Questione carceri: le possibili riforme e le riforme possibili di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2018 La situazione nelle carceri italiane sta peggiorando: il tasso di crescita della popolazione detenuta non accenna, infatti, a diminuire: se al 31 gennaio 2012 - alla vigilia, cioè, della condanna dell’Italia in sede europea - i detenuti erano - secondo i dati ufficiali del Dap - 65.701, al 31 gennaio di quest’anno il loro numero era pari a 58.087 e, al 31 maggio, toccava i 58.569. Così se entro la fine dell’anno il trend non dovesse invertirsi, sfioreranno le 59.000 presenze. Non c’è molto tempo per scongiurare il peggio, cioè una nuova “Torreggiani” Il nuovo Ministro della Giustizia ha tratteggiato, nei giorni scorsi, le linee di indirizzo del suo dicastero sulla riforma dell’esecuzione penale e penitenziaria, a iniziare dall’iter dello schema di decreto legislativo attuativo della delega in materia penitenziaria conferita al Governo con la legge 103/2017. Come si ricorderà, lo schema di decreto elaborato dal precedente esecutivo - che attuava, peraltro, soltanto una parte dei molteplici punti che componevano la delega per la riforma dell’Ordinamento penitenziario - aveva già ricevuto i pareri delle Camere. Il Governo, non avendo integralmente recepito le osservazioni delle Camere, aveva ritrasmesso, il 20 marzo, la nuova e definitiva versione dello schema di decreto alle Camere per consentire l’emissione del secondo e ultimo parere. La legge delega (articolo 1, comma 83) prevede, infatti, che i pareri definitivi delle Commissioni competenti siano «espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione» e che, «decorso tale termine, i decreti possono essere comunque emanati». Pur essendo decorsi i dieci giorni, le tormentate vicende politiche di questi ultimi mesi hanno fatto sì che lo schema di decreto - ora tecnicamente adottabile dal Governo senza ulteriori passaggi parlamentari - giaccia tuttora nel cassetto del nuovo establishment, mentre si avvicina la data del 3 agosto, termine decorso il quale non sarà più possibile l’esercizio della delega. Non è, però, un mistero che il nuovo Guardasigilli sia fortemente critico sulla riforma patrocinata dal suo predecessore, ritenuta lesiva del «principio della certezza della pena». Si annuncia, quindi, un intervento di profonda modifica dell’impianto riformatore, che potrebbe svilupparsi attraverso la riscrittura dello schema di decreto già predisposto sulla base delle proposte della Commissione “Giostra”, che si era occupata in particolare delle tematiche afferenti alla vita detentiva e alle misure alternative alla detenzione. Si tratta, tuttavia, di una possibilità che deve fare i conti con una duplice criticità: anzitutto, i tempi ristrettissimi (poco più di un mese e mezzo) in cui tale operazione di revisione dovrebbe svolgersi prima dello scadere del termine di scadenza assegnato dalla legge 103/2017; in secondo luogo, il fatto che i criteri di delega sono ispirati a una ben diversa visione di politica penitenziaria e ben difficilmente, quindi, attuabili dal nuovo esecutivo senza incorrere nell’eccesso di delega. È possibile, tuttavia, che molte delle proposte che hanno trovato provvisoria codificazione nello schema di decreto attuativo possano essere recuperate anche nella mutata cornice: le disposizioni in materia di vita detentiva, di semplificazione delle procedure, di trattamento penitenziario dei soggetti psichiatrici possono essere varate in tempi brevissimi e alcune disposizioni in materia di misure alternative (ad esempio, in tema di risarcimento alle vittime e quelle che assegnano più pregnante ruolo esterno alla Polizia penitenziaria) potrebbero essere valutate con favore anche dal nuovo attore politico. Anche la proposta sulla riforma del lavoro penitenziario può essere realizzata in tempi ragionevolmente rapidi. Più problematica appare la sintesi sulla scottante materia dei benefici penitenziari e sull’area di applicazione della sospensione dell’ordine di carcerazione (portata dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 41/2018 sull’articolo 656, comma 5, del codice di procedura penale, a quattro anni anche per l’affidamento in prova “allargato”). L’alternativa al recupero dell’imponente lavoro già fatto, che inevitabilmente sconterebbe tempi più lunghi, consiste nella promulgazione di una nuova legge delega che contenga delle direttive in linea con la vision dell’attuale esecutivo. È proprio il tempo che pare, tuttavia, in rapido esaurimento. Il tasso di crescita della popolazione detenuta non accenna, infatti, a diminuire: se al 31 gennaio 2012 - alla vigilia, cioè, della condanna dell’Italia in sede europea per il sovraffollamento carcerario e le condizioni inumane di detenzione nelle carceri del nostro Paese - i detenuti erano - secondo i dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - 65.701, al 31 gennaio di quest’anno il loro numero era pari a 58.087 e, al 31 maggio, toccava 58.569 ristretti così che, entro la fine dell’anno, se il trend non dovesse invertirsi, sfioreranno le 59.000 presenze: un numero, cioè, ormai nuovamente pericolosamente vicino a quello corrispondente all’annus horribilis della condanna da parte della Corte di Strasburgo. Le “ricette” per contrastare il patologico fenomeno del sovraffollamento delle strutture penitenziarie sono, in sintesi, tre: accrescere l’offerta di posti negli istituti di pena, realizzando nuove carceri o ampliando quelle esistenti; favorire il deflusso dagli stabilimenti penitenziari attraverso un maggior numero di misure alternative alla detenzione; operare un “mix” tra l’aumento dell’offerta e la diminuzione della “domanda”. Quest’ultima prospettiva era stata seguita dall’intervento riformatore del 2010-11, che aveva affiancato a provvedimenti cosiddetto “svuotacarceri” (proprio allora fu coniato questo sgradevole neologismo) l’introduzione di una nuova forma di esecuzione penale domiciliare, del tutto svincolata da valutazioni di natura premiale e praticamente automatica (l’esecuzione della pena presso il domicilio di cui alla legge 199/2010) e il varo del cosiddetto “Piano carceri” per la realizzazione di nuovi padiglioni in alcuni istituti di pena, a supervisionare il quale fu insediato un Commissario straordinario. Come è noto, tali misure, che pure complessivamente avevano ottenuto un parziale effetto di decrescita della popolazione detenuta (dai 68.258 registrati al 30 giugno 2010 ai 65.701 del 31 dicembre 2012) non si sono dimostrate sufficienti a evitare l’umiliante sentenza Torreggiani del gennaio 2013. Puntare sull’aumento dei posti disponibili negli istituti sembra essere la via prescelta dal titolare di via Arenula, che indica quale priorità la ristrutturazione dei padiglioni negli stabilimenti attualmente esistenti. Si tratta di una strada, certo percorribile, che però sconta non secondari profili critici non solo per i tempi di realizzazione e per i rilevanti costi correlati (destinati, tra l’altro, a divenire “costi fissi” negli anni a venire per l’erario), ma che rischia di incorrere nel fenomeno, statisticamente registrato da molti osservatori delle dinamiche penitenziarie per cui, all’aumentare dei posti disponibili nei carceri, aumenta anche il tasso di carcerazione, con un effetto sostanzialmente neutro per quanto riguarda il contrasto al sovraffollamento. Un intervento in materia di edilizia penitenziaria è comunque ineludibile, nel senso che occorre rapidamente ristrutturare e ammodernare istituti e padiglioni spesso vetusti e fatiscenti (è noto che alcuni istituti penitenziari sono ospitati in strutture che risalgono addirittura al medioevo), con l’obiettivo di assicurare alle persone detenute e internate condizioni materiali di detenzione migliori delle attuali, così da avvicinare il trattamento penitenziario ai parametri individuati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo ed evitare il ripetersi di “affari Torreggiani” che, oltre a essere estremamente costosi per il nostro Paese a causa delle sanzioni pecuniarie inflitte e all’ammontare dei risarcimenti riconosciuti alle vittime delle violazioni accertate, minano alla radice i fondamenti della cooperazione giudiziaria tra gli Stati (è nota, al proposito, la vicenda processuale del rifiuto britannico opposto alla richiesta di estradizione di un boss mafioso formulata dall’Italia, per il ravvisato rischio di trattamenti inumani e degradanti - articolo 3 Cedu - nel caso di detenzione in un carcere italiano). Strutture penitenziarie adeguate sotto il profilo architettonico e delle dotazioni impiantistiche, spazi detentivi conformi alle indicazioni del giudice europeo e un’offerta trattamentale coerente con i bisogni dei ristretti rappresentano, in altri termini, la più efficace difesa che l’Italia può opporre in sede europea di fronte ai ricorsi presentati per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Come ha, infatti, più volte