Dal carcere si può combattere la criminalità con la forza delle testimonianze Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2018 La voglia di capire, il rispetto delle vittime. Riguardo al tema della criminalità organizzata, nella redazione di Ristretti Orizzonti facciamo un lavoro complicato, che non sempre è compreso, perché lavoriamo con le persone che sono responsabili di crimini legati a questo tipo di criminalità e talvolta il nostro tentativo di comprendere l’origine di quelle scelte criminali, l’ambiente in cui si sono sviluppate, la subcultura che le ha ispirate, viene confuso con la volontà di giustificare. Ma è proprio nel giorno dell’anniversario dell’assassinio del giudice Borsellino e della sua scorta che vogliamo proporre le parole di un ergastolano, T.R., per far capire in cosa consiste il nostro lavoro di prevenzione e di lotta nei confronti di modelli di vita basati sulla violenza e sulla criminalità. La Redazione Sono condannato all’ergastolo per reati collegati al crimine organizzato, raccontarvi dei reati per cui sono stato condannato non vi servirebbe a nulla, invece vi parlo di come dei ragazzini hanno imboccato la via del non ritorno. Sono nato a Reggio Calabria, la via dove sono nato dava il nome al mio quartiere, che era molto grande e popoloso. Quando avevo 12-13 anni, come la maggior parte dei ragazzini del mio quartiere, passavo il tempo libero in strada, allora non esistevano ritrovi culturali e nemmeno si stava in casa, perché non esistevano i giochi elettronici di oggi o altri modi di occupare il tempo. Di recente un magistrato dell’antimafia che ha lavorato per anni nella Locride ad un nostro convegno ha dichiarato che su 83 comuni della provincia di Reggio Calabria, 81 non hanno i servizi sociali a tutt’oggi. Ai miei tempi era molto peggio, si era creata una grande distanza tra la gente e le istituzioni, perché la maggior parte della popolazione era impregnata di una certa subcultura. Subcultura che influenzerà la vita di molte generazioni facendo avvicinare, e di molto, la gente a persone, che allora nessuno chiamava criminali, perché la gente si rivolgeva a loro per qualsiasi problema. Sicuramente quelle persone non erano un ente benefico, anzi agivano solo per un loro interesse, ma quella subcultura aveva portato la popolazione ad accettare anche la violenza, la giustificavano come la conseguenza di un atto di giustizia. A noi ragazzini capitava spesso di assistere ad episodi violenti, per noi era diventata la normalità. Noi commentavamo cosa facevano i grandi del nostro rione e cercavamo di imitarli, i primi passi sulla strada maledetta sono cominciati quando i grandi per tenerci impegnati ci davano delle mansioni, una era di passare tutti i giorni dal carcere che era situato nel nostro quartiere per vedere se i detenuti volevano qualcosa. Molti del nostro quartiere erano detenuti, noi ci avvicinavamo sotto le finestre che davano sulla strada e quasi sempre qualcuno di loro si affacciava dicendoci qualcosa del tipo “vai da mia madre e dille di portarmi una tuta al colloquio”, devo dire che quasi tutta la gente che passava dalle vicinanze del carcere se sentiva fischiare i detenuti si fermava per vedere di cosa avevano bisogno. Si fermavano perché le richieste che arrivavano dal carcere venivano viste come una richiesta di aiuto, chi non lo faceva veniva allontanato dal resto della gente. L’altra mansione era di risolvere i piccoli problemi della gente del nostro rione, così all’età delle scuole medie quasi tutti quelli che vivevano nel quartiere si rivolgevano a noi ragazzini per piccoli problemi, quasi sempre era perché avevano subito qualche furto. Allora a noi le nostre sembravano buone azioni, invece quelle piccole cose ci avvicinavano sempre di più al crimine, perché andare dai ladri e fargli restituire la refurtiva era una prova di forza, perché chi ruba non è contento di restituire il bottino, se lo fa è solo per paura. Di certo quei ladri non avevano paura di noi ragazzini, ma di chi c’era dietro di noi, infatti quando capitava che i ladri non ci davano ascolto si ritornava da loro insieme a uno più grande e i ladri diventavano disponibili. La gente del nostro quartiere ci definiva dei bravi ragazzini, e questo era il grande inganno, dal momento che quegli elogi della gente ci facevano più male che bene, perché ci convincevano sempre di più che il nostro agire era giusto. Nel mio rione all’età di sedici anni si era già grandi sia per le cose che avevi visto e sia per le cose che avevi fatto, perciò all’età delle scuole superiori ormai molti di noi erano irrecuperabili. Avevamo avvicinato come non mai la popolazione a noi consolidando con loro il patto che aveva alla base questa idea: voi potete contare su di noi per qualsiasi problema, ma dovete a vostra volta essere disponibili ad ogni nostra richiesta. Questo patto ci portò soldi e potere, questi due elementi sono come la droga, una volta che li hai conosciuti non puoi farne a meno, il potere molto spesso produce violenza. Da grandi anche noi siamo stati cattivi maestri, perché passavamo un po’ del nostro tempo con i ragazzini che avevano preso il nostro posto per strada per dargli i soliti consigli e le solite mansioni. Siamo cresciuti con la convinzione che quel modo di vivere era giusto, non abbiamo avuto nessuna possibilità di riflettere sulla nostra vita, perché fin da piccoli conoscevamo solo quel mondo e da soli era impossibile capire che il nostro mondo era sbagliato, nessuno ha fatto niente per aiutarci, forse perché allora era una rarità chi andava contro corrente. Di quei ragazzini per la maggior parte siamo finiti in carcere, molti condannati all’ergastolo, alcuni più sfortunati sono stati uccisi, perché il potere crea odio e violenza. Oggi riesco a darmi la responsabilità del mio destino, ma solo perché in questi ultimi quattro anni di detenzione ho avuto la fortuna di intraprendere un percorso di reinserimento, partecipando ad attività come il progetto di confronto fra le scuole e il carcere. Incontrarmi con la società esterna mi ha aperto la mente, facendo nascere in me sentimenti positivi e costruttivi. Sono da 25 anni in carcere, ma tutti gli anni che ho trascorso da detenuto, prima di intraprendere il percorso di reinserimento, anni fatti di una carcerazione repressiva, non sono serviti a niente, per l’esattezza sono 21 anni, prima di arrivare a Padova, perché quel tipo di carcerazione, solo di contenimento e non di reinserimento, produce gli stessi effetti devastanti di quella subcultura di quando eravamo fuori, odio e violenza, perciò è vitale per la persona detenuta essere accompagnata in un percorso di cambiamento. T.R. Riforma, si discute su lavoro penitenziario e giustizia riparativa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 luglio 2018 Mentre agli inizi di luglio entrambe le Commissioni Giustizia hanno approvato un parere contrario allo schema di decreto legislativo di riforma dell’ordinamento penitenziario, bocciando così l’impianto principale del testo della riforma Orlando che prevede l’implementazione delle pene alternative, l’assistenza sanitaria e la modifica del 4bis, si aspettano ora i pareri sugli ulteriori tre decreti attuativi, cioè quello in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario, in tema di esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni e per finire quello sulla giustizia riparativa. Tre decreti che ancora devono concludere l’iter di approvazione. Parliamo di decreti che l’attuale governo non intenderebbe bocciare, ma modificare ulteriormente. Nel caso accadesse, poi dovranno essere trasmessi al Consiglio dei ministri per l’approvazione finale. Però il tempo stringe visto che la procedure di esercizio della delega, scade il 3 agosto. Lavoro penitenziario - La settimana scorsa le commissioni hanno cominciato a esaminare i decreti. Al Senato, la relatrice Bruna Piarulli del M5S (ex direttrice del carcere di Trani) ha relazionato sullo schema di decreto in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario. Ha ricordato che il provvedimento dà espressa attuazione in particolare ai principi di delega fra i quali quelli di cui alla lettera g) sul lavoro intramurario; alla lettera h) relativo al volontariato e alla lettera r) sul trattamento penitenziario. Anche se non espressamente richiamato, il provvedimento dà attuazione anche al principio di cui alla lettera v) sulla libertà di culto. Passando al merito del provvedimento la Relatrice segnala che la lettera a) del comma 1 dell’articolo interviene in primo luogo sull’articolo 5 dell’ordinamento penitenziario per rendere gli istituti penitenziari degli insediamenti integrati, nei quali si possano svolgere tutte le attività che caratterizzano la vita quotidiana all’esterno. La disposizione modificata prevede che, pur nel pieno rispetto delle esigenze di sicurezza, gli edifici siano dotati di locali per lo svolgimento di tutte le attività che integrano il trattamento, incluse quelle di socializzazione. Piarulli ha fatto presente che nella relazione illustrativa si rileva come tali modifiche siano legate anche all’esigenza di coordinare le previsioni in questione con la nuova disciplina - prevista dall’Atto del governo n. 17 - in materia di colloqui familiari e con i minori di cui all’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario. Si è soffermata poi sulla disposizione della lettera b) che modifica poi l’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario che delinea le caratteristiche generali dei locali di detenzione. Il provvedimento confermerebbe - a suo avviso - i requisiti di adeguatezza già richiesti dalla legge vigente e cioè: ampiezza sufficiente, illuminazione con luce naturale e artificiale, tale da permettere il lavoro e la lettura, aerazione, riscaldamento, dotazione di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale, buono stato di conservazione e di pulizia. Per quanto riguarda il lavoro penitenziario, la relatrice entra nel dettaglio. L’articolo 2 - in attuazione del criterio di delega di cui alle lettere g) e h) - reca modifiche agli articoli da 20 a 25- bis dell’ordinamento penitenziario in materia di lavoro penitenziario. In proposito si evidenzia che con riguardo all’articolo 20 dell’ordinamento penitenziario, si estende anche ai soggetti ospitati nelle Rems, quali strutture nelle quali sono eseguite misure privative della libertà, la possibilità di fruire dell’elemento trattamentale del lavoro; ha specificato che l’amministrazione penitenziaria può organizzare e gestire attività di produzione di beni o servizi, sia all’interno che all’esterno dell’istituto. La relatrice ha evidenziato come si elimini la previsione del lavoro come “obbligo”, atteso che la previsione di un tale obbligo stride con il principio del libero consenso al trattamento penitenziario, quale necessario presupposto per l’effettivo successo del percorso di reinserimento del condannato; si ridisegni la composizione della commissione istituita presso ogni istituto penitenziario per l’avviamento al lavoro. Poi è entrata nel dettaglio dei lavori di pubblica utilità, sottolineando come il numero e la qualità dei progetti promossi dagli istituti penitenziari debbano costituire titolo di priorità nell’assegnazione agli stessi dei fondi erogati da Cassa delle ammende. In caso di proficua partecipazione ai progetti di pubblica utilità, attestata dal gruppo di osservazione e trattamento, la detrazione di pena pari a 45 giorni per ogni singolo semestre di pena scontata è aumentata nella misura di un giorno per ogni cinque giorni di partecipazione al progetto. Per ogni semestre di detenzione tale maggiore detrazione non può comunque eccedere i quindici giorni. Giustizia riparativa - Mentre per il lavoro, i relatori non hanno avuto nulla da obiettare, qualche modifica invece è stata suggerita per quanto riguarda la giustizia riparativa. Sempre alla commissione del Senato, il relatore leghista Simone Pillon ha sollecitato innanzitutto una preliminare e più generale riflessione sulla mediazione in ambito penale e sulle sue finalità, auspicando di uscire da una rappresentazione reo- centrica del diritto penale, ponendo invece al centro le esigenze della vittima del reato. Evidenzia il duplice obiettivo della giustizia riparativa: da un lato, il riconoscimento della sofferenza patita dalla vittima per il male subito da parte del reo e, dall’altro, la necessaria riparazione del danno subito. Ricorda come in linea con tale assunto si collochi anche la stessa normativa dell’Unione europea. La Direttiva 2012/ 29/ UE, che costituisce l’architrave della legislazione europea a tutela delle vittime di reato, infatti, nel fornire una definizione di giustizia riparativa, impone agli Stati membri di adottare misure che assicurino alla vittima accesso a servizi di giustizia riparativa sicuri e competenti, prevedendo anche misure che proteggano le vittime dai rischi di una vittimizzazione secondaria e ripetuta o da eventuali intimidazioni e ritorsioni. Ha evidenziato come la giustizia riparativa europea sia “pensata” intorno alla vittima. Rileva quindi come l’intero impianto legislativo sembrerebbe fondarsi - invece - su una diversa concezione della giustizia riparativa, eccessivamente orientata al ravvedimento e al recupero del reo, autore del reato, e poco attenta alla posizione della persona offesa dal reato stesso e alla “riparazione” del torto da essa subito. Passando al merito, Pillon ha ricordato che il provvedimento si compone di 9 articoli suddivisi in 3 Capi. Il Capo I (articoli 1- 3), reca le disposizioni generali. L’articolo 1 fornisce, anzitutto, la nozione di “giustizia riparativa” quale procedimento cui partecipano la vittima, l’autore del reato e, ove possibile, la comunità che - con l’apporto di un mediatore penale professionista - mirerebbe a comporre il conflitto generato dal reato e a ripararne le conseguenze. Evidenzia quale criticità il fatto che la disposizione non fornisca la nozione di “vittima”, dovendosi quindi riferire alla sola persona offesa dal reato, propone pertanto un’interpretazione estensiva di tale nozione che comprenda anche il danneggiato dal reato. Nel frattempo, ieri, durante le audizioni alla commissione del Senato, è stato ascoltato padre Francesco Occhetta, redattore di Civiltà Cattolica, che ha sottolineato l’importanza delle giustizia riparativa spiegando che “non è negoziazione, non è risarcimento, non è prestare volontariato sociale nel carcere e fuori, non è diventare collaboratori di giustizia, non è il premio della messa alla prova o dell’applicazione delle misure alternative. Ma è un modello culturale”. Corrispondenza del detenuto: il confine tra rieducazione e istinto di sopravvivenza di Daniel Monni pressenza.com, 19 luglio 2018 La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28309 del 5 aprile 2018, ha ritenuto legittimo il trattenimento di una missiva indirizzata dal detenuto ad una congiunta, precisando che “sia in ragione della finalità del regime differenziato di cui all’art. 41 bis ord. pen., sia di quella della limitazione della corrispondenza di cui all’art. 18 ter ord. pen., per il mancato inoltro della corrispondenza non è necessaria la prova della commissione di reati o della pericolosità della missiva, ma è sufficiente il ragionevole timore di un pericolo per l’odine e la sicurezza degli istituti”. Nel caso concreto “F. [detenuto] aveva chiesto a B. di inviare una somma di euro 200 al proprio legale per la iscrizione al partito radicale; in realtà era quasi certo che la somma fosse indirizzata a sostenere l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, in aggiramento del divieto imposto da una circolare del D.A.P.”: quest’ultima circolare, infatti, vietava rapporti epistolari tra i detenuti sottoposti al regime 41bis e l’associazione, al dichiarato fine di evitare l’insorgere di proteste da parte della popolazione carceraria. Uscendo dal caso concreto, occorre sottolineare che il Magistrato di Sorveglianza, nel momento in cui si trova ad operare censure o controlli sulla corrispondenza dei detenuti, è chiamato a rinvenire un difficile punto di equilibrio tra la tutela della libertà inviolabile della corrispondenza, sancita dall’art. 15 Costituzione, e le esigenze di sicurezza. La difficoltà insita in tale compito è ben esemplificata da un altro recente caso giurisprudenziale, nel quale il Magistrato di Sorveglianza di Sassari disponeva il blocco di una missiva inviata da un detenuto alla nipote per il fatto che la lettera risultava redatta in inglese: si riteneva, infatti, che “la traduzione e, se del caso, la conveniente decrittazione della corrispondenza dalla lingua straniera […] non costituiscono attività, allo stato dell’organizzazione della struttura penitenziaria, pacificamente realizzabili in via routinaria, dovendo invece ritenersi che tali operazioni possano, in ragione dei mezzi e del personale concretamente a disposizione di singoli plessi penitenziari, anche integrare ostacolo non ordinariamente superabile”. Le ragioni di sicurezza, con buona pace dei diritti costituzionali, sembrano, in sostanza, orientare sempre e comunque molte delle pronunce intervenute in tale contesto. L’esigenza di sicurezza pare atteggiarsi come un vero e proprio “istinto di sopravvivenza” dell’ordinamento che, non appena viene solleticato, non tarda a manifestarsi ed a travolgere qualsiasi diritto del detenuto che sembri mettere in discussione l’esistenza dell’ordinamento. Nella libertà inviolabile della corrispondenza del detenuto, tuttavia, dovrebbe inevitabilmente inserirsi anche una riflessione sul concetto stesso di pena “tendente alla rieducazione del condannato”: sarebbe un errore, infatti, parlare di diritti nel contesto carcerario dimenticandosi della funzione della pena. Se è vero, ed è vero, che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato allora risulta difficile comprendere il blocco di una missiva in ragione del “ragionevole timore di un pericolo per l’ordine e la sicurezza degli istituti”. Una tutela “anticipata” dell’ordine e della sicurezza delle carceri, infatti, si ravviserebbe nella limitazione della corrispondenza giustificata da “un pericolo” concreto: già tale concetto, purtuttavia, si presterebbe a non facili valutazioni discrezionali del magistrato di turno. Parlare di “ragionevole timore di un pericolo”, però, significa “anticipare” l’anticipazione della tutela penale: un vero e proprio non sense frutto dell’istintualità giuridica. Allo stesso modo non si può condividere il blocco di una missiva per il semplice fatto che fosse redatta in lingua inglese: il carcere rieducativo non può porre alla base di un divieto la mancanza di personale o di strumenti idonei a tradurre una lettera scritta in lingua diversa da quella italiana. Il carcere, d’altronde, non deve essere, e non è, una voce del “bilancio giustizia” a costo zero: finché verrà visto in tale modo non potrà rispettare i principi costituzionali. La corrispondenza dei detenuti vive, pertanto, in una sorta di limbo tra la rieducazione della pena e l’istinto di sopravvivenza dell’ordinamento: un limbo figlio di un carcere che è “un’istituzione al tempo stesso illiberale, disuguale, atipica, almeno in parte extra-legale ed extra-giudiziale, lesiva della dignità della persona, penosamente e inutilmente afflittiva”. Come scriveva il Ferrajoli “di questa istituzione sempre più povera di senso, che produce un costo di sofferenze non compensato da apprezzabili vantaggi per nessuno, risulta ormai giustificato il superamento o almeno una drastica riduzione della durata sia minima che massima” e, si potrebbe aggiungere, risulta giustificato e necessario il superamento di censure e limitazioni fondate unicamente sul “timore di pericoli” e mere esigenze di sicurezza. La sicurezza non può e non deve essere il “grimaldello” col quale scardinare i diritti inviolabili dell’uomo poiché “dal primato della persona umana, proprio del vigente ordinamento costituzionale, discende, come necessaria conseguenza, che i diritti fondamentali trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti ad una restrizione della libertà personale i limiti ad essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione6”: il primato dell’uomo, in quanto essere vivente titolare di diritti e padrone della propria dignità, deve essere il faro capace di orientare le scelte penali rese, oggi più che mai, difficili dai venti politici e sociali che soffiano per agitare le acque, già mosse, del mare giuridico. Il ministro Bonafede: detenuti stranieri rimpatriati anche senza consenso Italia Oggi, 19 luglio 2018 Nel corso del question time, il guardasigilli ha detto che “sarà costante l’impegno all’incremento e all’accelerazione dell’entrata in vigore degli accordi bilaterali volti a consentire il trasferimenti dei detenuti condannati stranieri nei Paesi di origine, anche senza il consenso del detenuto stesso”. Detenuti stranieri allontanati dall’Italia anche senza il loro consenso. “Sul piano internazionale, data la presenza di un numero pari a 19.860 detenuti stranieri su un totale di 58.745 al 17 luglio 2018, sarà costante l’impegno all’incremento e all’accelerazione dell’entrata in vigore degli accordi bilaterali volti a consentire il trasferimenti dei detenuti condannati stranieri nei Paesi di origine, anche senza il consenso del detenuto stesso”. Così il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, nel corso del question time alla Camera. “Darò, inoltre, indicazioni alle competenti articolazioni ministeriali di assumere iniziative affinché i trattati e gli accordi già in vigore - tra i quali particolare attenzione va riservata, dato il numero di detenuti presenti nei nostri istituti, a quelli conclusi con Albania e Romania - possano esplicare nel modo più ampio possibile la loro portata applicativa, sinora non ancora soddisfacente sul piano statistico - prosegue. Sul fronte dell’edilizia penitenziaria occorrerà stimolare la collaborazione tra Ministeri competenti affinché sia potenziata la capienza complessiva del sistema carcerario in un’ottica di riduzione del sovraffollamento e, conseguentemente, di miglioramento delle condizioni di vita negli istituti”. Sulla prescrizione il ministro va piano: prima le assunzioni di Errico Novi Il Dubbio, 19 luglio 2018 “Le nuove norme sulle intercettazioni discusse con avvocati e giudici”, ribadisce, “pronto lo stop al decreto Orlando”. Che arriverà la settimana prossima con il Milleproroghe. C’è un passaggio breve, in apparenza innocuo, che il ministro Alfonso Bonafede fa diverse ore prima della mossa sulla legittima difesa. Riguarda la prescrizione. Parla su Rai 3, ad “Agorà”, e dice che “il peso della ragionevole durata del processo non può più scaricarsi sulle vittime” ma neppure “sugli imputati”. È lo stato, aggiunge, che deve farsene carico. E poi, certo, affonda il colpo con il suo vecchio pallino, quello del “reato prescritto” come evento non “ragionevole”, “inaccettabile per i reati gravi e i reati meno gravi”. Da frasi del genere sembrerebbe annunciarsi una riforma draconiana come quella, ipotizzata da Bonafede, della sospensione definitiva della prescrizione una volta pronunciata la sentenza di primo grado. Ma quel riferimento iniziale esteso anche “agli imputati” che, come le vittime dei reati, non possono pagare il prezzo di processi dalla durata irragionevole, nasconde anche un’idea meno sbrigativa. Senza dirlo, il ministro della Giustizia si riferisce a un’affermazione fatta fin dai suoi primi giorni a via Arenula e ripetuta nella doppia audizione della scorsa settimana davanti alle commissioni Giustizia di Camera e Senato: quella secondo cui a un eventuale intervento sui termini di estinzione dei reati va affiancata la velocizzazione dei processi, attraverso immissioni di nuove unità di magistrati e, soprattutto, di personale amministrativo. Non a caso ieri, nel successivo question time a Montecitorio, Bonafede ha annunciato di aver dato “preciso mandato agli uffici di apprestare quanto necessario per la definizione dello scorrimento delle 420 unità di assistente giudiziario individuate dalla graduatoria dell’ultimo concorso”. L’immissione dei neoassunti arriverà ai primi di agosto: il nesso tra prescrizione e assunzioni dà l’idea di un percorso che sarà quanto meno assai lungo. Sul tema dei termini processuali il ministro ha ripetuto che quello di sospendere tutto una volta dopo il primo grado di giudizio è “un punto di partenza”. Va tenuto conto che nel programma sottoscritto con la Lega si parla di riforma della prescrizione in modo assolutamente generico. E che comunque Bonafede dà l’impressione di non voler fare riforme a colpi di decreto. Anche sulle intercettazioni ha tenuto a dire ieri in tv, ascolterà “magistrati e avvocati” per riscrivere la norma. Intanto chiarisce che “è pronto il provvedimento di blocco” del decreto Orlando. Poco dopo sarà il ministro ai Rapporti col Parlamento Riccardo Fraccaro ad aggiungere che il rinvio della riforma sarà inserito la settimana prossima nel Milleproroghe. Bonafede non procede come uno schiacciasassi, anche se ha idee molto restrittive sul processo penale. Peccato che tale opportuna cautela finisca per destinare al macero il nuovo ordinamento penitenziario: al question time pomeridiano Bonafede parla anche di carcere, ma solo riguardo alla “funzione rieducativa” della “detenzione”, non della “pena”. Resta convinto che il reinserimento del condannato si realizzi solo dentro gli istituti, non con le misure alternative. Non accoglie l’invito rivoltogli implicitamente, venerdì scorso, da Beppe Grillo. Magari anche in materia penitenziaria eviterà accelerazioni brusche. Ma intanto perderà l’occasione, forse irripetibile, di una riforma equilibrata e, soprattutto, imposta dalla Costituzione. Legittima difesa. M5S frena. Bonafede: “No alle armi libere” di Andrea Colombo Il Manifesto, 19 luglio 2018 I ddl incardinati in Commissione giustizia al Senato. I grillini chiedono approfondimenti. Nuovo fronte aperto tra Lega e M5S proprio mentre rischia di arroventarsi quello sul decreto dignità. Stavolta