Le ruspe e il consenso (ma i fatti?) di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 1 luglio 2018 Arriverà il momento in cui l’appetito di parole di buonsenso sarà stato soddisfatto a sufficienza e anche lui improvvisamente dovrà sottoporsi alla dura verifica dei fatti. La sera del 3 marzo, una lettrice romana che spasimava per Berlusconi dai tempi dei Puffi confidò ai parenti progressisti: “Ci avete messo vent’anni, ma alla fine mi avete convinto: da domani basta Silvio, voto Matteo…”. Renzi? “Macché, Salviniiii!”. Oggi, sul pratone di Pontida, si celebra un’impresa politica senza precedenti. Con quella faccia un po’ così, da brontolone della porta accanto, Matteo II ha preso in mano un partito sciupato dagli scandali, che sotto la via Emilia si vergognavano persino a nominare, e nel giro di poche ruspe e tantissime felpe lo ha fatto diventare la prima forza politica dell’intero Paese. (L’ultima tac di Pagnoncelli ha appena certificato che manda in sollucchero un italiano su tre). Ma la cosa più incredibile è che, nonostante l’aspetto brusco e un linguaggio che ai fottuti buonisti come il sottoscritto suona gratuitamente aggressivo, Salvini ha costruito un colosso sui ruderi del Bossismo riuscendo a non perdere né un pezzo né un alleato. Se il Matteo del Pd ogni volta che apriva bocca provocava una scissione, quello della Lega ha scalzato il Nord dalla ragione sociale della ditta senza che un solo nostalgico della secessione abbandonasse la casa-madre per andare a fondare una lista di disturbo. Non solo: ha scippato a Berlusconi gli elettori, l’alleanza, il ruolo di babau della sinistra ben temperata e persino il colore blu con cui ha sostituito il verde del miraggio padano. Eppure il Cavaliere, che era solito dissolvere nel nulla qualsiasi Fini o Alfano osasse attentare al suo predellino, gli ha concesso libertà di corna e si accontenta ormai di qualche telefonata. A questo Salvini in estate di grazia persino gli scandali rimbalzano addosso. L’altro giorno ha buttato lì con noncuranza che i rimborsi elettorali sospetti erano già stati spesi dalla Lega. Lo avesse detto Matteo I (ma ormai pure Di Maio), lo avrebbero azzannato. Invece a lui tutto è concesso. Non detta solamente l’agenda di governo: guerra alle Ong, legittima difesa, multe di 7.000 euro a chi compra dagli ambulanti (ma se uno avesse 7.000 euro, comprerebbe dagli ambulanti?). Impone anche quella della satira, che ha bisogno di stereotipi da ribaltare: “Abolirò i Negrita, i Neri per Caso, i Nomadi e i poveri dei Ricchi e Poveri. Quanto ai Negramaro, si chiameranno Amaro e basta”. I suoi tormentoni hanno fatto irruzione nel linguaggio comune: “lo dico da papà”, “è finita la pacchia”, “chiudiamo i porti”, fino all’irresistibile litania “non sono Superman, non sono Ironman, non sono Batman, non sono un Superpigiamino”. Gli manca ancora il soprannome giusto, ma se “Capitano” riuscirà a sfondare oltre i confini dei militanti, potrebbe diventare un degno successore di Cavaliere: dal Cav al Cap, il passo è breve. Le ragioni di questo innamoramento istantaneo di massa vanno forse ricercate nello slogan che oggi campeggerà a Pontida: “Il buonsenso al governo”. Tutto ciò che ai detrattori di Salvini appare conservatore, approssimativo e a qualcuno addirittura fascista, ai suoi elettori sembra normalissimo buonsenso. Prima gli italiani: nell’assistenza, negli asili-nido, nell’assegnazione delle case popolari. Più armi, carceri e poliziotti; meno spacciatori e rompiballe vari per le strade; meno burocrazia, meno tasse, meno lacci imposti dalla convivenza forzata con l’Europa. Soprattutto meno complessità, che genera ansia. I suoi elettori si chiedono: che cosa c’è di male nel volere queste cose? E come mai nessun politico le aveva mai dette prima con altrettanto vigore, disprezzo per le forme e noncuranza per le conseguenze? Perché i “benpensanti” irridono il “buonsenso” e vanno alla ricerca di significati astrusi e soluzioni complicate, dando sempre l’impressione di parlare a qualcun altro che non sono io e facendomi sentire un razzista o uno stupido? Perché i moralisti dicono che il debito pubblico è anche colpa mia, mentre è evidente che io sono l’invaso e non l’evasore? Il racconto salviniano della realtà è la favola - un po’ rassicurante e un po’ inquietante, come le favole classiche - che il bambino dentro di noi sognava da tutta la vita di sentirsi raccontare prima di addormentarsi. Poi però arriva sempre il momento in cui ci si sveglia e si comincia a vedere. Se le accise sulla benzina sono diminuite oppure no. Se la Flat tax ha spianato la dichiarazione dei redditi oppure no. Se i migranti respinti dai porti sono rientrati dalle finestre. Se alla legge Fornero è stato fatto il funerale o almeno il solletico. Arriverà il momento in cui l’appetito di parole di buonsenso sarà stato soddisfatto a sufficienza e anche il Cap, persino il Cap, improvvisamente il Cap dovrà sottoporsi alla dura verifica dei fatti, dimostrando ai suoi estimatori di essere diventato Superman o almeno un Superpigiamino. Prescrizione. Stop dopo il primo grado, riforma in autunno di Luca De Carolis e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2018 Il ministro Bonafede ha chiesto agli uffici di Via Arenula. Stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Almeno per alcuni reati. E niente sospensione per un massimo di 18 mesi, come previsto oggi, ma definitivamente interrotta. È la rotta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nell’ambito di una riforma che entrerà nel vivo solo dopo l’estate, ma su cui il Guardasigilli sta già lavorando. Venerdì da un luogo simbolico come Viareggio, teatro della strage ferroviaria dove nel 2009 morirono 32 persone, Bonafede ha assicurato: “La riforma della prescrizione è una priorità e la chiameremo legge Viareggio, o Viareggio bis. Non devono esserci tragedie di fronte alle quali lo Stato non accerti la verità”. Come a Viareggio, appunto, dove nel processo per la tragedia molti reati decadranno a novembre. Così Bonafede ha voluto ribadire che la nuova prescrizione è una priorità, anche se in questi giorni si è parlato solo dello stop alla riforma sulle intercettazioni. E lui stesso è impegnato nell’introduzione del Daspo per i corrotti e dell’agente sotto copertura. Riforme a costo zero, su cui però bisogna lavorare sul piano normativo, per evitare rischi di incostituzionalità. Intanto sulla prescrizione Bonafede ha attivato gli uffici di via Arenula per avere un’indicazione precisa dei reati sui quali incide maggiormente l’istituto giuridico, soprattutto dopo la sentenza di primo grado. Perché è da lì che vuole partire il ministro, dopo aver ottenuto dalla Lega il riferimento alla prescrizione nel contratto di governo, anche se in termini generici: “È necessaria - si legge - una seria riforma della prescrizione dei reati, parallelamente alle assunzioni nel comparto giustizia: per ottenere un processo giusto e tempestivo ed evitare che l’allungamento del processo possa rappresentare il presupposto di una denegata giustizia”. Ora bisogna tradurre tutto nero su bianco. E nel lavoro preparatorio inciderà anche una preoccupazione del Carroccio, giustificata secondo i 5Stelle. Ossia che la riforma rischi di far piovere sui magistrati tanti processi per reati minori, che proprio la prescrizione tagliava naturalmente. Da qui la richiesta di uno studio sui reati più colpiti, in quanto si valuta anche se applicarla solo a determinate fattispecie. Mentre sarà comunque fondamentale investire nella giustizia, per velocizzare i processi - il ministro, assicurano, insiste sulla necessità di “una durata ragionevole dei processi” - e che conta anche sullo scorrimento delle graduatorie per rimpolpare le cancellerie. Di certo i dati più recenti non sono incoraggianti, soprattutto in Appello. Nel primo semestre del 2017, la prescrizione è intervenuta nel 25 per cento circa dei processi in secondo grado. E Venezia, Roma, Napoli e Torino incidono per oltre il 50 centro sul totale a livello nazionale. Per fare un esempio, in Veneto, nel 2017, quasi la metà dei processi in Appello è finita in un nulla di fatto. Sul tema il nuovo governo - almeno nelle intenzioni - sembra in linea con i magistrati. Tre giorni fa, Francesco Minisci, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ha incontrato Bonafede. “La riforma della prescrizione ha senso solo se si riesce ad arrivare in tempi