I paletti delle norme internazionali per trasferire i detenuti stranieri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 luglio 2018 Spostamento già disciplinato dalla Convenzione di Strasburgo, ratificata dall’Italia nel 1983. “Sarà costante l’impegno all’incremento e all’accelerazione dell’entrata in vigore degli accordi bilaterali volti a consentire il trasferimenti dei detenuti condannati stranieri nei Paesi di origine, anche senza il consenso del detenuto stesso”. Così aveva risposto il ministro della giustizia Alfonso Bonafede durante una question time alla Camera. Per il guardasigilli il numero dei detenuti stranieri, pari a 19.860 su un totale di 58.745 al 17 luglio 2018, è alto e quindi ha deciso di dare “indicazioni alle competenti articolazioni ministeriali di assumere iniziative affinché i trattati e gli accordi già in vigore - tra i quali particolare attenzione va riservata, dato il numero di detenuti presenti nei nostri istituti, a quelli conclusi con Albania e Romania - possano esplicare nel modo più ampio possibile la loro portata applicativa, sinora non ancora soddisfacente sul piano statistico”. Per il ministro, dunque, è necessario rafforzare gli accordi bilaterali per espellere i detenuti stranieri senza il loro consenso. Ma è possibile farlo? Il diritto internazionale, salvo alcuni condizioni, dice il contrario. La questione dello spostamento dei detenuti nei loro paesi d’origine è già disciplinata dalla convenzione di Strasburgo ratificata, da alcuni Paesi tra i quali l’Italia, nel 1983. Con questa normativa internazionale è stata prevista una procedura di trasferimento applicabile da tutti gli Stati, anche se non aderenti al Consiglio d’Europa, per l’esecuzione della sentenza nel Paese d’origine della persona condannata. Una cooperazione tra gli stati che “deve essere indirizzata alla buona amministrazione della giustizia e a favorire il reinserimento sociale delle persone condannate”. Nell’articolo 3 della Convenzione, però, ci sono alcune condizioni per il trasferimento nel carcere del Paese di origine: a) la persona condannata è cittadino dello Stato di esecuzione; b) la sentenza è definitiva; c) la durata della pena che la persona condannata deve ancora scontare è di almeno sei mesi alla data di ricevimento della richiesta di trasferimento, o indeterminata; d) la persona condannata - o, allorquando in considerazione della sua età o delle sue condizioni fisiche o mentali uno dei due Stati lo ritenga necessario, il suo rappresentante legale - acconsente al trasferimento; e) gli atti o le omissioni per i quali è stata inflitta la condanna costituiscano reato ai sensi della legge dello Stato di esecuzione o costituirebbero reato se fossero commessi sul suo territorio; f) lo Stato di condanna e lo Stato di esecuzione sono d’accordo sul trasferimento. La lettera “d” è chiara: ci vuole il consenso del detenuto. Ma i detenuti stranieri ora vengono già espulsi senza la loro volontà? Sì, ma in questo caso non si parla di detenzione in un altro Paese, ma di vera e propria misura alternativa. Dal 2014, è stato convertito in legge il famoso decreto “svuota-carceri” dove l’espulsione è, appunto, una misura alternativa e viene applicata dai magistrati di sorveglianza se mancano 2 anni dal fine pena. Vi rientra anche chi è condannato per un reato previsto dal testo unico sull’immigrazione purché la pena non sia superiore nel massimo a 2 anni e chi è condannato per rapina o estorsione aggravate. Il caso dello svuota carceri, però, è diverso dall’espiazione all’estero: per il provvedimento italiano, ribadiamo, l’espulsione è un’alternativa alla pena. Poi nel 2008, per facilitare il trasferimento, il Consiglio dell’Unione Europea ha poi approvato la Decisione Quadro 2008/909/Gai relativa al “reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea”, rivolta esclusivamente ai membri dell’Ue. In questo caso la procedura di trasferimento è semplificata - senza consenso del condannato - e basata sulla presunzione che il luogo di origine del condannato sia quello in cui ha legami sociali, familiari, culturali e linguistici e quindi il più favorevole alla sua rieducazione. Anche in questo caso è di difficile applicazione per due motivi: di solito, i legami si instaurano nel Paese dove si va a vivere, non dal quale si proviene e comunque ci vuole il consenso dello Stato di origine. Altro problema è che ovviamente non si può espellere un detenuto straniero per mandare il condannato nel paese di destinazione dove rischia maltrattamenti o violazioni dei diritti umani. In realtà, la proposta di Bonafede è simile a quella della Lega nel 2015. Ad opporsi, oltre al Pd, fu proprio il M5S. Cittadini detenuti e salute. Intervista a Sergio Babudieri di Vanessa Seffer L’Opinione, 20 luglio 2018 Negli istituti penitenziari del Paese aumentano i suicidi, seconda causa di morte in carcere, e il sovraffollamento. Secondo il quattordicesimo rapporto dell’associazione “Antigone”, che da più di vent’anni monitora la situazione delle 190 carceri italiane, i due istituti di pena più affollati in Italia sono quelli di Como, con oltre il 200 per cento di presenze e di Taranto con il 190,5 per cento. Ci sono celle di 9 metri quadrati abitate da almeno tre detenuti. I dati rivelano che al marzo 2017 i detenuti di tutta Italia sono stati 56.289. Nel marzo di quest’anno si registra un aumento di circa 2mila detenuti. La detenzione è un momento patologico nella vita di un essere umano. Il trauma dell’ingresso è un trauma psichiatrico legato alla perdita della libertà. Potrebbe risultare pleonastico, ma possiamo immaginare un cittadino comune costantemente connesso attraverso il telefono cellulare, che non appena viene accompagnato dai Carabinieri in carcere e spogliato dei suoi averi, per prima cosa viene privato proprio dell’oggetto che gli provoca “dipendenza”, ma grazie al quale “riempie” anche i vuoti della solitudine? La popolazione carceraria è costituita in prevalenza da persone provenienti da una società già marginalizzata, di un livello socio-culturale particolarmente basso e più esposte ad una serie di malattie non solo infettive ma anche mentali. Qualsiasi cosa può accelerare meccanismi di regressione, angoscia, squilibrio. Abbiamo fatto una chiacchierata con il professor Sergio Babudieri, infettivologo dell’Università di Sassari e consulente della Casa Circondariale di Sassari dal 2014, nel settore da oltre trent’anni, presidente della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria Onlus (Simspe), chiarisce tanti punti oscuri, racconta aspetti cui non ci capita spesso di pensare, di un ambiente che va considerato come un luogo di passaggio. Quanti sono in Sardegna gli istituti penitenziari? In Sardegna ce ne sono dieci, di cui tre campi di lavoro, più il carcere minorile di Quartucciu. Abbiamo alcune migliaia di posti letto. Infatti, quando mancano posti, specialmente al nord, i detenuti vengono trasferiti in Sardegna. Quindi se vogliamo parlare di salute questo è senz’altro un bell’osservatorio. In molti istituti penitenziari in Italia i bagni si trovano fuori dalle celle. Nelle strutture nuove è lo stesso? All’interno delle celle nelle strutture di vecchia costruzione hanno solo il water, separato da un mezzo muro. E le persone fanno i bisogni davanti a cinque, sei, sette, anche otto persone. Questa è la situazione delle carceri più vecchie che abbiamo in Italia. La profonda differenza fra le carceri di nuova costruzione e le carceri vecchie è proprio questa. Quindi, anche senza sovraffollamento, non tutte le situazioni delle carceri sono uguali. Lo spazio vitale va adeguato alle norme europee. Se le condizioni sono queste è evidente che ci sono diversi pesi e diverse misure. Da questa prima osservazione ne consegue che abbiamo grossi problemi non solo dal punto di vista sanitario, ma anche dal punto di vista strutturale. Ci sono delle megastrutture a macchia di leopardo come San Vittore, Poggioreale, il carcere di Lecce, quello di Taranto o Como che si trova sul fondo di una vallata, dove anni fa documentammo un’epidemia causata da un gregge che passava che per una folata di vento che trasportò un parassita delle pecore provocò un’infezione a molti detenuti e a molti agenti della polizia penitenziaria, che hanno avuto manifestazioni di febbre. La salute dei detenuti dunque, dipende anche dalle condizioni in cui si trova la struttura carceraria. Cosa si può e si deve fare per gestire meglio questa popolazione dal punto di vista della salute? C’è l’acqua potabile nelle carceri e quanta ce n’è? Mi piacerebbe che in tutte le 190 carceri italiane ci fosse un ufficio di igiene che andasse a verificare la potabilità delle acque. Siccome ci sono alcuni detenuti che vengono con delle bottigliette d’acqua e dicono “secondo lei io mi devo lavare con questa acqua marrone?”, non credo che questa verifica venga fatta! Vogliamo parlare del riscaldamento d’inverno? La qualità della vita all’interno di un carcere passa attraverso una serie di variabili talmente elevata, partendo dal carcere vecchio o carcere nuovo e sebbene sia già questo una discriminante, non sempre un carcere nuovo è perfetto. Ma almeno le cancellate si aprono elettricamente, ci sono i citofoni, c’è il controllo elettronico, è più facile per la polizia penitenziaria gestirlo, la qualità della vita dei detenuti ne risente in positivo. Come si gestiscono le malattie croniche e le malattie psichiche dentro le carceri? Tutta la letteratura sull’argomento concorda nel dire che circa i due terzi delle persone detenute non possono essere considerate sane, tra malattie infettive e malattie psichiatriche, di cui molte sconosciute dagli stessi pazienti. Faccio l’esempio della Regione Toscana che ha avuto il finanziamento del Ministero della Salute e ha raccolto una serie di dati dalle cartelle cliniche dei detenuti. Alla voce “schizofrenia” hanno trovato il dato 0,6 per cento che su 56mila detenuti fa un numero molto consistente. Quelli segnalati come schizofrenici sono i pazienti più evidenti e, spiegano i colleghi psichiatri che la parte clinica della schizofrenia grave è quella non manifesta, di coloro i quali si chiudono in loro stessi, che si provocano autolesionismi e che talvolta arrivano al suicidio. Questi hanno bisogno di una presa in carico nel pieno senso della parola. Ci sono detenuti la cui cartella clinica è intonsa e probabilmente tra questi ci sono proprio i casi più gravi. Ogni medico all’interno degli istituti non deve aspettare le emergenze ma deve visitare tutti, magari avendo assegnato un certo numero di pazienti, come si fa con il medico di base, per poi essere rivisti periodicamente, per avere un medico di riferimento, come il medico di famiglia. È chiaro che se io essendo il medico del carcere ed ho i miei 40-50 pazienti che vedo regolarmente ogni volta che vado, stabilisco un rapporto interpersonale, mi faccio un’idea della persona che ho davanti. I detenuti che vengono più presi in carico sono i tossicodipendenti, perché in carcere c’è il medico dei Servizi per le Tossicodipendenze (SerT) che oggi si