si parla di armi, anzi di “legittima difesa” e il capitolo figura in bella mostra nel “contratto”. Solo che i contraenti non avevano specificato cosa s’intendesse e il tempo per chiarirlo non c’è. La commissione Giustizia del Senato ha infatti di fronte un disegno di legge popolare in materia, al quale se ne sono ovviamente aggiunti altri tra cui quelli leghisti. Il tempo dunque stringe anche perché a norma di nuovo regolamento una legge d’iniziativa popolare va incardinata entro un mese e deve approdare in aula entro tre, con o senza conclusioni della commissione. Le scintille arrivano subito. Il Carroccio alla legge sull’uso delle armi ci tiene tanto da incaricare il presidente leghista della commissione, Andrea Ostellari, di fare anche da relatore. M5S però frena. Va in avanscoperta il senatore Urraro: “Necessaria analisi approfondita delle normi esistenti”. Rincara il guardasigilli Alfonso Bonafede prima di tutto rimarcando che la materia riguarda la giustizia e non la sicurezza: è quindi competenza sua e non di Salvini. Poi assicurando che non ci sarà “nessuna liberalizzazione delle armi”: una precisazione nella quale echeggiano i dubbi sorti anche tra i 5S per quello strano accordo pre-elettorale tra il leader della Lega e i venditori d’armi. Infine Bonafede sottolinea che sì, si rivedrà l’”eccesso di legittima difesa”, ma senza sacrificare “il principio di proporzionalità tra offesa e difesa”. Salvini si sbraccia per negare ogni dissenso: “Io e Bonafede siamo in piena sintonia. Non mi interessa il modello americano con le armi vendute in tabaccheria”. Il premier Giseppe Conte in divisa da pompiere accorre per spegnere l’incendio prima che divampi: “Non vogliamo incitare alla giustizia privata o all’uso delle armi. Però si sono create incertezze sul piano applicativo e giurisprudenziale della legittima difesa che non giovano ai cittadini”. In realtà quella di Conte è una posizione identica a quella di Bonafede, che aveva a propria volta accennato alla necessità di eliminare le “zone d’ombra” che gravano sulla “legittima difesa” del cittadino. Checché ne racconti Salvini quella di Conte e Bonafede è una minimizzazione in piena regola: giusto un chiarimento per evitare equivoci. Robetta. Il Carroccio ha tutt’altre intenzioni. Vuole che la legittimità di chi spara sia estesa anche agli esercizi commerciali e aziendali, mira a rendere molto più difficile la contestazione dell’eccesso di difesa. La divaricazione è netta e Forza Italia ne approfitta. Il partito azzurro dichiara a raffica, da Carfagna a Sisto, da Gelmini a Gasparri. Tante voci un’unica nota: M5S vuole disinnescare e rendere inutile uno dei principali punti che figuravano nel programma del centrodestra. E la Lega che fa? Già, che fa la Lega costretta ormai a misurarsi con i soci su tutti i tavoli, con il fiato di un partito azzurro, formalmente ancora suo stretto alleato pur se all’opposizione, che non perde occasione per bersagliare Salvini, fingendo di prendersela con i 5S, per accusarlo di cedere alla “cultura di sinistra” dei 5S? Per ora insiste nella strategia consistente nel negare l’evidenza e intanto nel trattare intrecciando i vari tavoli. In serata Bonafede minimizza anche lui: “Il governo è compatto. Daremo ai cittadini difesisi legittimamente la possibilità di non dover subire tre gradi di giudizio grazie a un testo chiaro”. Come la chiarezza possa evitare i tre gradi di giudizio senza illegittimamente difendersi dall’art. 27 della Costituzione però lo sa soltanto lui. Csm, grillini contro il “giglio magico” di Conte e Bonafede di Ilario Lombardo La Stampa, 19 luglio 2018 C’è come un rigurgito di nostalgia nelle parole di deputato del M5S Andrea Coletti, quando ricorda come quattro anni fa le nomine per i membri del Consiglio superiore della magistratura si facevano tutti assieme. “Erano davvero condivise. Ognuno portava un nome e poi si faceva l’assemblea congiunta tra i deputati delle commissioni Giustizia e Affari costituzionali per vagliare i curriculum dei candidati da mettere in votazione sul blog”. Tutt’altra cosa rispetto a oggi che a scegliere è stato chissà chi. Ma qualche sospetto nel M5S lo hanno covato se Colletti è arrivato a puntare due dei cinque nomi scelti per la votazione lampo sul blog di ieri. “Due professori universitari che vengono da Firenze, noto semplicemente...” spiega. Università, Firenze, avvocati, professori: in poche parole l’ambiente di provenienza sia del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (che ha preso il dottorato a Firenze) sia del premier Giuseppe Conte, docente universitario nel capoluogo toscano. Colletti si riferisce a Filippo Donati e a Edoardo Chiti, fiorentino ma ordinario di Diritto amministrativo alla Tuscia di Viterbo. Alla fine, dei cinque l’ha spuntata un non fiorentino: Alberto Maria Benedetti, ordinario di Diritto civile a Genova, ma “sono i vecchi metodi della consorteria toscana di Renzi” che contesta Colletti. Donati ha un’aggravante in più agli occhi dei grillini duri e puri: “Era uno dei costituzionalisti a favore della riforma costituzionale voluta da Renzi&Company, nonché percettore di incarichi Consip e da parte di alcune amministrazioni pubbliche toscane. Vorrei proprio sapere chi ha fatto questi nomi e con quali criteri”. Se chiedi ufficialmente ai deputati 5 Stelle della commissione Giustizia ti rispondono di non saperlo. Ma Colletti non parla solo per se stesso. Lui ha raccolto i malumori dei colleghi e di chi gli ha raccontato che i cinque nomi sono arrivati lunedì in busta chiusa dal ministro Bonafede e dal sottosegretario Vittorio Ferraresi nelle mani della presidente della commissione Giustizia Giulia Sarti, della capogruppo Angela Salafia e di Fabiana Dadone, tra gli altri deputati. “Molti avrebbero voluto una maggiore condivisione. E aggiungo che sarebbe stato preferibile non nominare professori universitari che fanno anche gli avvocati”. Cioè lo stesso doppio lavoro del premier. Più ampia la possibilità per la difesa di ascoltare le intercettazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2018 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 17 luglio 2018, n. 33046. Discovery ampia sulle intercettazioni da parte della difesa. La Corte di cassazione con la sentenza 33046della sesta sezione penale depositata ieri ha riconosciuto alla parte il diritto di accesso ai file audio su cui sono registrate le conversazioni intercettate, alla base dell’appello del Pm contro l’ordinanza del Gip che aveva respinto la richiesta di arresto di una persona sospettata di appartenenza a un’associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti. La Corte ha deciso così di assicurare il pieno svolgimento del contraddittorio, in una situazione in cui la difesa che pure, astrattamente, ha interesse a contrastare la richiesta della pubblica accusa, non ha tuttavia i mezzi per provocare in maniera diretta il controllo del giudice su alcuni profili, avendo ottenuto dal Gip una decisione favorevole. Il tribunale della libertà, investito dell’appello del Pm, mette in evidenza la pronuncia, assume poteri anche nel merito, essendo deputato alla verifica dell’esistenza di tutti i presupposti che possono giustificare l’emissione della misura cautelare. Il tribunale allora deve riesaminare dal principio tutta la vicenda cautelare e non limitarsi al suo riesame sulla base degli argomenti fatti valere dal pubblico ministero. In questo contesto allora, nella lettura della Corte di cassazione, la difesa deve potere intervenire su tutti i profili cautelari, riconducendo a razionalità un sistema che in caso contrario non permetterebbe una totale revisione critica del provvedimento preventivo. L’imputato in questo modo, attraverso un contraddittorio pieno e anticipato, può contrastare nel merito le posizioni dell’accusa, indipendentemente dal fatto che sia stata proprio l’accusa a impugnare la decisione del Gip e una misura cautelare non sia mai stata applicata. In alternativa, la difesa potrebbe proporre, anche mentre è pendente il ricorso per Cassazione, un’istanza di revoca per contestare l’esistenza sin dall’inizio dei presupposti per l’adozione della misura cautelare, chiedendo in quella sede di potere avere accesso ai file audio. È chiaro, però, puntualizza la sentenza, che il dritto all’acquisizione della copia delle intercettazioni può riguardare solo la parte messa a fondamento della richiesta di emissione della misura di detenzione preventiva e non per esempio intercettazioni che riguardano invece altre persone. Imperizia e imprudenza non escluse se il medico tenta più volte un intervento ad alto rischio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV - Sentenza 18 luglio 2018 n. 33045. Il giudice non può escludere l’imperizia e l’imprudenza del medico se il camice bianco insiste in una manovra, nonostante sia noto il rischio di tentarla più volte. La Cassazione (sentenza 33405/2018) accoglie il ricorso del Pm e delle parti civili contro l’assoluzione di un’anestesista, accusata di aver provocato la morte di bimbo di 17 mesi dopo aver tentato per sette volte di incannulare le vene del collo del paziente, pur in assenza di un rischio immediato di vita e nell’ambito di un intervento programmato. Per la Corte d’Appello l’omicidio colposo andava escluso per insussistenza del fatto. La Corte territoriale aveva escluso l’imperizia sulla base delle relazioni dei perito nominati dal Gip, che avevano evidenziato la grande difficoltà tecnica dell’incannulazione della giugulare e l’elevatissimo rischio di trombosi. Per la Cassazione però la motivazione non regge. La Suprema corte inizia con il considerare quale norma applicare al fatto, accaduto nel 2007, quando non erano in vigore né il decreto Balduzzi né la legge Gelli Bianco. I giudici escludono la possibilità di applicare la norma in vigore allora, perché meno favorevole in quanto priva di distinzioni sul grado di colpa. Chiariscono poi l’impossibilità di applicare l’articolo 560-sexies del Codice penale dettato dalla Gelli Bianco per la parte che riguarda le linee guida. La norma è, infatti, chiara nel subordinare l’operatività all’emanazione delle linee guida in base a un articolato iter di elaborazione (articolo 5 della legge 24/2017) che a tutt’oggi manca. L’applicazione dell’articolo 590-sexies dovrebbe dunque essere limitata alla parte in cui richiama le buone pratiche assistenziali. Per quanto riguarda la legge Balduzzi, la Cassazione sottolinea che questa escludeva la responsabilità penale solo in caso di rispetto “dell’arte medica”. La motivazione della Corte territoriale è dunque lacunosa nel non aver considerato se l’atto fosse, all’epoca dei fatti, oggetto di linee guida e cosa queste prescrivessero nel caso di un paziente del peso di poco più di sei chili. E in assenza di linee guida se esistessero delle buone pratiche clinico assistenziali. Per la Suprema corte il medico non poteva ignorare i rischi noti di una manovra che, a detta dei periti dell’accusa, era sconsigliato tentare più di due volte. Anche un’eventuale assenza di imperizia lascerebbe comunque in piedi la tesi dell’imprudenza. E seppur il reato sia prescritto, l’assoluzione è annullata per un nuovo verdetto agli effetti civili, nel quale dovrà essere valutato anche il grado di colpa. La consulenza tributaria senza abilitazione è esercizio abusivo della professione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 18 luglio 2018 n. 33464. Esercizio abusivo della professione di commercialista per il titolare di una società che svolge consulenza aziendale e tributaria senza abilitazione. La Cassazione (sentenza 33464/2018) respinge il ricorso contro la condanna a un mese di reclusione e al risarcimento danni in favore dell’Ordine dei commercialisti, parte civile nel processo a carico del “capo” di una Srl che esercitava abusivamente prestazioni per le quali era richiesta l’iscrizione all’albo. La Suprema corte respinge tutte le obiezioni della difesa. Per l’imputato, la Corte d’appello ha illegittimamente sottratto la generica attività di consulenza tributaria e aziendale al raggio d’azione della legge 4/2013 che ha liberalizzato le professioni senza albo. Il criterio da individuare, per la regolamentazione dello svolgimento dell’attività, era dunque quello della libertà di iniziativa economica, tutelata dall’articolo 41 della Costituzione, rispetto alla quale, sempre ad avviso del ricorrente, si doveva leggere la disciplina contenuta nell’articolo 33, quinto comma della Carta costituzionale, nella parte in cui subordina l’esercizio della professione al conseguimento dell’abilitazione. Un’ipotesi limitata soltanto alle professioni per le quali la legge prescrive l’iscrizione ad Albi a tutela della clientela. L’attività contestata sarebbe invece rientrata tra quelle liberamente esercitabili, in linea con la legge 4/2013. L’imputato sottolinea anche di aver informato i suoi clienti di essere privo di abilitazione e di agire in virtù di un’esperienza maturata con gli anni, evitando così di violare l’affidamento dei terzi come interpretato dalle