rapidi ad una sentenza di primo grado”, spiega al Fatto Minisci. E aggiunge: “Oltre al blocco della prescrizione dopo il primo grado, abbiamo evidenziato che per risolvere davvero il problema bisogna intervenire anche sulla redistribuzione delle piante organiche tra i vari uffici giudiziari e riformare il sistema delle notifiche rendendolo più snello. Poi va ampliato l’articolo 190 bis del codice di procedura penale. In questo caso proponiamo di allargare la platea dei reati (per esempio aggiungendo la corruzione e altri gravi reati) per i quali non è obbligatorio rinnovare il dibattimento e quindi ricominciare il processo ogni qualvolta cambia uno dei giudici”. La legittima difesa armata negli Usa: un buon modello per l’Italia? di Elisabetta Grande MicroMega, 1 luglio 2018 Uno dei temi con cui il nostro nuovo governo leghista/pentastellato si è da subito confrontato per mostrare i muscoli di cui è dotato è quello della legittima difesa. “Ogni difesa è legittima”, soprattutto se si è a casa propria. E poi: “se un delinquente entra in casa mia, nel mio negozio, nella mia proprietà ho il diritto di difendermi comunque e se lui entra in piedi deve sapere che può uscirne steso”! Queste le roboanti dichiarazioni di Matteo Salvini, che con l’auspicata introduzione in Italia di una pena di morte privata - come la definisce Livio Pepino in Volere la Luna - si ispira senza mezzi termini a un diritto che da tempo è in vigore negli Stati Uniti. E allora guardiamolo questo diritto statunitense, che in Italia ha già costituito il faro per quella regressione di civiltà che ci ha investiti nel 2006, quando l’art. 52 del codice penale italiano è stato riformato per contemplare un ridimensionamento del principio della proporzionalità fra beni nell’ipotesi di violazione di domicilio. In forza di quella modifica chi si trova all’interno della propria casa può oggi legittimamente uccidere con un’arma legalmente detenuta chi, pur non mettendo in pericolo la sua vita, minaccia “la sua o la altrui incolumità oppure i suoi o gli altrui beni, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”. Anche in base alla più restrittiva delle sue interpretazioni, chi si vede violato nel proprio domicilio può dunque già adesso uccidere a fronte di un pericolo non necessariamente di morte, ma di qualcosa di meno: ossia del pericolo di una semplice lesione della propria o altrui incolumità fisica. Per Salvini però questo non è abbastanza. La pena di morte privata non deve subire ostacoli di sorta: la titolarità del suo esercizio deve essere sempre, inequivocabilmente e ampiamente attribuita in capo a chi ha la fortuna di avere un tetto sulla testa per il sol fatto che altri si ingerisce nei suoi spazi privati. È per questo che il nostro Ministro degli Interni aspira a introdurre una normativa il più simile possibile a quella in vigore negli States, dove però il diritto penale non solo giustifica le morti più tragicamente ingiuste, ma finisce per alimentare un clima da far west che danneggia tutti, non solo chi aggredisce ma anche chi si difende, alzando esageratamente il tasso di violenza e di morti, tanto dei ladri e dei “delinquenti”, quanto di coloro che con quelle categorie non hanno nulla a che vedere. Com’è noto il sistema a federalismo spinto statunitense vede la coesistenza di 50 ordinamenti statali, cui si aggiunge un ordinamento federale, ciascuno dei quali può configurare in maniera diversa la difesa che considera legittima, salvo ovviamente che la Costituzione federale -la così detta Supreme Law of the Land - non preveda preclusioni o limiti, cui tutti dovranno allora attenersi. Giacché però i limiti costituzionali a tutela del diritto dei cittadini americani di difendersi sono posti esclusivamente in relazione alla detenzione e (forse) al porto di armi, ogni ordinamento giuridico del sistema federale è libero di stabilire come crede quando la reazione a un’aggressione, vera o supposta che sia, sia legittima e quindi non punibile. Per quanto 51 ordinamenti siano tanti e le normative siano spesso fra loro differenti, è possibile tuttavia individuare dei tratti comuni fra le stesse, che restituiscono un quadro di ampia attribuzione ai privati cittadini del potere di infliggere la pena di morte, in sintonia con il sentimento collettivo di un paese che prima di tutto l’ammette come pena pubblica. Non sono però solo le norme sulla legittima difesa a legalizzare un’estesa inflizione della pena di morte privata, ma è la loro combinazione con l’ampia possibilità di detenere e portare con sé armi, che a sua volta alimenta il clima di paura che come vedremo giustifica praticamente sempre la difesa armata, in un’escalation di violenza che fa degli Stati Uniti una nazione con un numero percentuale di morti per arma da fuoco su 100.000 abitanti dieci volte superiore all’Italia, per di più in aumento invece che in calo come accade da noi (cfr. per esempio il rapporto del Flemish Institute al sito per l’Europa e l’Italia, in confronto con quello del Kff per gli Stati Uniti). Le normative statunitensi si possono in teoria dividere in due grandi gruppi: quelle che seguono la così detta “Castle Doctrine”, ossia la teoria del castello, in maniera più estensiva e quelle che ne danno un’interpretazione più restrittiva. La “Castle Doctrine” vuole che i cittadini statunitensi siano i re della propria casa, liberi di far fuoco su chiunque senza invito vi faccia ingresso, se ciò appare come una difesa ragionevole. Nella sua versione più generosa -e più largamente utilizzata- la legge presume la ragionevolezza della reazione letale, e quindi giustifica una difesa armata, nei confronti di chiunque violi il domicilio (ciò che a seconda degli Stati significa poi variamente far ingresso nel giardino di casa, nella veranda o soltanto nell’abitazione) per il sol fatto che egli o ella lo abbia violato. Rovesciare una simile presunzione in giudizio (quando consentito) è quasi impossibile per un’accusa che, fra l’altro, deve convincere una giuria, la quale nella maggior parte dei casi si immedesima con il proprietario di casa piuttosto che con la vittima. In forza di quella versione è inoltre possibile difendersi uccidendo, anche laddove il bene che si intenda così tutelare sia un mero bene patrimoniale. Nella variante più restrittiva la “Castle Doctrine” richiede invece (così come fa la nostra Corte di Cassazione del 2007 quando interpreta il nuovo art. 52 c.p.) che sussista un pericolo attuale per l’incolumità fisica dell’aggredito o di altri, affinché la reazione letale difensiva risulti legittima. A chi si difende è perciò richiesto di valutare la capacità dell’intruso di mettere in pericolo la vita o almeno l’incolumità sua o di altri prima di far fuoco. La distinzione fra le due versioni regge però solo in teoria, perché la ragionevole supposizione, per quanto erronea, di un’aggressione fisica da parte dell’intruso, anche nella seconda variante giustifica sempre e comunque una reazione letale nei suoi confronti da parte dell’abitante della casa. Ragionevole significa, infatti, che un uomo o una donna qualunque, nelle stesse circostanze in cui si trova l’abitante della casa, avrebbe valutato pericoloso per la propria o l’altrui incolumità il comportamento dell’intruso. Se l’uomo medio, insomma, in quella stessa situazione avesse percepito un pericolo, la difesa armata e la conseguente pena di morte privata risulterebbero giustificate. Ora una simile valutazione dipende ovviamente dal contesto sociale in cui ci si trova. Più è prevedibile che -anche se non si vede- l’intruso sia armato, più è forte la percezione del pericolo. D’altronde più agli abitanti è concesso di essere armati e di usare legittimamente l’arma, più è prevedibile che chi s’ingerisce in casa altrui per rubare sia a sua volta armato per evitare di soccombere in caso di conflitto. Violenza chiama violenza e armi chiamano armi, in una spirale che, incrementando la paura, rende ragionevole immaginare di doversi difendere per tutelare la propria incolumità anche quando la stessa non è affatto messa in pericolo. In un paese in cui il numero di armi legalmente possedute è più alto del numero dei suoi cittadini (bambini compresi) e il porto delle stesse è quasi privo di limiti (sul punto si veda il prossimo approfondimento), una pila elettrica, un rigonfiamento della tasca - magari contenente un fazzoletto - o il semplice movimento del braccio verso