affermato la Corte alsaziana (tra le molte, la nota sentenza 20 ottobre 2016, Mursic contro Croazia), fenomeni di sovraffollamento penitenziario, purché occasionali e non protratti nel tempo, possono essere “compensati” da condizioni materiali di detenzione adeguate e da una sufficiente offerta trattamentale. In questa prospettiva, di cruciale importanza sarà l’attenzione non solo alle strutture materiali, ma anche al personale amministrativo (il numero dei direttori degli istituti di pena in servizio è assolutamente carente rispetto alle necessità), a quello dell’area educativa (le carenze nell’organico di educatori e psicologi sono esiziali per la buona riuscita del percorso rieducativo dei detenuti) e, non da ultimo, al personale di Polizia penitenziaria, il cui profilo professionale e il cui trattamento va riqualificato e adeguato alle delicate mansioni che si trovano a svolgere. *Magistrato presso l’Ufficio di sorveglianza di Venezia e compontente della Commissione “Giostra” per la riforma dell’ordinamento penitenziario Giostra: “Prima di bocciare il decreto carceri, bisognerebbe comprenderlo” di Teresa Valiani Redattore Sociale, 18 luglio 2018 Le Commissioni giustizia dicono “no” alla riforma penitenziaria, Beppe Grillo apre un nuovo fronte. Il presidente Giostra: “Si può affrontare con ottusa partigianeria la scelta di costruire un viadotto o di ospitare le olimpiadi, non quella da cui dipende il rispetto della Costituzione e la qualità della vita di migliaia di persone ristrette”. Tre anni di lavoro, centinaia di persone coinvolte, tra professionisti del diritto, operatori e volontari del settore penitenziario, una ricerca meticolosa che ha passato ai raggi X il sistema carcere cercando le risposte più adeguate per garantire sicurezza e diritti nello stesso tempo, con le poche risorse a disposizione. L’obiettivo rivolto, in linea con la Costituzione, alla responsabilizzazione e al recupero sociale del condannato, la riforma è arrivata con tempi strettissimi all’ultimo metro, ma proprio su quest’ultimo tratto è rimasta incagliata. Le commissioni Giustizia di Camera e Senato dicono “no” agli interventi proposti dai consulenti dell’ex ministro Andrea Orlando, mentre dal suo blog Beppe Grillo riaccende il dibattito “sognando un mondo senza carceri” e riprendendo la direzione tracciata proprio dalle commissioni nominate dall’ex guardasigilli. Con il presidente della Camera, Roberto Fico, ad aprire un ulteriore fronte contro l’attuale orientamento. Glauco Giostra, coordinatore delle commissioni per la riforma e presidente di quella che si è occupata dell’Ordinamento Penitenziario, commenta per Redattore Sociale gli ultimi passi del travagliato percorso e i provvedimenti del nuovo governo. Qual è il suo giudizio sui pareri espressi dalle Commissioni giustizia di Camera e Senato? Si tratta del tentativo molto mal riuscito di motivare a posteriori una scelta radicalmente critica adottata in campagna elettorale senza aver letto il testo della riforma. Entrambe le Commissioni sostengono che la riforma si risolverebbe in una risposta “svuota-carceri”… “Probabilmente per un mio difetto di fantasia, ma mi riesce difficile immaginare una mistificazione più grande. Il Parlamento nel 2017 ha delegato il governo ad approntare il più organico e strutturale progetto riformatore dalla legge di ordinamento penitenziario del 1975. Tra l’altro, approvando questo progetto il legislatore assolverebbe, con più di 40 anni di ritardo, l’impegno assunto in quella circostanza di predisporre una normativa penitenziaria per i minorenni. La riforma intende altresì porre le premesse per introdurre nel nostro ordinamento forme di giustizia riparativa, aggiornare il non più difendibile sistema delle misure di sicurezza, rendere la vita penitenziaria più rispettosa della dignità dei reclusi e più idonea all’osservazione della loro evoluzione comportamentale, promuovere il lavoro intra ed extra murario, prevedere attività socialmente utili svolte dal condannato senza essere retribuito, pretendere un maggiore impegno per fruire di forme alternative di espiazione della pena e potrei continuare per molto. Come si possa dire che un simile disegno riformatore mirasse sostanzialmente a risultati di deflazione carceraria non è facile comprendere. A quei pochi ancora interessati a confrontarsi con i fatti può essere ricordato che la riforma in discussione abroga l’unica normativa “svuota-carceri” presente nel nostro ordinamento (la legge 199 del 2010, che prevede l’ espiazione presso il domicilio delle pene sino a 18 mesi) e non introduce nessuna disposizione “svuota-carceri”, se con questo rozzo termine si intende sensatamente alludere a provvedimenti di automatica de-carcerazione. Vien fatto invece di pensare, ma è imbarazzante crederlo, che qualcuno intenda per “svuota-carceri” ciò che la Costituzione chiama funzione rieducativa della pena: cioè la capacità della pena di tener conto di impegnativi e concreti progressi del condannato per propiziarne un graduale reinserimento sociale”. In effetti, da più parti si invoca la certezza della pena… “Se con lo slogan della certezza della pena si intende dire che la pena debba rimanere immutabile qualunque sia l’atteggiamento del condannato durante la sua esecuzione, allora va detto che così ragionando sarebbe a favore dell’incertezza della pena oltre all’ordinamento penitenziario attualmente vigente, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo che, tra l’altro, ha statuito l’obbligo, a carico degli Stati contraenti, di consentire sempre che il condannato alla pena perpetua possa espiare la propria colpa reinserendosi nella società dopo aver scontato una parte della propria pena. Ma soprattutto sarebbe a favore dell’incertezza della pena la nostra stessa Costituzione. Nelle stesse ore in cui le Commissioni giustizia esprimevano il loro parere, la Corte costituzionale (Sentenza n. 149 del 2018) ha dichiarato illegittima la disposizione che impediva di concedere la semilibertà prima di 26 anni di carcere (invece di 20 secondo la regola generale) ai condannati per sequestro di persona che hanno cagionato la morte del sequestrato. Infatti, ha spiegato la Corte, “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato (…); ma che non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società”. Cosa pensa delle recenti dichiarazioni di Grillo? Penso che vadano particolarmente apprezzate per la loro civiltà, ma anche per il loro coraggio, in quanto sconfessano platealmente tutto quanto vanno affermando i maggiorenti del movimento da lui fondato. L’eliminazione del carcere, beninteso, non è obbiettivo allo stato realisticamente perseguibile. Ciò che si deve eliminare è il ricorso non necessario (e quando non è necessario è controproducente) ad esso. La delega non è ancora scaduta, ma lei appare piuttosto pessimista sulla possibilità che la riforma venga approvata. Mi sentirei uno sprovveduto a non essere pessimista. Di chi è la responsabilità? C’è un concorso di colpa anche da parte del governo precedente? Questa riforma, frutto di un lavoro pluriennale e apprezzata da tutto il mondo scientifico (si sono pronunciate le Associazioni dei penalisti e dei processual-penalisti), dal Cnf, dalla Camere penali, dalla magistratura (tranne singole prese di posizioni), dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti, non vedrà mai la luce per i calcoli elettoralistici, miopi ed infondati, della maggioranza precedente e per il pregiudiziale e cieco antagonismo di quella attuale. Io penso però che si possa affrontare con criteri utilitaristici o con preconcetta e ottusa partigianeria la scelta di costruire un viadotto o di ospitare le olimpiadi, non quella da cui dipende il rispetto della Costituzione, la cifra della civiltà giuridica del nostro Paese, la qualità della vita di decine di migliaia di persone ristrette e, in definitiva, di noi tutti. Carcere: la pena oltre la vendetta di Lucia Castellano* settimananews.it, 18 luglio 2018 Cambiano, in Italia, le politiche dell’esecuzione penale. L’internamento in carcere si va evidenziando come dannoso sia per l’autore del reato sia per la società. La pena scontata sul territorio non va intesa come premio. Ma abbatte la recidiva e afferma diritti. Di colpevoli e vittime. Il nostro paese vive un periodo di grandi cambiamenti rispetto alle politiche dell’esecuzione penale. Il primo decennio del nuovo millennio è stato, infatti, caratterizzato da un approccio che proponeva il carcere come prima scelta del legislatore; le attuali politiche dell’esecuzione penale, viceversa, sono caratterizzate da una totale inversione di tendenza nella costruzione delle risposte alla violazione del patto sociale. Oggi, la consapevolezza che l’internamento carcerario sia dannoso non solo per l’autore del reato, ma anche per i consociati, si è tradotta in una serie di provvedimenti, legislativi e amministrativi, fondati sul presupposto che la detenzione non