Sezioni unite con la sentenza 11545/2012. Per finire, a riprova della buona fede, c’era l’autorizzazione a operare nel servizio telematico dell’agenzia delle Entrate. Tesi tutte respinte dalla Cassazione, che basa il suo verdetto proprio sui principi affermati dalle Sezioni unite nel 2012. Correttamente la Corte d’appello, per sostenere la rilevanza penale delle condotte contestate, ha analizzato i meccanismi con i quali lavorava la ditta. La Srl, priva di dipendenti e riconducile all’imputato, si relazionava direttamente con i clienti finali e nel suo centro studi aziendali non c’erano lavoratori abilitati. I giudici ricordano che l’abuso scatta in presenza di una pluralità di atti che, pur non riservati in esclusiva alla competenza specifica di una professione, “nel loro continuo coordinato ed oneroso riproporsi ingenerano una situazione di appartenenza evocativa dell’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato, con conseguente affidamento incolpevole della clientela”. In questo quadro è dunque ininfluente la pretesa, e non provata, avvertenza data ai clienti. Per la Cassazione bene ha fattola Corte territoriale a ricondurre le attività di tenuta della contabilità delle imprese e in materia di lavoro tra quelle che il Dlgs 139/2005, sulla “costituzione dell’ordine dei dottori commercialisti” riserva a questi ultimi. Lo stesso vale per le norme sull’ordinamento dei consulenti del lavoro dettate dalla legge 12/1979. Evasione fiscale: confisca ridotta d’ufficio per la rate pagate dopo l’accordo con il Fisco di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 18 luglio 2018 n. 33389. Il giudice, anche se l’evasore non lo richiede espressamente, deve ridurre d’ufficio la confisca in base alle rate pagate dopo l’accordo con il Fisco. La Corte di cassazione, con la sentenza 33389, accoglie, sul punto, il ricorso contro la mancata revoca “pro quota” della confisca messa in atto per un debito tributario. Un’iniziativa che il giudice non aveva assunto, malgrado all’udienza dibattimentale il difensore dell’imputato avesse presentato la documentazione che provava l’accordo raggiunto tra l’Agenzia delle Entrate e una Srl per la rateizzazione del debito contributivo che questa aveva accumulato. La Cassazione precisa che il giudice avrebbe dovuto agire d’ufficio, anche se il ricorrente non aveva fatto espressamente una richiesta, come risultava dal verbale di udienza, in merito alla revoca della disposta confisca. Un passo obbligato, previsto dal Dlgs 158/2015, che andava applicato anche se successivo all’atto di appello, in virtù del carattere penale sostanziale più favorevole. La norma (articolo 12-bis del Dlgs 74/2000, introdotto con il Dlgs 158) sbarra infatti al strada alla confisca per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro. La confisca al pari del sequestro preventivo a questa preordinato, può, infatti, essere adottata anche a fronte dell’impegno a pagare, ma ha effetto solo se il patto non viene rispettato. La dimostrazione del “versamento” avrebbe dovuto dunque indurre il giudice a valutare se la misura ablativa, nei limiti della somma fissata in primo grado, fosse ancora giustificata. I giudici ricordano che, in base alla giurisprudenza di legittimità, è pacifico che in caso di accordo perfezionato tra il Fisco e il contribuente la confisca per equivalente decisa per reati fiscali, va tagliata nella misura delle rate pagate. Diversamente si metterebbe in atto un’inammissibile duplicazione della sanzione in contrasto con il principio in virtù del quale l’ablazione definitiva non può mai superare il vantaggio economico conseguito con il delitto. Puglia: carceri, dati preoccupanti su sanità e sovraffollamento di Piero Rossi* e Massimo Corrado Di Florio** Il Foglio, 19 luglio 2018 Quella che emerge è una condizione generale complessiva, di sofferenza diffusa che, paradossalmente, attenua anche il confronto dialettico tra Amministrazione Penitenziaria e Ufficio del Garante, per la sostanziale condivisione di ogni aspetto riguardante il disagio dell’intera realtà regionale. Sono in ballo due aspetti critici complementari tra loro: il sovraffollamento e la scarsa assistenza sanitaria. Ma mentre il primo ha origine in una disattenzione amministrativa nazionale, la seconda, nell’ordinario, profila precise responsabilità regionali e locali (nelle singole Asl e nelle aziende ospedaliere) che però, sono un riflesso, ancora una volta, di inadempienze nazionali (cfr. la mancata deroga sulle dotazioni organiche, in riferimento alla riforma del 2006 sulla devoluzione della competenza in materia di medicina penitenziaria alle Regioni, questione oggetto della Conferenza Stato Regioni, in ambito sanitario). Il periodo corrente, come è noto, vede la Puglia al centro di una situazione di sovraffollamento che non può definirsi, tecnicamente, di natura emergenziale poiché invece si rileva un dato strutturale: da troppi mesi l’eccedenza si è ormai stabilizzata sul 50 per cento, in media (indice di sovraffollamento del 150 per cento). Il dato si aggrava ulteriormente a motivo del corrispondente calo progressivo e inarrestabile della pianta organica della Polizia penitenziaria: la Puglia ha subito, in un breve periodo, una fuoruscita di circa 500 unità complessive per sopravvenuto pensionamento. Il quadro è preoccupante e ci restituisce una situazione nella quale l’eccesso di presenze determina un sempre più complicato accesso alle opportunità trattamentali che fanno leva su quelle animative, culturali, scolastiche, sportive, formative e di avviamento lavorativo. Sono inadeguati ad una accoglienza con reali risvolti socializzativi (e quindi di osservazione e trattamento) anche gli spazi, sempre più carenti e sguarniti, con l’interminabile attesa di ristrutturazioni e rifacimento degli impianti. Anche il diritto fondamentale alla salute risulta privo di effettivo riconoscimento. Soprattutto quando si passa dalla fase della cura a quella della riabilitazione. L’emergenza psichiatrica, poi, sta raggiungendo i contorni dell’emergenza nell’emergenza. La detenzione femminile spesso sconta ulteriori elementi di “distrazione” e la quasi assoluta pretermissione del riconoscimento delle esigenze di genere. Sempre più frequentemente insorgono episodi di scompenso psichico nel corso dell’espiazione della pena. L’istituzione di una sezione ad evidenza psichiatrica nella Casa Circondariale di Lecce e la dedicazione di sporadici spazi negli altri Istituti, risultano insufficienti a fornire una risposta reale al fenomeno. È poi evidente che, una volta risolta la questione logistica, occorrerà implementare l’offerta professionale specialistica. La Rems di Spinazzola è formalmente di istituzione provvisoria, giacché sarebbe necessaria la individuazione di una sede definitiva. Quella di Carovigno sarebbe in procinto di essere trasferita in una sede di San Pietro Vernotico. In entrambi i casi i pazienti sono adeguatamente accolti, curati e coinvolti in numerosi progetti di animazione “animativa”, espressiva e culturale, anche col sostegno dell’Ufficio del Garante regionale. La questione psichiatrica continua a costituire una emergenza poiché in pochi isolati casi, alcuni soggetti per i quali è stata comminata la misura di sicurezza, in attesa di un posto disponibile presso una Rems (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), non hanno titolo ad essere astretti presso un istituto di pena, dove in effetti si trovano (un fenomeno che pare in netta regressione, considerato che fino alla fine dello scorso anno pareva connotarsi come una vera e propria emergenza). Si moltiplicano i casi di persone che patiscono un sofferenza psichiatrica insorta in corso di espiazione di pena. La sezione dedicata a Lecce, risulta essere avviata con buoni risultati ma vengono occupati soltanto la metà dei posti a disposizione. Negli altri istituti le “astanterie” psichiatriche risultano esigue e senza sufficiente presidio medico infermieristico. I casi di cosiddetta doppia diagnosi (tossicodipendenza associata a sofferenza psichiatrica) aggravano il quadro complessivo. Le strutture intermedie, denominate Crap (Comunità Riabilitativa Assistenziale Psichiatrica), sono insufficienti e tre di esse, tutte tra la provincia di Bari e Bat, sono concepite per un processo d’aiuto ai casi di acuzie. Allo stato, risultano prossime al varo altre tre strutture. Risulterebbe tuttavia necessaria la dedicazione di Crap a soggetti per i quali sia in corso un processo (che acclari l’effettiva capacità di intendere e volere). L’Osservatorio per la salute in carcere segna il passo, non si riunisce con la frequenza necessaria e non licenzia il piano regionale per la prevenzione del rischio suicidario e la commissione di atti auto lesivi. Occorre chiedere al Governo che rientri nell’agenda nazionale, tra i primissimi campi applicativi, la situazione del sistema penitenziario pugliese e che vengano considerate le fortissime flessioni di presenze di risorse lavorative e, per conseguenza, che, in attesa della ripresa dell’attività normativa in materia (con tutto il rimpianto di non aver conseguito il risultato di vedere definitivamente licenziato il nuovo ordinamento penitenziario), possa farsi luogo ad alcuni interventi d’urgenza. Tra questi, la destinazione di risorse professionali dedicate alla sicurezza, nonché all’area trattamentale, lo sblocco delle risorse di Cassa delle Ammende per l’immediata destinazione di finanziamenti che valorizzino le iniziative trattamentali possibili, il conferimento di poteri straordinari al Provveditore regionale, per l’immediato conseguimento dei risultati relativi alle ristrutturazioni in corso e alle implementazioni infrastrutturali. Alcuni esempi: Foggia presenta problemi si staticità strutturale in alcune sue parti e una ormai pluriennale carenza idrica; Trani ha sezioni in rifacimento e il riscontro di un problema serio all’impianto fognante; Bari ha in rifacimento la sezione femminile da almeno quattro anni; Brindisi è completamente priva di spazi per lo svolgimento di iniziative cosiddette di socialità; ad Altamura tutte le iniziative in plenaria si svolgono nella Cappella; a Taranto sono in corso lavori negli spazi dedicati all’accoglienza dei familiari in visita. Ovunque andrebbe impiantata (o implementata, a seconda dei casi) la dotazione tecnologica per la realizzazione di un controllo in remoto, spesso l’unico viatico per la realizzazione, ovunque, della cosiddetta vigilanza dinamica. In ogni caso gli spazi dedicati alle attività in gruppo sono carenti ovunque, ma con l’effetto paradossale che gli istituti spesso fruiscono di maggiori opportunità progettuali (animative, scolastiche, formative) di quante se ne potrebbero svolgere. In ultima ma non postrema analisi, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ben potrebbe analizzare la situazione del sovraffollamento, non più in chiave regionale bensì di macro-area, nella misura in cui, nel sostanziale rispetto complessivo del criterio della territorialità della espiazione della pena, persone astrette presso le Case Circondariali di Foggia, Lucera e San Severo, fossero trasferite negli istituti molisani e abruzzesi, i detenuti di Bari e Taranto, a Matera e Melfi, i detenuti di Taranto nella Casa Circondariale di Castrovillari. Occorre che la Regione Puglia invochi il riconoscimento di un vero e proprio stato di emergenza umanitaria. La situazione pare precipitare soltanto in concomitanza con episodi eclatanti in cui si perdono vite umane, come nel caso di suicidi o di degenerazioni di stati di morbilità acuti che esitano nella morte. Tuttavia, la tendenza a dimenticarsi del problema è fenomeno assai diffuso. È probabilmente giunto il momento di prendere coscienza che in questo momento stiamo perdendo l’occasione di restituire alla comunità sociale di appartenenza persone in grado di esserne riaccolte: perché rischiano di perdere la vita, perché rischiano di perdere la salute, perché rischiano di perdere la speranza. Non è neppure trascurabile il fatto che il tutto si svolge in un contesto ambientale e lavorativo pregiudizievole anche dei diritti di chi vi lavora, spesso alacremente e con altissimo spirito di sacrificio. E noi tutti, conseguentemente, come cittadini, ci vediamo minati nella consapevolezza di vivere in un vero Stato di diritto. L’espiazione di pena non è quello che attualmente viene inflitto agli astretti nelle carceri pugliesi, né sotto il profilo delle prescrizioni costituzionali, né per considerazione etica e morale e nemmeno per il più basico elemento di ragionevolezza. È più che evidente allora che la più volte annunciata “liquidità” delle relazioni tra gli uomini in tutte le sue più articolate declinazioni possibili abbia impresso una direzione, per così dire, priva di direzione. Un vero Stato di diritto non dovrebbe tollerare, non per tanto tempo - almeno -, simili crepe e/ o distorsioni del sistema. *Garante delle persone detenute della Regione Puglia ** Avvocato del Foro di Bari Lazio: inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, la