il busto, giustificano senza dubbio la paura di un’aggressione, anche quando in un contesto altro quel timore sarebbe del tutto irragionevole. Così mentre in troppi subiscono, con l’approvazione del sistema giuridico, una pena di morte privata magari solo perché cercano di rubare qualcosa, sono tantissimi i casi in cui quella pena viene legittimamente inflitta anche a chi non è né un ladro né un delinquente. Le cronache statunitensi sono piene di storie che raccontano le tragedie che l’applicazione del principio Salviniano, per cui ogni difesa è legittima, porta con sé. Si va dai casi dei padri -poi distrutti psicologicamente- che, forti della loro posizione di “castellani”, scambiano il proprio figlio per un ladro e lo ammazzano solo perché si ingerisce di notte nel giardino di casa o perché sta per entrare nella casa della vicina zia; a quello di chi una bella mattina uccide legittimamente un ragazzo ventenne che aveva cercato rifugio nella sua veranda, in fuga da una retata della polizia in un party del vicino di casa in cui si faceva uso di bevande alcoliche fra persone al di sotto dei 21 anni. Fra gli altri casi ci sono poi quello dello studente giapponese che un giorno di Halloween cerca il luogo nel quale è invitato a una festa, ma suona il campanello dell’abitazione sbagliata e viene freddato da un proprietario intimorito dal fatto che il ragazzo, vestito da John Travolta, resti immobile di fronte al suo grido di andarsene, che in realtà non capisce perché sa male l’inglese; o dello studente scozzese che, persosi per strada, bussa sul retro di una casa per chiedere informazioni e al posto dell’indicazione sperata riceve una pallottola sparata dall’interno. In ciascuno di tali casi, e nei tantissimi altri analoghi, chi spara è ritenuto giustificato dalla paura, che il sistema tutela e alimenta dichiarando ragionevole la sua reazione “difensiva”, al punto che spesso la polizia non denuncia neppure il fatto o l’accusa non esercita neanche l’azione penale. Nella peggiore delle ipotesi saranno il grand jury o la giuria ad evitare la condanna del “castellano”. La scia di morti che la teoria del castello porta con sé non colpisce però solo l’intruso innocente, ma anche il “castellano” stesso. Come si accennava, infatti, se la difesa è sempre legittima, mentre chi entra per fini leciti, se scambiato per un aggressore, può essere legittimamente ucciso, chi invece entra per rubare si attrezzerà contro l’eventualità che il castellano eserciti il suo diritto di infliggere morte e per paura non esiterà a sparare subito e per primo, anche contro un “castellano” disarmato. Non è davvero un caso che negli Stati Uniti il numero di persone che muoiono in casa loro nel tentativo di difendersi sia incommensurabilmente più alto che in Italia (cfr. per esempio per gli States i dati riportati da Gun Violence by the Numbers). La violenza genera violenza e chi ci rimette non è affatto detto sia il “ladro” o il “delinquente”. Un diritto “muscoloso” finisce per rivoltarsi contro chi ha creduto di ottenerne protezione e questo è certamente vero anche per quei padri che senza la legge del castello avrebbero oggi ancora il proprio figlio con sé! Violenza sulle donne. La solitudine e la burocrazia di Titti Marrone Il Mattino, 1 luglio 2018 È impressionante il numero che si legge nel report della Regione Campania: solo in 5 casi su 2300 si è potuto fare ricorso ai fondi a disposizione per le donne oggetto di violenza e per i loro figli. Tutto per via di lentezze e trappole burocratiche. Così quel dato ci dice soprattutto una cosa: non basta che a scrivere i diritti sia il legislatore, o che un organismo amministrativo provveda con stanziamenti per sostenerli. Bisogna incidere quei diritti nella quotidianità come urgenze non rinviabili, promuoverli, difenderli come un bene prezioso e imprescindibile. Dietro le cifre e le statistiche si celano sempre storie di persone reali, con il loro carico di pene e sofferenze. In questo caso, l’estremo più doloroso è rappresentato dai drammi di quelli che restano indietro dopo i femminicidi, le figure più fragili e purtroppo non così rare nella nostra quotidianità: i figli delle vittime, oggetti di esperienze tra le più traumatiche. Questi figli fanno parte di famiglie in cui il padre ha ucciso la madre o esercitato violenza su di lei, e la loro è dunque la storia di un’esposizione a guerre domestiche spesso prolungate e già di per sé traumatizzanti. Nell’ipotesi più agghiacciante, si tratta di bambini costretti ad assistere alla violenza sul corpo della madre, quando non addirittura al loro assassinio per mano paterna. I più piccoli, si spera, potrebbero non ricordare, o rimuovere, o semplicemente dimenticare in virtù di uno di quei meccanismi caritatevoli della memoria a volte autoregolata in modo salvifico. Ma altre volte i ricordi terribili s’insinuano anche a pochi mesi, anche in modo sommesso, salvo però riemergere più tardi con la virulenza di un trauma seppellito dentro di sé. I figli più grandi, quelli in grado di ricordare tutto da subito, dopo la tragedia dell’aggressione alla madre più o meno cruenta - in certi casi seguita addirittura dal tentativo paterno di eliminare anche i figli o dall’atto di suicidarsi - vivono il capovolgimento totale del proprio mondo. Con la perdita, in un modo o nell’altro, di entrambi i genitori, della propria casa di origine trasformata in “scena del delitto” e desertificata dall’atto omicida, con il trasferimento nelle famiglie di parenti o in istituti pubblici, con l’esposizione all’altrui curiosità e a una pietà non sempre benevola, con la devastazione completa del proprio mondo affettivo corredata dalle foto di padre e madre riproposte di continuo sui giornali o in televisione in espressioni sofferenti, oppure truci, o addirittura ferite a morte. Per definire questi, che sono a tutti gli effetti dei sopravvissuti, si ricorre all’espressione “orfani di femminicidio” e dallo scorso febbraio una legge dovrebbe provvedere a tutelarne i diritti, con l’aggiunta, in Campania, di uno stanziamento di ottomila euro come elemento di tutela destinato a fronteggiare la vastità dei traumi subiti, oltre che a provvedere alle necessità economiche di minori, o anche maggiorenni non ancora autosufficienti. La legge, però, così come lo stanziamento regionale, è concepita anche per le donne oggetto di violenza familiare, in modo da sostenerle nella ricerca dell’autonomia economica, così come per le spese legali, riconoscendo che nemmeno per quelle scampate all’uccisione tra le mura di casa la vita sarà facile. E lo dice bene, alla nostra Daniela De Crescenzo, Grazia, una madre dei Quartieri Spagnoli ripetutamente maltrattata e picchiata dal marito (ma non sfregiata, quindi non avente diritto ad alcun sussidio): “Quando una donna denuncia, resta sola e in molti la odiano”. Dunque l’apparato legislativo esiste, così come l’impegno anche a livello locale, testimoniato dall’assessore regionale Chiara Marcianise, insieme con l’intenzione, almeno sulla carta, di non lasciar sole le donne e gli orfani di femminicidio. Ed è quindi ancora più inaccettabile quel numero, 2300 casi di violenza di cui solo 5 accolti. Ma si spiega in un Paese soffocato dalle lentezze burocratiche e penalizzato dalla logica per cui, una volta proclamata una buona intenzione a favor di telecamere o di visibilità mediatici, l’impegno si considera assolto. Logica che conduce a disinteressarsi della sua applicazione, a maggior ragione se la legge è stata messa a punto da un governo precedente considerato come nemico. Questo avviene ancor di più sul terreno dei diritti, dimensioni considerate “assistenziali” o accessorie e anche per questo non realizzate o esposte a ritardi ingiustificabili, come le case rifugio per le donne vittime di violenza. E avviene per realtà pure consolidate, come le Case delle donne di Napoli o Roma o di varie altre città, che per anni hanno svolto una preziosa funzione di riferimento ma vengono smobilitate o sfrattate o abbandonate. Tutto questo ha a che vedere con la stessa legge contro il femminicidio dell’ottobre 2014, spesso considerata inefficace o inutile poiché le statistiche non attestano, negli ultimi 4 anni, una significativa diminuzione del fenomeno. Ma una legge non può cambiare in poco tempo l’inveterata pulsione omicida contro le donne concepite come proprietà maschile. Non può trasformare d’un tratto la fragilità