abbatte i tassi di recidiva e non produce, conseguentemente, sicurezza sociale. Ci si è allontanati dall’inquadramento della pena detentiva come la prima delle sanzioni da infliggere. L’abrogazione di una serie di norme, come quella (legge 251/2005) che puniva in modo esponenziale i recidivi (con la conseguenza di precludere loro l’accesso alla misure alternative anche per reati minori), o la Fini Giovanardi legge 49/2006 (che inaspriva molto severamente il piccolo spaccio di sostanze stupefacenti (con la conseguenza di aprire le porte del carcere ai tossicodipendenti), ha fermato la tendenza al continuo aumento della popolazione detenuta. Inoltre, la condanna inflitta all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per “trattamenti disumani e degradanti” nei confronti dei detenuti (sentenza Torreggiani, 8 gennaio 2013), ha imposto una riflessione sulle politiche di esecuzione penale, da cui sono scaturite norme che riducono i flussi in ingresso, aumentando quelli in uscita dal carcere. Non solo: le normative internazionali ci inducono a disegnare un sistema in cui il probation, la “prova” fuori dalle mura del carcere, sia la regola, mentre il ricorso al carcere viene invocato solo nei casi marginali e di maggiore pericolosità. Ancora, la recente introduzione della “messa alla prova” (legge 67/2014) prevede la sospensione del processo agli imputati per reati minori (fino a 4 anni di pena) che accettino di svolgere lavori di pubblica utilità, a favore dello stato o di altri enti, pubblici e privati, aventi finalità sociali. Con l’estensione agli adulti di questo nuovo istituto, prima ammissibile solo per i minori, può dirsi definito il percorso di costruzione di modelli di esecuzione penale che restituiscono alla pena il valore che la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo le assegnano, relegando la detenzione a ultima ratio. Costruire sicurezza - Le sanzioni cosiddette “di comunità” sono misure che, pur mantenendo la fisionomia della sanzione, devono essere funzionali all’accompagnamento del soggetto nella società, rafforzando, nel contempo, la dimensione riparativa della giustizia penale. È evidente che soprattutto l’implementazione della messa alla prova, ma anche le altre sanzioni alternative al carcere, chiamano a raccolta le istituzioni, pubbliche e private, superando la tendenza all’autoreferenzialità della risposta punitiva. I percorsi di “presa in carico”, attuati insieme alle istituzioni locali e al terzo settore, nella realtà sono però complessi e diversificati, a causa soprattutto delle differenze tra i territori del nostro paese. Negli ultimi 10 anni in Italia è diminuito nettamente il numero dei detenuti (che dal 2016 però è in risalita, ndr), mentre è aumentato quello delle persone che scontano la pena nei territori. Nonostante questa inversione di tendenza, non si assiste però a un aumento della commissione dei reati, che hanno invece un andamento costante nel tempo: questo dovrebbe far riflettere sugli strumenti più idonei a prevenire la recidiva e a costruire sicurezza sociale. Sicuramente, il carcere non è tra questi. No alla cultura trattamentale - L’Italia è dunque oggi chiamata a una sfida epocale: costruire contenuti alle sanzioni di comunità, tali da renderle davvero efficaci a combattere la recidiva. In sostanza, bisogna evitare ogni rischio di confusione con la mera decarcerizzazione, che aumenterebbe la diffidenza, nell’opinione pubblica, riguardo alle alternative al carcere. Per far fronte adeguatamente a questo epocale mutamento di rotta, l’amministrazione della giustizia ha modificato (con vari decreti, a partire dal 2015) il proprio assetto organizzativo, articolandolo in 90 uffici di esecuzione penale esterna, organizzati con una presenza capillare nel territorio nazionale e una forte autonomia gestionale, che supera il principio gerarchico che ha finora connotato i rapporti tra le strutture. In buona sostanza, con la riforma ciascun ufficio viene messo in grado di diventare, gradualmente, una vera e propria agenzia di probation di stampo europeo: a questi uffici è affidata la regia dell’azione delle altre strutture territoriali coinvolte (agenzie per il lavoro, la casa, la formazione professionale, servizi per le tossicodipendenze ecc.). In tal modo si è in grado di offrire, a ciascun condannato, sanzioni con contenuti tali da ridurre davvero la possibilità che si torni a delinquere. L’esecuzione penale esterna abbraccia dunque anche il sociale, discostandosi dalla mera dimensione giudiziaria. La professionalità dell’assistente sociale si configura come quella di un probation officer, ossia il regista di una macchina complessa che reperisce, in coordinamento con il welfare territoriale, soluzioni alloggiative, lavorative e di sostegno, che diano senso e contenuto alla pena. È indispensabile, dunque, rendere le misure di comunità sempre più caratterizzate da contenuti effettivi e controllabili, costruendo così una credibilità del sistema, capace di modificare la diffusa percezione secondo la quale l’unica pena possibile è quella che conduce le persone in carcere. La capacità di organizzare un ventaglio di sanzioni commisurate all’entità della violazioni commesse implica una cultura della pena basata sul rispetto della dignità e dei diritti degli autori di reato e della loro capacità di scelta. Viene progressivamente abbandonata la cultura “trattamentale”, che premia i più meritevoli, concedendo loro di scontare la pena fuori dal carcere. Dobbiamo convincerci che le sanzioni di comunità non sono un premio per chi si comporta meglio, ma vere e proprie pene. Ci si deve lasciare definitivamente alle spalle la dicotomia tra sicurezza e trattamento, alla quale il sistema di esecuzione penale è ancora troppo ancorato. Organizzazione a cascata - A valle della riorganizzazione normativa, come si muove la macchina organizzativa? L’obiettivo del Dipartimento è favorire l’implementazione delle misure, territorio per territorio. A livello centrale, si lavora per indirizzare gli uffici territoriali verso la progettazione congiunta con gli enti locali, il carcere e le istituzioni pubbliche e private, al fine di produrre opportunità e formulare programmi. Il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità sta realizzando un’operazione di traino istituzionale delle articolazioni territoriali, nella direzione della specializzazione sulle tre macroaree in cui si sostanzia il lavoro dell’Uepe, ossia l’implementazione delle misure alternative alla detenzione, il rafforzamento delle relazioni con gli istituti penitenziari e lo sviluppo dell’istituto della messa alla prova. Questo significa, in buona sostanza, chiedere agli uffici locali di costituire il volano per convogliare le risorse territoriali dei servizi verso un sistema integrato di interventi, in modo da ottimizzare i progetti di reinserimento socio-lavorativo dell’utenza e da monitorarne l’andamento. E significa anche, da parte dei Dipartimento, interloquire, a livello centrale, con gli enti, le associazioni, il terzo settore, le organizzazioni di categoria, con lo scopo di implementare, attraverso lo strumento dei protocolli d’intesa e delle convenzioni, la rete di offerta dei servizi, che viene poi concretizzata e ritagliata sulle diverse esigenze locali ad opera degli Uepe locali. È una modalità organizzativa “a cascata”, che vincola le articolazioni territoriali a recepire, sul territorio, opportunità alloggiative, lavorative e formative che vengono proposte con gli accordi centrali. L’obiettivo è rendere omogenea in tutto il paese l’opportunità di scontare la pena all’interno della comunità sociale. Si è consapevoli, infatti, della disomogeneità attuale dell’offerta. Non solo assistenti sociali - Ancora, l’amministrazione della giustizia ha proceduto alla rimodulazione delle strutture degli uffici di esecuzione penale esterna. Significativo è l’impegno, assunto con l’ultima legge di bilancio, di provvedere all’assunzione di 296 funzionari di servizio sociale. In tal modo, oltre a far fronte all’esiguità di personale, si assicura anche il ricambio generazionale, fornendo linfa vitale all’ambizioso progetto riformatore (l’ultimo concorso di settore risale, infatti, al 2001). L’intenzione è lavorare al superamento della mono-professionalità del funzionario di servizio sociale, in favore dell’apertura ad altre figure, che possano contribuire allo sviluppo del lavoro nel territorio. Sono stati recentemente immessi negli Uepe funzionari dell’area pedagogica, psicologi convenzionati con l’amministrazione; ci si avvale, inoltre, del prezioso apporto di 48 volontari del servizio civile per l’anno in corso. Il Dipartimento ha partecipato al bando per il reclutamento anche per il 2019, contando di aumentare il numero di queste risorse giovani, motivate e preziose. Vale la pena citare, in questo processo di cambiamento progressivo, l’accordo di collaborazione con la Conferenza nazionale