimento di Ingegneria Civile Ambientale e Architettura, Giampaolo Cassitta, dirigente del Centro di Giustizia minorile per la Sardegna, Enrico Zucca e Alessandro Caria, rispettivamente vicedirettore e comandante dell’Ipm, i ragazzi detenuti, gli operatori e i volontari che hanno collaborato alla realizzazione del progetto. Come si ricorderà, Alice Salimbeni, Laura Spano e Giulia Rubiu hanno discusso le loro tesi di laurea durante una seduta speciale che si è svolta lo scorso febbraio proprio nei locali dell’Ipm di Quartucciu. Lo spazio degli incontri tra detenuti e familiari, completato da un’opera degli artisti La Fille Bertha e Alessio Errante, è stato realizzato grazie al prezioso contributo di numerosi donatori pubblici e privati, che il 24 saranno invitati a lasciare un segno tangibile del proprio impegno per aver contribuito a dare forma ad un progetto dal forte impatto civile. Richiedenti asilo, stop alla carta di identità di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2018 Allo studio un documento a tempo, in forse l’accesso ai servizi sociali comunali. Stop alla carta di identità per i richiedenti asilo. L’ipotesi è destinata a entrare nel provvedimento allo studio del Viminale. Un decreto legge, ma non è ancora certo, “pacchetto sicurezza” con alcune norme già annunciate come l’abrogazione della protezione umanitaria. Potrebbe andare in Consiglio dei ministri nel giro di un paio di settimane. Il tema della carta di identità e, prima ancora, dell’iscrizione all’anagrafe dei migranti con istanza di protezione non è di ieri. Diversi Comuni negli anni hanno presentato lamentele e dichiarazioni di sofferenza di fronte alla crescita dei migranti da registrare. Numeri a volte abnormi quantomeno in proporzione ai residenti locali: se in un borgo di alcune centinaia di abitanti si andavano a registrare altrettanti immigrati, se non di più, del vicino centro di accoglienza. Ma sono state proteste spesso dettate anche dall’impronta politica della giunta comunale. Adesso al ministero dell’Interno guidato da Matteo Salvini si sta valutando la possibilità di dare seguito a queste istanze. Se viene meno l’iscrizione all’anagrafe lo straniero dovrebbe di conseguenza perdere la possibilità di accedere ai servizi sociali del comune. Molti dei piccoli centri hanno sottolineato di non essere in grado di fornirli a numeri elevati di migranti. Per di più se richiedenti asilo e quindi - è stato il loro argomento - con una legittimità a risiedere in Italia sub judice: tesi, comunque, tutta politica. Sul www.asgi.it, il sito dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, si ricorda come il 18 maggio 2017 una Circolare ministeriale “conferma il diritto all’iscrizione in anagrafe dei cittadini stranieri in ogni struttura di accoglienza”. Oggi però la situazione potrebbe cambiare. La formulazione della nuova disposizione, tuttavia, non è scontata. Rilascio della carta di identità e accesso ai servizi comunali sono due processi amministrativi correlati ma con effetti diversi. Il nodo politico della norma in elaborazione è se ridurrà o no i diritti dei richiedenti asilo. La linea di principio fissata al Viminale, a maggior ragione trattandosi di immigrati con criticità di protezione, dovrebbe essere no. Ma le valutazioni in Parlamento, a seconda delle forze politiche, potrebbero anche essere molto diverse dalla lettura del Viminale delle disposizioni introdotte. Salvini dovrà poi prevedere, in caso di mancato rilascio della carta di identità, quale sarà il documento di identificazione o di riconoscimento da consegnare in alternativa al richiedente asilo. Si potrebbe trattare di un permesso di soggiorno, magari di durata limitata e provvisoria. Ma questo profilo per niente marginale deve ancora essere deciso. Se l’indicazione generale della norma sarà confermata il ministro dell’Interno si troverà con molti Comuni plaudenti ma anche non poche proteste. Nel pacchetto del decreto, del resto, dovrebbe essere inserito anche il tema della riduzione dei costi dell’accoglienza, cavallo di battaglia di Salvini fin dal suo insediamento. Un altro fronte di battaglia per l’opposizione. Lunedì invece si svolgerà un vertice all’Interno tra i tecnici ministeriali e i colleghi tedeschi in visita a Roma. All’ordine del giorno il dossier sui movimenti di migranti già discusso in sede politico a Innsbruck nei giorni scorsi tra i ministri. Il confronto durerà per gran parte della giornata. Le posizioni sono ancora distanti. Coordinamento Ue per i migranti. “Ma non su salvataggi e porti” di