maschile che induce a vederne le traiettorie di libertà come estremo oltraggio di sé. Perché vero cambiamento ci sia occorreranno generazioni raggiunte da un serio lavoro di processi educativi condotti nella scuola e in famiglia, capaci di orientare fin da bambini verso il rispetto, presupposto imprescindibile del vero amore. Però le cose andranno di certo peggio se le leggi resteranno inapplicate o impigliate in mille pastoie burocratiche, cumulo di parole allineate ma prive di efficace incidenza nella realtà. Marche: p. Occhetta (La Civiltà Cattolica) “le carceri non siano discariche sociali” agensir.it, 1 luglio 2018 “Ripensare il carcere è responsabilità di tutti. La giustizia riparativa come modello può funzionare se noi come patto sociale decidiamo di tornare alla radice antropologica dell’uomo attraverso la spiritualità”. Lo ha detto padre Francesco Occhetta, scrittore de “La Civiltà Cattolica”, intervenuto all’incontro organizzato dalla Commissione regionale per i problemi sociali e del lavoro, la giustizia e la pace della Conferenza episcopale delle Marche. L’iniziativa è stata patrocinata dall’Ordine degli avvocati di Ancona e dall’Ordine dei giornalisti delle Marche, in collaborazione con: Ucsi Marche, Azione Cattolica Ancona, Ucid sezione di Ancona e Confindustria Marche nord. Un momento di riflessione sul tema che è anche titolo del libro di padre Occhetta “La giustizia capovolta”. Diversi gli spunti sul tema della giustizia riparativa, quel percorso che ha l’obiettivo di “permettere a chi ha commesso un reato di rimediare alle conseguenze delle sue azioni”. “Per fare questo - si è detto nel corso del convegno - è necessario attivare un processo che, grazie all’intervento di mediatori, coinvolga, purché vi aderiscano liberamente, le vittime (o i familiari) i rei, e la società civile”. “Non è un modo per accorciare la durata della pena, ma per tentare di ‘ripararè un danno”. “Oggi il sistema carcerario non può essere certo definito ‘rieducativo’ dal momento che anche il tasso di recidiva è altissimo, pari al 69%”, ha sottolineato padre Francesco Occhetta. “Una giustizia riparativa è quella in cui la riparazione è ricostruire ciò che è stato rotto, è una scelta culturale. Occorre scommetterci in questo modello, perché può portare grandi frutti”. Un modello inteso come capace di ricomporre una frattura sociale. “È un errore riparare soltanto con il castigo”. Nel corso dell’incontro è emersa la necessità di umanizzare la pena, del richiamo alla politica sulla situazione nelle carceri, l’importanza del mediatore civile e di evitare che i penitenziari vengano considerati “discariche sociali”. “Ci sono uffici di mediazione civile - ha affermato Occhetta - che applicano modelli di giustizia riparativa capace di sgonfiare quella guerra che abbiamo nei cuori”. Bolzano: nuovo carcere, siglato il contratto tra Provincia e Condotte spa Corriere dell’Alto Adige, 1 luglio 2018 L’Agenzia degli appalti e Condotte spa hanno firmato l’accordo per la costruzione del nuovo carcere di Bolzano. Le difficoltà della società romana, che entro metà luglio deve presentare al Tribunale un piano di riassetto finanziario, avevano fatto temere un rinvio del progetto ma alla fine l’intesa è stata raggiunta. Provincia e Condotte spa hanno siglato l’accordo per la costruzione del nuovo carcere di Bolzano. Adesso sarà redatto il progetto esecutivo e secondo il presidente della Provincia Arno Kompatscher, i lavori dovrebbero partire già nel 2019. Il progetto del nuovo carcere pare finalmente sbloccarsi dopo l’incertezza degli ultimi mesi. La società Condotte d’Acqua spa, uno dei colossi delle infrastrutture in Europa, è entrata in serie difficoltà finanziarie e, a causa della crisi di liquidità, l’8 gennaio di quest’anno è stata presentata la richiesta di concordato preventivo. Una notizia che ha mandato in fibrillazione mezza Italia - l’azienda ha circa tremila dipendenti - visto che la società romana aveva già siglato innumerevoli contratti per realizzare grandi opere. Come la Tav di Firenze, il Mose di Venezia o il lotto austriaco del tunnel di base del Brennero. Tra gli altri grandi progetti anche il polo bibliotecario di via Longon e il nuovo carcere che dovrebbe sorgere a Bolzano sud. Due opere importantissime per la città di Bolzano. Le maggiori preoccupazioni erano collegate proprio al nuovo carcere che dovrà essere realizzato in project financing. Ovvero la società che lo realizza assumerà anche la gestione delle attività economiche, ad esempio la lavanderia, che vi saranno all’interno del nuovo carcere. Lecco: all’oratorio di Castello la testimonianza dei detenuti di Bollate leccoonline.com, 1 luglio 2018 Si sono raccontati senza nascondere nulla, nemmeno la paura di sbagliare e la grande voglia di tornare ad essere liberi, Domenico e Salvatore, detenuti in articolo 21 del penitenziario di Bollate - nel quale hanno già scontato parte della loro pena - che nella giornata di venerdì 29 giugno hanno incontrato i ragazzi che frequentano l’oratorio San Luigi di Castello, accompagnati dall’artista malgratese Luisa Colombo, responsabile del gruppo di arteterapia del carcere milanese e ideatrice degli interventi di promozione della legalità che da oltre tre anni vengono effettuati tra Milano e Lecco. Mentre la mattinata, a partire dalle 10.30, è trascorsa svolgendo dei laboratori con i più piccoli, che hanno potuto creare dei lavoretti di arteterapia, nel pomeriggio Domenico e Salvatore hanno dialogato con i ragazzi delle superiori, raccontando la propria esperienza all’interno del carcere e rispondendo alle loro domande e curiosità sulla vita dietro le sbarre: “Una vita dura, che può migliorarti, farti riflettere e capire dove hai sbagliato, ma anche renderti peggiore e farti male”. Non hanno un passato facile, Domenico e Salvatore. Entrambi sono consapevoli dei luoghi comuni e dei pregiudizi sul carcere e su chi ci ha vissuto, ma combattono i momenti di sofferenza e solitudine con la speranza di una seconda possibilità, una volta “fuori”: “Non vedo l’ora di poter riacquistare la mia libertà”, ha infatti confessato Domenico. “Tuttavia, ho paura di ciò che dovrò affrontare una volta che avrò terminato di scontare la mia pena, anche se so che questa paura è fondamentale, perché mi consente di percorrere la strada giusta, di mantenermi lucido”. Una giornata diversa dalle altre, emotivamente forte, quella vissuta dai ragazzi dell’oratorio, che hanno così potuto intavolare un vero e proprio dialogo con i due uomini, cercando di costruire un ponte ideale tra due mondi apparentemente inconciliabili, quelli del carcere e della scuola intesa come Istituzione, partecipando attivamente alla discussione. “L’impatto emotivo delle storie di queste persone, degli errori commessi, delle pene in corso diviene un monito che, più di molti altri, instilla nell’animo e nella mente dei giovani un seme di conoscenza, di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che accade realmente quando si trasgredisce e si infrange la legge”, ha commentato Luisa Colombo. “Nessuno meglio di queste persone, di detenuti preparati, consapevoli delle scelte fatte e degli errori commessi, può aiutare questi ragazzi a non incorrere nei loro stessi sbagli e a spazzare via tutta quella serie di stereotipi su chi il carcere lo ha provato e lo prova tuttora sulla sua pelle”. Soddisfatti della buona riuscita dell’incontro anche il parroco di Castello don Paolo Ventura e Suor Dina: “La testimonianza odierna ha insegnato ai nostri ragazzi l’importanza della fratellanza, in un mondo che spesso porta a pensare solo a se stessi e, a volte, a compiere dei reati. Domenico e Salvatore hanno permesso loro di andare oltre certe superficialità e di comprendere il vero significato della condivisione”. Napoli: navetta Eav gratis tra Bagnoli e Nisida per i giovani detenuti Il Mattino, 1 luglio 2018 Da lunedì e fino al 30 Settembre 2018, Regione Campania ed Eav attivano in via sperimentale un servizio navetta gratuito - tutti i giorni, compresi i festivi - sulla tratta Bagnoli - Nisida - Bagnoli, ad uso esclusivo dei giovani ospiti del penitenziario di Nisida. Le corse in direzione Nisida partiranno da Piazza Bagnoli prevedendo una sola fermata intermedia a via Coroglio nei pressi dell’ ex laboratorio di ceramica ed un’altra nei pressi dell’Istituto penitenziario minorile, all’altezza del campo sportivo. Anche i familiari degli ospiti