chiamano Servizi per le Dipendenze patologiche (SerD) e coloro che si dichiarano tossicodipendenti anche se non lo sono, fanno visite ripetute regolari da questo medico il quale li visita, fa loro counseling, e poi li manda dal consulente in base alla patologia che accusano. Se hanno problemi alla minzione non lo vanno a dire facilmente a qualcuno, lo diranno laddove si creerà un rapporto interpersonale. Due o tre volte al giorno passano gli infermieri per la distribuzione dei farmaci nelle sezioni, quindi parlano anche con loro. Peccato che a queste persone fanno contrattini a tempo determinato a tre mesi e spesso questo personale cambia, e arrivano altre persone che provengono da cooperative, anche stranieri che non parlano italiano. Quindi viene meno una opportunità per il detenuto di comunicare, di avere riferimenti con cui rapportarsi con costanza. Questa è la realtà. Abbiamo degli agenti di Polizia penitenziaria, padri di famiglia, persone comprensive che sanno applicare le norme penitenziarie ma creano allo stesso tempo un rapporto rilassato all’interno della struttura penitenziaria. Se ci sono persone nervose c’è quello che li convince con garbo, che dice “lascia perdere, non vale la pena” se c’è uno nervoso, un detenuto che alza la voce possono partire gli schiaffi, bisogna capire la differenza. Se c’è uno che prende gli schiaffi, magari non esce più dalla cella perché ha una sindrome che glielo impedisce. Il concetto di salute implica delle peculiarità per la persona detenuta? Da medico dico che chi è detenuto anche se è sano deve essere considerato un “paziente”. Le celle sono l’unica parte del territorio italiano in cui il magistrato ha la responsabilità H24 delle persone che sono recluse. Quindi in qualsiasi momento può chiedere di essere relazionato sulle condizioni cliniche di tutti i detenuti, qualsiasi detenuto. Che sia malato o che non lo sia. Per essere relazionato su qualsiasi persona detenuta è chiaro che un atto medico a monte deve essere fatto. E non è solo la visita di primo ingresso che descrive le condizioni del paziente in quel momento. È insito nel regolamento penitenziario: il magistrato di sorveglianza fra i suoi compiti ha quello di avere in carico la salute dei detenuti e qualcuno dev’essere in grado a sua volta di relazionarlo 24 ore su 24. Delle 102mila persone transitate nel 2017 dai 190 istituti penitenziari, la maggior parte viene dalla marginalità, ma un’altra parte proviene da un mondo altolocato e una percentuale anche dal mondo legato alla politica, mentre gli stranieri rappresentano un terzo dei detenuti. Regolari o irregolari che siano, gli stranieri anche senza codice Stp. (il tesserino sanitario personale, il sistema messo a punto dal nostro Servizio sanitario nazionale per l’assistenza sanitaria per i cittadini stranieri, n.d.r.). La detenzione potrebbe essere un’occasione unica per agganciare queste persone dal punto di vista medico e sociale. Se hanno patologie per diagnosticarle, per iniziare un percorso, una cura. Perché il detenuto di oggi è il cittadino di domani. Giusto uno che ha tre o quattro ergastoli non esce più, ma gli altri escono e bisogna occuparsi di loro, della loro salute, Se hanno malattie infettive trasmissibili e se li curiamo oggi abbiamo grandi probabilità che tante persone non prendano poi quella malattia più avanti. Quando usiamo la parola “inconsapevolmente” si storce subito il naso o si fanno sorrisini. Non si tratta solo di sesso. Quante persone conosciamo che hanno i tatuaggi per esempio? Uno di loro può andare a farsi un tatuaggio e se ha una epatite B o C o l’Hiv e poi passa dallo stesso negozio una ragazza che vuole fare un tatuaggio ma l’ago non è stato ben sterilizzato, ecco che si è trasmessa l’infezione. Non c’è bisogno di essere drogati o avere avuto rapporti sessuali per contrarre questo tipo di malattie. Se ne parla spesso nei nostri congressi, con immunologi e allergologi molto impegnati nel settore. Il carcere è un concentrato di patologia sociale e si porta dietro tutte le patologie di tipo clinico, psichiatrico e soprattutto di tipo infettivologico. È un’occasione unica per individuarle, fare diagnosi, curarle, in modo che le persone rientrando in società, siano meno pericolose. Studi dicono che un paziente consapevole trasmette sei volte meno di un paziente inconsapevole. Quindi, il carcere è un’occasione unica di salute pubblica. Perché in carcere non si fanno usare le sigarette elettroniche? di Massimo Lensi Il Dubbio, 20 luglio 2018 Il Dap ha dato il via libera a dicembre del 2016. Il tempo in carcere non è un’illusione. Passa lento, inesorabilmente lento. In carcere il tempo dovrebbe servire a impostare utili percorsi di risocializzazione per quando, scontata la pena, la persona ristretta torna a vivere nella società. E magari a imparare un lavoro, acquisire una professionalità o più semplicemente a capire gli errori commessi. Se invece, come spesso accade, quel tempo scorre abbandonato nell’inedia o nel logoramento della nostalgia, può capitare che chi esce abbia maturato la convinzione che la pena subita sia superiore al crimine commesso. Il tempo è così, saggio o perfido allo stesso tempo. E se le condizioni di detenzione ricordano più le burella (le antiche carceri fiorentine dell’epoca medievale. Stretti percorsi sotterranei, vere caverne, dove venivano rinchiusi i prigionieri al buio e in condizioni igieniche spaventose) del Medioevo che non la civiltà dello Stato di Diritto, allora è la malattia a giocare la partita più indecente che si possa immaginare. Un detenuto è una persona affidata nelle mani dello Stato, che dovrebbe garantirgli assistenza e provvedere alla sua salute. Lo dice il buon senso, lo recita la Costituzione. Andiamo allora a leggere cosa dice l’Agenzia di Sanità della Regione Toscana che ha recentemente rilasciato un’importante rilevazione sulla salute in carcere, un’indagine sugli istituti penitenziari nella regione. In carcere, ci informa il rapporto, ci si ammala più che fuori, non c’è prevenzione e le cure sono difficili e sempre ritardate. Ci si ammala di disturbi psichici (38,5% delle persone ristrette), di malattie infettive e parassitarie (16,2%), di malattie del sistema circolatorio (15,5%), di malattie endocrine, del metabolismo e immunitarie (12,1%), di malattie dell’apparato respiratorio (4,4%) e via dicendo, anzi ammalando. In altre parole un detenuto su due soffre di almeno una patologia. Incredibile? Mica tanto. Si diceva della prevenzione. Una parolina difficile in carcere. Fuori, chiunque di noi si affida al proprio medico per analisi di routine, consigli su stili di vita salutari e attività fisica. In carcere tutto questo non è possibile: stai chiuso in una cella per venti ore al giorno, non hai a disposizione un’assistenza sanitaria come si deve, il vitto è pessimo, il medico lo puoi vedere solo dopo una richiesta scritta (la famosa domandina), quando va bene. Intanto in cella fumi come un turco, con tutto il rispetto per i turchi, o respiri il fumo altrui. Fumi, il tempo passa mentre la televisione gracchia, e il mutuo soccorso tra detenuti è l’unica risorsa su cui puoi far di conto. In carcere, sempre secondo l’Ars, fuma il 62,4% delle persone detenute contro il 20,5% delle persone libere residenti in Toscana. Proibire il fumo in carcere sarebbe crudele, ma soprattutto inutile. Nel carcere inglese nell’isola di Man, dove il fumo di sigarette fu proibito già tempo fa, i detenuti avevano preso l’abitudine di fumare clandestinamente tutto quel che capitava loro sotto mano: bustine del tè, bucce di banana, perfino cerotti per smettere di fumare. La salute andava a farsi benedire in poco tempo e i casi di affezioni serie all’apparato respiratorio erano gravi e numerosi. L’amministrazione penitenziaria inglese decise allora di lanciare un programma pilota per inserire le sigarette elettroniche tra i beni acquistabili da parte delle persone ristrette. L’esperimento ha avuto un gran successo e da allora i casi di malattie respiratorie si sono ridimensionati, e insieme anche i numerosi disturbi psichici. Il nostro Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel dicembre 2016 ha autorizzato, attraverso una circolare, il fumo a vapore, lo svapo, nelle carceri italiane. Nonostante ciò, pur a fronte di dati come quelli della Ars Toscana che mostrano i seri danni del fumo di sigaretta in carcere, e nonostante gli sforzi di alcuni esponenti del mondo dello svapo italiano e di Rita Bernardini del Partito Radicale, nessun istituto ha ancora introdotto questa possibilità. Perché? Le ragioni sono sempre le stesse: burocrazia, sistemi di sicurezza particolari, problemi tecnici ma soprattutto la mancanza di coraggio da parte delle direzioni dei penitenziari italiani. Eppure gli inglesi hanno anche inventato una sigaretta elettronica disegnata appositamente per i detenuti, la Eburn, completamente sigillata e usa e getta. Un ministro inglese si è dichiarato convinto dalle prove fornite dai medici sulla riduzione del danno e sulla non tossicità dei vapori passivi emessi dalla E-cig. In Italia intanto il tempo passa invano. Ed è, letteralmente, tempo bruciato. *Associazione Progetto Firenze L’agenzia del rancore di Massimo Giannini La Repubblica, 20 luglio 2018 Il Viminale è il cuore del Paese e il custode della sicurezza di ogni cittadino Salvini l’ha fatto diventare il suo braccio armato. L’avamposto delle sua guerra ideologica. Adesso, con la querela a Saviano, anche contro un intellettuale. Mancava al campionario degli orrori del leader sovranista che ha trasformato il Viminale in una Agenzia del Rancore: la querela su carta intestata del ministro dell’Interno. Un atto ostile non contro un cittadino qualsiasi, che sarebbe comunque un’anomalia gravissima. Ma contro Roberto Saviano, cioè uno scrittore che, qualunque giudizio si dia di lui e dei suoi libri, è il simbolo della lotta alle mafie e alla criminalità organizzata. Matteo Salvini è riuscito a forzare e a storpiare le regole fino a questo punto. Confermando una volta di più quello che è ormai chiaro dal primo giugno, cioè dal giorno del giuramento di questo sedicente “governo del cambiamento”. È lui, il ministro della Paura, l’uomo del quale bisogna avere paura. Ed è lui che, entrato al dicastero con la faccia feroce del capo-bastone, ne ha irrimediabilmente mutato natura e funzione. Il Viminale è il cuore dello Stato. “Custode” della sicurezza del Paese. Istituzione nella quale ogni cittadino deve potersi riconoscere al di là di ogni colore politico e dalla quale deve sentirsi comunque garantito, tutelato, protetto. Salvini l’ha fatto diventare il suo braccio armato. L’avamposto delle sua guerra ideologica. Contro i migranti e contro le Ong, contro Merkel e contro Macron, contro i tecnocrati e contro i banchieri. E adesso, con la querela a Saviano, anche contro un intellettuale che ha l’unico torto di gridare la sua verità a questa Italia intorpidita e ammaliata dal pifferaio magico in cravatta verde. Un ministro dell’Interno avrebbe un solo, irrinunciabile dovere: difendere con ogni mezzo il