Gerardo Pelosi Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2018 Doccia fredda da parte della Ue sulla richiesta italiana di una “cellula di crisi per i migranti”. Sia il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker che il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk in due lettere inviate al premier Giuseppe Conte, pur riconoscendo la fondatezza delle posizioni italiane sulla “responsabilità condivisa” per la questione migranti ricordano che non è nella competenza delle istituzioni europee decidere i porti di sbarco per i migranti e meno che meno la eventuale redistribuzione dei richiedenti asilo. “L’Italia - ha scritto Juncker - invoca da tempo, e a ragione, una cooperazione regionale sugli sbarchi e gli avvenimenti di questo fine settimana hanno dimostrato un senso condiviso di solidarietà da parte degli Stati membri(Francia, Germania, Malta, Spagna, Portogallo e Irlanda) che si sono offerti di accogliere parte dei migranti sbarcati a Pozzallo”. Tuttavia, ha aggiunto Juncker “queste soluzioni ad hoc non rappresentano un modo di procedere sostenibile”. Analoga la missiva di Tusk. Ma è stato un portavoce della Commissione a chiarire che la Commissione “non ha competenze in materia di ricerca e di salvataggio, né sulla determinazione per punti di sbarco, e questo non è qualcosa che noi possiamo coordinare. Quello che possiamo fare, e che stiamo già facendo, è che una volta che le persone sono sbarcate, noi possiamo coordinarci fra gli stati membri che si offrono di prendere una parte dei migranti sbarcati”. “Non è quello che ci aspettavamo da Bruxelles - fanno sapere fonti ministeriali - anche se è formalmente corretto che i Trattati non prevedono questi poteri ci aspettavamo un ruolo diverso e più attivo della Commissione per la scelta dei porti di sbarco e per la distribuzione dei migranti”. Nonostante tutto ciò il premier Giuseppe Conte si è detto “soddisfatto” perché “è stata pienamente accolta anche la nostra proposta di creare un “gabinetto di crisi” coordinato dall’Ue, proprio per gestire in maniera unitaria, coordinata e stabile l’emergenza immigrazione”. Difficile anche la trattativa sulla missione di sicurezza marittima Eunavfor Med Sophia a guida italiana. Ieri è stata concordata un’accelerazione sulla revisione strategica della missione e del suo piano operativo, sollecitata dall’ambasciatore italiano al Cops (comitato politico e di sicurezza dei  Ue). Si punta a finalizzare i lavori entro poche settimane. Ma non è chiaro se e come l’Italia riuscirà a modificare quella norma che oggi rende automatico lo sbarco nei porti italiani. Nel comitato l’Irlanda per prima ha minacciato di ritirare le proprie navi seguita anche dalla Germania. Vi è il rischio fondato che Sophia, missione che combatte il traffico di esseri umani e di armi (oltre al traffico illegale di petrolio), possa terminare prima della fine dell’anno, quando è prevista la sua conclusione o una proroga. Migranti. Chiesto l’ergastolo per i torturatori delle carceri libiche di Francesco Patanè La Repubblica, 21 luglio 2018 A Palermo è in corso il processo per i crimini commessi nel “ghetto di Alì”, nel sud del Paese nordafricano. “Rambo e Fanti sono due trafficanti di esseri umani, sono due spietati assassini, sono due torturatori e due stupratori. Condannateli all’ergastolo”. Così il sostituto procuratore palermitano Giorgia Spiri ha concluso la sua requisitoria nel processo con rito abbreviato che è in corso davanti al gup di Palermo Marcella Ferrara per i crimini commessi dai due carcerieri del “ghetto di Alì”, uno dei campi di prigionia nella zona di Sabhah nel sud della Libia dove vengono seviziati centinaia di migranti diretti alle coste libiche dove poi saliranno nei barconi della speranza diretti in Europa. Rambo è il soprannome del 25enne nigeriano Jhon Ogais, mentre Fanti è il nome di battaglia di Sam Eric Ackom, ghanese di 21 anni. I due carcerieri del ghetto di Alì sono stati entrambi riconosciuti da quattro migranti sbarcati in Sicilia nella primavera del 2017. “È lui il mio carceriere, l’uomo che mi ha torturato, che mi ha sequestrato e picchiato nel ghetto di Alì in Libia. È lui che ho visto mentre uccideva due persone, che ha violentato donne, che mi ha fatto vivere in quell’inferno per mesi, che mi ha costretto a chiamare i miei parenti per farsi consegnare i soldi” ha raccontato uno dei migranti, un giovane ivoriano laureato in giurisprudenza che appena sbarcato si rivolse alla squadra mobile per denunciare le torture subite. Agli inquirenti disse: “Io conosco