della struttura penitenziaria minorile potranno beneficiare del servizio navetta nei giorni di colloquio. Deputato al servizio di controllo e verifica dei passeggeri sarà il personale di Polizia Penitenziaria della base navale nell’ambito dell’accordo di collaborazione. “Grazie al sostegno della Regione Campania, con il servizio navetta a cura di Eav, siamo in grado di agevolare le attività quotidiane e i rapporti tra i giovani ospiti del penitenziario di Nisida e le loro famiglie, molte delle quali in condizioni di forte disagio economico” ha dichiarato il Dirigente del Centro per la Giustizia minorile della Campania, Maria Gemmabella. “Ci è sembrato doveroso assicurare ai ragazzi di Nisida un collegamento con le strutture esterne presso le quali effettuano attività rieducative e di formazione al lavoro per agevolare il loro reinserimento sociale - ha spiegato il Presidente Vincenzo De Luca. In collaborazione con Eav, stiamo già lavorando per continuare a garantire il servizio navetta ai ragazzi di Nisida e alle loro famiglie anche nel periodo invernale”. Larino (Cb): detenuti di AS attori nella commedia che rovescia i luoghi comuni primonumero.it, 1 luglio 2018 Hanno messo in scena “La Gatta Cenerenola” e hanno messo in gioco ruoli e condizioni sorprendendo ed emozionando il pubblico che venerdì sera ha seguito la prima del melodramma nel cortile del carcere di Larino. Alcuni di loro non mettevano piede in uno spazio aperto da anni. 21 condannati della sezione di massima sicurezza si sono cimentati con una sfida non facile, indossando travestimenti femminili e interpretando personaggi comici in dialetto napoletano, riuscendo nell’impresa di scardinare pregiudizi e ribaltare luoghi comuni. Applausi, molte risate e qualche lacrima. Perché in fondo questi attori, per quanto bravissimi nei ruoli che interpretano, sono e restano detenuti. Detenuti della massima sicurezza, persone con condanne pesanti, che stanno scontando anni e anni di carcere. E il carcere, come precisa la direttrice Rosa La Ginestra, sempre sensibile a iniziative coraggiose, capaci di restituire speranza e di attuare la valenza riabilitativa della pena, non è mai facile. Non lo è prima di tutto per la condizione stessa della prigionia, cioè trascorrere un lungo periodo - che a volte occupa decenni di esistenza - chiusi in ambienti ristretti. Tanto che alcuni di loro, durante le prove finali che sono state fatte nel cortile interno dell’Istituto Penitenziario frentano, si sono addirittura sentiti male. Disorientamento dovuto al fatto che era passato troppo tempo da quando avevano assaporato il cielo sopra le loro teste e l’aria intorno. Non è facile, il carcere, perché lo si vive isolati da tutto, privati delle famiglie e degli affetti, in una situazione che implica una gerarchia innaturale e rapporti complicati. Ecco perché la messa in scena della commedia La Gatta Cenerentola, che ieri sera - venerdì - ha debuttato con una buona partecipazione di pubblico, è stato anche una sfida. Una scommessa non facile che questi detenuti sono riusciti a vincere abbattendo le loro resistenze iniziali, cimentandosi in un rovesciamento di ruoli, indossando travestimenti femminili e interpretando personaggi comici. Recitando in una lingua, il dialetto napoletano, che è anche la lingua di molti di loro, l’idioma con il quale sono cresciuti, e che anche per questa ragione sono riusciti a rendere alla perfezione. Come è stata perfetta la rappresentazione. Senza esitazioni, senza sbilanciamenti, degna di una compagnia di professionisti del palcoscenico. Anche perché il regista, Giandomenico Sale della Frentania Teatri, è stato capace di individuare per ognuno dei 21 protagonisti del melodramma (tratto dalla celebre fiaba di Giambattista Basile, inclusa nella raccolta Lo cunto de li cunti e riadattato per il teatro da Roberto De Simone) il ruolo giusto, il personaggio più adatto. A partire dalla matrigna crudele, passando per le sorellastre vanitose, arrivando a Cenerentola, ingenua e scemotta, alla parrucchiera ciarliera, al monaco diavolesco che sostituisce la fata della favola. Otto mesi di preparativi con il regista, la bravissima scenografa Gisella Santacuzzi, le professoresse Arianna Tilli e Chiara Maraviglia dell’Alberghiero di Termoli, che con fiducia ed entusiasmo hanno accompagnato i loro studenti detenuti in un percorso non scontato, ripagato da un risultato strepitoso sul placo e nella vita. Un successo personale, prima di ogni altra cosa, per ognuno dei 21 attori che si sono messi in gioco ribaltando pregiudizi, ruoli, gerarchie. Rovesciando i luoghi comuni, a cominciare dal primo luogo comune che li riguarda: i detenuti non fanno ridere. E invece non solo hanno fatto ridere, ma hanno anche fatto commuovere, proprio nel contrasto tra la loro condizione di reclusi e la mimica spassosa, le battute pungenti, in un contesto di musica e balletti. Uno spettacolo da non perdere: si replica questa sera, sabato, sempre alle 20 e 30 e domani per l’ultima rappresentazione. Il ricco buffet che segue la rappresentazione teatrale è, in questo caso, soprattutto l’occasione per parlare con loro, i detenuti attori. L’internazionale populista e le (strane) alleanze tra sovranisti di Sergio Romano Corriere della Sera, 1 luglio 2018 Il Consiglio Europeo ha dato qualche soddisfazione all’Italia e ha cercato di salvare Angela Merkel dalle grinfie del suo ministro degli Interni. Ma la marea nazional-populista non smette di montare. Credevamo che il suo linguaggio fosse una caratteristica dei partiti-antisistema e delle destre rimaste per molto tempo ai margini dello Stato liberal-democratico. Ma è oggi usato anche da partiti che hanno una rispettabile tradizione democratica. Il fenomeno - Il fenomeno più inquietante è quello della Germania. Quando Alternative für Deutschland (un partito populista, non privo di nostalgie nazional socialiste) è diventato, con 87 deputati, la terza forza politica del Paese, è nata una nuova Grosse Koalition composta da cristiano-democratici (Cdu-Csu) e social- democratici (Spd), ma in un momento in cui entrambi i partiti avevano perduto consensi. Angela Merkel è cancelliera da 13 anni e non è sorprendente che qualcuno, nel suo stesso campo, voglia prenderne il posto. L’argomento da usare oggi è quello dei migranti. Chi vuole scalzare un avversario deve accusarlo di avere incoraggiato l’”invasione” dell’Europa. È quello che sta facendo Horst Seehofer, ministro degli Interni e leader della Csu bavarese (il partito cugino della Cdu). Vorrebbe respingere i migranti che hanno già fatto domanda di asilo in altri Paesi (quindi soprattutto l’Italia) e aveva detto, prima del Consiglio Europeo, di non sapere per quanto tempo avrebbe potuto collaborare con Angela Merkel. In questo nuovo nazional-populismo ogni partito cerca amici e compagni di strada in altri Paesi. L’Austria di Sebastian Kurz li ha trovati nei Paesi di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia); e la Baviera di Seehofer e di Markus Söder nel nuovo governo austriaco; mentre Salvini guarda con fraterna simpatia al movimento francese di Marine Le Pen. Il fenomeno non è nuovo. Berlusconi andò in Ungheria per sostenere Viktor Orban durante la sua prima campagna elettorale. Il partito socialista francese, durante le elezioni spagnole del 2005, manifestò pubblicamente la sua simpatia per Zapatero. I partiti democristiani e popolari, come i partiti social democratici, hanno un gruppo parlamentare a Strasburgo. L’alleanza - Quanto più l’Europa crea istituzioni comuni e interessi condivisi tanto più i partiti di uno stesso colore si uniscono per raggiungere gli stessi obiettivi. Vi sarà quindi anche una alleanza nazional-populista. Ma sarà composta da Paesi euroscettici e sovranisti, quindi, almeno teoricamente convinti che ogni Paese abbia irrinunciabili interessi nazionali. Saranno alleati per fare l’Europa o per disfarla? Un’ultima osservazione. Molti Paesi euroscettici ricevono dall’Europa somme considerevolmente superiori ai contributi con cui concorrono al suo bilancio. Dopo le promesse fatte nelle campagne elettorali dovranno anche fare i conti. Radiografia del sistema Onu di Vittorio Emanuele Parsi Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2018 Diritto internazionale. Leggi e organismi giuridici sono fondamentali ma non possono supplire ai deficit della politica, come dimostrano la questione siriana e quella dei