cittadino che ha scoperchiato Gomorra ed è diventato per questo una “vittima” potenziale dei clan. E invece Salvini fa l’opposto. Non solo non difende quel cittadino che vive da 12 anni blindato. Non solo lo minaccia di togliergli la scorta e lo espone a colpi di tweet all’esecrazione pubblica su quella “tavola calda per antropofagi” che è ormai diventata la Rete. Ma diventa il suo carnefice, chiamandolo, in nome dell’intero governo del della Repubblica, a rispondere davanti a un tribunale dei suoi giudizi politici. Così il ministro dell’Interno, depositario dello Stato di diritto, diventa il tenutario dello Stato di eccezione. Un passo inquietante verso la Russia di Putin o la Turchia di Erdogan. È vero, Saviano ha formulato giudizi durissimi nei confronti di Salvini. L’ha chiamato “ministro della malavita”. E non si può pretendere che il capataz leghista, cresciuto e allevato nelle scuole padane, apprezzi Gaetano Salvemini e il significato con il quale il grande storico italiano usò quella definizione nei confronti di Giolitti. Ma il merito della controversia, a questo punto, non c’entra. Quello che c’entra è invece la qualità della nostra democrazia, sempre più esposta e fragile di fronte al dilagare della cultura dell’intolleranza, all’insofferenza verso il dissenso. Ovunque si annidi. Non solo in un libro, in un articolo di giornale, in un post su Facebook. Ma persino nei documenti ufficiali degli apparati e degli organismi pubblici e para-pubblici. Nelle stesse ore in cui Huffington Post rendeva nota la querela contro Saviano su carta intestata del Viminale, davanti alla Commissione parlamentare Tito Boeri denunciava un corto circuito politico-istituzionale altrettanto grave. Anche il presidente dell’Inps (per le sue critiche sulla xenofobia che danneggia la demografia, sull’abolizione della legge Fornero e infine sugli effetti del decreto dignità) è finito da tempo nel mirino di Salvini. E per questo ha ricevuto lettere di insulti e messaggi di morte. “Non posso accettare minacce da parte di chi dovrebbe presiedere alla mia sicurezza personale”, ha risposto. Vale per Boeri, vale per Saviano, vale per tutti gli italiani. Un governo che chiama uno scrittore sul banco degli imputati. Quello che sgomenta davvero, di fronte alle tante e sempre più intollerabili nefandezze pronunciate e compiute da Salvini, è il silenzio del premier Conte e del vicepremier Di Maio. Un silenzio assordante. Un silenzio complice. Un’acquiescenza da anni Trenta. Un’ignavia da “spirito di Monaco”. L’anticamera di una “democratura” non più occidentale. Legittima difesa, arma di propaganda di Marco Bertoncini Italia Oggi, 20 luglio 2018 L’apertura della discussione sulla legittima difesa costituisce un nuovo punto a favore del Carroccio all’interno delle priorità di governo. Siamo soltanto all’avvio, quindi nulla si può immaginare della futura legge, sempre che essa giunga a compimento. Tuttavia è un tema caro alla Lega e all’intero centro-destra, sia nelle sue espressioni politiche, sia nei mezzi d’informazione amici. Basterebbe rifarci all’impegno a suo tempo profuso da Enrico Costa, sia da viceministro alla Giustizia, sia da ministro per la Famiglia, per capire quanta accoglienza modifiche legislative in materia trovino nel centro-destra. Infatti Fi si è già mossa con un giro di propaganda sul “diritto alla difesa”. Ovviamente il M5s cerca e ancor più cercherà di smorzare gli entusiasmi, per non fornire un nuovo motivo di propaganda ai leghisti. Si è visto bene sia da una certa ritrosia del ministro grillino Alfonso Bonafede, sia dalla consapevolezza di dover ascoltare tutte le voci, esternata dal suo sottosegretario leghista Jacopo Morrone. Il fondamento della revisione è stato perfettamente individuato, nei suoi termini prima etici, poi filosofi co-politici, infine giuridici, da un magistrato liberale, Carlo Nordio, il quale ha sferzato la ricorrente bufala della “giustizia da Far West”. Il nocciolo sta in queste riflessioni: “Che diritto ha lo Stato di punire la reazione a un crimine che lui, Stato, non è riuscito a impedire? Se lo Stato ha il dovere di impedire i furti, le rapine e le violazioni di domicilio, è lui, Stato, a dover dimostrare di aver mantenuto i patti, prima di punire chi si è difeso da un’aggressione ingiusta”. Responsabile è lo Stato che non ha saputo prevenire, non chi sia vittima di tale incapacità. L’Anm e la legittima difesa: “così si autorizza l’omicidio” di Grazia Longo La Stampa, 20 luglio 2018 I magistrati: è una distorsione. La Cassazione: non vale per chi accetta il pericolo. S’infiamma la polemica, sia nel mondo politico sia in quello della magistratura, a proposito della nuova legge sulla legittima difesa. Pomo della discordia è l’ipotesi di stravolgere la proporzionalità della difesa E se per la Lega resta una “priorità” del governo, per il M5S si tratta di una materia che “va comunque approfondita” e studiata a fondo. Tranchant il presidente dell’Anm Francesco Minisci che definisce la normativa sulla legittima difesa “già ben definita”. Ma il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini non retrocede di un passo: “Per la legittima difesa noi non vogliamo il Far West: c’è oggi, il Far West. Vogliamo disarmare i delinquenti, ma vogliamo restituire agli italiani il diritto in casa loro, nel loro negozio, nella loro azienda di difendersi prima di essere aggrediti”. Non la pensa così Minisci che rincara la dose: “Se interveniamo sulla legittima difesa nei termini di cui stiamo leggendo in questi giorni rischiamo di legittimare i reati più gravi persino l’omicidio”. E ancora: “Si vuole eliminare il principio di proporzionalità. Questo però è un principio cardine dal quale non possiamo prescindere. Tra le proposte in esame c’è quella che prevede che un soggetto che torna a casa la sera può sparare a una persona che vede arrampicarsi sul proprio balcone. In questo caso sarebbe prevista la legittima difesa, ma questa è una distorsione inammissibile”. Secondo il presidente dell’Associazione nazionale magistrati la legge “regolamenta già in maniera adeguata tutte le ipotesi di legittima difesa. Nel 2006 sono stati già attuati alcuni interventi di modifica prevedendo ipotesi particolari nel caso di legittima difesa all’interno del domicilio. Non vediamo quali possano essere gli ulteriori interventi”. La Lega in pressing Orientata in questa direzione sembra anche la Cassazione che mette in guardia dallo sfidare l’aggressore. “Non è invocabile la scriminante della legittima difesa da parte di colui che accetti una sfida oppure reagisca a una situazione di pericolo volontariamente determinata” o alla quale “abbia concorso”, nonostante la “possibilità di allontanarsi dal luogo senza pregiudizio e senza disonore”. Con queste precisazioni la Suprema Corte ha confermato la condanna a Umberto Stregapede, che nel 2015 a Roma ha ucciso il cognato, Stefano Petroni, con 31 coltellate per mediare tra lui e la propria famiglia. Gli Ermellini hanno confermato la condanna a 6 anni e 2 mesi con l’attenuante della provocazione. L’uomo in realtà invocava la scriminante della legittima difesa. Ma non gli è stata riconosciuta perché l’imputato “ha liberamente scelto” di affrontare, di sfidare il cognato. Sul piano politico, intanto, la Lega continua a premere sull’acceleratore ma il premier Giuseppe Conte precisa: “Il governo è consapevole che sul piano applicativo giurisprudenziale della legittima difesa si siano create delle incertezze che vanno risolte”. In altre parole, lascia presagire che i tempi per un’approvazione della riforma non saranno poi così rapidi. Intercettazioni, si riapre il cantiere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2018 Decreto Legge Milleproroghe. Alla fine per le intercettazioni se ne riparlerà a partire dal 1° aprile dell’anno prossimo. La bozza del decreto legge “milleproroghe” mette nero su bianco lo slittamento dell’entrata in vigore della riforma Orlando che, altrimenti, sarebbe stata operativa tra pochi giorni, il 26 luglio. Uno slittamento che non ha solo ragioni organizzative, che pure esistono visto che non tutte le Procure si sono attrezzate per fare fronte alla nuova disciplina con sale ascolti e archivi riservati, ma che è stato fortemente voluto dal nuovo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che più volte si è detto convinto, in sintonia con magistrati e avvocati, del potenziale ostacolo allo svolgimento delle indagini e all’esercizio del diritto di difesa che sarebbe derivato per l’applicazione delle novità. Nel frattempo partirà un’operazione di revisione delle norme che vedrà coinvolti pubblici ministeri e penalisti. Slitta al 19 febbraio 2019, ma qui le ragioni sembrano essere solo di adeguamento tecnologico, l’entrata in vigore di un altro segmento della riforma penale dell’agosto scorso: l’allargamento del ricorso alla partecipazione a distanza al processo penale. Csm, trovata l’intesa: scelti gli 8 giudici laici di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2018 Per la vicepresidenza in pole Ermini e Lanzi, ok anche a membro Consulta. Alla fine l’accordo raggiunto tra le forze politiche, dopo una lunga giornata di votazioni di senatori e deputati, porta verso il Csm Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati, Fulvio Gigliotti (usciti vincitori dalle consultazioni 5 Stelle), Stefano Cavanna ed Emanuele Basile (in quota Lega), Alessio Lanzi e Michele Cerabona (Forza Italia), Davide Ermini (Pd). Sono questi gli 8 nomi che si andranno ad aggiungere ai togati eletti dai magistrati una settimana fa. Il Csm, presieduto dal capo dello Stato, vede poi tra i componenti di diritto il presidente della Cassazione Giovanni Mammone e il procuratore generale Riccardo Fuzio. Per quanto riguarda l’elezione del giudice della Corte Costituzionale, il nome sul quale si è raggiunta l’intesa è quello di Luca Antonini, tra i massimi esperti di federalismo fiscale. Tra i “laici” eletti ieri andrà poi votato il nuovo vicepresidente che andrà a sostituire Giovanni Legnini. E a giocarsi il ruolo di guida effettiva del Consiglio potrebbero essere David Ermini e Alessio Lanzi. Un po’paradossalmente certo se si pensa agli equilibri politici. Che però hanno un peso relativo in un voto dove è determinante l’orientamento dei togati, rispetto ai quali è improbabile una confluenza su uno dei nomi in quota 5 Stelle o Lega. Le due forze politiche uscite vincitrici dalla consultazione politica di marzo, infatti, non hanno presentato nomi di alto profilo, in grado di raccogliere consenso. L’elezione tra le toghe ha visto uscire una netta maggioranza di centrodestra con la vittoria di MI e la tenuta di Unicost, 4 consiglieri a testa, a scapito della sinistra di Area e il debutto dei “davighiani” di Autonomia e Indipendenza con due consiglieri. Favorito dovrebbe quindi essere Alessio Lanzi, docente di Diritto penale dell’economia a Milano Bicocca, con l’handicap però di essere stato il legale di David Mills, l’ex avvocato inglese di Silvio Berlusconi prosciolto per prescrizione dopo le condanne per corruzione per falsa