il diritto e so che la tortura è un reato in tutto il mondo. Per questo sono qui a raccontare il mio incubo”. Una testimonianza a cui si sono aggiunte quelle di altri migranti segregati per mesi nell’inferno di Sabhah e che ha permesso al procuratore aggiunto Marzia Sabella e ai sostituti Geri Ferrara e Giorgia Spiri di mandare a processo per la prima volta due carcerieri dei “lager” libici per migranti. Una sorta di “prigione di mezzo” dove vengono rinchiusi i migranti in arrivo dall’Africa centrale. Dove le centinaia di disperati che cercano di raggiungere le coste libiche per salire su un gommone devono pagare per essere rilasciati e continuare il loro viaggio della speranza verso la costa libica dove poi pagheranno ancora per imbarcarsi. La sentenza è prevista per la seconda metà di settembre e i reati contestati ai due carcerieri sono associazione per delinquere finalizzata al traffico di esseri umani, sequestro di persona aggravato, omicidio, violenza sessuale e tratta di esseri umani. Secondo il racconto dei quattro scampati all’inferno di Sabhah le violenze e le torture erano quotidiane nelle tre palazzine della fortezza nel deserto, con mura alte e filo spinato, guardie con i mitragliatori. Violenze continue, minacce e abusi sempre più feroci anche durante le telefonate dei prigionieri con i familiari, per far capire dall’altro capo del telefono l’inferno che avrebbero vissuto i loro cari fino a quando non pagavano. Chi non aveva nessuno in grado di pagare Rambo e Ackon veniva trasferito nella palazzina “Vip” l’inferno degli inferni dove violenze sessuali, omicidi, flagellazioni e sanguinosi pestaggi con tubi di ferro erano all’ordine del giorno La Libia un porto sicuro? È un Paese sconsigliato anche dalla Farnesina di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 21 luglio 2018 La tesi di Matteo Salvini è che migranti e profughi partiti dalle coste libiche andrebbero rispediti lì. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, vicepresidente del Consiglio della Repubblica italiana, ha sostenuto che in Europa esiste una “ipocrisia” in base alla quale “si danno soldi ai libici, si forniscono le motovedette e si addestra la Guardia costiera, ma poi si ritiene la Libia un porto non sicuro”. La sua tesi è che migranti e profughi partiti dalle coste libiche andrebbero rispediti lì. Qualcuno si è sorpreso che l’Unione Europea abbia fatto presente a Salvini: il Paese controllato da milizie al di là del Mediterraneo non garantirebbe incolumità a eventuali respinti. Se si guardassero le cose come stanno, basterebbe leggere viaggiaresicuri.it, il sito Internet nel quale l’Italia, attraverso il ministero degli Esteri, informa sulla sicurezza di ciascun Paese. C’è scritto: “Si ribadisce l’invito ai connazionali a non recarsi in Libia e, a quelli presenti, a lasciare temporaneamente il Paese in ragione della assai precaria situazione di sicurezza. Scontri tra gruppi armati interessano varie aree (...). Permane inoltre, anche nella capitale, la minaccia terroristica e elevato rischio rapimenti. Si registrano elevati tassi di criminalità anche nelle principali città e strade (...) Cellule jihadiste sono presenti in varie parti del Paese, inclusa la capitale. Attacchi terroristici rivolti a libici e stranieri, anche con autobombe, hanno avuto luogo a Tripoli (...). Standard adeguati di sicurezza non sono garantiti nemmeno nei grandi hotel della capitale, anzi”. L’alto commissariato Onu sui diritti umani ha definito abituale la tortura nelle carceri libiche. I centri di detenzione per migranti non sono migliori. Per l’incarico che è chiamato a ricoprire nell’interesse dell’Italia, il ministro dell’Interno è costretto a girare scortato. Non è dunque da domandare a lui di trasferirsi in Libia per darne prova della sicurezza. Ma a cittadini italiani la consiglierebbe per l’estate? Suvvia. Migranti. Come evitare l’inferno e le ipocrisie sulla Libia di Luca Ricolfi Il Messaggero, 21 luglio 2018 Se dovessimo basarci solo sui freddi numeri, dovremmo concludere che il problema degli sbarchi è stato quasi completamente risolto. Fatto 100 il numero medio di arrivi nel periodo anteriore alle “primavere arabe” (dal 1997 al 2010), siamo passati a 780 nel 2016, per poi ripiegare a 214 alla fine dell’era Minniti (gennaio-maggio 2018), e infine sotto quota 100 nell’era Salvini-Di Maio (giugno luglio 2018). Fu vera gloria? Per certi versi sì. Checché ne dicano i dirigenti del Pd, che nei giorni scorsi hanno affermato che i morti in mare sono aumentati, è vero il contrario: fra il 