migranti. L’opera realizzata da Rosalyn Higgins e dalla sua squadra di collaboratori rappresenta il più completo, eppure sintetico, studio della pratica legale delle Nazioni Unite, uno strumento indispensabile per chiunque si occupi di diritto internazionale, sia nell’ambito professionale dell’avvocatura sia in quello accademico. La sua realizzazione è stata resa possibile grazie al contributo finanziario messo a disposizione dalla Fondazione del Premio Internazionale Balzan, che premiò la baronessa Higgins per la sua lunga attività giuridica, dotandola di un fondo dedicato proprio al finanziamento di questa pubblicazione. Caratteristica del libro è quella di offrire un quadro delle Nazioni Unite, delle agenzie specializzate e giù fino alle Corti Criminali Internazionali nell’evoluzione concreta e reale delle questioni di carattere legale e giuridico che sorgono dall’attività giornaliera di questo complesso e unico set di istituzioni internazionali. A tale scopo, la struttura formale dei principali organismi delle Nazioni Unite è analizzata congiuntamente alla miriade di problematiche legali che il loro agire sollecita. Le Corti Criminali Internazionali sono infine presentate enfatizzandone la loro appartenenza integrale al sistema delle Nazioni Unite. Altro elemento che è importante fin da subito sottolineare è il “metodo Oppenheim”, consistente nella presentazione dei fatti senza che questi siano messi in ombra dalle opinioni personali dei redattori, in testi succinti che però - attraverso un ricco e ben organizzato apparato di note - consente al lettore la vera e propria esplosione di ogni singolo aspetto riguardante il lavoro di questa o quella istituzione o agenzia. E i temi sono davvero tanti: si va dagli organismi che compongono le Nazioni Unite (Assemblea Generale, Consiglio di Sicurezza, Consiglio per l’Amministrazione Fiduciaria e Consiglio Economico Sociale) agli organi sussidiari e alle agenzie specializzate. In termini di questioni, vengono analizzate successivamente la membership, i poteri e il diritto di voto, la personalità e la responsabilità legale dell’Onu e il rapporto tra Onu e diritto internazionale. Vengono poi affrontati i temi del finanziamento, del ruolo del Segretario generale e delle immunità. Ampio spazio è poi riservato alle “missioni” dell’Organizzazione: dal miglioramento delle condizioni socio-economiche alla governance democratica, dal sostegno ai processi elettorali all’aiuto umanitario, dalla protezione dei diritti umani a quella dell’ambiente, dall’assistenza ai profughi alla promozione del diritto internazionale, fino al peace-keeping, per passare poi a trattare le questioni relative alla Corte Internazionale di Giustizia e ai Tribunali Penali Internazionali istituiti in questi ultimi lustri. Opera esaustiva, quindi, eppure calata nella realtà, nella consapevolezza che né la legge internazionale e neppure le stesse Corti Internazionali, nelle parole della stessa Rosalyn Higgins - avvocato, membro della Corte Internazionale di giustizia dal 1995 al 2009 e suo presidente dal 2006, professoressa di diritto internazionale alla London School of Economics - sono in grado di risolvere ogni questione che viene portata al loro cospetto. Nessuna idea che il diritto e i tribunali possano supplire ai deficit della politica e la profonda consapevolezza che la divergenza tra gli obiettivi perseguiti dalle grandi potenze rende difficile la concreta implementazione dell’agenda dei diritti umani e, più in generale, la realizzazione delle alte finalità onusiane. Ne abbiamo una testimonianza fin troppo vivida con la drammatica questione delle migrazioni internazionali. Dal continente australiano a quello americano, fino all’Africa e, ovviamente, all’Europa: stiamo oggettivamente assistendo a un arretramento del grado di civilizzazione del mondo, a un effettivo imbarbarimento delle pratiche giuridiche e delle scelte politiche. Il vertice è toccato proprio nel Vecchio Continente, all’interno di quell’Unione Europea che fino a un lustro fa pretendeva di guidare il mondo “con l’esempio”. Come definire lo spettacolo in scena a Budapest, dove a tambur battente il Parlamento ha approvato una riforma costituzionale al solo scopo di rendere irricevibile una decisione della Commissione che imponesse nuovamente i cosiddetti ricollocamenti dei migranti? E che dire dell’intesa franco-tedesca volta a respingere nel Paese di prima accoglienza i richiedenti asilo che volessero raggiungere altre mete comunitarie? Per tacere dei muri di Ceuta e dei ventilati blocchi navali vagheggiati in Italia... il diritto usato contro i diritti, la legge impugnata contro la giustizia o quantomeno contro l’umanesimo. Se persino nella “civilissima Europa” questo è il trend, non serve neppure ricorrere al framework della crisi dell’ordine liberale internazionale - tema ricorrente negli ultimi due anni nel dibattito politologico anglosassone - per spiegare come il mondo stia cambiando (in peggio). Lo avevamo del resto capito già nel corso del lungo macello siriano, che dura da ormai 8 anni, nell’inazione di quella che fu la “comunità internazionale”. Per nulla paradossalmente, allora, è proprio in questa stagione storica che occorre ribadire che quanto raggiunto con difficoltà e a costi altissimi nel corso del Novecento non può e non deve andare perduto. La spola continua tra le ragioni del diritto e le condizioni poste dai rapporti di forza e dallo scontro tra interessi e persino valori diversi è oggi ancora più fondamentale che mai. Del resto, non dovremmo mai dimenticare che la stagione di convergenza e unanimità (in parte convenzionale) sui grandi temi della politica internazionale è stata breve, ma divergenze opposizioni non hanno impedito di costruire le istituzioni e le norme che tra mille difficoltà hanno dato forma al mondo. Un dato su tutti dovrebbe confortarci. Tra il 1946 e il 1989 i veti opposti dai cinque membri permanenti in Consiglio di Sicurezza sono ammontati a 270, contro i 14 tra il 1990 e il 2003. E da allora sono tornati ad aumentare. Seppure si debba anche giustamente rimpiangere la straordinaria (e straordinariamente breve) stagione di concordia internazionale (peraltro coincisa con il lungo “momento unipolare” americano della politica internazionale), la costruzione e l’implementazione del sistema legislativo delle Nazioni Unite è avvenuta nel periodo di maggior divisione, durante la Guerra Fredda dominata dalla logica dei blocchi. Ragion per cui, sperare e agire guidati, ad un tempo, dall’etica della convinzione e dall’etica della responsabilità è la sola strada oggi perseguibile per chi non voglia accettare inane la necessaria coincidenza tra la crisi dell’ordine liberale internazionale e il declino della struttura giuridica internazionale che in quell’ordine è stata costruita. Migranti, l’inarrestabile declino dell’Europa di Alessandro Dal Lago Il Manifesto, 1 luglio 2018 Porti in faccia. Macron fa le parti del leader “umano” perché accoglie pochi scampati ai naufragi, mentre la sua polizia sigilla le frontiere. Angela Merkel è esclusivamente interessata ad assicurare gli alleati bavaresi che la “barca è piena”, e che quindi saranno prese le necessarie misure per non far salire più nessuno a bordo. E tutti gli altri, i fascisti o para-fascisti austriaci, polacchi, slovacchi, ungheresi, che le burocrazie europee si guardano bene dal sanzionare, si chiudono in un isolamento identitario sempre più feroce. L’Europa comprende 48 stati, esclusa la Russia, e ha 730 milioni di abitanti, poco più di un decimo della popolazione mondiale. Solo negli ultimi cent’anni gran parte dei paesi europei è stata coinvolta in una successione di guerre che hanno provocato un centinaio di milioni di morti. E stiamo parlando della cosiddetta culla della “civiltà” mondiale, che ha diffuso (insieme alla propaggine americana) il suo patrimonio di tecnologie e stili di vita dapprima con la violenza coloniale e imperialista, e poi con la forza dell’economia. Ebbene, l’Europa - che, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, aveva cercato di imboccare la via della pacificazione e della cooperazione - sta cavalcando di nuovo, e con un’accelerazione impressionante, le tendenze nazionalistiche che ne avevano quasi causato la distruzione, 73 anni fa. E qual è il fattore determinante dell’implosione dell’utopia europea? Le migrazioni verso il vecchio continente di alcune