volontariato e giustizia (cui aderisce anche Caritas Italiana, ndr), sottoscritto il 9 giugno 2017 e finalizzato a favorire, in tutto il territorio nazionale, la stipula di convenzioni per lo svolgimento, da parte di soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, di attività non retribuite a beneficio della collettività, oltre che a promuovere programmi di accoglienza residenziale per persone che altrimenti non avrebbero la possibilità di accedere a misure e sanzioni di comunità. Per la costruzione di sanzioni di comunità è necessario, lo si ribadisce, riconoscere come interlocutori dell’amministrazione della giustizia tanto il volontariato che il terzo settore; è una condizione indispensabile per implementare la presenza di assistenti volontari negli Uepe e rafforzare gli accordi con le agenzie del terzo settore per la costruzione di un’accoglienza all’esterno, che permetta di scontare la pena senza la mortificazione dell’esclusione e dell’isolamento, che sono conseguenza, troppo spesso, di condizioni esistenziali avverse, più che di un’effettiva pericolosità sociale. Il terzo settore rappresenta un ausilio imprescindibile per lo svolgimento del lavoro degli assistenti sociali ed è, soprattutto, il prolungamento dell’istituzione nel territorio. Si pensi per esempio al rapporto da instaurare con i detenuti domiciliari, categoria considerata la più semplice, poiché meno bisognosa di essere seguita rispetto, per esempio, a quella degli affidati in prova al servizio sociale. Eppure anche questi detenuti hanno esigenze a cui gli uffici, pur volendo, non riescono a far fronte, dal mero sostegno psicologico alla soddisfazione dei bisogni primari (spesa, visite mediche, ecc.). Una rete territoriale, in proposito, può rendere più agevole il lavoro agli enti pubblici, ma soprattutto costituisce un aiuto imprescindibile per il raggiungimento dell’obiettivo istituzionale. La casa dei doveri - La pena scontata sul territorio, lo si ribadisce, deve comunque connotarsi come pena. Non si può correre il rischio che sia confusa con la concessione di un beneficio. È prioritario evitare che nell’opinione pubblica si rafforzi la convinzione “meno carcere uguale meno sicurezza per i cittadini”: se nell’immaginario collettivo passa un’equivalenza di tale tipo, si crea un cortocircuito culturale che spingerà a chiedere sempre più carcere, condannando al fallimento qualsiasi politica di ampliamento delle sanzioni di comunità. Occorre, quindi, che qualsiasi azione deflattiva del ricorso al carcere contenga una strategia per realizzare tale obiettivo senza dare l’impressione di spostare il reo dalla pena (carcere) all’area dell’impunità (sanzioni di comunità), a danno della sicurezza dei cittadini. La credibilità del sistema e il conseguente orientamento dell’opinione pubblica rispetto all’efficacia di tali misure passano da questa strada. La riflessione, politica e amministrativa, sulla possibilità di far cambiare rotta alla risposta al crimine si sta dunque concretizzando in un’azione precisa, sostenuta non solo sul piano legislativo dalla riforma in corso, ma anche dall’impegno quotidiano dell’amministrazione, centrale e locale. Il nostro paese sta modificando i propri standard per adeguarli a quelli europei, ma soprattutto per aumentare il livello di sicurezza sociale. Ed è evidente la difficoltà di trasformare un mondo che è incentrato, ancora, sull’esigenza di vendicare le lesioni al patto sociale, infliggendo sofferenza agli autori. Ma sappiamo quale portata devastante possa avere una giustizia che assomiglia a ciò che vuole combattere. Diceva il cardinale Carlo Maria Martini, il cui pensiero è stato anticipatore delle grandi trasformazioni oggi in corso anche nel settore della concezione della pena: “Spesso mi domando: le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani, credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare? Ecco, spiace rispondere di no, non lo crediamo davvero. Nonostante gli insegnamenti religiosi e secolari, nonostante l’apparato normativo, la dottrina e la giurisprudenza”. Oggi potremmo replicare che le istituzioni lo sanno, e il legislatore si sta attrezzando per rendere l’esecuzione penale degna di uno stato di diritto. Le punizioni diventano più credibili, proporzionate all’entità della lesione creata. E, soprattutto, si incentrano sui diritti di chi le subisce e delle vittime delle azioni delittuose. “Chi è orfano della casa dei diritti difficilmente abiterà nella casa dei doveri”, diceva ancora il cardinal Martini. Oggi il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità è impegnato a costruire “la casa dei doveri” sulle fondamenta del rispetto dei diritti umani, dei colpevoli e degli innocenti. *Direttore generale dell’esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia Il carcere non è l’unica risposta che può dare la società di Roberto Davide Papini riforma.it, 18 luglio 2018 Fra sovraffollamento e rischio suicidi, stenta a farsi strada una cultura delle misure alternative. Tra le poche certezze della complicata vicenda delle carceri italiane, oltre al sovraffollamento (58.759 detenuti al 30 giugno 2018 con una capienza ufficiale di 50.632) c’è l’effetto positivo sul calo della recidiva da parte delle misure alternative al carcere. Come riportava Il Dubbio il 16 marzo scorso “dalle statistiche emerge che per chi espia la pena in carcere vi è recidiva nel 60,4% dei casi, mentre per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione il tasso di recidiva è del 19%, ridotto all’l% per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo”. Dati che non lasciano dubbi, così come quelli riportati nel Rapporto 2017 sulle condizioni di detenzione realizzato dall’associazione “Antigone”: la percentuale di revoca delle misure alternative è piuttosto bassa (il 5,92%) “soprattutto se consideriamo le revoche per commissione di nuovi reati”. Oltretutto, di fronte alla singolare tendenza degli ultimi anni di un calo dei reati a fronte di un aumento dei detenuti appare evidente che, come scrive Andrea Oleandri (nel Rapporto di Antigone 2018) “la crescita del carcere non corrisponde all’andamento della criminalità, ma piuttosto al clima culturale e politico”. Il punto, però, è che i fautori di questo “clima culturale e politico” sono andati alla guida del Paese e la visione che il governo “giallo/verde” propone è molto “carcero-centrica”. Fino dal “Contratto per il governo del cambiamento”, infatti si risponde al problema del sovraffollamento con “un piano per l’edilizia penitenziaria che preveda la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento e ammodernamento delle attuali”. Concetti ribaditi dal nuovo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, in un’intervista al Corriere della Sera (18 giugno 2018) prima ribadisce la centralità del principio costituzionale del reinserimento del condannato e poi aggiunge: “Non mi interessa diminuire il numero dei detenuti, ma garantire loro il rispetto della dignità anche in carcere”. Sul rispetto e la dignità siamo tutti d’accordo, tuttavia l’idea di risolvere il problema delle carceri costruendone di nuove, quindi aumentando la capienza penitenziaria invece di diminuire i detenuti in cella attraverso misure alternative (della cui indubbia efficacia sociale e in termini di sicurezza abbiamo già detto), rischia di essere un vasto programma”di improbabile realizzazione. Prima di tutto verrebbe a costare molto e un governo già alle prese con la non facile reperibilità di coperture finanziarie difficilmente porrà questa tra le sue priorità. In secondo luogo si tratta di un’operazione in tempi lunghi, e intanto la situazione nelle carceri italiane è sempre più drammatica: nel 2017 i suicidi sono stati 52, mentre i tentativi sono stati 1.135. Nel 2018 i suicidi in carcere hanno già superato quota 20. Sulla necessità di ristrutturare molte carceri italiane fatiscenti non ci sono dubbi, sul fatto che una grande operazione di edilizia penitenziaria sia la risposta principale alla crisi del sistema le perplessità non mancano. D’altronde, il precedente governo e la relativa maggioranza non è che abbiano da andare molto fieri: dopo aver messo in piedi una coraggiosa riforma penitenziaria attraverso un percorso condiviso da tutte le componenti del settore giustizia, andando proprio verso il rafforzamento delle misure alternative, non hanno avuto il coraggio e la forza di approvarla entro la fine della legislatura. Peccato, un’occasione persa e una delusione nelle carceri dove 10.000 detenuti hanno appoggiato il Satyagraha di Rita Bernardini (del Partito radicale transnazionale) con digiuno, sciopero della spesa e rifiuto del carrello per sollecitare l’approvazione della riforma. Un’iniziativa ignorata dai media mentre “se 10 detenuti devastassero il reparto di un carcere, finirebbero su tutti i tg e giornali”, come osservava amaramente Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera del 21 febbraio 2018. Il dialogo e la nonviolenza, però, restano le uniche strade percorribili, partendo dal rispetto delle regole e delle persone. “In Italia e in Europa - dice Bernardini - è urgentissimo iniziare di nuovo dall’ABC delle regole sui diritti inviolabili imposte dalla nostra Costituzione, dalla Convenzione europea e dalla Dichiarazione Onu sui diritti della persona”. 