2107 e il 2018 i morti in mare nella rotta centrale del Mediterraneo (quella più pericolosa, che porta in Italia) si sono pressappoco dimezzati (la fonte è Oim, Organizzazione Internazionale per le migrazioni). Ma per altri versi no, non fu vera gloria. Proprio per niente. Intanto bisogna dire che la riduzione del numero dei morti è dovuta solo alla diminuzione del numero delle partenze. La pericolosità dei viaggi, invece, è aumentata: nel 2017 il rischio di perire nella traversata verso l’Italia era già alto, oggi è ancora più alto. Ma il punto centrale è che la frenata agli arrivi, pur avendo ottenuto risultati politici non disprezzabili (sostanzialmente: l’Europa si è scossa dal proprio torpore pluriennale), non ha minimamente scalfito i due problemi fondamentali che abbiano di fronte, come italiani e come europei. Come italiani il nostro problema fondamentale ormai non sono più gli sbarchi attuali, bensì la somma degli sbarchi passati. Detto crudamente: la massa di centinaia di migliaia di migranti che si aggirano sul nostro territorio senza averne diritto, una massa cui in futuro rischiano di aggiungersi i migranti che noi abbiamo salvato e registrato, che sono passati in altro paese europeo, e che i paesi “fratelli” (specie Austria, Francia e Germania) hanno ogni intenzione di restituirci: una minaccia che nel legnoso linguaggio dell’Unione viene dissimulata sotto l’etichetta “problema dei movimenti secondari”. Come europei siamo messi ancora peggio. Il problema di fondo dell’Europa è che l’Africa vorrebbe trasferirsi nel Vecchio continente. E lo vuole per un sacco di motivi, alcuni ottimi, altri discutibili, ma tutti reali. Il più importante è che molti paesi africani sono semplicemente invivibili, fra guerre, dittature, corruzione, fame, siccità, carestie, traffico di esseri umani. La complicazione è che “noi” siamo 500 milioni (in calo), “loro” 1 miliardo e 200 milioni, destinati a diventare 2 miliardi e più nel giro di due o tre decenni: giusto il tempo di vedere i nostri neonati di oggi prendere una laurea domani. Come si risolve questo problemuccio? Una soluzione, abbastanza gettonata nel mondo progressista, è la rassegnazione entusiasta, se mi si consente questo ossimoro. L’idea è che le migrazioni siano un fenomeno “epocale”, che la mescolanza fra popoli e culture sia più un bene che un male, e che si tratti solo di gestire (con politiche di accoglienza e integrazione) le legittime aspirazioni di diverse centinaia di milioni di persone di trasferirsi in Europa. A questa soluzione, per ora, si contrappone solo un’idea, tanto rozza quanto confusa, di limitare gli sbarchi e “aiutarli a casa loro”, come è diventato di moda dire oggi. In Italia questa linea prende le vesti di un crescente trasferimento di risorse verso il governo libico (o meglio: verso uno dei tre poteri in lotta fra loro in Libia, quello di Sarraj a Tripoli). Noi regaliamo motovedette, istruttori, soldi, e speriamo che così non facciano partire nessuno, e poco per volta escano dal caos e dalla miseria. Ma è una soluzione? A me pare di no. La maggior parte delle testimonianze dirette che giungono dalla Libia ci rivelano che i legami tra governo, milizie e trafficanti sono piuttosto stretti. L’Italia fornisce soldi e mezzi, ma non esercita alcun reale controllo sull’uso che ne vien fatto. Nonostante gli accordi e i protocolli negoziati dal precedente governo, dall’Onu e dagli organismi internazionali con i governi libici, nonostante il successo di alcuni esperimenti (come i rimpatri e i centri sotto l’egida dell’Onu), la situazione nel paese africano resta drammatica, e negli ultimi mesi sta peggiorando rapidamente. In una recente conferenza stampa i rappresentanti dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) hanno dovuto riconoscere che il sovraffollamento dei campi di detenzione si sta aggravando, e che i numeri sono scoraggianti: a fronte di decine di migliaia di rifugiati, l’Europa si è impegnata ad accoglierne appena 4000, e ne ha di fatto accolti poco più di 200. Certo non tutti i campi in cui vengono ammassati i migranti sono eguali (alcuni sono illegali e gestiti direttamente dai trafficanti, altri sono governativi, altri vedono la presenza delle Ong), ma le testimonianze di trattamenti inumani, stupri, violenze, estorsioni, ricatti, persino di vendite come schiavi, sono difficilmente confutabili, o derubricabili a eccezioni. Vale per oggi, nell’era Salvini, ma valeva anche ieri, nell’era Minniti, con l’unica mortificante differenza che prima la stampa progressista si barcamenava