centinaia di migliaia di immigrati e rifugiati dall’Africa e dai paesi asiatici in guerra. Il confuso Consiglio europeo del 28 giugno con i suoi equivoci e le sue finzioni non è che una tappa di questa prevedibile entropia. Giuseppe Conte, che solo la beffa di un dio ha proiettato nel ruolo di presidente del consiglio italiano, annuncia il suo successo al vertice perché tutti gli altri leader hanno promesso di accettare i migranti su base “volontaria”, cioè ipotetica, cioè inesistente. Macron fa le parti del leader “umano” perché accoglie pochi scampati ai naufragi, mentre la sua polizia sigilla le frontiere. Angela Merkel è esclusivamente interessata ad assicurare gli alleati bavaresi che la “barca è piena”, e che quindi saranno prese le necessarie misure per non far salire più nessuno a bordo. E tutti gli altri, i fascisti o para-fascisti austriaci, polacchi, slovacchi, ungheresi, che le burocrazie europee si guardano bene dal sanzionare, si chiudono in un isolamento identitario sempre più feroce. Infine ecco Salvini, il quale, da “ministro e papà”, come esige la sua retorica ributtante, condanna alla fame, alla sete e alla morte centinaia di naufraghi alla deriva sui barconi o sulle navi delle Ong. Bisogna ripeterlo: più di 700 milioni di abitanti di un continente sviluppato (o 400 se consideriamo solo la Ue) manifestano dovunque reazioni di rigetto, che si spingono sino al razzismo attivo, verso un numero di richiedenti asilo e migranti irrisorio, se consideriamo le proporzioni. E i governi, dopo aver aizzato per anni le popolazioni nazionali, vellicandone il senso di insicurezza, si adeguano, cambiando solo le tattiche. Se Minniti ha organizzato gli internamenti in Libia - in cui agonizza, tra umiliazioni, torture, stupri e uccisioni, un milione di migranti subsahariani - Salvini sfrutta le tragedie in mare per negoziare un po’ di spazio in Europa, che ovviamente non otterrà, e soprattutto per raccattare consensi in un elettorato spaurito, impoverito e ignaro delle vere poste in gioco. Naturalmente, con la connivenza dei grillini al governo, che fanno la parte dei poliziotti buoni, se non dei gonzi. E così africani e asiatici muoiono in mare, se sono scampati ai trafficanti in Niger, alle bande armate in Libia e alla guardia costiera di Tripoli. Più di cento solo il 28 giugno, mentre Salvini chiudeva i porti e ruggiva contro Malta. E gli altri, i salvati? Posta di ridicoli conflitti tra staterelli europei, che si illudono di contare qualcosa come ai tempi della regina Vittoria o del Kaiser, migranti e rifugiati saranno palleggiati tra leader piccolissimi che blaterano di taxi del mare, missioni di civiltà, identità nazionali e frontiere da difendere contro le invasioni. Esseri di carne e sangue come noi, i migranti, persi nelle terre di nessuno, morti assiderati, reclusi sine die nei campi di concentramento. I capetti europei pensano di essere realistici, ma stanno gettando le basi di un declino inarrestabile, mentre le vere potenze egemoni nel mondo osservano ghignando. Migranti. Le inutili inchieste sulle Ong di Roberto Saviano L’Espresso, 1 luglio 2018 La magistratura oggi si trova di fronte a un bivio e ci si trova perché in tempi di barbarie nessuno può chiamarsi fuori. La magistratura mai è stata osservatrice distratta, e sempre ha interpretato l’evoluzione della società su nuovi diritti che non erano scritti, ma che di fatto andavano sanciti, difesi e possibilmente introdotti. È grazie a sentenze illuminate se in Italia l’istituto giuridico della stepchild adoption, che consente al figlio di essere adottato dal partner del proprio genitore, di fatto esiste. È anche grazie alla magistratura - oltre che all’impegno costante dell’Associazione Luca Coscioni - se casi come quello di Píero Welby, Eluana Englaro e dj Fabo hanno fatto irruzione nelle nostre vite quotidiane mostrando quanto sia legittimo pretendere una morte dignitosa. Lo scorso anno il Procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, apriva un fascicolo conoscitivo sulle sette Ong che, con tredici navi, battevano í mari intorno alla Sicilia. La prima volta che ascoltai le parole di Carmelo Zuccaro fu durante un’intervista rilasciata a Matrix, ad aprile 2017. Parlò, cito testualmente, di “Ong che nascono dal nulla e che dimostrano di avere disponibilità di denari per il noleggio delle navi, per acquisto di droni ad alta tecnologia, per la gestione delle missioni, che ci sembra molto strano che possano avere acquisito senza avere un ritorno economico”. Zuccaro disse di ritenere che le Ong agissero “per facilitare il lavoro delle organizzazioni”, cosa che a Luigi Di Maio, cui da tempo consigliavano di virare sui migranti per avere maggiore consenso - e questo la dice lunga su come (non) funziona l’informazione in Italia - non parve vera. Aveva finalmente una sponda autorevole e infatti chiunque dicesse che Di Maio stava giocando con la vita delle persone (fu proprio lui il primo a farlo, definendo le Ong “Taxi del mare”; poi venne Minniti e in ultimo Salvini) aveva in risposta: “Lo dice la magistratura”. Il rischio è che, nel silenzio generale, questo atteggiamento possa essere letto come la posizione di tutta la magistratura e strumentalizzato per condurre una campagna di odio del tutto infondata sulle Organizzazioni non governative che per anni hanno affiancato gli Stati nazionali aiutandoli nei soccorsi in mare, salvando vite umane. Eppure la sorte ha voluto che Carmelo Zuccaro, dopo aver gettato “sospetti sulle Ong”, dopo aver fatto danni enormi e aver messo a rischio migliaia di vite umane, inventando peraltro di sana pianta una inesistente ipotesi associativa al solo scopo di trattenere una competenza a investigare che non aveva, sia stato smentito non da me, ma dall’esito di indagini condotte da suoi colleghi magistrati che non cercano, come lui, visibilità, o il plauso di una parte politica; da magistrati che fanno il loro lavoro. Il 16 aprile 2018 arriva il primo provvedimento ufficiale che demolisce il teorema Zuccaro, prima il gip di Catania e poi il Tribunale del Riesame di Ragusa mettono due punti fermi: per i migranti “la scriminante dello stato di necessità rimane in piedi” e soccorrere le persone in mare non è reato. Inoltre - scrive il Tribunale del riesame di Ragusa - le Ong soccorrono senza che sussista alcun tornaconto, di nessuna natura, tantomeno economico. Il 15 giugno arriva il secondo provvedimento ufficiale: il gip di Palermo archivia un’altra indagine aperta un anno fa a carico di Sea Watch e Proactiva Open Arms in seguito a segnalazioni che ipotizzavano legami tra l’equipaggio delle Ong e i trafficanti libici. Dopo un anno le indagini hanno “smentito del tutto l’assunto investigativo”. Quindi non è vero niente: Zuccaro ha spacciato per prove quelle che erano solo sue supposizioni che, per il loro tempismo e per l’ampia copertura mediatica, generano più di un sospetto. Nel silenzio bisogna forse ritenere che la posizione di tutta magistratura sia quella di Carmelo Zuccaro? Di recente, il Procuratore della Repubblica di Catania ha affermato che la magistratura può condizionare le politiche migratorie, ed è esattamente quello che lui ha provato a fare andando ben oltre le sue funzioni e i suoi limiti. Eppure, quando Zuccaro, occupandosi di Ong e di flussi migratori, resta all’interno delle sue funzioni e dei suoi limiti, accumula sempre e solo fallimenti. Per la magistratura, difendere l’indipendenza connessa al proprio ruolo, significa oggi fare resistenza, resistenza alla barbarie. Libia. Mezzo milione di immigrati subsahariani nei campi in mano alle milizie di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2018 L’inferno dei centri di detenzione “privati”, solo poche migliaia assistiti dall’Onu. Almeno mezzo milione di immigrati subsahariani si aggirano come fantasmi in Libia. Di questi circa 80 mila sono rinchiusi dentro i centri di detenzione co-gestiti da autorità libiche e organizzazioni umanitarie occidentali, ma soprattutto sono dentro le galere dei campi di prigionia locali che puntellano tutta la Libia. Di questi lager privi di “occhi internazionali” ce ne sarebbero una settantina, da Nord a Sud. Un serbatoio di disperati la cui unica chance è pagare i carcerieri per scappare e tentare la fortuna via mare. Le cento vittime del naufragio di venerdì provenivano in parte da questi buchi neri, gli altri erano cani sciolti, nascosti o costretti a