41bis, no agli incontri con i Garanti regionali di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 luglio 2018 Lo ha deciso la Cassazione accogliendo la tesi del Dap. No alle visite riservate per i detenuti al 41 bis con il garante regionale. La Prima Sezione penale della Cassazione, presieduta da Monica Boni, venerdì scorso ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia che ha consentito al Garante regionale dei detenuti di Lazio e Umbria, l’ex presidente di Antigone Stefano Anastasia, di effettuare un colloquio riservato con il boss della camorra Umberto Onda, detenuto al 41bis a Spoleto (Perugia). L’istituto di pena di Spoleto aveva negato al Garante di Lazio e Umbria il permesso di incontro riservato con Onda. Contro la decisione, nell’interesse di Onda, era stato fatto ricorso al magistrato di sorveglianza di Spoleto che ha dato ragione al detenuto. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ritenendolo un pericoloso precedente, ha proposto appello al tribunale di sorveglianza di Perugia che ha confermato il provvedimento del giudice spoletino. Di diverso avviso la Cassazione che ha annullato l’ordinanza e il caso dovrà essere riesaminato. In sostanza la Corte suprema ha accolto la tesi del Dap che aveva espresso preoccupazione dopo la concessione al Garante regionale dei detenuti di avere colloqui riservati con i carcerati al 41bis. Secondo il Dap, consentire a un numero indefinito di soggetti di avere incontri riservati con i detenuti al regime speciale avrebbe creato un vulnus pericoloso, vanificando uno degli scopi per cui il regime carcerario duro è stato introdotto: cioè impedire la comunica- zione dei mafiosi detenuti con l’esterno. La questione è delicata. Da una parte c’è, appunto, la battaglia intrapresa dal Garante regionale Stefano Anastasìa il quale parla dell’importanza dei colloqui riservati, perché un detenuto al 41bis dovrebbe avere la possibilità di denunciare eventuali abusi senza che i comandanti di reparto o direttore penitenziari lo sappiano immediatamente; dall’altra, invece, ci si oppone perché un garante può diventare - anche inconsapevolmente - un veicolo di messaggi mafiosi per l’esterno. Va specificato che, dopo l’adesione dell’Italia alla Convenzione Onu del 2002 la quale prevede che ogni Stato abbia una figura istituzionale che possa effettuare colloqui riservati con i detenuti, nel 2014 il nostro Parlamento ha previsto l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale con l’emanazione di un apposito regolamento, dove è riconosciuta questa prerogativa: quella di poter parlare in via riservata anche con i detenuti al 41bis. Compito che, appunto, spetterebbe esclusivamente al Garante nazionale. A parte gli avvocati, i garanti regionali o altre figure istituzionali come i parlamentari, la legge riconosce solo il diritto di far visita, ciascuno per specifiche finalità, ai detenuto al carcere duro, ma non in via riservata. Una delle obiezioni sollevate dal magistrato di sorveglianza che aveva dato il via libera ai colloqui non riservati con i detenuti al 41bis, è la mancanza di aggiornamento dell’art. 37 del regolamento dell’esecuzione penale dopo che nell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario relativo ai colloqui è stato inserito il riferimento al “garante dei diritti dei detenuti”. Viene sottolineato l’uso al singolare dell’espressione “garante”, perché non potrebbe essere inteso come riferito a quello nazionale, che non esisteva ancora quando fu maturato l’articolo appena citato: secondo il magistrato di sorveglianza ne risulterebbe svilita la portata della modifica intervenuta nell’art. 18 ord. penit. e soprattutto una siffatta interpretazione sarebbe illogica, privando i garanti locali di uno strumento conoscitivo diretto e efficace. Al di là delle legittime posizioni, resta il fatto che i garanti regionali possono, per legge, ricevere reclami in forma scritta anche in busta chiusa, e ciò al fine di assicurare la dovuta riservatezza. Proprio con quest’ultimo punto, si potrebbe aprire l’ipotesi di valorizzarlo visto che una forma scritta può essere anche una tutela per i garanti visto il clima di sospetto che potrebbe verificarsi e anche un eventuale tentativo, da parte del mafioso al 41bis, di veicolare messaggi all’esterno. Un punto - quello del reclamo a busta chiusa - che, però, secondo il magistrato di sorveglianza del tribunale di Perugia, è anche di forza per sostenere che dovrebbe caratterizzare anche i contatti de visu proprio per consentire al detenuto di sentirsi libero di esprimere le proprie doglianze senza subire condizionamenti di alcun genere. La partita però, per ora, è stata chiusa dalla Cassazione. La riforma della Giustizia secondo il ministro Bonafede di Maurizio Tortorella Panorama, 18 luglio 2018 Le possibilità di realizzazione dei punti del programma del primo Guardasigilli grillino nella storia d’Italia. A due mesi dalla nascita del governo il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, non ha ancora compiuto alcun vero passo concreto. Per ora, il primo Guardasigilli grillino nella storia d’Italia ha parlato attraverso le interviste e le audizioni in Parlamento, dove ha fondamentalmente confermato l’intenzione di attuare i punti dedicati alla giustizia dal “Contratto di governo” del Movimento 5 stelle e della Lega (punti che nei capitoletti successivi vengono riprodotti, testualmente, tra virgolette). Che cosa vuole fare, Bonafede? Le sue tesi sono condivisibili? E, soprattutto, quali probabilità hanno di essere realizzate? Ecco una piccola mappa del Bonafede-pensiero. E delle sue possibilità di andare a segno. Abolire la prescrizione dei reati - “È necessaria una riforma della prescrizione dei reati, parallelamente alle assunzioni nel comparto giustizia: per ottenere un processo giusto e tempestivo ed evitare che l’allungamento del processo possa rappresentare il presupposto di una denegata giustizia”. Lo scorso 11 luglio, durante la sua prima audizione in Senato, il ministro ha ripetuto il mantra del “Contratto di governo” e ha aggiunto di voler bloccare ogni prescrizione dopo il giudizio di primo grado. Vista la maggioranza di cui dispone, è assai probabile che l’idea possa trasformarsi in una riforma: del resto, è anche demagogica e facile da divulgare presso l’opinione pubblica. La proposta, però, rischia di violare il principio costituzionale della ragionevole durata del processo e sicuramente scarica sull’imputato tutte le inefficienze del sistema giustizia: soprattutto su quei 90 mila imputati che in media ogni anno (dato del ministero) vengono riconosciuti innocenti con formula piena e in via definitiva. In realtà, la prescrizione risponde da sempre a una logica corretta, a cavallo tra economicità processuale e buon senso giuridico: lo Stato non può perseguire all’infinito tutti i reati (tranne l’omicidio e la strage, che in Italia infatti sono imprescrivibili) e deve puntare a una sentenza il più possibile tempestiva e vicina al crimine. Abolire la prescrizione, invece, avrebbe il paradossale effetto di allungare ancora di più i processi penali, perché pubblici ministeri e giudici quasi sicuramente lavorerebbero meno di quanto già non facciano. Più giusto sarebbe, al contrario, indagare sulle vere cause e sulle concrete responsabilità della prescrizione: tra 2005 e 2016 (dati ufficiali del ministero della Giustizia) i procedimenti penali prescritti sono stati 1.594.414, dei quali 1.111.608 (il 69,7%) durante le indagini preliminari. Dato che in quella fase iniziale del processo gli avvocati difensori non hanno alcun ruolo, è chiaro che il responsabile della prescrizione in quasi sette casi su dieci è il solo pubblico ministero. Perché, allora, il ministro Bonafede non decide piuttosto di vigilare su quel che accade in quel labirinto imperscrutabile che sono le indagini preliminari? Possibilità di realizzazione: 8 su 10. Bloccare la riforma delle intercettazioni - Il 22 giugno, il ministro Bonafede ha annunciato il blocco della riforma delle intercettazioni. Il provvedimento, varato dal governo Gentiloni lo scorso gennaio, avrebbe dovuto entrare in vigore il 12 luglio: uno dei suoi principali obiettivi era porre un limite alla divulgazione delle parti penalmente irrilevanti delle conversazioni intercettate. Ma il provvedimento targato Pd contiene anche scelte controverse. L’Associazione nazionale magistrati, per esempio, ne ha criticato la scelta di limitare l’uso dei “trojan”, i dispositivi da intercettazione più intrusivi (ma spesso anche più efficaci), e questo anche nelle indagini di mafia; mentre