o chiudeva un occhio, mentre ora si indigna 24 ore su 24: sublime ipocrisia dell’umanitarismo a senso unico. È strano, molto strano, che a chi proclama di voler limitare gli arrivi, sia esso un “sincero democratico” o un bieco politico “populista”, non venga mai in mente che impedirli con l’intimidazione e la sopraffazione fisica, delegando ai libici il lavoro sporco, non può che moltiplicare la disperazione, e rafforzare la volontà di sbarcare in Europa, costi quel che costi. Insomma, quel che non capisco, pur condividendo l’idea che in Europa si debba entrare esclusivamente in modo legale, è come mai, oggi come ieri, siamo così timidi quando ci rapportiamo a paesi come la Libia: un paese che, a differenza di altri paesi africani, non ha ancora firmato la convenzione di Ginevra sui rifugiati (1951), e pone non pochi ostacoli alla presenza di osservatori internazionali e all’azione delle organizzazioni umanitarie. Forse siamo timidi perché siamo politicamente deboli e isolati, o semplicemente perché siamo ricattabili a causa dei nostri interessi economici (l’Eni è presente in Libia). Eppure dovremmo riflettere. Se davvero vogliamo “aiutarli a casa loro”, non possiamo non porci il problema, sollevato quasi dieci anni fa da Dambisa Moyo (africana trapiantata negli Stati Uniti), dell’uso dei fondi che affluiscono in Africa, troppo spesso finiti nel circuito della corruzione anziché alle popolazioni cui erano destinati (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, Rizzoli 2010). Soprattutto dovremmo condizionare i nostri aiuti e il nostro supporto a un minimo di garanzie sui migranti, nonché alla possibilità di aprire in territorio africano canali legali e funzionanti di ingresso in Europa (sempre che l’Europa riesca ad essere meno avara di quanto si sta rivelando oggi). Perché i numeri e i tempi contano. Un flusso ragionevole e ordinato di ingressi in Europa può solo arricchire il Vecchio Continente, ma la finzione che tutto vada bene nell’inferno libico rischia solo di alimentare una bomba che, prima o poi, non potrà che esplodere, travolgendo tutto e tutti. Niger, dove l’Europa prepara la nuova guerra ai migranti di Rachele Gonnelli Il Manifesto, 21 luglio 2018 Ora che il Niger viene indicato come la prossima frontiera esterna dell’Unione europea, non passa mese che un leader o un sotto-leader europeo non si rechi nella caldo-umida Niamey o al più nell’infuocata Agadez: l’ultimo in ordine di tempo è il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, appena rientrato dal viaggio con al seguito una trentina di imprenditori europei. E anche Tajani ha voluto visitare Agadez oltre alla capitale. L’antico caravanserraglio schiavistico, poi avamposto coloniale francese ai bordi del Sahara, da dove provenivano fino a due anni fa il 90 per cento dei migranti subsahariani diretti in Libia e da lì in Europa, è oggi una città caotica - nei racconti di chi la vive - e strapiena di presenze occidentali, anche di militari - in particolare provenienti dalla vicina base di droni americana costata secondo il New York Times 110 milioni di dollari, che ospita oltre 800 “berretti verdi” e da cui partono i comandi dei raid aerei anti-Isis in Libia. Ma soprattutto è piena di ambasciate, rappresentanze di agenzie dell’Onu e della Ue. E sono in fase di ultimazione i lavori per la costruzione di due nuovi compound per le sedi diplomatiche di Arabia Saudita e Stati Uniti grandi come interi isolati e sormontate da alte mura con garitte alla maniera di quelle di Kabul o Baghdad. Tajani naturalmente ha incontrato e stretto la mano al presidente del Niger, l’intramontabile Mahamadou Issaufou - siede alla presidenza dal 2011 ma in precedenza è stato primo ministro dal 1993, presidente del Parlamento e capo dell’opposizione in un periodo di frequenti colpi di Stato - che per l’occasione si è fatto trovare in patria. Pare che non sia così frequente, che preferisca soggiornare all’estero, tanto che il soprannome che gli viene appioppato è “Rimbo”, dal nome della più famosa compagnia nigerina di autobus transfrontalieri, per altro di proprietà del suo amico personale e politico Mohamed Rhissa Ali, segnalato nei Panama Papers per aver investito gran parte della sua fortuna alle Seychelles, il più vicino paradiso fiscale. Il Niger totalizza un certo numero di record: è uno dei paesi più poveri al mondo, una persona su dieci è affetta da malnutrizione grave secondo il Programma alimentare mondiale: 2,3 milioni di persone bisognose di aiuti Pam, con un aumento del 21% rispetto al 2017 e il