Regione riapre il bando funweek.it, 19 luglio 2018 La Regione Lazio ha promosso un avviso pubblico per l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, nell’ambito del Por Fse 2014-2020, denominato “Interventi di sostegno alla qualificazione e all’occupabilità delle risorse umane: sostegno all’inclusione socio-lavorativa della popolazione detenuta”. L’obiettivo è quello di rafforzare l’integrazione sociale e lavorativa della popolazione detenuta, attraverso interventi che favoriscano percorsi di reinserimento sociale del condannato, nell’ambito della strategia per la coesione sociale del capitale umano dell’intero territorio regionale. Si tratta di realizzare una serie di progetti che hanno lo scopo di sostenere l’inclusione sociale e lavorativa dei detenuti, potenziando l’occupabilità grazie a percorsi di formazione professionale e di inserimento e reinserimento lavorativo. Saranno considerate le particolari condizioni di fragilità delle singole situazioni personali, mediante un set di azioni (orientamento, formazione, certificazione delle competenze, tirocinio, esperienze di lavoro) che permettono di sostenere la futura ed effettiva inclusione sociale e lavorativa dei detenuti. Inclusione sociale e lavorativa dei detenuti: ecco l’Avviso pubblico - È previsto il finanziamento di 2 Azioni che si attiveranno in fasi successive: la realizzazione di corsi di formazione (Azione 1) e in seguito di tirocini extracurriculari (Azione 2). L’iniziativa è cofinanziata con le risorse del Fondo Sociale Europeo del Por Lazio 2014/2020 ed è attuata nell’ambito Asse 2 - Inclusione sociale e lotta alla povertà. L’importo complessivamente stanziato è 627mila euro. Il presente Avviso disciplina la presentazione di proposte progettuali relative all’Azione 1. Il proponente dovrà dichiarare la propria disponibilità a svolgere un’attività di promozione per la realizzazione di tirocini extracurriculari (Azione 2) destinati ai detenuti indicati dagli Istituti penitenziari di riferimento. Questi tirocini saranno realizzati con ulteriori risorse previste all’interno del “Piano strategico per l’empowerment della popolazione detenuta”, in aggiunta a quelle indicate al paragrafo 7 dell’Avviso. Chi può presentare proposte progettuali? Operatori della Formazione, da soli o in forma associata (Ati/Ats), anche in partenariato con altri soggetti quali enti o associazioni di promozione sociale impegnati in progetti e/o percorsi di sostegno e accompagnamento al reinserimento sociale a favore della rieducazione delle persone in esecuzione penale, aventi almeno una sede operativa nella regione Lazio. A chi è rivolto l’Avviso? A tutte le persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità giudiziaria di limitazione o restrizione della libertà individuale, detenute e internate nei diversi Istituti del territorio regionale, come elencati nella Scheda tecnica allegata all’Avviso. Come presentare il proprio progetto? Dovrà essere presentato esclusivamente attraverso la procedura telematica accessibile dal sito della Regione Lazio. La procedura di presentazione del progetto è da ritenersi conclusa solo all’avvenuta trasmissione di tutta la documentazione prevista dall’avviso. Scadenza del bando? Con la determinazione n. G08781 dell’11 luglio 2018 la Regione Lazio ha disposto la riapertura dei termini per la presentazione delle proposte progettuali dalle ore 9:00 del 18 luglio 2018 alle ore 17.00 del 18 settembre 2018. Verona: detenuta di 38 anni si impicca, è il 27esimo suicidio dell’anno nelle carceri italiane Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2018 Avrebbe terminato la pena ad agosto 2020 la 38enne ferrarese Candy Suffer, condannata in primo grado per furto aggravato (era appellante). “Dicono che era seguitissima da psichiatra e psicologo e il giorno prima era stata sentita anche dal Magistrato di sorveglianza”. (Informazioni raccolte da Riccardo Arena, direttore della trasmissione Radio Carcere). “Giovedì 12 luglio, alle 18.00, nel corso della presentazione della relazione 2017 in Consiglio Comunale, da parte del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale per il Comune di Verona, in apertura, è stata data la notizia della morte per suicidio di una giovane detenuta avvenuta qualche ora prima nonché dell’avvio delle necessarie indagini”. (Comunicato di Margherita Forestan, Garante dei detenuti di Verona). Avellino: morto suicida in carcere. La compagna “mi diceva non voglio più stare lì” di Andrea Fantucchio ottopagine.it, 19 luglio 2018 Caso Luigi Della Valle. Un anno dopo. Parla la compagna: “Continuate con le indagini”. L’ex compagna di Luigi Della Valle, morto suicida in carcere un anno fa, chieda che le indagini di Dap e Procura non si fermino. E che venga portata alla luce la verità. “Non ce la faceva più a stare in carcere. Me l’aveva detto poche settimane prima di morire. Mangiava solo quello che gli portavo da casa”. La voce rotta dal pianto. Maria Rosaria Landi, a un anno dalla morte in carcere del 44enne Luigi della Valle, chiede la verità sul decesso del compagno. L’uomo, originario di Montoro, si è impiccato in cella nel penitenziario avellinese di Bellizzi lo scorso 18 luglio. Per l’accaduto sono state aperte un’inchiesta della magistratura e una del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Ierimattina, nello studio legale dell’avvocato Francesco de Beaumont, si è tenuta una conferenza stampa. L’ex convivente di Della Valle, rappresentata dalla penalista Rosaria Vietri, vuole che l’indagine non si areni. Un caso emblematico per parlare dell’emergenza nelle carceri. Ci sono i numeri citati proprio dal legale: “Cinquantaquattro casi di suicidi nei penitenziari italiani da inizio anno. Va potenziato il personale della polizia penitenziaria, devono essere amplificati i supporti specialistici. Psichiatrici e psicologi. Visto che le Rems, create per ospitare ospedali psichiatrici, sono in sovraffollamento”. Secondo i familiari Della Valle avrebbe meritato una assistenza differente. Anche perché, nei giorni precedenti al suicidio, il 44enne avrebbe già provato a uccidersi due volte. Ma il compagno di cella gli aveva salvato la vita. Un aspetto sul quale la difesa aveva già spinto i magistrati a fare chiarezza. Il detenuto, dopo un passato con problemi legati all’alcol e alla tossicodipendenza, aveva bisogno di una assistenza specialistica che avrebbe potuto salvarlo. È quanto sostenuto dai familiari che hanno sporto denuncia per istigazione al suicidio contro ignoti. In proposito D’Acunto ha citato anche “un contributo che l’Asl versa ai penitenziari destinati all’assistenza sanitaria ai detenuti”. Argomento che è stato affrontato nelle scorse settimane anche dai sindacati di polizia. Dalle cure inadatte per alcune patologie all’assenza di professionisti specializzati nell’assistenza psicologica dei detenuti. Soprattutto in un momento particolare della loro vita. Quando l’assistenza sanitaria sarebbe poi il tassello imprescindibile per procedere con il reinserimento del carcerato nella società. Fine ultimo del sistema carcerario italiano. Firenze: ventilatori accesi in cella (con un anno di ritardo) di Giulio Gori Corriere Fiorentino, 19 luglio 2018 Nell’estate 2017 l’arrivo degli apparecchi, martedì l’installazione in 300 celle. Ventilatori accesi a Sollicciano. Ma con un anno di ritardo visto che i primi apparecchi erano arrivati nel carcere per far fronte alla calura insopportabile della scorsa estate. “No, non è una battaglia vinta, è il riconoscimento di un diritto minimo, il diritto a vivere con un po’ di decenza”. Don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano, commenta così l’arrivo dei ventilatori nelle celle dei detenuti. Con un anno di ritardo, tra intoppi burocratici e un impianto elettrico che fatica a sostenere apparecchi tanto semplici. Nei bracci del giudiziario, i ventilatori sono stati montati martedì, in queste ore stanno arrivando nel centro clinico, nei prossimi giorni toccherà agli altri bracci. Trecento celle in tutto, “dove si vive in condizioni inaccettabili - spiega il sacerdote - All’ultimo piano, le temperature toccano i cinquanta gradi e ieri (martedì, ndr) persino un volontario ha avuto un malore e ha dovuto essere soccorso col la barella”. Lo scorso anno don Vincenzo - grazie ai contributi della Regione e della Madonnina del Grappa - aveva acquistato sessanta ventilatori da distribuire tra le celle. Ma a parte una decina che era stata montata nei “passaggi”, i corridoi, gli altri erano rimasti in magazzino. Le celle non hanno un impianto elettrico adeguato e, visto che non erano abbastanza per tutte le 300 stanze, i vertici di Sollicciano preferirono evitare di stilare graduatorie e di creare malcontento. Non solo, ma “a seguito di un’evasione, il carcere aveva deciso di sospendere la “vigilanza dinamica”, che prevede le porte aperte”, spiega don Vincenzo. Così i ventilatori nei corridoi non davano beneficio alle celle, dove i detenuti stavano per ben 20 ore su 24. Stavolta, il sacerdote è tornato alla carica. Oltre alla Madonnina del Grappa ha coinvolto la Caritas e le Misericordie toscane e ha messo insieme oltre 11 mila euro. Ed è arrivato a mettere insieme 300 ventilatori. “Stavolta un po’ di umanità è entrata ventilando in quel luogo di sofferenza”, dice il radicale Massimo Lensi, che ha collaborato all’iniziativa. “Fondamentale è stato creare un ponte con la città, il coinvolgimento delle associazioni è il primo passo perché a Firenze si torni a parlare del problema carcerario - dice don Vincenzo. Ma molto ha contribuito anche la grande disponibilità del nuovo direttore, Fabio Prestopino, che ringrazio pubblicamente”. Prestopino, che vista la calura estiva ha imposto ai detenuti di restare fuori dalla cella 4 ore in più al giorno, si è infatti accollato il problema dei trasformatori necessari a far funzionare gli apparecchi. “I primi detenuti che hanno avuto i ventilatori sono molto contenti - spiega il sacerdote - Sollicciano per la sua struttura architettonica somiglia a un grande forno. E anche non c’è il sovraffollamento che avevamo registrato prima del decreto svuota-carceri, quando si arrivò a toccare i 1.050 detenuti, stanno di nuovo aumentando: ora siamo a 750-800 persone, quando il carcere non ne potrebbe tenere più di 450”. Nuoro: il Comune alla ricerca del nuovo Garante dei detenuti di Luca Urgu La Nuova Sardegna, 19 luglio 2018 Il mandato di Oppo è scaduto da febbraio. Bando aperto per la nuova selezione L’assessore Romagna: “Una figura preziosa e irrinunciabile per tutelare i diritti”. L’obiettivo è colmare un vuoto che stava diventando imbarazzante e fonte di polemiche, ma soprattutto restituire a Nuoro e al territorio una figura davvero preziosa. Una sorta di ponte tra la città e le sue istituzioni e il carcere. Si legge in questa direzione la pubblicazione da parte dell’amministrazione comunale del bando per “il garante civico per le persone private della libertà personale” pubblicato nei giorni scorsi che scadrà il 31 luglio. Il ruolo era stato ricoperto fino al 14 febbraio, quando era scaduto il suo mandato, dal professor Gianfranco Oppo, che per sette anni (il suo mandato era iniziato con la giunta Bianchi) si era prodigato a porre in essere una serie di interventi importanti studiando nei dettagli l’universo carcerario nuorese, impegnandosi nella fase di ascolto delle varie problematiche e confrontandosi con altri garanti a livello nazionale. Ora la giunta Soddu propone il bando per valutare poi con dei mirati colloqui la figura più adatta senza non prima riconoscere all’ex garante i suoi meriti. “Un doveroso è sentito ringraziamento va al professor Oppo per l’encomiabile lavoro svolto in questi anni”, ha detto l’assessore ai Servizi sociali del Comune di Nuoro Valeria Romagna. “Il garante dei detenuti è una figura preziosa e irrinunciabile e rappresenta una garanzia per la tutela dei diritti delle donne e degli uomini in stato di detenzione. Per noi era imprescindibile, attraverso questa evidenza pubblica, procedere al rinnovo della carica”. Nel bando si legge che l’incarico può essere affidato a persone che abbiano un curriculum formativo ed esperienze di alto profilo culturale, uno specifico percorso formativo e competenze nel campo dei diritti con particolare rilievo ai diritti delle persone private della libertà personali. La valutazione della commissione terrà conto anche degli aspetti motivazionali tesi a rilevare la validità della persona a ricoprire il ruolo di Garante civico. Insomma il nuovo nome del garante per il quinquennio 2018-2023 verrà fuori nelle prossime due settimane quando si conosceranno i candidati che parteciperanno alla selezione, per titoli, esperienza e colloquio. Il professor Oppo da contattato dalla Nuova Sardegna fa sapere che non intende partecipare alla selezione, ma commenta positivamente la sua esperienza in un fronte sempre caldo e delicato come quello della realtà penitenziaria. “Spero ovviamente che si trovi una figura adatta che sappia svolgere con competenza e professionalità l’incarico sia