testimonianza in procedimenti che riguardavano il leader di Forza Italia, e di Fedele Confalonieri e Piersilvio Berlusconi nella vicenda Mediatrade (assolti definitivamente entrambi). Profilo che potrebbe risultare indigesto ai magistrati. Tanto più che una delle anime di MI è tuttora incarnata da Cosimo Ferri, oggi deputato Pd. E allora David Ermini, ex responsabile giustizia del Partito democratico, senza rapporti conflittuali con le toghe, ma con etichetta di renziano di ferro, potrebbe riprendere quota. Protocollo Csm-Cnf per sveltire i processi d’Appello di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2018 Un protocollo d’intesa tra Csm e Consiglio nazionale forense per trasferire nei distretti delle Corti d’Appello le linee guida approvate dal Csm sulla motivazione sintetica e l’esame preliminare delle impugnazioni. L’intesa - nella consapevolezza che proprio nel secondo grado si accumulano i maggiori ritardi - è stata siglata ieri dal vice presidente del Csm Giovanni Legnini e dal presidente del Cnf Andrea Mascherin. L’impegno è incentivare l’adozione di protocolli condivisi, negli uffici giudiziari e nei Consigli dell’Ordine degli avvocati, che tengano conto delle linee guida “deliberate” dal Csm il 5 luglio 2017 e il 20 giugno 2018. Le linee guida dettano i criteri per ottimizzare i tempi, sia in ambito civile sia penale. Per quanto riguarda il civile si parte dalla possibilità per il consigliere di schematizzare la vicenda processuale, su supporto informatico da condividere con il collegio attraverso un archivio telematico: un sistema già esistente per le toghe con la cosiddetta “Consolle”, il programma che consente a giudici e assistenti di gestire il Processo civile telematico. Nell’ottica di sveltire il lavoro rispettando l’effettività del contraddittorio si inquadra anche lo schema per la redazione degli atti difensivi. Anche nel penale l’efficienza passa per un esame preliminare, finalizzato a una valutazione ad ampio raggio: dal grado di complessità degli affari, al calcolo della prescrizione. Nella consapevolezza del collegamento tra i motivi della decisione di primo grado e l’impugnazione le linee suggeriscono un “modello”. L’appuntamento per fare il punto della situazione, anche ai fini della stipula di protocolli condivisi, è fissato al 31 ottobre. Sempre di ieri la nota con la quale il presidente dell’Associazione italiana giovani avvocati Alberto Vermiglio ha annunciato la proroga del regime transitorio per l’esame di abilitazione degli avvocati. Una conferma ottenuta nel corso di un incontro con il sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone. Per tutto il 2018 si potranno dunque continuare a usare i codici commentati. Slitta anche l’entrata in vigore del regolamento che prevede la frequenza obbligatoria delle scuole forensi per i tirocinanti iscritti nel registro dei praticanti dal 27 settembre 2018. Borsellino, i giudici e via D’Amelio: “il dialogo tra Stato e mafia accelerò quella strage” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 luglio 2018 La Corte: correttezza del Quirinale sul caso Mancino. Tramite Dell’Utri gli avvertimenti di Cosa Nostra arrivarono a Palazzo Chigi. Ad ammettere l’accelerazione della strage di via D’Amelio fu lo stesso Totò Riina, nelle conversazioni col suo compagno di passeggio intercettate in carcere nel 2013. “Ma non era studiato da mesi, studiato alla giornata”, disse in un’occasione il boss. E pochi giorni dopo: “Arriva chiddu (quello, ndr), ma subitu... subitu!... rammi un pocu ri tempu (dammi un po’ di tempo, ndr)...”. Per i giudici queste parole “sono la conferma” che “effettivamente nei giorni precedenti la strage ebbe a verificarsi un qualche accadimento che ha indotto il Riina a concentrarsi, con immediatezza, nell’uccisione del dottor Borsellino”. Che questo “accadimento” fosse la scoperta, da parte del magistrato, della trattativa fra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra non è provato, ma è una “conclusione che trova una qualche convergenza nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie Agnese, Borsellino poco prima di morire le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi”. Le motivazioni della sentenza che tre mesi fa ha condannato i tre ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, oltre all’ex senatore Dell’Utri, per il reato di “violenza o minaccia a un Corpo politico dello Stato” commesso insieme ad alcuni boss mafiosi tra il ‘92 e il ‘94, parlano della strage di 26 anni fa, ma anche di molti altri fatti verificatisi in quella stagione di bombe e di profonde mutazioni politiche. Analizzando, inevitabilmente, l’arrivo al governo di Silvio Berlusconi con il partito di Forza Italia, costruito in pochi mesi insieme a Dell’Utri che aveva rapporti diretti con i boss, come dimostrato dalla sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa richiamata più volte dai giudici della corte d’Assise di Palermo. L’ex senatore informò il boss mafioso Vittorio Mangano fino a tutto il 1994, delle riforme che il neonato governo guidato dal leader di Forza Italia aveva in cantiere. Alcune delle quali gradite ai mafiosi. Non importa che queste fossero frutto di un semplice e legittimo spirito garantista della nuova maggioranza, e non dettate dal ricatto mafioso; l’importante è che tramite Dell’Utri l’avvertimento sia arrivato a Palazzo Chigi, e questo per i giudici è dimostrato. “Si ha definitiva conferma - scrivono nelle oltre 5.200 pagine della sentenza - che il destinatario finale della “pressione” o dei “tentativi di pressione”, cioè Berlusconi nel momento in cui riceveva la carica di presidente del Consiglio venne a conoscenza della minaccia in essi insita, e del conseguente pericolo di reazioni stragiste”. Che Dell’Utri non coltivasse banali “conversazioni da salotto” con un “quisque de populo”, bensì veri e propri “rapporti con l’associazione mafiosa Cosa nostra mediati da Mangano”, Berlusconi lo sapeva bene. Un fatto “incontestabilmente dimostrato dall’esborso da parte di società facenti capo al Berlusconi medesimo, di ingenti somme di denaro effettivamente versate a Cosa nostra” fino a tutto il 1994, quando l’imprenditore divenne anche premier: un versamento di 250 milioni di lire, riferito da un pentito, che la corte sostiene di aver “accertato per la prima volta in questo processo”. È il motivo per cui è stata giudicata inutile la testimonianza del leader di Forza Italia, giacché “non potrebbe mai assumere la veste di testimone “puro” per la natura auto-indiziante che inevitabilmente avrebbero le sue dichiarazioni”. Oltre a Dell’Utri, la corte ha condannato i tre ex carabinieri imputati dello stesso reato che tra il ‘92 e il ‘93, prima che Berlusconi diventasse presidente del Consiglio, si è “consumato mediante la ricezione, da parte di esponenti del governo, del messaggio ricattatorio originato dalla esortazione e istigazione di cui anche De Donno, insieme a Mori e Subranni, è stato autore”. Sul motivo per cui la trattativa fu avviata, i giudici tornano all’ipotesi che ad avviarla sia stato l’ex ministro democristiano Calogero Mannino (assolto in primo grado nel giudizio abbreviato, ora è in corso l’appello), il quale temeva, dopo l’omicidio di Salvo Lima del 12 marzo 1992, di essere la vittima successiva della vendetta mafiosa. La prova non c’è, dice la corte, ma “la valutazione logica dei fatti” induce a ritenere che “anche le preoccupazioni di Mannino non siano state estranee nella maturazione degli eventi definiti trattativa Stato-mafia”. La sentenza certifica la “complessiva inattendibilità” di Massimo Ciancimino, condannato per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, mentre l’assoluzione dell’ex ministro Nicola Mancino per il reato di falsa testimonianza porta con sé la valutazione sulle famose telefonate tra l’ex ministro e il Quirinale nel 2012, al tempo dell’indagine. “Iniziativa inammissibile” e “al di fuori di ciò che l’ordinamento consente”, scrivono i giudici; una “anomalia certamente colta sia dagli uffici della presidenza della Repubblica, che dalla Procura generale della Cassazione e dalla Procura nazionale antimafia”, dove tutti “sono stati attenti a non travalicare i limiti delle proprie competenze”. Salvini querela Saviano su carta intestata del Viminale La Repubblica, 20 luglio 2018 La replica: “Dietro l’angolo c’è la Russia di Putin”. La denuncia, ha rivelato l’Huffington Post, è stata presentata oggi anche se sul foglio c’è la data del 20 luglio. È per diffamazione a mezzo stampa e cita in particolare l’espressione “ministro della malavita” che Saviano utilizzò riprendendo una frase di Salvemini. Molti gli attestati di solidarietà allo scrittore. Che risponde: “Non l’ho mai fatto, ma vi chiedo di essere con me in questa battaglia”. Una querela presentata in qualità di ministro dell’Interno. Su carta intestata del Viminale. Matteo Salvini ha deciso di formalizzare la querela più volte annunciata nei confronti di Roberto Saviano. A rivelarlo è l’Huffington Post che precisa: la denuncia “è stata depositata nella giornata di oggi anche se nel foglio di presentazione della questura di Roma è scritta la data del 20 luglio”, cioè domani. La prima replica dello scrittore è: “Dietro l’angolo c’è la Russia di Putin. Tocca agli uomini di buona volontà prendersi per mano e resistere all’autoritarismo”. La querela, che è per diffamazione a mezzo stampa, fa riferimento a una serie di post e dichiarazioni dello scrittore che - secondo Salvini - supererebbero il diritto di critica. In particolare quell’espressione - “ministro della malavita” - che l’autore di Gomorra rivolse al ministro con una citazione di Gaetano Salvemini (in quel caso rivolta allo statista Giovanni Giolitti). Il leader leghista aveva prospettato l’ipotesi di togliere la scorta allo scrittore, che da undici anni è costretto a vivere sotto tutela per le minacce del clan dei casalesi. Adombra “l’ipotesi - si legge nel testo della querela - che gli venga tolta la scorta come ritorsione politica”. Altra passaggio citato nella querela è una dichiarazione, rilasciata in un’intervista alla Süddeutsche Zeitung, in cui Saviano adombrerebbe uno “scandaloso patto di non aggressione tra il ministero dell’Interno e la ndrangheta”. “Si genera così la convinzione”, si legge nel testo della querela, “che il ministro anziché combattere la malavita, scenda a scellerati accordi con la criminalità organizzata”. Per Salvini, “definire mafioso il soggetto posto all’apice dell’Amministrazione che più di ogni altra ha il compito di combattere le organizzazioni criminali svilisce il ruolo dell’amministrazione medesima”. Alla querela si allegano due post dello scrittore su Facebook, un video sull’odissea della nave Aquarius (in cui l’autore di Gomorra ricostruiva la concessione dei fondi europei all’Italia per i migranti) e l’intervista al giornale tedesco (con traduzione di Google translate). Salvini non rinuncia a dire la sua anche su Facebook. Chiudendo il post con il classico e ironico “baci”. La risposta dello scrittore è affidata a un post dai toni appassionati. “Non