lavori terribili per raggranellare il denaro necessario per pagare gli scafisti. Secondo fonti vicine alle organizzazioni umanitarie, ci sono circa 5-600 mila persone pronte a buttarsi nel Mediterraneo. Tra loro sono una minoranza quelli ad oggi rinchiusi nei centri di detenzione “ufficiali”. Nell’area tripolitana erano otto fino ad alcune settimane fa, adesso sono ridotti a sei con la chiusura obbligata di Sabratha e Gharyan per motivi di sicurezza. In realtà quelli più utilizzati sono Trik al-Sikka, Trik al-Matar e Tajoura (l’unico dei tre fuori città, a due passi dalla costa e da al-Hmidiya, dove sono stati riportati a terra i pochi superstiti, una ventina). Questi centri sono al collasso, potrebbero ospitare 1.500 migranti, ma, soprattutto nei primi due, ce ne sono il doppio. Le condizioni non sono le stesse dei campi “non ufficiali” e questo grazie alla presenza dell’Unhcr (Onu) e delle organizzazioni internazionali, ma la vita lì dentro è comunque difficile. Di sicuro durante la visita di lunedì scorso il ministro degli Interni, Matteo Salvini, non ha visitato né i secondi e né tantomeno i primi. Nel suo video postato su Facebook, Salvini ha mostrato un safe shelter, una costruzione securizzata per politici e militari di spicco in caso di pericolo, facendola passare da campo di detenzione. Aria condizionata, frigobar, ambienti tinteggiati di bianco: nessuna di queste dotazioni, assicurano gli addetti ai lavori sul posto, è presente nei centri per migranti. A Salvini però è bastato per liquidare come “retorica” le denunce di violenze e torture sui migranti contenute anche nei rapporti Onu dei mesi scorsi. Bande di criminali comuni, milizie con arsenali pesanti, organizzazioni di scafisti, gruppi terroristici. Ecco con chi ha a che fare il governo della Tripolitania di Fayez al-Sarraj e con chi, necessariamente, dovrà stringere accordi di convenienza il nuovo governo italiano. Nel passaggio da Gentiloni a Conte e, soprattutto, da Minniti a Salvini, qualcosa andrà ridiscusso. Solo nel distretto di Tripoli ci sono una decina di milizie, alcune dispongono di eserciti fino ad 800 soldati pronti a tutto e armati fino ai denti, come la Brigata Salah al-Marghani, al-Erka Asadisa e la Brigata al-Fany. Quest’ultima ha preso il controllo e stabilito la sua base dentro una prigione. A Tripoli gli accordi di non belligeranza possono saltare per piccole scaramucce o per un torto subìto. Do ut des, io ti lascio controllare quel traffico, tu mi tieni buoni i soldati nervosi di quella milizia a volte ostile. È successo a inizio anno all’aeroporto Mitiga di Tripoli, quando gli uomini del gruppo di al-Bakra hanno propiziato uno scontro a fuoco, con un bilancio di una decina di vittime. Fedeli al governo, non avevano mandato giù uno sgarbo e quella era stata la loro reazione. Martedì scorso uno dei vicepremier di al-Sarraj ha rischiato di essere rapito da un gruppo minore durante il tragitto verso Mitiga. Le milizie sono una cosa; il loro obiettivo è aumentare la potenza e il controllo del territorio per poi barattare ricchezze e risorse con la controparte di turno. Del traffico di migranti interessa fino ad un certo punto, se non come moneta di scambio. Sopra le barche da buttare tra i flutti del Canale di Sicilia ce li mettono le bande di criminali dedite a questo specifico settore. Chi li deve salvare, in prima battuta, è la Guardia costiera libica, la cui dotazione navale è nettamente migliorata dopo gli sforzi dell’ex ministro Minniti. Motovedette, aiuto logistico, formazione, addirittura nuove divise. Il soccorso ritardato di venerdì ha suscitato perplessità, ma in generale il livello di operatività è aumentato. E l’Italia prepara nuovi aiuti. Stati Uniti. La grande marcia per i bimbi separati dai genitori di Arturo Zampaglione La Repubblica, 1 luglio 2018 Al grido di “Le famiglie devono restare unite” la protesta di centinaia di migliaia di americani. Trump era al golf resort. Al grido di “Families belong together” (Le famiglie devono rimanere unite) centinaia di migliaia di americani sono scesi ieri in piazza, in ogni angolo del paese e sfidando un’ondata di caldo torrido, per protestare contro Trump e la sua “tolleranza zero” sull’immigrazione, che ha portato alla separazione in massa dei figli dei migranti dai genitori. Nei centri di detenzione federali restano infatti più di 2mila bambini “soli”, senza notizie e traumatizzati. “Dobbiamo cambiare le leggi sull’immigrazione”, ha detto ai manifestanti di Boston Elizabeth Warren, la senatrice della sinistra democratica, regolarmente attaccata da Trump. A New York un grande corteo ha attraversato il ponte di Brooklyn, mentre a Chicago una folla lunga quasi due chilometri le vie del centro. L’epicentro della protesta è stato a Washington, dove l’appuntamento era in un parco poco distante dalla Casa Bianca (anche se Trump nel suo resort golfistico in New Jersey, per il ponte del 4 luglio, festa dell’indipendenza). Lì, nella capitale, l’attrice America Ferrera, nata in Honduras, ha ricordato i drammi dei migranti, mentre Lin Manuel-Miranda, star dello show Hamilton ha intonato una melanconica canzone di protesta. “I bambini non devono stare in gabbia”, era scritto sui cartelli, “I nazisti separavano le famiglie, noi non lo faremo”. “Tutti costoro vogliono solo abolire l’agenzia per l’immigrazione, cui invece va il mio sostegno”, ha twittato Trump, falsificando la realtà. Sì, è vero che alcuni esponenti di sinistra, tra cui la Warren e la giovane “socialista democratica” Alexandria Ocasio-Cortez, che appena vinto una primaria a New York, chiedono il superamento degli organismo preposto all’immigrazione, ma la vera motivazione delle proteste è ben altra: il 67 per cento degli americani, secondo un sondaggio Cbs, considera “inaccettabile” separare i figli dei migranti dai genitori. La separazione era legata alla politica di “tolleranza zero” varata da Trump, che poi però, sull’onda delle proteste, ci ha ripensato. In teoria il governo dovrebbe procedere al ricongiungimento delle famiglie, imposto anche da una sentenza di un giudice. Ma per il momento tutto è fermo. L’ipotesi più probabile è che nel futuro le famiglie di migranti arrestate alla frontiera saranno detenute, senza essere separate, in basi militari del Pentagono. Ma per il momento 2047 bambini restano in gabbia. Mauritania. Due attivisti contro la schiavitù in carcere da due anni di Riccardo Noury Corriere della Sera, 1 luglio 2018 Oggi e domani i capi di stato dell’Unione africana si riuniscono per il 31° vertice a Nouakchott, la capitale della Mauritania, il paese dove gli apostati possono essere condannati a morte e vengono messi in carcere gli attivisti che lottano contro la schiavitù - ufficialmente abolita ma di fatto massicciamente praticata. In vista del vertice, Amnesty International ha raccolto decine di migliaia di firme nel mondo per chiedere al presidente mauritano Mohamed Ould Abdel Aziz di rilasciare Moussa Biram e Abdallahi Matallah Saleck, detenuti da due anni e sottoposti a tortura. L’organizzazione per i diritti umani ha inoltre chiesto ai leader africani di non rimanere in silenzio di fronte alle gravi violazioni dei diritti umani in atto nel paese che li ospita. Moussa Biram e Abdallahi Matallah Saleck sono stati arrestati il 29 giugno 2016 a Nouakchott, a seguito di una protesta contro una serie di sgomberi forzati cui, peraltro, non avevano partecipato. Torturati nei primi giorni di detenzione segreta, il 23 novembre 2016 sono stati condannati a tre anni di carcere, uno dei quali sospeso, per incitamento alla rivolta e ribellione contro il governo. Nel corso del processo, la pubblica accusa non è stata in grado di presentare una singola prova sui loro presunti reati. Amnesty International ritiene che Moussa Biram e Abdallahi Matallah Saleck siano stati condannati solo a causa della loro militanza nel movimento antischiavista. Dopo il processo, Moussa Biram e Abdallahi Matallah Saleck sono stati trasferiti in una prigione situata a 1200 chilometri dalla capitale, che di solito ospita i condannati a morte e che non prevede visite di avvocati e familiari. Il governo mauritano continua ostinatamente a negare l’esistenza della schiavitù e a incarcerare chiunque osi sfidare la versione ufficiale. Dal 2014. Amnesty International ha documentato almeno 168 casi di arresti arbitrari di attivisti contro la schiavitù, 17 dei quali sottoposti a torture.