impegnandosi a livello locale ma allo stesso tempo integrandosi con l’organismo nazionale dei garanti. Sempre più importante nelle scelte secondo una visione complessiva del fenomeno. A chiunque toccherà questo compito gli auguro un buon lavoro consapevole della complessità della situazione fatta di microstorie personali diverse e tutte delicate e desiderose di attenzione”, ha detto Oppo. Per lo svolgimento dei propri compiti il Garante ha diritto ad un’indennità non superiore al 50% dell’importo stabilito per l’indennità degli assessori della giunta comunale. Alla conclusione della valutazione della Commissione sarà redatta una rosa di massimo tre nomi da sottoporre al sindaco affinché, sentita la Conferenza dei capigruppo, si proceda con la scelta del garante. Trieste: ciclo di conferenze in carcere organizzato dal Garante dei detenuti di Giovanna De Manzano Il Piccolo, 19 luglio 2018 Proseguono senza sosta le iniziative intraprese all’interno del carcere di Trieste da Elisabetta Burla, garante comunale dei diritti dei detenuti. Recentemente si è tenuta la presentazione del libro “La parola figlio” di Patrizia Rigoni. L’incontro è stato concepito per essere occasione di confronto tra un gruppo di persone private della libertà - sia della sezione maschile che di quella femminile- e di ospiti esterni al carcere sui vari spunti offerti dall’autrice, triestina di adozione. L’occasione si è rivelata momento di intenso e proficuo dibattito tra i presenti tutti e di scambio di pensieri, di paure, di speranze sul tema dell’essere figli ed essere genitori, ruoli che in carcere sono sicuramente ancor più difficili da sostenere. La conferenza fa parte di un ciclo organizzato dall’avvocato Burla volto a contrastare i pregiudizi sociali verso chi è recluso. L’evento è stato occasione per far conoscere alle persone provenienti dall’esterno il progetto “ReIncluse” volto all’integrazione, in questo caso delle detenute donne, promosso dall’associazione “Rete Dpi-NodoTrieste”. Il progetto mira a prevenire e contrastare i rischi della reclusione, garantendo la realizzazione delle pari opportunità anche tra le recluse. Oltre a lavoratori creativi, allestimenti di mostre e realizzazione di pubblicazioni, l’associazione ha dato l’opportunità alle detenute di realizzare borse di tela, utilizzando materiali di riciclo. Spiega Burla: “È un modo concreto per riallacciare il rapporto con il contesto sociale. Le borse sono comode, capienti ed eleganti e soprattutto “griffate” con il simbolo dell’associazione Rete Dpi-Nodo Trieste e sul manico portano il ricamo del nome del progetto”. Le borse posso essere acquisite tramite donazione all’associazione (presidente@retedpitrieste.it) e il ricavato, oltre per l’acquisto delle stoffe e la manutenzione delle macchine da cucire, viene distribuito tra le detenute. Venezia: torna la Festa nell’Orto delle Meraviglie del Carcere Femminile della Giudecca Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2018 Torna anche quest’anno l’annuale Festa dell’Orto presso l’Orto delle Meraviglie del Carcere Femminile della Giudecca. L’evento, organizzato da Rio Terà dei Pensieri in collaborazione con la Direzione del Carcere Femminile, sarà un’occasione per conoscere da vicino le attività e i laboratori promossi dalla Cooperativa e per brindare insieme agli importanti traguardi raggiunti quest’anno: il primo compleanno di Process Collettivo, il nostro store di economia carceraria in centro a Venezia, e l’anniversario della collaborazione con Mark Bradford. I partecipanti avranno l’opportunità di visitare l’Orto delle Meraviglie e il laboratorio di cosmetica del carcere femminile. L’Orto delle Meraviglie è uno spazio verde interno al carcere femminile, trasformato in una piccola realtà produttiva in cui si realizza una singolare convergenza di intenzioni: percorsi di “trattamento” delle detenute attraverso il lavoro, recupero ambientale e socio-economico, recupero di tradizionali tecniche colturali e varietà orticole locali, legame tra una manifestazione dell’attività interna all’istituzione carceraria e la comunità locale attraverso la vendita degli ortaggi. Il Laboratorio di cosmetica, adiacente all’orto, è nato nel 2001 dallo stimolo di utilizzare gli estratti delle piante aromatiche coltivate. Seguendo preziose ricette, le detenute realizzano oggi cosmetici naturali di alta qualità, mantenendo viva l’antica tradizione veneziana della produzione cosmetica artigianale. Il nostro marchio, Rio Terà dei Pensieri, propone diverse linee di prodotti: una linea naturale, una linea biologica, una linea di prodotti tradizionali e una linea di prodotti di cortesia per alberghi. Il programma della giornata. Sabato 29 settembre dalle 9:30 alle 13:00 Dalle 9:30 alle 12:00 - Ingresso in carcere, visita dell’orto e dell’adiacente laboratorio di cosmetica, esposizione e vendita dei prodotti realizzati da detenute e detenuti. Ore 11:00 - Saluti della Direttrice del Carcere Femminile e della Cooperativa Rio Terà dei Pensieri. Dalle 12:00 alle 13:00 - Buffet offerto dalla Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri. Come partecipare: le iscrizioni alla Festa dell’Orto sono a numero chiuso e rimarranno aperte fino a Domenica 5 agosto. Possono partecipare all’evento solo persone maggiorenni e la partecipazione sarà subordinata all’autorizzazione da parte della segreteria del carcere. Gli interessati possono inviare la richiesta di partecipazione inserendo i propri dati nel modulo sottostante e riceveranno un’email di conferma una volta ottenuta l’autorizzazione. https://www.rioteradeipensieri.org/attualita/festa-orto-2018/ Roma: successo alla Camera per “Fuori fuoco”, il film dei detenuti di Terni radiogalileo.it, 19 luglio 2018 “Fuori fuoco”, il film girato dai detenuti del carcere di Terni è stato proiettato ieri alla Camera dei Deputati, ricevendo così un riconoscimento e una “consacrazione” davvero importanti. L’iniziativa è stata promossa dal deputato umbro del Pd Walter Verini ed ha visto anche la presenza del presidente della Camera Roberto Fico, della Vicepresidente del Senato Anna Rossomando, di diversi parlamentari. Anche Terni era rappresentata ai massimi livelli: c’erano il Sindaco Latini, il Vicepresidente della Regione Paparelli, il Prefetto De Biagi. Il momento più significativo è stato quando Verini ha chiamato a prendere la parola due dei protagonisti-detenuti che erano presenti: Erminio Colanero e Thomas Fisher. Sono state due testimonianze davvero toccanti, di chi ha pagato o sta pagando il suo debito con la società per sbagli e reati commessi ma per i quali il carcere non è stata un occasione di abbrutimento e ulteriore emarginazione ma, al contrario, quello che deve essere: una pena certa finalizzata al recupero e al reinserimento sociale. Questi sono stati i concetti di fondo ribaditi anche, prima della proiezione del film, dai relatori: la direttrice della Casa Circondariale di Terni, Chiara Pellegrini, il garante dei detenuti di Umbria e Lazio Stefano Anastasia e il deputato Andrea Orlando, fino a due mesi fa Ministro della Giustizia. Interventi di spessore e significato, che hanno ribadito come l’umanità nella gestione delle carceri, le pene alternative, la formazione e il lavoro, la socialità siano le carte da giocare per applicare davvero l’art. 27 della Costituzione. Andrea Orlando si è augurato che il grande lavoro svolto per la riforma dell’ordinamento penitenziario e che non è arrivato alla approvazione definitiva, sia ripreso e trattato dal Governo e dal parlamento in maniera “laica”, come frutto del contributo intelligente e appassionato di migliaia di operatori, magistrati, polizia penitenziaria, associazioni di volontariato. Da ultimo, Walter Verini ha ribadito come dei detenuti che hanno pagato il proprio debito e che escono recuperati, non tornino a delinquere: e questo è un successo doppio, anche per la sicurezza della società. Italia disuguale e molto ingiusta di Danilo Taino Corriere della Sera, 19 luglio 2018 Tre economisti che fanno capo al gruppo di ricerca Cesifo di Monaco hanno sviluppato un modo nuovo per dare una dimensione e qualificare la disuguaglianza, tema diventato caldissimo in questo decennio. Per nostra buona sorte, c’è la Lituania: diversamente, l’Italia sarebbe il peggiore di 31 Paesi europei in termini di “disuguaglianza ingiusta”. Invece è solo la seconda più ingiusta. In questione non è però tanto una classifica. L’interessante è che tre economisti che fanno capo al gruppo di ricerca Cesifo di Monaco hanno sviluppato un modo nuovo per dare una dimensione e qualificare la disuguaglianza, tema diventato caldissimo in questo decennio, dalle manifestazioni Occupy Wall Street alle analisi di Thomas Piketty. Per superare la controversa e semplicistica comparazione tra i redditi dei più ricchi e quelli dei più poveri (1% contro 99%) e nella convinzione che non tutta la disuguaglianza sia negativa, Paul Hufe, Ravi Kanbur e Andreas Peichl hanno individuato la disuguaglianza ingiusta. Hanno cioè messo assieme la mancanza di pari opportunità alla nascita con l’obiettivo di avere società senza povertà: e ai due concetti hanno dato lo stesso peso. La somma che ne risulta è la disuguaglianza non fair: il resto è disuguaglianza dovuta a capacità personali, impegno, colpi di fortuna e vicende varie della vita. Sulla disuguaglianza ingiusta si possono impostare politiche per ridurla, il resto è questione privata. Per le opportunità di partenza, gli economisti hanno ripartito la popolazione sulla base di sesso, background migratorio, istruzione dei genitori e lavoro di questi ultimi. Per quel che riguarda la povertà, hanno utilizzato indici che la misurano in ogni Paese. Attraverso una serie di elaborazioni matematiche, hanno individuato la realtà di ogni singola Nazione e l’hanno confrontata con quella che dovrebbe essere, in via teorica, la disuguaglianza giusta, quella depurata da penalizzazioni alla nascita e stato di povertà. Il risultato è una media europea di disuguaglianza ingiusta pari a un indice 0,029 e pari al 17,6% della disuguaglianza totale (ingiusta e giusta). Per l’Italia, l’indice è 0,063 con una disuguaglianza ingiusta del 31,6%. La Lituania è a 0,066 ma con un peso della disuguaglianza cattiva inferiore, al 27,9%. Al polo opposto, Olanda e Finlandia, entrambe con una quota di ingiusto inferiore al 10% della disuguaglianza totale. È un modo nuovo di affrontare il problema: occorrerà capire come mai l’Italia appaia così ingiusta. Se il diritto di critica sfocia nell’incitamento all’odio di Ginevra Cerrina Feroni* Il Messaggero, 19 luglio 2018 È difficile ricordare un tale concentrato di smisurati paragoni, di risibili esagerazioni, di attacchi forsennati fino alla psichiatrizzazione del nemico come quello in atto contro il nuovo Governo. Specificamente contro Matteo Salvini, nella sua carica istituzionale di Ministro dell’Interno e di Vicepresidente del Consiglio. Si azzardano paralleli grotteschi tra questa situazione politica e quella del nazi-fascismo, tra la questione dei migranti e l’olocausto (Oliviero Toscani), si assimila Salvini a Hitler e a Mussolini (Luigi De Magistris) o al nazista sterminatore Heichmann (Furio Colombo). E per non essere da meno, anche noti philosophes, attivissimi nel talk show, abbracciano lo stesso registro. La cosa è seria. Anzitutto, perché fa emergere un’insofferenza profonda per il gioco della democrazia e delle sue alternanze. Che chi non è d’accordo esprima tutto il suo dissenso è normale, ci mancherebbe altro; ma, davanti ai fatti e non a un immaginario simbolico accostato a sproposito. Altrimenti non è più dialettica democratica, è altra cosa. Qui la violenza verbale ha avuto inizio ancor prima che il Governo fosse entrato in funzione e prima che lo si potesse giudicare sulla base dell’operato. Preoccupa che questa metodologia di attacco, combinata alla crescente deculturazione dell’uditorio, possa avere effetti dilanianti sulla dialettica democratica e possa istigare qualche sprovveduto alla violenza. Di certo, la libertà di manifestazione del pensiero, di cui all’art. 21 della Costituzione, è la “pietra angolare del sistema democratico”. Ma la diffamazione delirante cosa vi ha a che vedere? Può essere contrabbandata con il diritto di critica che segna l’alveo della prima delle libertà? La storia della democrazia liberale ci insegna che no, che c’è sempre il limite della diffamazione e della calunnia. L’onore e la reputazione sono diritti inviolabili della persona, non meno della libertà d’espressione. E le istituzioni della democrazia, che sono quelle che corrispondono alla volontà degli elettori e non di pretese e fantomatiche élites, meritano non meno, perché lo merita la democrazia stessa. Ecco il punto allora, dov’è l’equilibrio? Questi eccessi smodati ci domandano di domandarcelo. Se è indubbio che limiti eccessivi al dibattito delle idee provocherebbero un “chilling effect”, un “soffocamento” (G. Vigevani, in Federalismi, 2015) della “garanzia delle garanzie” qual è, appunto, la libertà di espressione, nondimeno va