l’ho mai fatto, ma vi chiedo di essere oggi con me in questa battaglia: dietro l’angolo c’è la Russia di Vladimir Putin, modello del ministro della malavita che, come è noto, ha spesso portato alle estreme conseguenze il contrasto al dissenso”. E prosegue: “Tocca agli uomini di buona volontà prendersi per mano e resistere all’avanzata dell’autoritarismo. Anche di quello che, per fare più paura, usa la carta intestata di un ministero, impegnando l’intero governo contro uno scrittore. E sono sicuro che in questo “governo del non cambiamento” nessuno fiaterà, aggrappati come sono tutti al potere. Io non ho paura”. Allo scrittore arrivano molti attestati di solidarietà dal mondo politico. “È incredibile che il ministro degli interni quereli un intellettuale simbolo della lotta alla camorra come Roberto Saviano. L’unico che merita di essere denunciato per istigazione all’odio razziale è proprio Salvini”, dice Roberto Speranza, coordinatore nazionale di Mdp, deputato di Liberi e Uguali. E il senatore Dario Parrini, del Pd. “Erano intimidatorie e gravi le dichiarazioni di Salvini sulla scorta di Saviano. Doppiamente intimidatoria e grave è la sua scelta odierna di querelarlo su carta intestata del ministero. Saviano è un uomo di cultura e uno scrittore con cui spessissimo sono in dissenso. Ma la sua voce deve assolutamente restare libera e non minacciata”. No alla legittima difesa se si accetta una sfida evitabile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione I - sentenza 19 luglio 2018 n. 33707. Non può invocare la scriminante della legittima difesa chi accetta una sfida, o reagisce a una situazione di pericolo volontariamente determinata, o alla quale ha concorso malgrado la possibilità di allontanarsi dal luogo “senza pregiudizio e senza disonore”. La Corte di cassazione (sentenza 33707) detta un principio di diritto generale che circoscrive i limiti entro i quali può essere invocata la scriminante prevista dall’articolo 52 del Codice penale. La Suprema corte conferma la condanna a sei anni due mesi e 20 giorni, a carico di un uomo che aveva ucciso il cognato con 31 coltellate perché maltrattava la sorella e la famiglia. Una pena ridotta grazie al riconoscimento dell’attenuante della provocazione e per effetto del giudizio abbreviato. Non passa però la tesi della legittima difesa né dell’eccesso colposo di legittima difesa: circostanza quest’ultima che non può essere riconosciuta se manca la prima. Alla base del verdetto la dinamica dei fatti. L’imputato aveva affermato di aver affrontato il cognato, senza intenti aggressivi, ma solo per farlo ragionare, consapevole del pericolo che correva la sua famiglia a causa dell’aggressività della vittima. Diversa la ricostruzione dei giudici di merito. Il ricorrente era sceso in strada per aspettare il cognato, in un momento in cui stavano per arrivare i carabinieri che erano stati allertati e il pericolo che il cognato realizzasse le minacce fatte al telefono non era attuale. L’imputato aveva scelto liberamente di incontrare l’uomo, che si era presentato in evidente stato di alterazione sotto l’effetto di alcol e droga e forte della maggiore prestanza fisica. La vittima si era avventata contro l’imputato gettandolo a terra, a quel punto il ricorrente aveva raccolto il coltello che il cognato aveva con sé e che era caduto e aveva colpito più volte. Per i giudici il ricorrente aveva deciso di affrontare una situazione di rischio pur potendo sottrarsi. E aveva scelto di usare il coltello invece di limitarsi a brandirlo. C’è invece l’attenuante della provocazione, per le minacce, in particolare verso la sorella che aveva da poco partorito un figlio concepito con il marito, abitualmente dedito all’alcol e alla droga: il tutto aveva generato lo stato d’ira. La Suprema corte stringe così le maglie per l’applicazione della scriminante della legittima difesa, chiarendo che lo scontro, quando possibile, va evitato e resta una soluzione estrema. Lazio: il Garante dei detenuti ascoltato in prima Commissione consiglio.regione.lazio.it, 20 luglio 2018 Audizione incentrata su sovraffollamento carceri, liste d’attesa nelle Rems, disagi registrati al Cie di Ponte Galeria. “Con 6.400 detenuti il Lazio è oramai divenuta la terza regione italiana per numero di presenze in carcere. Il tasso di affollamento è del 121%, con picchi a Regina Coeli e a Latina”. Dati riferiti in prima commissione da Stefano Anastasìa, Garante regionale delle persone private della libertà, convocato in audizione dal presidente Rodolfo Lena (Pd). “Prima che la situazione diventi ingovernabile, è urgente riprendere la delega alla riforma penitenziaria, lasciata in sospeso dal precedente Governo, e incentivare le alternative al carcere per le pene brevi e per i residui di pena - ha aggiunto Anastasìa, citando la relazione annuale al Consiglio -. In questo senso, Regioni ed Enti locali possono fare molto per costruire percorsi di accompagnamento e sostegno ai condannati in esecuzione penale non detentiva”. Affrontata anche l’emergenza degli organici della polizia penitenziaria. Altro problema toccato dal Garante è stato quello relativo alla capienza ridotta rispetto alla disponibilità pianificata, con relative consistenti lista d’attesa, nelle Rems, ovvero le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture residenziali con funzioni terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative. “Sono cinque le Rems provvisorie nel Lazio, con una capienza di 91 posti - ha spiegato - ma quelle effettivamente disponibili sono 85, per un problema di organico a Palombara Sabina, e ci risultano almeno 60 persone che dovrebbero entrare in una struttura del genere e non hanno posto. Succede così che abbiamo un gruppo di persone con problemi di salute mentale detenute in attesa di collocazione, trattenute in carcere quindi senza titolo giuridico”. Per Anastasìa, poi, “la Regione Lazio deve aggiornare il protocollo operativo di prevenzione del rischio autolesivo, stipulato nel 2015, in base ai contenuti dell’accordo raggiunto di recente in Conferenza Stato-Regioni”. Questo per contenere i casi di suicidio in carcere. Il Garante, infine, ha invitato i consiglieri a recarsi di persona presso il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, a Roma, dove la condizioni delle donne in attesa di rimpatrio, provenienti da tutta Italia, è “a dir poco vergognosa”. Intanto, il 23 maggio scorso, è stata approvata una delibera di Giunta che prevede l’istituzione dell’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria, che avrà il compito di monitorare la situazione della popolazione carceraria segnalando avvenimenti di interesse sanitario o eventuali problematiche e criticità negli istituti penitenziari del territorio regionale. Sarà composto dall’assessore regionale alla Sanità, dal direttore Sanità e integrazione sociosanitaria, dal Garante, dai referenti di ciascuna Azienda sanitaria locale, dal dirigente del Centro di giustizia minorile del ministero di Giustizia, dal presidente del Tribunale di sorveglianza, dal provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria e dal referente regionale al gtavolo nazionale di consultazione permanente sulla Sanità penitenziaria. Avellino: Luigi, suicida in carcere “vogliamo la verità sulla sua morte” di Rossella Fierro Il Mattino, 20 luglio 2018 “Pretendo solo verità e chiarezza sulla morte di Luigi. Voglio sapere perché, dopo due tentativi di suicidio, non si è fatto qualcosa per evitare il peggio”. Maria Rosaria Landi trattiene a stento la commozione. Ad un anno esatto dalla morte nel carcere di Bellizzi Irpino del suo compagno, Luigi Della Valle, la donna, affiancata dall’avvocato Rosaria Vietri e da Marco D’Acunto, nella sua vecchia veste di giornalista e non come sindacalista, accende i riflettori sulla sua tragedia personale e non solo: ad aprile, ultimi dati aggiornati, già 52 detenuti si sono tolti la vita negli istituti penitenziari italiani. Sulla morte del 44enne di Montoro, impiccatosi nella cella in cui era detenuto per maltrattamenti in famiglia, dopo un passato di tossicodipendenza e un presente fatto di cure psichiatriche e assunzione di psicofarmaci per la sua totale incapacità di gestire la rabbia, è stato aperto un fascicolo di indagine. “Non siamo ancora giunti a nessuna informazione certa. Per me Luigi si poteva salvare, sarebbe bastata un po’ più di attenzione. Non mangiava più, due giorni prima di quel maledetto 18 luglio 2017 aveva incontrato alcuni familiari e aveva fatto capire che non ce la faceva più a stare lì dentro. I segnali del suo disagio erano evidenti” aggiunge la signora Landi. Chiede un’accelerazione delle indagini l’avvocato Vietri “c’è un fascicolo aperto contro ignoti per istigazione al suicidio, un’attività giudiziaria che, dopo un anno, deve arrivare alla sua logica conclusione. Da notizie che abbiamo noi, Della Valle aveva tentato altre due volte di farla finita prima di riuscirci. Per me il responsabile è lo Stato: è noto a tutti quale è la realtà delle carceri in questo Paese. Una situazione discutibile che andrebbe affrontata in maniera seria, potenziando il personale di polizia penitenziaria e dando maggiori supporti specialistici, prevedendo maggiori psichiatri e psicologi per curare adeguatamente persone che purtroppo non trovano posto nelle Rems nate per ospitare malati psichiatrici ma che soffrono anche esse di sovraffollamento, con liste di attesa lunghissime”. Siena: carcere, sono 31 i detenuti che frequentano l’Università Redattore Sociale, 20 luglio 2018 È il frutto di un accordo tra Dap, Regione e Università. Nei giorni scorsi, un laureato in Economia e commercio e due in Scienze politiche hanno conseguito il titolo di dottore. Trentuno detenuti, la maggior parte del carcere di San Gimignano, sono iscritti all’Università di Siena grazie a una collaborazione partita qualche anno fa, e recentemente rinnovata e consolidata con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, con il sostegno della Regione Toscana. E proprio nei giorni scorsi, un laureato in Economia e commercio e due in Scienze politiche hanno conseguito il titolo di dottore. A partire dall’accordo, che mira a offrire opportunità di formazione come parte importante della riabilitazione sociale e personale dei detenuti durante il percorso di recupero, l’Università di Siena ha costituito un team di lavoro, guidato dal professor Fabio Mugnaini come delegato del Rettore, che vede il supporto dell’ufficio Orientamento e tutorato e l’impegno costante di cinque studenti tutor selezionati appositamente, oltre all’affiancamento di una commissione composta dai docenti delegati dei dipartimenti ai quali risultano iscritti gli studenti detenuti. Data la condizione degli studenti, non essendo possibile la frequenza delle lezioni, è fondamentale il ruolo degli studenti tutor, che hanno la possibilità di entrare in carcere per dialogare con gli studenti detenuti per spiegare passo passo il percorso di studio, aiutare a superare qualche difficoltà nell’apprendimento, individuare e reperire testi per la preparazione, fare