governo calcola che altri 1,4 milioni di nigerini saranno colpiti da insicurezza alimentare nel corso della carestia attualmente in atto. I vertiginosi rincari di riso e zucchero hanno già provocato manifestazioni e tumulti questa primavera, dopo i quali gran parte dei leader della società civile sono stati arrestati. Contemporaneamente è uno dei paesi con più corruzione al mondo: è al 112 posto nella lista di 180 paesi in base agli indici dell’ong Trasparency International. E infine, più di recente, è diventato il Paese destinatario della maggior percentuale di aiuti della Ue pro capite al mondo. Il fondo europeo di sviluppo ha stanziato per il ciclo 2014-2020 731 milioni di dollari per il Niger, ai quali se ne sono aggiunti prima altri 108 milioni, poi altri 30 per l’assistenza ai profughi nella regione del Diffa e altri ancora sono stati promessi nei giorni scorsi da Tajani, anche se per il momento il presidente del Parlamento di Strasburgo ha preferito non evocare cifre esatte, quanto piuttosto affari. Tajani ha parlato espressamente della collaborazione con le autorità nigerine come di “un modello che dobbiamo estendere ad altri paesi del Sahel seguendo l’esempio della Turchia dove abbiamo impegnato 6 miliardi di euro per chiudere la rotta balcanica”. E si è portato in delegazione, oltre ai trenta “uomini d’affari interessati ad investire in Niger” attraverso una “partnership vantaggiosa”, anche i dirigenti della Banca europea per gli investimenti. Il Presidente Issoufou ha annunciato che entro l’anno convocherà una conferenza sugli investimenti prioritari pubblici e privati in favore della forza, anche armata, del G5 Sahel - che oltre al Niger comprende Mali, Mauritania, Ciad e Burkina Faso - cioè il cartello di Stati del Sahel a cooperazione rafforzata che hanno appena ricevuto quasi mezzo miliardo di dollari (414 milioni) di donazioni internazionali - tra Usa, Ue, Canada e Giappone - per finanziare addestramento e forniture militari alla nascente forza militare regionale che dovrebbe stabilizzare l’area. È a sostegno di questa forza del G5 Sahel che l’ex governo Gentiloni ha voluto inviare 479 soldati italiani di cui grazie ad un rocambolesco scaricabarile delle autorità di Niamey si sono quasi perse le tracce. Da notare che a fianco degli eserciti del G5 Sahel ci sono già i 4 mila soldati francesi dell’operazione Barkhane. Antonio Tajani, arrivato con il compito di “rafforzare la cooperazione strategica”, anche “per il ruolo chiave che il Niger sta avendo nel ridurre drasticamente i flussi di migranti irregolari verso la Libia e l’Europa”, ha tratteggiato la possibilità di investimenti e trasferimenti tecnologici in vari settori, dall’agricoltura alle energie rinnovabili, ma soprattutto traffico aereo e controllo delle frontiere, attraverso l’impiego dei sistemi satellitari Galileo e Copernicus. Quanto al “modello Niger”, tanto decantato da Tajani, oltre che sulle due basi occidentali di droni, fa leva sulla legge nigerina numero 36 che ha reso illegale ai cittadini stranieri viaggiare a nord di Agadez verso il deserto, cioè lungo le piste più battute perché costellate di pozzi e oasi. Non sono molti i migranti che le guardie nigerine intercettano, solo 7 mila rimandati indietro nel 2017, mentre nel frattempo la corruzione per far chiudere un occhio ai gendarmi ha fatto lievitare i costi dei viaggi verso la Libia e reso la traversata del deserto molto più pericolosa, spesso mortale, come denuncia il reportage apparso su Africa Report di Daniel Howden e Giacomo Zandonini. I costi proibitivi e i rischi di morte hanno contribuito a far passare quest’anno da 300 mila a soli 10 mila i migranti in transito da Agadez. Ma altri varchi esistono per i passeurs Touareg e Tebu, come ad Arlit al confine con il Marocco e a Seguedine, dove si sono verificate recentemente le maggiori stragi nel deserto. Le strategie di respingimento europee hanno fatto già triplicare negli ultimi tre mesi i migranti chiusi nei centri di detenzione libici, da 5 mila a 9.300, secondo l’ultima stima dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e hanno portato le morti in mare a un migrante ogni sette imbarcati. Ma ciò che conta è che le commesse militari, per il monitoraggio delle frontiere e per le agenzie al servizio di questa politica, continuano a maglie sempre più larghe. Stati Uniti. Comportamenti poco “sani” per i ragazzi che hanno avuto i genitori in carcere di Sara De Giorgi nostrofiglio.it, 21 luglio 2018 Uno studio ha scoperto che i giovani adulti americani che hanno avuto genitori