fa paura soprattutto agli avvocati che le intercettazioni ritenute irrilevanti “non verranno trascritte ma sarà indicato nel verbale soltanto il tempo di registrazione e l’utenza intercettata senza che ne venga indicato anche in minima parte il contenuto”. È un sistema, insomma, che lascia tutto nelle mani della polizia giudiziaria: non consente alcun controllo da parte del pm, e tanto meno del difensore. Ora si vedrà presto dove e come intenderà agire il ministro Bonafede. È possibile che faccia semplicemente marcia indietro, visto che da sempre i grillini (avvolti come in una bandiera nello slogan “intercettateci tutti”) hanno parteggiato la libertà integrale di pubblicare sui giornali le intercettazioni, rilevanti o meno, nemmeno si trattasse di un metafisico mantra della trasparenza. In quel caso, Bonafede troverà forse qualche resistenza nell’alleato leghista. Ma non è poi detto. Possibilità di realizzazione: 5 su 10. Pene più severe - “È prioritario l’inasprimento di pene per la violenza sessuale, con nuove aggravanti e aumenti di pena quando la vittima è un soggetto vulnerabile ovvero quando le condotte siano particolarmente gravi”. Nessun giurista degno di questo nome ha mai sostenuto che un aumento di pena produca un calo dei reati. La prospettiva “manettara” del Contratto, in questa e in altre parti del capitolo giustizia, è un chiaro obiettivo del contributo grillino, ma è illusoria. È stato così, del resto, anche con la legge sull’omicidio stradale. Introdotto nel maggio 2016 proprio su istanza del Movimento 5 stelle, il reato prevede fino a 18 anni di reclusione per quello che è in realtà un omicidio colposo, cioè non volontario. In realtà la nuova legge sull’omicidio stradale ha avuto un solo effetto: l’incremento delle omissioni di soccorso (nei primi sei mesi dal varo della norma sono state 556, contro le 484 dello stesso periodo del 2015, quindi 72 in più con un incremento del 14,9%) perché gli investitori purtroppo fuggono in quanto terrorizzati dalle pene troppo elevate. Anche i morti sulle strade sono aumentati: nel 2017 sono stati 1.578 contro i 1.548 del 2016, il 7,4% in più. Questo non vuol dire che gli inasprimenti delle pene non passeranno. Anzi, questa è probabilmente una delle parti del programma di governo più demagogiche e insieme più facili da mettere in opera. Possibilità di realizzazione: 9 (forse 10) su 10. Costruire nuove carceri - “È indispensabile dare attuazione a un piano per l’edilizia penitenziaria che preveda la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento e ammodernamento delle attuali”. È vero che la stragrande maggioranza delle 190 prigioni italiane (che allo scorso 30 giugno ospitavano 58.759 detenuti, 8.127 in più rispetto alla “capienza regolamentare” prevista di 50.632) sono vecchie, mal gestite e costose: e infatti ogni anno il nostro degradato - e degradante - sistema penitenziario assorbe la follia di 2-3 miliardi di euro. Però ogni piano di edilizia carceraria nella storia della Repubblica si è sempre risolto in poche nuove prigioni e in grandi corruttele. Il Contratto di governo ora vorrebbe abolire le pene alternative e punta alla cella come unica punizione. Ma il rischio è quello di accrescere gli iscritti a quella vera e propria “università della delinquenza” attiva nelle prigioni italiane: chi entra in una cella ne esce con una formazione criminale più elevata. Al contrario, bisognerebbe incentivare soprattutto il lavoro dei detenuti, magari anche formandoli professionalmente come avviene in rare carceri-modello (come quella di Opera, vicino a Milano). È un dato inconfutabile che la recidiva in Italia è al 67%, contro medie vicine al 10% in queste poche strutture “avanzate”. E altrettanto avviene in tutti i Paesi europei che adottano un sistema di lavori più o meno forzati, in carcere o fuori. Purtroppo questo tipo di logica fa fatica ad attecchire in Italia. Possibilità di realizzazione: 3 su 10. Lotta alla corruzione - “L’aumento delle pene per tutti i reati contro la pubblica amministrazione di tipo corruttivo (…). L’introduzione della figura dell’agente sotto copertura e la valutazione della figura dell’agente provocatore in presenza di indizi di reità, per favorire l’emersione di fenomeni corruttivi nella Pubblica amministrazione”. Dell’inefficacia di ogni aumento delle pene si è già detto. L’agente sotto copertura è già previsto dal nostro ordinamento giudiziario e funziona per esempio nelle indagini contro il traffico di stupefacenti o nell’antimafia. L’agente provocatore, invece, ha la funzione di “indurre al reato”, e per questo nel 2013 è stato dichiarato “illegittimo” dalla Corte di cassazione. Altrettanto hanno fatto alcune sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo. Lo stesso Raffaele Cantone, presidente dell’Agenzia anticorruzione, si è detto contrario. Più favorevoli sono alcune fasce della magistratura che si stanno scoprendo fiancheggiatrici del “neo-giustizialismo” grillino. Possibilità di realizzazione: 5 su 10. Riaprire i piccoli tribunali - “Occorre una rivisitazione della riforma del 2012, che ha accentrato sedi e funzioni giudiziarie, con l’obiettivo di riportare tribunali, procure e uffici del giudice di pace vicino ai cittadini e alle imprese”. È una proposta che piace a grillini e leghisti, perché ha origine in evidenti input campanilistici. Sei anni fa, la razionalizzazione della “geografia giudiziaria” ha soppresso una trentina di piccoli e minuscoli tribunali (Alba, Rossano Calabro, Tortona, Voghera…) e oltre 220 sezioni giudiziarie distaccate il cui lavoro era insignificante, ma anche inutilmente costoso. Trasferire magistrati e personale amministrativo nelle sedi più importanti è stato difficile, ma finalmente l’operazione è andata a regime e ha prodotto fin qui risparmi notevoli, sui 200-300 milioni di euro. Tornare indietro, oltre che molto complesso, è semplicemente un nonsense: economico e gestionale. Possibilità di realizzazione: 6 su 10 Stop alle “porte scorrevoli” dei magistrati in politica. Il 2 luglio, Bonafede ha annunciato che cercherà in tutti i modi d’impedire ai magistrati che siano entrati in politica di rientrare nel loro vecchio ruolo, alla fine della loro esperienza in Parlamento o negli enti locali. L’idea di base è corretta, ma è anche di difficile applicazione: al momento, le garanzie costituzionali non pongono limiti all’esercizio attivo e passivo del mandato politico né ai pubblici ministeri, né ai giudici. Così la proposta del ministro divide. E infatti ha sollevato perplessità e plauso nelle correnti giudiziarie. Se Autonomia & indipendenza, il movimento dei magistrati fondato da Piercamillo Davigo, difende la linea dura che piace a Bonafede, Unicost (la corrente di maggioranza centrista) e Magistratura indipendente (appena più a destra) si oppongono. Ancora più negativa la sinistra giudiziaria di Magistratura democratica e di Area. Insomma, no pasaran. Possibilità di realizzazione: 1 su 10. Sfida sulla legittima difesa, la destra contro i limiti. Pd: così arriva il Far West di Liana Milella La Repubblica, 18 luglio 2018 Cinque proposte all’esame. Il relatore leghista Romeo: “Via il criterio della proporzionalità chi è aggredito non va processato”. La dem Rossomando: “Pericolosa la giustizia fai da te”. Il diritto di difendersi, senza se e senza ma”. È il primo “comandamento” di Matteo Salvini e della Lega. Da sempre. Ci hanno provato in tutte le legislature. Ci riprovano anche in questa. Tant’è che oggi al Senato, nella commissione Giustizia presieduta dal leghista Andrea Ostellari, comincia la battaglia per cambiare l’articolo 52 del codice penale, quello sulla legittima difesa, nella versione licenziata nel 2006 dall’ex Guardasigilli del Carroccio Roberto Castelli. Allora sembrò l’equilibrio perfetto, il massimo possibile nel rispetto della Costituzione. Tuttora lo pensano i magistrati italiani. Lo stesso Ostellari, ex vice procuratore onorario e oggi avvocato a Padova, sarà il relatore. Cinque proposte sul tavolo - della Lega, due di Forza Italia, di Fratelli d’Italia, e una di iniziativa popolare - che perseguono tutte un obiettivo molto simile, la possibilità di difendersi più liberamente senza poi finire indagati e quindi sotto processo. Ma la battaglia sarà durissima. Tant’è che, dalla vice presidenza del Senato, già ieri la dem Anna Rossomando, avvocato e orlandiana di ferro, ha twittato contro Salvini: “Caro Matteo, la giustizia “fai da te” mette in pericolo i cittadini onesti. La sicurezza non si costruisce con più armi in giro. Le armi vanno tolte ai delinquenti, non date a tutti”. Per chiudere con un chiaro riferimento al protocollo firmato da Salvini con i produttori di armi svelato da Repubblica: “No alla corsa alle armi che state alimentando: è pericolosa”. Un’intesa che mette in allarme tutto il Pd. Tant’è che nelle stesse ore alla Camera, Piero De Luca, capogruppo Pd della commissione Politiche Europee, lancia lo slogan della