da tramite con i docenti e dare assistenza in tutte le pratiche necessarie per seguire un corso di laurea, cooperando in questo con gli educatori della struttura carceraria. Gli esami vengono sostenuti oralmente presso il carcere o per iscritto. In quest’ultimo caso ancora una volta è fondamentale la collaborazione dei tutor, che si occupano di fare pervenire la prova d’esame allo studente e successivamente gli elaborati ai docenti, per la valutazione. “Per tutti - racconta il professor Mugnaini - l’incontro tra università e carcere, è foriero di grande arricchimento umano, di condivisione di riflessioni profonde sul senso morale, sui legami tra responsabilità individuale e mondo sociale, sull’irriducibile diritto alla speranza ed al riscatto ed è, soprattutto per gli studenti tutor, una irripetibile opportunità formativa. Una commissione di laurea ha varcato in questi giorni il cancello del carcere, per procedere all’esame di laurea: presentazione, discussione, proclamazione e poi un rinfresco, preparato con sapienza ed affetto dagli altri studenti detenuti. La laurea diviene un rito che celebra un traguardo personale, che remunera l’impegno di entrambe le parti, studente e docenti e che è un segnale concreto di quanto le istituzioni pubbliche possano cooperare per dare concretezza al principio rieducativo sui cui si regge la detenzione”. Ferrara: la Camera Penale visita il carcere “indubbi progressi nell’opera rieducativa” estense.com, 20 luglio 2018 La delegazione di avvocati promuove le attività formative di via Arginone, ma servono più agenti penitenziari. Sono in miglioramento le condizioni dei detenuti nel carcere di via Arginone, secondo la delegazione della Camera Penale Ferrarese che giovedì mattina, insieme al garante per i diritti dei detenuti e alla consigliera del Movimento 5 Stelle Ilaria Morghen, ha visitato la casa circondariale di via Arginone. Attualmente presso la struttura sono presenti 368 detenuti su una capienza massima di 450, di cui circa il 60% di stranieri (provenienti prevalentemente da ex Jugoslavia, Albania e Romania). “Si è potuto constatare - affermano i componenti della delegazione, come già, invero, avvenuto nel corso dell’ultima visita di circa due anni fa, che sono stati effettuati indubbi progressi, grazie al costante impegno degli uffici direttivi della struttura, nell’opera rieducativa-trattamentale. I detenuti infatti hanno la possibilità di accedere a diverse attività formative e lavorative, tra le quali in particolare la scuola, il laboratorio di bricolage, il recupero dei Raee e la coltivazione di orti”. Secondo la Camera penale gli sforzi ora devono essere diretti ad aumentare la “il numero dei detenuti coinvolti in dette attività”, che “ad oggi risulta ancora limitato a causa, soprattutto, di difficoltà logistiche ed economiche. Sotto questo profilo, quindi, si auspica che da parte di tutti gli organismi preposti vi sia il massimo impegno per la ricerca di soluzioni che mirino a garantire al maggior numero possibile di detenuti la fruizione di attività formative e lavorative, in ossequio alla finalità rieducativa della pena sancita dalla Costituzione. Sotto quest’ultimo punto di vista proficue e, sicuramente da proseguire ed incrementare, appaiono anche le iniziative di collaborazione con associazioni e, in generale, con realtà esterne all’istituto”. “Non si può dimenticare, comunque, che il raggiungimento di detti scopi può essere perseguito solo con un adeguato distaccamento di personale che possa anche alleggerire l’attuale carico lavorativo che, quotidianamente, la Polizia Penitenziaria è chiamata ad adempiere. Si ringraziano per l’occasione di visita e confronto il direttore, dott. Malato, la comandante, dott.ssa Gadaleta, nonché l’ispettore Caruso e la dott.ssa Onofri, che ci hanno accompagnato nella visita, la quale vuol rappresentare l’impegno e la vicinanza della Camera Penale Ferrarese verso la realtà carceraria”. San Gimignano (Si): carcere di Ranza, progetto per un bus navetta per detenuti e familiari agenziaimpress.it, 20 luglio 2018 Enti pubblici e associazioni di volontariato insieme per contrastare l’isolamento del Carcere di Ranza. Comune di San Gimignano, Arciconfraternita di Misericordia di Poggibonsi, Fondazione Territori Sociali Altavaldelsa nei giorni scorsi hanno aderito ad un bando della Regione Toscana presentando un progetto finalizzato alla sperimentazione di un traporto sociale da e per la casa di reclusione con un bus navetta da 9 posti al servizio dei familiari in visita e dei detenuti in permesso o in misura alternativa. La tratta di collegamento con Ranza prevede 2 viaggi al giorno, dal lunedì al sabato, con orari da stabilire in concertazione con l’Istituto Penitenziario e con fermate nei pressi del centro storico di San Gimignano e alla stazione ferroviaria di Poggibonsi. Il servizio di bus navetta andrebbe ad incrementare le corse previste dall’attuale trasporto pubblico locale. Il progetto, della durata di un anno e con un contributo previsto da parte del Comune di San Gimignano, si pone inoltre come la messa in rete di un insieme di soggetti istituzionali e di soggetti privati operanti nel campo dell’associazionismo per lo sviluppo di sinergie territoriali volte al contrasto dell’isolamento e in favore dell’integrazione sociale dei detenuti e delle loro famiglie. Una finalità che si inserisce a pieno titolo nel protocollo d’intenti tra amministrazione comunale e Regione Toscana per l’abbattimento dell’isolamento della Casa di Reclusione di Ranza. Reggio Calabria: “Luci da dentro”: il carcere visto come riscatto sociale di Tatiana Muraca calabriapost.net, 20 luglio 2018 È stato presentato stamane, presso la sede della Camera di Commercio di Reggio Calabria, il progetto pilota “Luci da dentro”, che vuole offrire ai detenuti una speranza di riscatto sociale nel lavoro in un processo di riutilizzo della plastica per la realizzazione di prodotti in materiale di riciclo. Rieducazione civica e salvaguardia dell’ambiente: è il duplice obiettivo che il progetto si pone, sviluppato in collaborazione tra la Casa Circondariale di Reggio Calabria, la Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Reggio Calabria e la Lega dei Diritti Umani (Lidu). I detenuti hanno così avuto modo di lavorare bottiglie di plastica, vecchie ciotole, e creare innovativi lampadari: “tutto nasce su input del Ministero di Giustizia che chiedeva interventi sulla differenziata e sull’utilizzo di materiali di riciclo - parole della Consigliera alla Parità, dott.ssa Daniela De Blasio. A dicembre abbiamo realizzato un progetto che vedeva l’utilizzo dei giornali finalizzati a creare delle buste distribuite in alcuni negozi della città, e da lì siamo passati al riciclo della plastica. Speriamo che i lampadari vengano certificati e messi in un circuito commerciale, per poter dare ai detenuti la possibilità di lavorare in carcere nel rispetto di quello che l’art.27 della Costituzione recita per la funziona rieducativa della pena”. Il vantaggio è anche quello di ridurre notevolmente i consumi di importanti risorse naturali, nella piena valorizzazione del territorio. Per di più, il lavoro che i detenuti stanno facendo dovrebbe servire da incoraggiamento per atteggiamenti responsabili e corretti nei confronti della natura, offrendo stimoli di impegno civico e dando ai destinatari del progetto un’opportunità reale di rieducazione e reinserimento nella società civile. Partner del progetto sono la Camera di Commercio di Reggio Calabria, rappresentata dal presidente dott. Antonino Tramontana, il Coordinamento di Reggio Calabria di “Libera contro le mafie”, rappresentata dall’avv. Giuseppe Marino ed il Presidente del Centro Comunitario Agape con il dott. Mario Nasone. È coordinato, inoltre, dal direttore dell’Area Socio-educativa dott. Emilio Campolo e dalla dott.ssa Caterina Pellicanò, affiancati dall’ avv. Paola Carbone, che da anni collabora attivamente con l’Ufficio della Consigliera di Parità. L’iniziativa è stata realizzata con il supporto delle volontarie, dott.ssa Alessandra Trunfio, assistente sociale e la sociologa dott.ssa Nunzia Saladino. La Lega dei Diritti Umani ha affiancato al progetto l’avv. Maria Antonia Belgio e l’avv. Teresa Ciccone. “Libera”, come è noto, da sempre si batte per l’integrazione sociale ed il riscatto delle persone che derivano da percorso difficili; in più, come afferma il dott. Mario Nasone, il messaggio che questi lampadari lanciano è che detenuti non sono vite da scarto, ma persone che possono dare il loro contributo: “questo lavoro serve molto al detenuto per attivare il proprio tempo in modo proficuo. Pone l’accento sull’importanza del lavoro. È una spinta per noi di continuare lunga la strada che abbiamo intrapreso”. A dire la sua anche la Direttrice della Casa Circondariale di Reggio Calabria, la dott.ssa Maria Carmela Longo: “grazie per l’attenzione rivolta a questo mondo che in tanti vogliono tenere lontano. Il carcere può rappresentare una risorsa: oltre ad essere una struttura edilizia, è un insieme di persone, ciascuno con la loro storia, e come tali devono essere presi in considerazione. Il carcere può essere anche altro - vuole trasmettere la dott.ssa Longo - può anche essere senso di educazione civica”. Grato che questo argomento sia stato trattato tra le mura della Camera di Commercio di Reggio, anche il presidente Antonino Tramontana: “staremo affianco a queste iniziative - dice - e dove possibile cercheremo di spingere per fare anche noi come imprenditori, e dare segnali positivi a queste persone”. Padova: Istituto Belzoni, i detenuti tinteggeranno la scuola provincia.pd.it, 20 luglio 2018 Saranno alcuni detenuti della Casa di reclusione di Padova a tinteggiare, durante l’estate, le aule scolastiche dell’Istituto Belzoni di Padova. L’iniziativa nasce grazie a un progetto elaborato dall’associazione Onlus “Gruppo Operatori Carcerari Volontari” di Padova (Ocv) che è stato approvato anche dalla Provincia di Padova, proprietaria dell’immobile dove ha sede il Belzoni, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo che ha stanziato un finanziamento e dalla Direzione della Casa di Reclusione di Padova. Il protocollo d’intesa operativo è stato già firmato dal presidente della Provincia di Padova Enoch Soranzo e sarà sottoscritto nei prossimi giorni anche dagli altri enti coinvolti. “Siamo particolarmente felici di poter dare il via a questo progetto - ha spiegato il presidente Soranzo - il messaggio che arriverà agli studenti stessi, oltre che ai cittadini, sarà infatti molto forte e avrà molteplici letture. È giusto dare una chance di riscatto a chi, pur avendo commesso degli errori, ha dimostrato di averli compresi e di voler cambiare strada. Solo per il 2018 come Provincia siamo riusciti a mettere a bilancio 12 milioni 875 mila euro per lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria sugli istituti scolastici superiori di nostra proprietà. Non è poco viste le difficoltà degli anni scorsi causate dai tagli ai bilanci voluti dallo Stato e soprattutto ci dà garanzia di