in carcere durante l’infanzia non sarebbero tempestivi nelle cure mediche e avrebbero comportamenti poco sani. “I bambini sono le vittime invisibili della carcerazione di massa”. Secondo un recente studio americano i giovani adulti che hanno avuto genitori in carcere durante l’infanzia avrebbero maggiore propensione a non svolgere tempestivamente le cure mediche e avrebbero anche comportamenti poco salutari. In particolare, dalla ricerca, pubblicata su Pediatrics, è emerso che i giovani adulti che avevano un genitore in prigione durante l’infanzia manifesterebbero maggiori probabilità di saltare le cure mediche necessarie, di fumare sigarette, di intraprendere comportamenti sessuali a rischio e di abusare di alcool, di farmaci e di droghe illecite. Inoltre, i ragazzi che avevano madri in carcere avrebbero anche il doppio delle probabilità di avere rapporti sessuali in cambio di denaro, mentre quelli con storie di incarcerazione del padre avrebbero 2,5 volte in più la probabilità di usare droghe per via endovenosa. “Gli Stati Uniti hanno i più alti tassi di incarcerazione nel mondo: dato il numero crescente di genitori, in particolare di madri, in prigione, il nostro studio intende richiamare l’attenzione sulle vittime invisibili, ossia i loro figli”, ha detto l’autrice principale dello studio Nia Heard-Garris, Pediatra presso “Ann & Robert H. Lurie Children’s Hospital” di Chicago e Istruttrice di Pediatria della “Northwestern University Feinberg School of Medicine”. Nello specifico, i ricercatori hanno analizzato i dati di indagini nazionali svolte su oltre 13.000 giovani adulti (età 24-32), scoprendo che il 10% di loro aveva avuto un genitore in carcere durante l’infanzia. I partecipanti avevano in media 10 anni la prima volta che i loro genitori vennero messi in prigione. Inoltre, tra i giovani adulti neri vi era una maggiore percentuale di ragazzi con genitori detenuti o ex-detenuti. “Questi dati sottolineano che i bambini sono le vittime invisibili della carcerazione di massa. Il nostro paese non ha pensato ai costi indiretti”, ha detto il Dott. Winkelman, coautore della ricerca. “Questo studio è un altro passo in avanti nella comprensione dell’impatto dei nostri sistemi di giustizia penale”. Ricerche precedenti hanno dimostrato anche che le persone con una storia di incarcerazione genitoriale presentano tassi più elevati di asma, Hiv-Aids, ritardi nell’apprendimento, depressione, ansia e disturbo da stress post-traumatico. “Vi è una probabilità più alta che questi giovani rinuncino alle cure mediche e che intraprendano comportamenti non salutari”, ha affermato Heard-Garris. “Individuando gli specifici comportamenti dannosi per la salute che questi ragazzi dimostrano, il nostro studio potrebbe essere un primo passo verso la ricerca di modi più precisi per mitigare i rischi per la salute di questi giovani”. Kenya. Condanna a morte per la “miss” del carcere di Antonella De Gregorio Corriere della Sera, 21 luglio 2018 Ruth Kamande, 24 anni, ha ucciso a pugnalate il fidanzato nel 2015. Amnesty International: “Un pericoloso passo indietro”. Nel Paese le condanne a morte non vengono eseguite da trent’anni. I giudici: “Non ha mostrato pentimento”. Fa discutere, in Kenya, la condanna a morte per impiccagione di una donna di 24 anni, Ruth Wanjiku Kamande dichiarata colpevole di aver ucciso il suo fidanzato, Farid Mohammed, pugnalandolo 25 volte con un coltello da cucina, nel settembre 2015, nella tenuta di Buruburu, a Nairobi. Il tribunale ha stabilito che la donna ha agito deliberatamente e non, come ha sostenuto nelle varie fasi del processo, per legittima difesa. Ruth Kamande, che nel carcere femminile di Langata è stata anche eletta regina di bellezza, si è impegnata in varie attività nei due anni e nove medi di detenzione, dalla modellistica alla danza, dalla poesia alla sceneggiatura, e - hanno sostenuto i suoi difensori - è diventata una devota musulmana e ha frequentato un corso di teologia. Ai giudici, Ruth ha detto di provare profondo rimorso e di essere molto cambiata. L’avvocato ha invocato una sentenza clemente, aggiungendo che Ruth è l’unica figlia di una madre single e che si era anche iscritta all’università, prima del suo arresto, nel 2015. “Abbandonare il rapporto” - Il giudice Jessie Lesiit ha sostenuto che le ferite da taglio non erano compatibili con la versione della ragazza, secondo cui l’ex fidanzato, l’avrebbe immobilizzata cercando di violentarla e lei avrebbe cercato di difendersi. Secondo l’accusa, la ragazza avrebbe agito in un impeto di rabbia