giornata: “Non cediamo alle lobby così care a Salvini. Non rendiamo l’Italia un Far West. Per avere più sicurezza bisogna dare più sostegno e risorse alle forze dell’ordine, non militarizzare i cittadini”. Ma Salvini va avanti e strattona anche il Guardasigilli Alfonso Bonafede, tant’è che tra le proposte di legge non ce n’è una grillina, e M5S e lo stesso Bonafede stanno a guardare quale sarà la scelta della commissione sul testo base. L’alternativa è tra quello della Lega che, come conferma il primo firmatario Massimiliano Romeo, “è il nostro testo storico che Nicola Molteni, oggi sottosegretario all’Interno, aveva già proposto alla Camera nella scorsa legislatura”. Oppure si andrà a un testo base che fonde i vari ddl? Salvini ne annuncia i principi base, “il sacrosanto diritto di difendersi all’interno della propria abitazione perché se mi trovo una persona armata e mascherata alle 3 di notte non sta a me capire se ha un’arma finta, ma ho il diritto di difendermi senza se e senza ma”. È il suo slogan. Che Romeo traduce in battaglia parlamentare: “Vogliamo superare il criterio della proporzionalità tra difesa e offesa, per questo parliamo di presunzione di legittima difesa. Oggi chi ha subito un’intrusione poi deve subire un processo che dura nel tempo. Ma per noi la difesa è sempre legittima, il fascicolo va chiuso rapidamente. E soprattutto la vittima non deve dimostrare le ragioni e la proporzionalità della difesa”. Sarà il Far West? Romeo: “No, perché noi inaspriamo le pene per il furto, togliamo le attenuanti, e questo mix non crea Far West. Il Pd, da cui ci aspettiamo di tutto, fa solo strumentalizzazioni politiche”. Eppure il ministro Bonafede appare preoccupato. Non piglia le distanze da Salvini, ma ripete che “la legittima difesa non riguarda la sicurezza, l’equivoco va cancellato. Il punto è togliere le zone d’ombra in modo che la legittima difesa possa essere provata meglio di quanto non accade ora. Il cittadino costretto a difendersi deve sentire che lo Stato gli è vicino anche dopo, perché non è possibile che ci sono cittadini costretti ad attraversare un percorso giudiziario complesso per dimostrare la loro legittima difesa”. Sembra quasi il preannuncio di una proposta di legge che però al momento non c’è. Omertà di Stato su mio padre di Fiammetta Borsellino La Repubblica, 18 luglio 2018 Sono passati 26 anni dalla morte di mio padre, Paolo Borsellino, ucciso a Palermo insieme ai poliziotti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. E, ancora, aspettiamo delle risposte da uomini delle istituzioni e non solo. Ci sono domande - le domande che io e miei fratelli Manfredi e Lucia non smetteremo di ripetere - che non possono essere rimosse dall’indifferenza o da colpevoli disattenzioni. Domande su un depistaggio iniziato nel 1992, ordito da vertici investigativi ed accettato da schiere di giudici. 1. Perché le autorità locali e nazionali preposte alla sicurezza non misero in atto tutte le misure necessarie per proteggere mio padre, che dopo la morte di Falcone era diventato l’obiettivo numero uno di Cosa nostra? 2. Perché per una strage di così ampia portata fu prescelta una procura composta da magistrati che non avevano competenze in ambito di mafia? L’ufficio era composto dal procuratore capo Giovanni Tinebra, dai sostituti Carmelo Petralia, Annamaria Palma (dal luglio 1994) e Nino Di Matteo (dal novembre 1994). 3. Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm allora parlamentare Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti? 4. Perché i pm di Caltanissetta non ritennero mai di interrogare il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco, che non aveva informato mio padre della nota del Ros sul “tritolo arrivato in città” e gli aveva pure negato il coordinamento delle indagini su Palermo, cosa che concesse solo il giorno della strage, con una telefonata alle 7 del mattino? 5. Perché nei 57 giorni fra Capaci e via D’Amelio, i pm di Caltanissetta non convocarono mai mio padre, che aveva detto pubblicamente di avere cose importanti da riferire? 6. Cosa c’è ancora negli archivi del vecchio Sisde, il servizio segreto, sul falso pentito Scarantino (indicato dall’intelligence come vicino ad esponenti mafiosi) e sul suo suggeritore, l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera? 7. Perché i pm di Caltanissetta non depositarono nel primo processo il confronto fatto tre mesi prima fra il falso pentito Scarantino e i veri collaboratori di giustizia (Cancemi, Di Matteo e La Barbera) che lo smentivano? Il confronto fu depositato due anni più tardi, nel 1997, solo dopo una battaglia dei difensori degli imputati. 8. Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione? 9. Perché la pm Ilda Boccassini (che partecipò alle prime indagini, fra il giugno e l’ottobre 1994), firmataria insieme al pm Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia? 10. Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba? Perché i pm non ne fecero mai richiesta? E perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo? 11. Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione? 12. Il 26 luglio 1995 Scarantino ritrattava le sue dichiarazioni con un’intervista a Studio Aperto. Prima ancora che l’intervista andasse in onda, i pm Palma e Petralia annunciavano già alle agenzie di stampa la ritrattazione della ritrattazione di Scarantino, anticipando il contenuto del verbale fatto quella sera col falso pentito. Come facevano a prevederlo? 13.Perché Scarantino non venne affidato al servizio centrale di protezione, ma al gruppo diretto da La Barbera, senza alcuna richiesta e autorizzazione da parte della magistratura competente? Caso Cucchi, Ilaria in aula: “aveva sul volto la solitudine della morte” di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 18 luglio 2018 La deposizione della sorella di Stefano al processo bis contro i carabinieri. Il film di quei giorni: “Ci dissero che stava bene, poi arrivò il decreto dell’autopsia. Dopo gli anni della droga aveva ricominciato a vivere”. “L’ultima volta l’ho visto due giorni prima del suo arresto”. Inizia così la lunga deposizione a processo di Ilaria Cucchi. È il processo Cucchi bis, in cui sono imputati i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, tutti accusati di omicidio preterintenzionale (si tratta dei militari che la procura indica come coloro che arrestarono Stefano Cucchi); in più c’è il maresciallo Roberto Mandolini, che risponde dei reati di calunnia e falso, mentre Vincenzo Nicolardi, insieme a Tedesco, è accusato di calunnia nei confronti di tre agenti della penitenziaria, processati per questa vicenda e poi assolti. I problemi con la droga, poi una nuova vita - “Mio fratello ha avuto problemi di tossicodipendenza. Aveva iniziato ad avere cambi di umore. Non ce la potevamo fare da soli ad aiutarlo. Nel 2004, il 4 gennaio, Stefano decise di entrare in comunità. Ci rimase fino al maggio 2007. Fu un percorso a vari stadi. Nel novembre 2007, però, mio fratello ebbe una terribile ricaduta. Lui iniziò con le droghe leggere fino ad arrivare all’uso di cocaina ed anche eroina”. Stefano, ha ricordato Ilaria a processo, “era uscito dai problemi, anche grazie a una nuova comunità, nel settembre 2008. Era andato a vivere a Morena. Si stava riprendendo la sua vita, cercava di dimostrare agli altri di essere all’altezza. Aveva un progetto per realizzare una costruzione. Aveva anche ordinato dei biglietti da visita. Andava a messa la mattina presto, andava a correre, lavorava. Poi andava a fare pugilato”. L’avvocato difensore negato - “Quella notte (il 15 ottobre 2009, ndr) venne arrestato con Emanuele Mancini, un suo amico. Io parlai con Emanuele solo dopo la morte di Stefano. Gli chiesi come fosse andata la vicenda dell’avvocato. Mancini mi disse che Stefano, dopo l’arresto, alla stazione Appia, chiedeva dell’avvocato Stefano Maranella, il legale cui la nostra famiglia si rivolge. È un amico. Ma la cosa da parte dei carabinieri non fu fatta. Lo trattarono malissimo anche verbalmente. Mi riferirono che gli venne detto: guarda, come minimo hai l’Aids, non fai schifo?”