poter riavviare tutta una serie di lavori sui nostri edifici. A questo si uniscono anche opere di riqualificazione energetica per oltre 5 milioni 700 mila euro che verranno assicurate grazie al progetto 3 L”. I lavori inizieranno a breve, dureranno per tutto luglio e agosto, e dovranno finire prima dell’inizio del nuovo anno scolastico a settembre. “Siamo di fronte a un’aula fatiscente che tornerà alla bellezza e alla vita grazie all’impegno e all’onesto lavoro di questi detenuti - ha sottolineato il Consigliere delegato della Provincia di Padova Luciano Salvò - è un segnale educativo forte perché stiamo dicendo che c’è sempre speranza per il futuro. Ed è un momento positivo anche per queste persone che, una volta chiuso il conto con la giustizia, avranno qualche chance in più per reinserirsi nel mondo del lavoro. Il carcere dovrebbe servire a rieducare le persone e le istituzioni padovane dimostrano, ancora una volta, di guardare lontano collaborando insieme per il bene della comunità e del territorio. Ora mi auguro che, una volta iniziato l’anno scolastico a settembre, i ragazzi abbiano cura della loro scuola e capiscano quanto sia faticoso reintrodursi nella società dopo il carcere”. L’Associazione Onlus Ocv e la Casa di Reclusione di Padova individuano e promuovono azioni rivolte a persone detenute per offrire, mediante lavoro all’esterno, occasioni di formazione professionale e di esperienza lavorativa utili al reinserimento sociale a fine della pena. In questo modo l’intento è quello di ridurre le possibilità di recidiva. La Casa di Reclusione di Padova, rappresentata dal direttore Claudio Mazzeo, individuerà quindi due o tre detenuti da ammettere al lavoro all’esterno che si recheranno autonomamente al Belzoni dalle 8 alle 14, da lunedì al venerdì esclusi sabato e festivi. La direzione fornirà inoltre le attrezzature necessarie e i dispositivi di sicurezza, vigilando sul controllo delle persone e dell’esecuzione dei lavori. Anche la Provincia di Padova monitorerà la corretta realizzazione dell’intervento. L’Istituto Belzoni accoglierà i detenuti nel primo giorno di lavoro e seguirà tutte le procedure interne necessarie. L’associazione Ocv di Padova, presieduta da Chiara Fuser, si occuperà di tutti gli aspetti assicurativi e di acquisto dei materiali rendicontando la spesa alla Fondazione Cassa di Risparmio. Migranti. I soccorsi affidati ai libici: un’ipocrisia del governo italiano di Gianluca Di Feo La Repubblica, 20 luglio 2018 Tutti sanno che in Libia non esiste uno Stato e che dal 2014 il Paese vive una guerra tribale intervallata da momentanee tregue. C’è una grande ipocrisia, alimentata dal governo italiano nella complice indifferenza dell’Europa: sostenere che la Libia possa gestire i soccorsi nel canale di Sicilia. Tutti sanno che in Libia non esiste uno Stato e che dal 2014 il Paese vive una guerra tribale intervallata da momentanee tregue. Una realtà sottolineata tre giorni fa dal plenipotenziario dell’Onu Ghassan Salamé davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: “Per il primo mese dall’inizio dell’anno, la Libia ha goduto di una quiete relativa nelle azioni militari. Purtroppo i due mesi precedenti sono stati segnati da operazioni belliche ed esplosioni di violenza”. Non esistono zone sicure, soprattutto nella Tripolitania da cui salpano i gommoni dei disperati. Il governo Serraj, l’unico riconosciuto dall’Onu e appoggiato dalla Ue, non controlla neppure l’intera capitale, mentre l’entità rivale guidata dal generale Haftar diffida dei percorsi di pacificazione e decine di milizie dominano in maniera autonoma intere regioni. L’Isis è ancora attiva e formazioni che si ispirano ad Al Qaeda hanno persino riconoscimento politico. Insomma, il caos. “La situazione è insostenibile - ha detto martedì scorso Salamé alle Nazioni Unite - il Paese è in declino: il collasso dell’economia, il crollo dei servizi pubblici, più frequenti e intense esplosioni di violenza. In un Paese dove i terroristi sono in agguato, dove i criminali aspettano di sfruttare i migranti, dove i mercenari stranieri sono in aumento, dove l’industria petrolifera è in pericolo, dovrebbe essere una preoccupazione di tutti”. Questo è il Paese che da solo dovrebbe risolvere il problema della migrazioni, garantendo i salvataggi in mare e tutelando i diritti delle persone? Nessuno mette in dubbio che la Guardia costiera di Tripoli nell’ultimo anno abbia moltiplicato gli sforzi. Ma è impensabile che questo corpo, con personale poco addestrato e ancora meno vedette, possa gestire la situazione: sono i libici i primi a denunciare “le difficoltà in cui opera la nostra Marina, con la scarsità di mezzi, soprattutto per le operazioni di soccorso notturno”. Anche durante l’intervento nella notte tra lunedì e martedì sono stati segnalati ritardi di ore tra l’avvistamento del barcone in difficoltà e l’arrivo del pattugliatore libico. Ed è in quell’occasione che due donne e un bambino sono rimasti alla deriva per 48 ore su un gommone sfasciato: solo una si è salvata, soccorsa dall’unica Ong che ancora resiste in quel mare. Questa è la realtà che il governo Conte non vuole vedere. Ha ritirato tutte le navi militari italiane ed europee dalle coste della Tripolitania. Ha interrotto il coordinamento delle operazioni di soccorso, che prima potevano contare su aerei, elicotteri e strumenti moderni. Ha bloccato le attività delle Ong e dissuaso con la chiusura dei porti i salvataggi dei mercantili. Tutto è stato delegato ai libici. E il risultato non può che essere una strage. Dall’inizio dell’anno l’Oim ha censito 1.104 vittime nel Canale di Sicilia: nella rotta verso la Spagna, dove gli sbarchi di migranti hanno superato quelli in Italia, sono annegate 291 persone ossia il 70 per cento di meno. Perché lì, nonostante le correnti siano micidiali, sono ancora presenti le Ong e le navi militari. Il ministro Matteo Salvini mercoledì scorso ha twittato: “Ridurre partenze e sbarchi significa ridurre i morti. Io tengo duro”. Salvini sbaglia: le partenze sono diminuite, praticamente dimezzate, ma i morti aumentati. E sono in gran parte vittime dell’ipocrisia del governo italiano. Migranti. Bruxelles contro l’Ungheria alla Corte di Giustizia di Beda Romano Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2018 Budapest sotto accusa sulle richieste d’asilo e sulle norme “Stop-Soros”. Fino a che punto potranno peggiorare i rapporti tra Bruxelles e Budapest? La Commissione europea ha annunciato ieri il deferimento dell’Ungheria dinanzi alla Corte europea di Giustizia per via del modo in cui il Paese sta trattando i richiedenti asilo sul proprio territorio. Nel contempo, Bruxelles ha inviato sempre al governo ungherese una lettera di messa in mora sulla scia dell’adozione di una recente legge che prevede sanzioni penali contro organizzazioni umanitarie che aiutano migranti. Il deferimento dinanzi alla magistratura comunitaria giunge dopo l’apertura nel dicembre di una procedura di infrazione. Tra le altre cose, la Commissione europea rimprovera al governo Orbán di trattenere i richiedenti asilo in un centro di transito per un periodo superiore alle quattro settimane previste dalle norme europee. Per di più, Budapest è accusata di non offrire ai migranti che lo richiedono procedure di richiesta d’asilo, nei fatti respingendoli al confine. Una eventuale condanna dell’Ungheria si tradurrebbe in sanzioni finanziarie. Secondo Bruxelles, l’Ungheria violerebbe le regole anche per quanto riguarda i ritorni in patria dei migranti. Questi non verrebbero effettuati in modo individuale, ma in gruppo, lasciando immaginare che non siano ritorni ma respingimenti alla frontiera. Proprio questa settimana Budapest si è ritirata da un Patto mondiale sulle Migrazioni, voluto dalle Nazioni Unite e tutto dedicato alla cooperazione internazionale, definendolo “pericoloso per il mondo e per l’Ungheria”. Sempre ieri, la Commissione europea ha inviato a Budapest una lettera di messa in mora per via di una nuova legge che vieta alle organizzazioni umanitarie di aiutare migranti giunti in Ungheria. La legislazione è chiamata comunemente Legge Stop Soros, perché colpisce in particolare enti finanziati da George Soros, il finanziere americano di origine ungherese. Secondo Bruxelles, la legge viola le regole sul diritto d’asilo, restringendo le ragioni per accordare tale diritto. Budapest ha due mesi per rispondere alla missiva. Le scelte dell’esecutivo comunitario giungono in un contesto sempre difficile per i rapporti tra Bruxelles e alcune capitali dell’Est Europa. Molti Paesi della regione si sono rifiutati a partecipare al processo di ricollocamento dei richiedenti asilo arrivati in Italia e in Grecia. C’è di più. Ungheria e Polonia sono ormai ritenute democrazie illiberali, guidate da governi nazionalisti. Victor Orbán è stato confermato primo ministro ungherese dopo aver vinto le elezioni legislative di aprile. Ieri in visita in Israele, il premier ha detto che nel suo Paese vi è “tolleranza zero” per quanto riguarda l’antisemitismo. Vi è stato di recente un riavvicinamento tra alcuni Paesi dell’Est Europa e Israele sulla scia di un nazionalismo comune, tanto che in dicembre Budapest si è astenuta su una dichiarazione delle Nazioni Unite di critica degli Stati Uniti per il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale israeliana. Ciò detto, sempre ieri il presidente israeliano Reuven Rivlin ha messo in guardia Victor Orbán contro “il neo-fascismo”. Detenuti italiani all’estero: Ungaro (Pd) interroga Moavero e Bonafede aise.it, 20 luglio 2018 “Istituire uffici di collegamento interministeriali a supporto delle missioni diplomatiche italiane all’estero affinché sia data piena applicazione, a tutela dei connazionali all’estero, alla Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983 e già ratificata dal nostro Paese”. È quanto richiede Massimo Ungaro (Pd) in una interrogazione sulle condizioni degli italiani detenuti all’estero presentata ai Ministri degli esteri e della giustizia, Moavero Milanesi e Bonafede. Nella premessa, il deputato eletto all’estero cita “molti blog e articoli in rete che descrivono la situazione - purtroppo poco nota all’opinione pubblica nazionale - degli italiani detenuti all’estero spesso in situazioni “degradanti, in termini di diritti umani, igiene, rapporti con altri detenuti e salute, diritto alla difesa”, come conferma anche l’associazione Onlus “Prigionieri del Silenzio”; secondo il dato più aggiornato - riporta Ungaro - sono 3.278 i nostri connazionali detenuti all’estero, lontani da casa e dai familiari, a volte richiusi in carceri dove non vengono rispettati i diritti umani, spesso privati di un equo processo. Uno su 5 ha riportato una condanna, tre su 4 sono ancora in attesa di giudizio: l’80 per cento in Europa, il 14 per cento nelle Americhe, il resto sparsi negli altri continenti”. “Non è raro - osserva il parlamentare Pd - che i nostri connazionali detenuti vengano sottoposti a umiliazioni e a condizioni di vita del tutto incompatibili con un percorso di riabilitazione, come è peraltro sancito