e gelosia, dopo aver trovato vecchie lettere d’amore di precedenti relazioni e una tessera ospedaliera che rivelava che Mohammed era sottoposto a trattamento per l’Hiv. E il giudice ha affermato che “i giovani dovrebbero essere consapevoli che non bisogna uccidere il proprio ragazzo o la propria fidanzata, quando si interrompe una relazione, ma semplicemente abbandonare il rapporto”. “Un passo indietro” - La filiale locale di Amnesty International ha denunciato la condanna a morte, in un Paese in cui nessuna esecuzione è stata praticata per trent’anni: “È un preoccupante passo indietro - ha dichiarato il direttore esecutivo di Amnesty International in Kenya, Irungu Houghton. È un’inversione della pratica giudiziaria consolidata in questo Paese, dove le condanne a morte sono sempre state commutate in detenzione”, ha aggiunto la Ong, auspicando che in sede di appello anche la giovane donna possa beneficiare della commutazione della pena. Pene commutate - Il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, ha commutato nell’ottobre 2016 tutte le condanne a morte emesse nel paese dell’Africa orientale: per 2.747 detenuti nel braccio della morte - 2.655 uomini e oltre 92 donne - la condanna è stata tramutata in carcere a vita. In quell’occasione, Amnesty aveva dichiarato che “la decisione porta il Kenya più vicino alla crescente comunità di nazioni che hanno abolito la pena di morte”. Medio Oriente. Hamas e Israele, tregua mediata dall’Egitto di giordano stabile La Stampa, 21 luglio 2018 L’accordo raggiunto nella notte: i raid israeliani sospesi, stop ai razzi dalla Striscia. Nella notte è stato raggiunto un accordo di tregua a Gaza fra Hamas e Israele, con la mediazione dell’Egitto. I raid israeliani sono cessati attorno alla mezzanotte e non ci sono più state reazioni da parte dei militanti, che ieri sera avevano lanciato tre razzi verso Sderot, intercettati dal sistema Iron Dome. I bombardamenti di ieri sono stati i più pesanti da anni, dopo che un commando palestinese aveva ucciso un militare israeliano di pattuglia lungo il confine con la Striscia. È il primo soldato israeliano morto in servizio dall’estate del 2014, quando Israele aveva rioccupato Gaza durante l’operazione Protective Edge. I raid israeliani hanno fatto quattro morti e 120 feriti. L’aviazione e i cannoni dei carri armati hanno colpito “68 obiettivi di Hamas” e distrutto “circa 60 edifici e infrastrutture, indebolendo in maniera significativa le capacità di controllo e comando” del gruppo islamista, ha precisato un portavoce delle forze armate. La crisi è la più grave dal 2014 e ha spinto la diplomazia mondiale a intervenire. Dopo l’appello dell’Onu a “fermarsi prima del baratro”, diplomatici egiziani e di altri Paesi arabi, probabilmente del Golfo, hanno fatto pressione su Hamas e mantenuto i contatti con Israele, fino al raggiungimento della tregua. A differenza della settimana scorsa, il gruppo non ha reagito con razzi e colpi di mortaio, per evitare un intervento di terra che avrebbe conseguenze devastanti soprattutto sulla popolazione civile, già stremata. A Gaza vivono 2 milioni di persone su una superficie di soli 360 chilometri quadrati. Eritrea. Scarcerati 35 detenuti appartenenti a chiese cristiane illegali Nigrizia, 21 luglio 2018 Il governo eritreo ha liberato 35 detenuti, incarcerati per appartenenza a chiese cristiane non registrate. Secondo la BBC Tigrinya Service e Release Eritrea - associazione con sede nel Regno Unito che si occupa di persecuzioni religiose nel paese, tutti i prigionieri (11 donne e 24 uomini) sono stati rilasciati su cauzione dalla prigione di Mai-Sirwa. Quattro anni e mezzo fa, lo stesso gruppo di prigionieri aveva firmato dei documenti nei quali si impegnava a non partecipare a riunioni condotte dalle rispettive chiese ma, a differenza dei compagni di fede che facendo ciò avevano ottenuto in precedenza la liberazione, i 35 non sono mai stati rilasciati, fino a ieri. “Tutti i pastori e i leader delle chiese non registrate restano nelle carceri di massima sicurezza eritree, tra cui il famigerato Karseli, dove importanti dirigenti della chiesa sono rinchiusi dal 2004”, fa notare Release Eritrea in una dichiarazione riportata da portale di notizie indipendente. Recentemente Asmara è stata chiamata a ripristinare una condizione di rispetto dei diritti umani, in seguito allo storico accordo di pace siglato con l’Etiopia. Dopo vent’anni di tensioni, infatti, l’Eritrea ha riaperto la sua ambasciata ad Addis Abeba e l’Etiopia ha ripreso i voli aerei diretti con Asmara.