guardata in termini critici la tendenza di una certa giurisprudenza, specie quella di Strasburgo, che pare orientata verso la dilatazione senza confini dei margini del diritto di critica. Ben oltre la sua vitale ragion d’essere. Sicuro, la critica può essere anche aspra, irriverente o a forte impatto emotivo, quando il soggetto verso il quale essa si rivolge è un protagonista delle istituzioni (vedi le sentenze della Corte europea sul caso dell’ex Governatore della Carinzia, J. Haider, 1° luglio 1997, o sul recente caso dei Reali di Spagna, 24 maggio 2018). Anzi, è proprio verso chi detiene il potere che è consentito il più ampio diritto di critica. Ma qui, oggi, verso la figura del Ministro dell’Interno è un’altra storia. Qui si è lontani dal diritto di critica, dai suoi confini naturali della proporzionalità e della ragionevolezza, vistosamente sormontati. Come accostare la drammatica realtà del problema dei migranti nel Mediterraneo - eredità pesante per questo Governo - con l’Olocausto? Che cosa dobbiamo pensare quando un intellettuale colto e raffinato perde la misura e paragona il Ministro al più noto dei condannati a morte per genocidio? Affermazioni di tale impatto non sono, esse stesse, pericolose forme d’incitamento all’odio? Spetterà ai giudici valutare se tali affermazioni rientrano nell’alveo del consentito e del lecito. Ma aldilà delle questioni giuridiche, sulle quali è doveroso continuare a riflettere, colpisce che, pur dopo settant’anni, non mostriamo di essere divenuti una democrazia matura, dove chi con le elezioni riceve il mandato del popolo va al Governo e lì va giudicato sulla base dei risultati che raggiunge. E chi, invece, resta opposizione ha il pieno diritto di fare opposizione, anche la più dura, ma con senso di realismo e di rispetto civile nei confronti degli avversari. L’alternanza al Governo è l’essenza di ogni democrazia. Ci pare allora necessario che si abbandoni la logica di una contrapposizione distruttiva e di un avversario politico rappresentato come demonio da esorcizzare. Di questo il nostro Paese ha un grande bisogno. Non è detto che ci riusciremo. *Ordinario di Diritto Costituzionale Italiano e Comparato Università di Firenze Migranti. “Il business dei clandestini si coniuga all’ecatombe in mare” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 19 luglio 2018 Rapporto semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. La criminalità prospera nel paese in cui è quasi impossibile entrare legalmente. Lo avevano detto un paio di giorni fa dalla Dda di Roma, all’indomani dell’ultima operazione contro le mafie capitoline: la diffusione della criminalità organizzata procede di pari passo alla crisi della forme di aggregazione e partecipazione sociale. Da tempo gli studiosi del fenomeno spiegano che la mafia cresce quando non esiste altra forma di regolazione sociale. I mafiosi prosperano laddove si presentano fenomeni che richiedono di essere governati con le spicce. Una conferma ulteriore arriva dall’ultimo rapporto semestrale della Direzione investigativa antimafia. Nella consueta mescolanza di analisi dello scenario e riepilogo delle principali azioni repressive, la Dia fotografa anche il business dell’immigrazione clandestina. Le mafie italiane e straniere lucrano nel paese del proibizionismo delle migrazioni, in cui è diventato quasi impossibile entrare legalmente e le leggi in materia producono clandestini. Sono coinvolti “maghrebini, soprattutto libici e marocchini, nel trasporto di migranti dalle coste nordafricane verso le coste siciliane”. Ci sono anche italiani: ex contrabbandieri della Sacra corona unita mettono a disposizione i loro natanti e clan nigeriani organizzano lo sfruttamento della prostituzione. “Per le organizzazioni criminali straniere in Italia -si legge nel documento -. il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con tutta la sua scia di reati “satellite”, per le proporzioni raggiunte, e grazie ad uno scacchiere geopolitico in continua evoluzione, è oggi uno dei principali e più remunerativi business criminali”. Il testo ricorda anche come il sistema sia complementare all’ecatombe nel Mediterraneo: “Troppe volte il business si coniuga tragicamente con la morte in mare di migranti, anche di tenera età”, dicono gli investigatori. L’Italia resta però un paese di emigrazione e di esportazione delle mafie. La Dia conferma che la forma di criminalità organizzata con maggiore ramificazione globale resta la ‘ndrangheta, che costituisce “un modello d’azione che continua ad essere replicato, oltre che in Calabria, anche in altre aree nel nord Italia ed all’estero, con proiezioni operative in Germania, in Svizzera, Spagna, Francia, Olanda e nell’Est Europa, nonché nei continenti americano (con particolare riferimento al Canada) ed australiano”. D’altro canto, la globalizzazione del capitale mafioso si manifesta anche con l’azione delle organizzazioni straniere (cinesi, nigeriane e albanesi soprattutto), che “rappresentano da un lato, la diretta emanazione di più articolate e vaste organizzazioni transnazionali, dall’altro l’espressione autoctona di una presenza sul territorio nazionale”. Nelle regioni meridionali i gruppi stranieri si muovono tendenzialmente con l’assenso delle organizzazioni mafiose autoctone: le mafie collaborano ad esempio per organizzare lo sfruttamento del lavoro nero mediante il caporalato. Del fenomeno si è discusso anche alla Camera, in occasione dell’approvazione della legge che istituisce la commissione parlamentare antimafia. Su proposta di Forza Italia si è deciso di “valutare la penetrazione sul territorio nazionale e le modalità operative delle mafie straniere e autoctone”. Coda polemica: dal Pd contestano alla relatrice, Nesci del M5S, di aver depotenziato l’organismo rispetto alle indicazioni fornite dalla commissione presieduta da Rosi Bindi alla fine della scorsa legislatura. I grillini negano, rivendicando di aver avocato alla commissione maggiori poteri nel controllo delle liste elettorali. La parola adesso passa al Senato. Soccorsi e accolti 18 mila migranti. La Spagna ci sorpassa nel mese delle morti record di Fabio Albanese La Stampa, 19 luglio 2018 Lo certificano i dati diffusi ieri, quasi in contemporanea, da Frontex e Oim. Il sorpasso è avvenuto domenica scorsa: da inizio anno, la Spagna ha soccorso e accolto più migranti dell’Italia. Non era mai accaduto in questi difficili anni di salvataggi, polemiche, inchieste, Ong, trattative e proclami politici. E di morti in mare, che aumentano in maniera preoccupante. Lo certificano i dati diffusi ieri, quasi in contemporanea, da Frontex e Oim. Secondo l’agenzia Onu per le migrazioni, fino al 15 luglio sono arrivati 18.016 migranti in Spagna e 17.827 in Italia. Secondo l’Oim, da inizio anno altri 11.300 migranti sono stati riportati indietro dalla Guardia costiera libica. L’agenzia Ue per il controllo delle frontiere fa notare come nei primi sei mesi del 2018 il numero di migranti che ha attraversato il Mediterraneo nella rotta per l’Italia è sceso dell’81% rispetto al 2017 (all’epoca si era appena all’inizio della “dottrina Minniti”). Per Frontex, la rotta del Mediterraneo occidentale, quella cioè per la Spagna, ha avuto un incremento del 166% rispetto a un anno fa, battuta principalmente da cittadini di Marocco, Guinea e Mali. Per l’Italia partono invece soprattutto tunisini ed eritrei. Sul versante opposto, la rotta del Mediterraneo orientale verso la Grecia rileva un calo (24.300 da gennaio a giugno), compensato però da nuovi arrivi via terra dalla Turchia. Da inizio anno sono arrivati per mare in Europa 50.872 migranti (furono 172 mila nel 2017). È aumenta la pressione sulla rotta terrestre attraverso Albania, Montenegro e Bosnia mentre si è quasi esaurita quella tradizionale balcanica attraverso Serbia, Ungheria, Croazia. Tornando all’Italia, sono gli ultimi mesi quelli che hanno visto il maggiore calo di arrivi: in giugno 3136 arrivi in Italia, 6926 in Spagna, nei primi 15 giorni di luglio 1250 sono stati accolti Roma, 2940 da Madrid. “Non possiamo però parlare di rotta alternativa, ma di rotta parallela - spiega il portavoce Oim in Italia, Flavio Di Giacomo -. I migranti bloccati in Libia non si sono mossi da lì, chi passa dal Marocco (principale Paese da cui si fa rotta per la Spagna, anche per via delle due enclave Ceuta e Melilla, ndr) lo decide al momento della partenza”. A preoccupare di più le agenzie è il numero dei morti in mare: “Come ogni anno, la rotta del Mediterraneo centrale resta la più pericolosa - dice Di Giacomo - e anzi la situazione è peggiorata”. In tutto il Mediterraneo l’Oim stima 1443 migranti morti o dispersi; di questi, 1104 solo sulla rotta Libia-Italia, la metà dei quali (564) solo a giugno; un mese che, nel raffronto con gli anni precedenti, risulta ora il più mortale di sempre. Nell’imbuto del Niger, verso la Libia. “Da qui passa il 90% dei migranti” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 19 luglio 2018 Il viaggio di Tajani: “Soltanto la crescita economica può salvare l’Africa con il nostro aiuto”. “Sono rimasto oltre tre mesi bloccato con le soldataglie di Sabratha. Le avevo pagate quasi mille dollari. Ma, da quando l’Italia ha chiuso i confini, attraverso il Mediterraneo è diventato impossibile trasportare noi migranti africani anche per le milizie libiche più agguerrite. Così sono tornato in Niger da pochi giorni”, racconta Mohammed Kamara, 26 anni: partito dalla Liberia un anno fa, ora cerca disperatamente di tornare a casa. Accanto a lui Epata Moncler, 25 anni di Brazzaville in Congo, ha una storia diversa, eppure simile nella solitudine. “Lavoravo ad Algeri come muratore. Da oltre tre anni avevo uno stipendio e una buona abitazione con altri congolesi. Ma poche settimane fa la polizia algerina ha fatto irruzione nel nostro cantiere. Gli agenti ci hanno preso tutto: soldi, cellulari, vestiti, persino i documenti. Poi siamo stati caricati su di un bus e abbandonati a 7 chilometri dal confine con il Niger a sud di Tamanrasset. Abbiamo dovuto marciare per 20 chilometri prima di trovare acqua e aiuto al posto di blocco dell’esercito del Niger. Ora spero nell’Organizzazione internazionale per le Migrazioni o nell’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati. Ho sentito che voi europei potreste darci una mano”. Anche per loro negli ultimi due giorni Antonio Tajani si è recato in Niger. Quarantotto ore di incontri, discorsi e soprattutto progetti da definire. Tajani è stato molto chiaro. “Questo Paese è il collo di bottiglia dell’Africa da cui transita il 90% dei disperati che entrano in Libia verso l’Europa”, ha dichiarato incontrando i leder del Paese assieme a quelli delle assemblee nazionali di Bur-kina Faso, Ciad, Mauritania e Mali. Con lui una trentina di rappresentanti di grandi ditte europee con una parola d’ordine precisa: aiutiamo l’Africa a crescere per fermare assieme i flussi di persone in fuga verso l’Europa. Ieri mattina il presidente del Parlamento Europeo ha così delineato il suo “Piano Marshall” per il continente. “La Turchia ha ricevuto sei miliardi di euro per controllare i flussi. Qualche cosa di simile va fatto per l’Africa”, ha aggiunto. Il momento più toccante è stato in uno dei centri di accoglienza dell’Unhcr ospitante decine di donne appena uscite dalla Libia, specie somale, sudanesi ed eritree. Con loro Tajani ha voluto modificare il suo programma e chiudersi in una stanza riservata per sentire i loro racconti. Tante hanno subito violenze sessuali. Non ne parlano apertamente. Tajani è accompagnato dalle psicologhe. “Siamo vostri amici. So che avete incontrato un mondo cattivo. Ma non sono tutti così. Vogliamo aiutarvi”, ha esclamato commosso, con un’umanità partecipata che ha stupito anche il suo entourage e i funzionari locali. “Salvini vuole i campi in Libia? Ma si rende conto che sono lager?”, ha esclamato uno dei consiglieri italiani. “Queste donne hanno bisogno di attenzioni. Il Niger le ha lasciate rientrare e ora diverse nazioni europee, oltre al Canada e agli Usa che offrono visti a 250 bambini, sono pronti a riceverle, con Germania, Svezia e Francia in testa”, spiega Alessandra Morelli, veterana responsabile dell’Unhcr a Niamey. Sulle violenze sessuali parlano anche gli operatori dell’organizzazione italiana Copi: “Non sappiamo quante siano state violentate dai trafficanti africani, dai loro compagni durante il viaggio o dai loro aguzzini in Libia. Valutiamo che il 40% abbia comunque subito violenze sessuali. Dieci al momento sono incinte sulle 418 di ogni età che si trovano nelle case di transito qui a Niamey. Abbiamo anche i casi di giovani uomini torturati e picchiati”. L’Europa viene in Niger in un momento di grazia. Dal 2016 gli arrivi di migranti in Libia sono diminuiti del 95%, cosa che contribuisce a fermare gli sbarchi sulle coste europee. E l’Onu si organizza per “distribuire” all’estero gli aventi diritto all’asilo. I centri Unhcr in un anno e mezzo hanno ricevuto circa 1.800 persone. L’Oim ne ha fatto partire da Tripoli con voli speciali oltre 33.000, la grande maggioranza dovrebbe tornare nelle regioni di origine. Eppure, proprio visitando il Niger, ci si rende conto delle enormi difficoltà. “Qui nessuno vuole stare perché siamo il penultimo nella graduatoria dei Paesi più poveri del mondo. Il nostro tasso demografico supera il 4%. Da una popolazione di 9 milioni tre decadi fa a oltre 28”, dicono al ministero degli Esteri. Il problema terrorismo si affianca a siccità e disastro ambientale. Boko Haram si espande nell’Est, le sue colonne arrivano dalle zone del semi-prosciugato lago Ciad. Ai confini con la Libia operano le tribù Tuareg tra militanti di Isis e predoni ben organizzati. È incandescente il confine con la Nigeria, tanto che si registrano attacchi a soli 40 km da Niamey. “Solo la crescita economica con il nostro aiuto può salvare l’Africa”, ribadisce Tajani alle ditte locali. I cinesi sono già presenti in forze. Il Niger attende che si passi dalle parole ai fatti. Egitto. Salvini vede Al Sisi al Cairo: “fare piena luce sull’omicidio Regeni” di Giuliano Foschini La Repubblica, 19 luglio 2018 Il ministro dell’Interno incontra il presidente egiziano. La replica: “Su Giulio vogliamo fare giustizia”. Una visita inattesa anche per la famiglia che nei giorni scorsi aveva visto il premier Giuseppe Conte. Una visita improvvisa e inaspettata, anche per la famiglia Regeni, che nei giorni scorsi aveva incontrato il premier Giuseppe Conte. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini è volato al Cairo per incontrare il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi e il ministro dell’Interno egiziano, Abdel Ghaffar. Il colloquio - ha fatto sapere il Viminale - ha riguardato il “rafforzamento delle iniziative in tema di sicurezza, contrasto all’immigrazione clandestina e al terrorismo”. Chiaramente si è parlato anche del sequestro, della tortura e dell’assassinio di Giulio Regeni, avvenuto, secondo quanto è stato possibile accertare, per mano di pezzi degli apparati del Regime egiziano che fanno direttamente riferimento al presidente Sisi e al ministro Ghaffar. Le indagini della procura di Roma, nonostante i depistaggi delle autorità egiziane (sono stati uccisi persino cinque innocenti in un conflitto a fuoco nella speranza di non fare trovare i veri responsabili dell’assassinio), hanno portato a circoscrivere nel sequestro la responsabilità di almeno nove agenti della National security, il servizio civile interno. Fino a questo momento, però, non si è riusciti ad andare oltre visto il muro egiziano. Non a caso dalla procura di Roma è arrivato una sorta di ultimatum: o entro settembre accade qualcosa, oppure è inutile continuare con questi incontri bilaterali. Tra l’altro Salvini - che oggi ha rinnovato ad Al Sisi “la richiesta di fare piena luce sull’omicidio dello studente italiano Giulio Regeni”, avvenuto il 2 febbraio del 2016 - aveva avuto modo di spiegare qual era la sua linea sul caso: fermo restando “il dolore della famiglia”, era necessario riprendere i rapporti con l’Egitto. Una posizione che gli ha tirato dietro non poche polemiche, visto che l’assassinio di Giulio non attiene al dolore di una famiglia ma, come gli ha ricordato anche Amnesty International, alla libertà e alla democrazia di un paese. L’Italia. Giulio è stato torturato dal 25 gennaio al 2 febbraio. “L’ho riconosciuto soltanto dalla punta del naso”, raccontò sua madre Paola, ricordando che mai nessun cittadino italiano era stato ridotto così “dopo il nazifascismo”. La famiglia Regeni, insieme con il loro avvocato Alessandra Ballerini, sta portando avanti una battaglia per ottenere verità e giustizia sulla morte di Giulio. Ma non solo: stanno ponendo con forza (anche con un lungo sciopero della fame) il problema della tutela dei diritti umani al Cairo. Da settimane è agli arresti Amal Fathy, moglie di Mohamed Lotfy, responsabile della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf), nonché legale e sostenitore dei Regeni al Cairo. In passato un altro componente dello staff legale dei Regeni, Mohammed Abdallah, era rimasto agli arresti per più di sei mesi. Per ora Al Sisi ha confermato a Salvini “la volontà e il grande desiderio di arrivare a risultati definitivi delle indagini” sull’omicidio di Giulio e “di scoprire i criminali per fare giustizia”. Turchia. Finito lo stato di emergenza dopo il golpe ma pronte nuove norme repressive La Repubblica, 19 luglio 2018 Due anni fa il tentato colpo di stato. Per l’opposizione in arrivo nuove restrizioni e purghe. Appello di Trump a Erdogan: liberate il pastore evangelico americano Andrew Brunson. È finito lo stato di emergenza post-golpe in Turchia ma l’opposizione denuncia l’arrivo di nuove misure legislative ancora più repressive. Il presidente Recep Tayyip Erdogan aveva dichiarato lo stato di emergenza il 20 luglio del 2016, 5 giorni dopo il tentato colpo di stato. Le misure straordinarie, che di solito durano tre mesi, sono state rinnovate per sette volte e sono rimaste in piedi fino all’una del mattino di giovedì, ora di Istanbul. Ma il governo di Ankara ha promesso di non cambiare rotta “per eliminare fino all’ultimo terrorista”. Lo stato di emergenza ha comportato l’arresto di 80.000 persone e circa il doppio sono state allontanate dal lavoro e dalle istituzioni pubbliche. Oltre ai presunti golpisti, le purghe sono state estese ai circoli filo-curdi e dell’opposizione, colpendo giudici, insegnanti, attivisti, difensori dei diritti umani e giornalisti. Con un decreto pubblicato domenica 8 luglio, il governo ha ordinato il licenziamento di altri 18.632 funzionari statali, compresi 8.998 agenti di polizia, 6.152 militari e decine di professori universitari. Già oggi il parlamento di Ankara, dove l’Akp di Erdogan ha la maggioranza assoluta insieme ai nazionalisti del Mhp, potrebbe approvare il nuovo pacchetto di norme capestro che resteranno in piedi per 3 anni. Le misure rafforzano i poteri di prefetture e polizia, bandiscono le proteste e i raduni in zone pubbliche dopo il tramonti a meno di speciali autorizzazione. Le autortà locali potranno limitare gli spostamenti delle persone e chiunque sia sospettato di qualcosa potrà essere arrestato, senza accuse, e rinchiuso in carcere per 48 ore o anche per 4 giorni nel caso di offese multiple. Fotis Filippou, il vicedirettore per l’Europa di Amnesty International ha sottolineato come di fatto molte delle norme previste dallo stato di emergenza resteranno in piedi. E al presidente turco Recep Tayyip Erdogan il presidente americano Donald Trump lancia l’appello affinché sia rilasciato il pastore evangelico americano Andrew Brunson, in carcere in Turchia dal 2016 con l’accusa di “essere membro” dell’organizzazione terroristica Feto, alla cui testa vi sarebbe il miliardario e imam Fetullah Gulen. “È una totale disgrazia che la Turchia non faccia uscire di prigione il rispettabile pastore Usa Andrew Brunson. È stato ostaggio per troppo tempo. Erdogan dovrebbe fare qualcosa per rilasciare questo meraviglioso marito e padre. Non ha fatto nulla di sbagliato”, ha twittato Trump. Turchia. “Caro Banksy, ti scrivo dalla cella. Ma grazie a te adesso sono forte” di Zehra Dogan Corriere della Sera, 19 luglio 2018 Lui l’aveva ritratta in un graffito a Manhattan: l’artista curda gli risponde dal carcere. Con un post “scomodo”, due anni fa, è iniziato il calvario di Zehra Dogan; con uno scatto su Instagram, oggi, l’artista e giornalista turco-curda si prende la sua piccola rivincita contro le autorità di Ankara. Arrestata nel luglio 2016 a Nusaybin, la piccola città al confine con la Siria dove viveva e lavorava, nel marzo 2017 Dogan fu condannata a due anni e dieci mesi di carcere. La sua colpa: aver postato sui social media una foto del dipinto con cui raccontava la distruzione della cittadina a maggioranza curda da parte delle forze di sicurezza turche. Un’opera d’arte evocativa: ma per la giustizia di Ankara una prova sufficiente della sua collusione col Pkk e uno strumento di diffusione della sua “propaganda terroristica”. Un anno dopo, a marzo 2018, l’artista britannico Banksy svela un enorme murale a lei dedicato, nel Lower Est Side a New York. Sotto al graffito, che mostra Dogan intrappolata dietro una fila infinita di sbarre, ma con una matita ben stretta in pugno, campeggia la scritta “Free Zehra Dogan”. Una dimostrazione di solidarietà giunta fino al carcere di Diyarbakir dove la giornalista sconta la sua pena. Da qui Dogan è riuscita ad aggirare i filtri di sicurezza e scrivere a Banksy per ringraziarlo del suo impegno. Una lettera, pubblicata su Instagram dallo stesso artista anonimo, che è anche una testimonianza dell’inferno quotidiano vissuto da Dogan. Caro Banksy, ti sto scrivendo questa lettera “illegale” da un carcere, luogo di sanguinose torture, in una città con tante proibizioni, in un paese ricusato. La lettera è illecita perché devo rispettare un “divieto di comunicazione” che mi impedisce di mandare lettere o di fare telefonate, così sto scrivendo e spedendo questa lettera in maniera clandestina. Prima di tutto vorrei parlarti dell’atmosfera che c’è qui, siamo stati portati alla follia a causa dal suono orribile di dozzine di jet da combattimento che partono per bombardare le nostre bellissime terre, montagne e città. Sentiamo questo suono circa una volta all’ora. Sappiamo che ogni jet da combattimento sta uccidendo in poco tempo le nostre sorelle, i nostri fratelli, parenti e animali. È molto difficile descrivere il sentimento che si prova leggendo quasi tutti i giorni sul giornale che qualcuno che conosci è stato ucciso. Era un giorno come questo quello in cui abbiamo sentito che la figlia di un amico che si trova nella nostra stessa prigione era stata uccisa a Afrin. Lo stesso giorno abbiamo scoperto che un’altra prigioniera si é suicidata, impiccandosi con il laccio delle scarpe. Un giorno di morte. In giorni come questi è difficile sopravvivere. Durante i nostri dibattiti quotidiani abbiamo affermato: “Nessuno vede che abbiamo ragione e che veniamo schiacciati e distrutti dai massacri. E anche se lo vedono, nessuno fa niente e tutti rimangono in silenzio. Stiamo vivendo una bugia in una vita immaginaria”. Qualche momento dopo, un amico ha ricevuto i giornali che erano stati spediti e abbiamo visto la tua opera d’arte su Nusaybin e su di me, come protesta contro l’intera carcerazione. In un momento di pessimismo, il tuo supporto ha reso me e i miei amici qui enormemente felici. Lontano da me e dalla mia gente, è stata la migliore risposta al regime corrotto che non tollera nemmeno un’illustrazione. Ciò che caratterizza questo paese, che massacra chi si ribella all’oppressione, ciò di cui ha più paura è mostrare la realtà proprio come uno specchio. Grazie al tuo aiuto la mia illustrazione ha compiuto la sua missione, quella di mostrare le atrocità. Sono rimasta sorpresa quando mi hanno accusata di “portare le persone alla ribellione, alla rabbia e all’odio”. Adesso posso però affermare che “quest’opera ha dato valore al tempo trascorso in prigione perché sono riuscita a mostrare la verità di Nusaybin”. La gente mi ascolta più che mai e, mentre i capi in questo paese che parlano la mia stessa lingua (visto che mi hanno costretto a imparare il turco) non mi capiscono, le persone che vivono in altri paesi che parlano lingue diverse riescono a capirmi. L’arte è un mezzo di comunicazione che va oltre la lingua e la parola. Non finirò mai di ringraziare te e Barf. Non avrei mai potuto immaginare che la mia illustrazione sarebbe arrivata in una città come New York. Passo dodici ore al giorno a immaginare, ma questo va addirittura oltre la mia immaginazione. Adesso mi sento più forte e sto dipingendo Afrin. Perché ne vale la pena. Bielorussia. Attivista Lgbti condannata per “protesta di massa”. Ma era sola… di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 luglio 2018 La sentenza emessa il 16 luglio da un tribunale di Minsk, la capitale della Bielorussia, è tra le più paradossali in cui mi sia recentemente imbattuto. I fatti. A maggio l’ambasciata del Regno Unito espone la bandiera arcobaleno per mostrare solidarietà nei confronti della comunità Lgbti bielorussa. Il 20 dello stesso mese sul portale del ministero dell’Interno viene pubblicato un articolo non firmato contenente, tra l’altro, questa frase: “La comunità Lgbti, tutta questa lotta per i diritti e la Giornata della comunità Lgbti sono cose false”. Quattro giorni dopo un’attivista, Viktoria Biran, si fa scattare una foto da un’amica nei pressi dei palazzi del ministero dell’Intero, dei servizi di sicurezza e del governo. In mano ha un cartello, formato A4, con la scritta “I falsi siete voi!”. Poi pubblica le fotografie sui social. La scena, ripresa dalle telecamere a circuito chiuso che presidiano gli edifici, dura esattamente tre secondi. Ma per la giustizia bielorussa Viktoria ha violato l’articolo 23.34 del codice amministrativo relativo alla “procedura per l’organizzazione e lo svolgimento di eventi di massa”. La sentenza, per quanto mite (una multa di 367,50 rubli bielorussi, al cambio 150 euro), è decisamente assurda.