dalla Costituzione italiana. Ed è praticamente la regola, soprattutto in certe realtà, che si ritrovino a vivere in strutture lontanissime dai grandi centri, senza cure adeguate: c’è chi aspetta anni per una tac e chi si ammala di epatite, scabbia e altre infezioni, soprattutto senza un’assistenza legale degna di questo nome e spesso in una lingua sconosciuta”. “È giusto pagare per il reato commesso, ma nessuno può privare una persona dei propri diritti o nessuno deve espiare la pena in condizioni inumane”, sostiene Ungaro che ai due Ministri chiede “se siano a conoscenza della questione e se, per affrontarla, non intendano assumere iniziative per istituire, presso i rispettivi dicasteri e per quanto di competenza, uffici di collegamento interministeriali a supporto delle missioni diplomatiche italiane all’estero affinché sia data piena applicazione, a tutela dei connazionali all’estero, alla Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983 e già ratificata dal nostro Paese”. Svizzera. Basta carcere amministrativo per i giovani richiedenti l’asilo tio.ch, 20 luglio 2018 I minori di età inferiore ai 15 anni la cui domanda di asilo è stata respinta non saranno più posti in stato di carcerazione in vista di rinvio coatto alla prigione regionale di Thun (BE). La struttura ha deciso di interrompere questa pratica dopo le critiche espresse a fine giugno dalla Commissione della gestione del Nazionale. La decisione è stata annunciata ieri sera nel corso del programma della televisione svizzero tedesca SRF “10vor10” dal direttore del penitenziario bernese Ulrich Kräuchi. L’organo parlamentare aveva denunciato grandi differenze cantonali nella detenzione amministrativa dei richiedenti asilo, chiedendo interventi per migliorarla. Il canton Berna era stato in particolare preso di mira per la sua prassi di incarcerare i bambini in attesa che essi vengano allontanati dalla Confederazione con le proprie famiglie. Kräuchi ha dichiarato di essersi subito attivato una volta ascoltati i rimproveri della commissione, chiedendosi se stesse facendo qualcosa di illegale. Pertanto, ha optato per interrompere il progetto e chiarire la situazione sotto questo punto di vista. Il responsabile della prigione regionale ha dunque informato le autorità locali che il suo carcere non è più disposto a ospitare madri e bambini. Secondo il diritto svizzero, la detenzione amministrativa per i minori di 15 anni è vietata. In alcuni casi, tuttavia, è consuetudine incarcerare pure anche bambini più piccoli, generalmente congiuntamente alla famiglia. Non è però stato possibile fare piena luce su questa realtà, anche a causa della mancata registrazione di queste situazioni da parte dei Cantoni. La Commissione della gestione del Nazionale ha dunque chiesto al Consiglio federale di intervenire per impedire questa pratica una volta per tutte. Per i minorenni di oltre 15 anni, ha invece richiesto che essa sia utilizzata come ultima ratio e predisposta in strutture adeguate. In Svizzera, tra tutte le persone che vedono respinta la propria domanda d’asilo, mediamente una su cinque finisce in carcerazione amministrativa. Gli interessati non hanno nessun controllo riguardo al Cantone al quale vengono assegnati. L’attribuzione comporta conseguenze e disuguaglianze considerevoli: a Ginevra ad esempio il tasso di detenzione è dell’11%, mentre a Obvaldo sale al 46%. Catalogna. Niente estradizione per l’ex presidente Puigdemont di Alessandro Oppes La Repubblica, 20 luglio 2018 Il giudice ritira il mandato di cattura internazionale. L’ex presidente avrà libertà di movimento in tutto il mondo, ma non potrà rientrare a Barcellona: in polemica con la magistratura tedesca, che aveva respinto l’accusa di ribellione, il Tribunale supremo spagnolo rinuncia a farsi consegnare il leader indipendentista per non doverlo giudicare solo per il reato di malversazione. Estradizione? No, grazie. Pur di non dover sottostare al diktat della giustizia tedesca - che nei giorni scorsi aveva ritenuto legittima solo l’accusa di malversazione respingendo quella, ben più grave, di ribellione (reato punibile in Spagna con 30 anni di carcere) - il giudice del Tribunale Supremo di Madrid, Pablo Llarena, ha deciso di ritirare il mandato di cattura internazionale nei confronti dell’ex presidente catalano Carles Puigdemont e di altri cinque dirigenti separatisti riparati all’estero. Resta in vigore, invece, l’ordine di detenzione all’interno del territorio spagnolo. Questo significa che Puigdemont, attualmente in libertà in Germania, avrà d’ora in poi completa libertà di movimento in tutto il mondo ma non potrà rientrare a Barcellona. E come lui gli ex assessori Toni Comín, Meritxell Serret, Lluis Puig e Clara Ponsatí e l’ex segretaria generale di Esquerra Republicana, Marta Rovira. Il giudice Llarena sceglie dunque l’unica soluzione che, al momento, gli consente di non dover rimettere in discussione tutto l’impianto accusatorio formulato in questi mesi (a partire dall’ottobre scorso, quando il Parlament de Catalunya approvò la dichiarazione d’indipendenza) contro tutto lo stato maggiore del movimento secessionista. Se Puigdemont fosse stato consegnato a Madrid dalle autorità tedesche, la magistratura spagnola avrebbe potuto prendere in considerazione solo l’ipotesi accusatoria riconosciuta come ammissibile dal tribunale dello Schleswig-Holstein, cioè quella di malversazione di fondi pubblici (l’eventualità che l’ex presidente abbia utilizzato denaro delle casse della Generalitat, l’amministrazione regionale, per organizzare il referendum secessionista dello scorso 1 ottobre, dichiarato illegale dal Tribunale costituzionale spagnolo). In questo caso, trattandosi di un reato minore, non solo sarebbe stato improponibile ipotizzare una carcerazione preventiva per Puigdemont. Ma con ogni probabilità Llarena avrebbe dovuto rimettere in libertà anche tutti gli altri dirigenti indipendentisti che sono in cella (prima nella regione madrilena, ora trasferiti da poco in carceri catalane) arrestati tra l’ottobre e il gennaio scorsi. Dall’ex vice-presidente Oriol Junqueras ai due “Jordis” (gli ex presidenti dei movimenti della società civile catalana Anc e Omnium Cultural, Jordi Sànchez e Jordi Cuixart), agli ex responsabili degli Esteri e degli Interni del Govern, Raül Romeva e Joaquim Forn, oltre al candidato alla presidenza della regione Jordi Turull, arrestato 24 ore dopo aver perso il voto di investitura parlamentare. Niente libertà, invece, per tutti loro: proprio oggi la procura ha respinto l’ipotesi di scarcerazione, mantenendo lo stesso criterio seguito ai tempi del governo conservatore di Mariano Rajoy, nonostante l’arrivo in queste settimane di una nuova procuratrice generale dello Stato, Maria José Segarra, nominata su proposta dell’esecutivo socialista di Pedro Sánchez. Turchia. Lo stato di emergenza è finito, ma la normalità non torna di Dimitri Bettoni Il Manifesto, 20 luglio 2018 Era una promessa di Erdogan, uscito ancora più rafforzato dai nuovi emendamenti alla legge “antiterrorismo”. Fine dello stato di emergenza in Turchia dopo due anni e sette rinnovi, da quel 21 luglio 2016 in cui venne dichiarato in seguito al tentato golpe del 15 luglio. Ma gli abusi commessi dalle autorità non troveranno rimedio, anche perché il governo introduce nuovi decreti che replicano le disposizioni speciali sino ad oggi in vigore. L’emergenza finisce, ma la normalità non ritorna. Era stata una delle promesse elettorali di Erdogan: se verremo eletti, con questo nuovo sistema presidenziale da noi creato, fine dello stato di emergenza. Conviene chiedersi cosa sia cambiato dall’ultimo rinnovo, lo scorso 19 aprile, per poter dichiarare finita l’emergenza. I supposti nemici di questo governo sono ancora a piede libero, a cominciare da Fetullah Gulen tutt’ora negli Usa. Bisogna dedurre che l’emergenza finisce perché concluso è il processo di trasformazione dello stato in repubblica presidenziale. Ora che il potere è assicurato, che l’intera macchina statale viene rivoltata come un calzino per ricondurre ogni ministero, dipartimento, organismo di vigilanza all’ufficio della presidenza, cioè ad Erdogan stesso, l’emergenza è finita. Ma a ben pensarci, non del tutto. I nuovi emendamenti alla legge antiterrorismo potenziano le autorità turche, in particolare i ministri e i governatori locali che, va ricordato, sono di nomina presidenziale. Lo fanno per altri tre anni, visto che le proroghe di tre mesi in tre mesi dello stato di emergenza erano diventate una scomoda routine. Le nuove modifiche prevedono che un sospettato di reati di terrorismo, crimine organizzato o attentato allo stato possa essere detenuto fino a 12 giorni. I governatori potranno proibire il transito in determinati territori per ragioni di pubblica sicurezza. Potranno inoltre proibire il trasporto di armi e munizioni anche se in presenza di licenza. Il personale militare, di polizia e i dipendenti pubblici che siano ritenuti legati ad organizzazioni considerate una minaccia dal Consiglio nazionale di sicurezza verranno licenziati. Costoro non potranno essere riassunti in incarichi pubblici, anche se un tribunale dovesse ordinare diversamente e, compresi i coniugi, perderanno licenza d’armi e passaporto. Il governo si riserva la possibilità di commissariare istituzioni pubbliche e aziende private qualora siano collegabili a reati di terrorismo. Tutti provvedimenti già contenuti nello stato di emergenza e che ora diventano legge. Il ministero degli interni ha dichiarato che in due anni di misure speciali sono state arrestate 20.000 persone per legami con la setta di Gulen: oltre 700 giudici e procuratori, 7.000 soldati, 5.000 poliziotti e 6.500 insegnanti. Tutti colpevoli di affiliazione, mentre 4.500 sono accusati di avere avuto un ruolo diretto nel golpe. Ma se allarghiamo il raggio d’accusa e includiamo tutte le accuse di terrorismo, il numero di arresti totale sale a 80.000. Se includiamo anche le detenzioni temporanee, 228.000 persone sono state fermate tra luglio 2016 e marzo 2018 per la Piattaforma congiunta per i diritti umani (Ihop). La beffa finale arriva se guardiamo alla Costituzione, che prevede che con la fine dello stato di emergenza decadano anche i decreti adottati. Ma il governo ha passato un emendamento per garantirne la futura validità di legge. Non ci sarà possibilità di appellarsi ad un tribunale. Né si troverà giustizia nella Corte europea dei diritti umani, che ancora attende che i rimedi legali nazionali siano esauriti prima di prendere in esame gli appelli. Merito, o forse colpa, di quella Commissione investigativa per le procedure di emergenza che il governo turco ha varato ad hoc e che, ad oggi, su 108.000 richieste ne ha valutate soltanto 21.500, delle quali soltanto 640 sono state accolte. Le opposizioni protestano, accusano l’Akp di instaurare un regime di emergenza indefinito. “Sono misure ancora più restrittive della legge marziale” ha denunciato Ayhan Bilgen, deputato dell’HDP. Protesta anche l’Europa, eppure questa è la nuova normalità in Turchia. Una normalità d’emergenza.