. Il processo per direttissima a Stefano - “Mio padre ci raccontò l’arrivo di Stefano in aula. Era preoccupato. Alla mia domanda: come sta Stefano? rispose: Ilaria, tuo fratello ha il volto gonfio. In quel momento pensai: forse questa è la volta buona che capisce (in seguito mi pentii amaramente di questo pensiero). Prima dell’udienza, mio padre si avvicinò all’avvocato Stefano Rocca (il legale nominato d’ufficio, ndr), e gli disse: io la pago. Come per dirgli: lavori bene. Poi Stefano gli si avvicinò con le manette ai polsi. E lui gli disse: adesso ci sarà solo la comunità”. L’ospedale e il muro di gomma - “Il sabato sera vengono a casa dei carabinieri a notificare che Stefano era stato trasferito all’ospedale Sandro Pertini. I miei si preparano e vanno al Pertini. Il lunedì gli viene spiegato che non possono parlare con i medici: ci vuole l’autorizzazione del pm. Allora parlano con una poliziotta della giudiziaria e lei gli assicura che mio fratello sta bene. Invece Stefano era agonizzante”. La notizia della morte da un decreto di autopsia - “Siamo venuti a conoscenza della morte di mio fratello tramite un decreto di autopsia. Io non ho capito bene a che ora è morto. Ricordo che salgo a casa di mia madre, lei apre la porta con questo foglio in mano. E mi dice: Ila, stefano è morto. Ma come, le dico, sei giorni fa stava bene? Non può essere morto. Pensavo ad uno sbaglio. Andiamo al Pertini e un poliziotto della penitenziaria mi dice: suo fratello si è spento. Ma come si è spento?, replico io. E il poliziotto: guardi, le carte sono in regola. A questo punto arriva arriva una dottoressa e ci dice: ma perché non avete chiesto di parlare con i medici? Mia madre sbotta: sono giorni che chiediamo di parlare con lui”. Lo shock all’obitorio - “Quando arriviamo all’obitorio ci sono due agenti in borghese. Ci fiondiamo nel corridoio, chiediamo di vedere Stefano. Ci dicono che non è possibile. Dopo dieci minuti arriva il fax del pm che ci autorizza. Viene aperta la porta: io non entro, i miei si precipitano dentro. Sento le urla disperate dei miei genitori: oddio, cosa ti hanno fatto? Allora sono entrata. Una scena pietosa, non mi sembrava lui. Era dietro a questa teca di vetro. Guardavo l’espressione del suo volto per capire cosa fosse successo. Aveva il volto tumefatto, un occhio fuori dall’orbita, una mascella visibilmente rotta. E poi l’espressione del volto. Rappresentava la sofferenza, la solitudine di come è morto. Allungai la mano per toccarlo, ma la mano si fermò sul vetro”. Misure cautelari nulle se la motivazione non si confronta con la tesi della difesa e copia il pm di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione VI - Sentenza 10 luglio 2018 n. 31370. Per soddisfare l’obbligo di motivazione, sul quale si regge la conferma di una misura cautelare restrittiva, il Gip deve esprimersi sulla posizione del singolo indagato e confrontarsi con gli argomenti della difesa. Per scongiurare la nullità dell’ordinanza non basta, infatti, prendere le distanze rispetto all’accusa su alcune posizioni, o diverse contestazioni. La Corte di cassazione, con la sentenza 31370, torna sugli obblighi stringenti di una specifica e articolata motivazione espressamente indicati, anche se già esistenti, dalla legge 47/2015 che ha modificato il codice di rito di in tema di misure cautelari personali. I giudici della sesta sezione, accolgono il ricorso di un indagato per partecipazione ad associazione mafiosa, per il quale era stata confermata la custodia in carcere, sulla base di un’ordinanza, a detta della difesa, “contraddistinta” dalla tecnica del copia e incolla e appiattita sulla richiesta del Pm. Secondo il ricorrente i giudici del riesame non avevano valorizzato gli elementi a suo favore, che avrebbero consentito di ipotizzare, al massimo, un appoggio esterno alla cosca. Ma per il Tribunale della libertà, che aveva respinto il ricorso, l’ordinanza non aveva vizi genetici ed era valida. La prova dell’autonoma valutazione e del senso critico esercitato dal Gip, stava nella mancata adesione alle tesi dell’accusa sulle posizioni di altri indagati e capi su diversi capi di incolpazione. Ad avviso della Suprema corte però lo “scollamento” parziale non prova la puntualità della motivazione, fortemente legata alla tecnica di redazione del provvedimento. Senza “demonizzare” il copia e incolla e prescindendo dall’obbligo di usare “parole diverse”, la Cassazione chiarisce che il giudice non può esimersi dal valutare la legittimità e la consistenza degli elementi disponibili sul singolo caso: pena la violazione del diritto di difesa e la nullità, rilevabile anche d’ufficio, dell’ordinanza. Ritenere sufficiente nei giudizi cumulativi, il parziale diniego del giudice ad alcune richieste del Pm o una diversa graduazione delle misure, vuol dire - conclude la Cassazione - entrare in contrasto con la natura stessa del giudizio “sulla libertà”. Un “verdetto” nel quale è in gioco un diritto fondamentale dell’individuo al centro del quale va messo il soggetto. Sul nuovo concordato in appello ricorso solo per motivi limitati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2018 Corte di cassazione, Seconda sezione penale, sentenza 9 luglio 2018, n. 30990. È tornato dopo un’assenza di (quasi) 10 anni. E la Cassazione, in una delle primissime sentenze sulla nuova versione dell’istituto, torna a occuparsene. Si tratta del concordato in appello, della possibilità di accordo cioè tra accusa e difesa sull’accoglimento totale o anche solo parziale, dei motivi di appello in maniera da tagliare i tempi del giudizio di secondo grado (anche se la proposta di concordato può essere riproposta in dibattimento). L’istituto, cancellato nel 2008, è tornato in vigore dall’estate scorsa, con la legge di riforma del processo penale, la numero 103 del 2017. Ora la Corte di cassazione, con la sentenza 30990/2018 della Seconda sezione penale, chiarisce quando è possibile impugnare la pronuncia concordata: gli unici motivi proponibili con il ricorso per Cassazione sono relativi alla formazione della volontà della parte di accedere all’istituto, al consenso del Procuratore generale sulla richiesta e al contenuto difforme della pronuncia del giudice, mentre non si può fare ricorso per i motivi rinunciati oppure per la mancata valutazione delle condizioni per il proscioglimento. La Corte ha così giudicato inammissibile il ricorso presentato dalla difesa di una persona condannata dopo l’applicazione in appello del concordato. In particolare, si metteva in evidenza un vizio di motivazione in riferimento all’attribuzione della responsabilità. Nell’affrontare la questione, la Cassazione smonta innanzitutto la pretesa equivalenza quanto a motivi di ricorso tra patteggiamento e concordato in appello. La sentenza ricorda, invece, come l’unico riferimento fatto dal Codice di procedura penale al nuovo articolo 599 bis (che ha appunto reintrodotto il concordato in secondo grado) riguarda il fatto che la Cassazione può pronunciare un giudizio di inammissibilità senza particolari formalità e in assenza di contraddittorio sull’impugnazione della pena concordata. Di conseguenza, puntualizza allora la Cassazione, si deve ritenere che gli unici motivi che possono essere proposti hanno a che fare con la volontà della parte di utilizzare l’istituto, con l’assenso del Pg alla richiesta e alla diversità tra la pronuncia del giudice e l’accordo raggiunto. Nessuno spazio invece per altri e aggiuntivi motivi. E questa conclusione è oltretutto corroborata dalla giurisprudenza della Corte, antecedente l’abrogazone della prima versione del concordato in appello. Già allora, infatti, si era stabilito che il giudice di secondo grado, nell’accogliere la richiesta avanzata, non è tenuto a motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per le cause previste dall’articolo 129 del Codice di procedura (tra le quali, il riconoscimento che il fatto non esiste o che l’imputato non lo ha commesso) e neppure sulle cause di nullità o di inutilizzabilità della prova. Una conseguenza questa della rinuncia da parte dell’imputato ad alcuni dei motivi di impugnazione, con la cognizione del giudice limitata a quei soli motivi invece che non sono stati oggetto di rinuncia. E visto che l’imputato aveva rinunciato ai motivi di appello sulla responsabilità e proposto l’accordo solo sull’entità della pena, l’esito era obbligato. Stalking aggravato dai futili motivi se la passione non è corrisposta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione 33127 - Sentenza 17 luglio 2018 n. 33127. Stalking con l’aggravante dei futili motivi per la donna che si invaghisce, non corrisposta, di un collega di lavoro fidanzato, costringendo lui e la sua compagna a cambiare stile di vita e a teme per la loro incolumità. Ad aggravare la situazione dell’imputata anche la sostituzione di persona, visto che le lettere ingiuriose erano firmate da una terza estranea, considerata anche questa vittima delle azioni persecutorie. La Cassazione, con la sentenza 33127, usa la tolleranza zero nei confronti dell’imputata che rifiutava, non solo l’imputazione, ma anche di vedere bollata come futile la sua insana gelosia. La Suprema corte spiega invece che il “movente” della gelosia può essere considerato non futile, facendo così cadere l’aggravante, quando è il risultato di una spinta davvero forte dell’animo umano tale da indurre a gesti del tutto inaspettati e illogici da parte di chi, nell’ambito di un rapporto sentimentale, consideri la vittima di sua appartenenza. Non può invece essere considerato, ai fini dell’esclusione dell’aggravante dei futili motivi, lo stato d’animo passionale della gelosia quando il “sentimento” è frutto di una unilaterale presa di posizione del persecutore nei confronti di una vittima addirittura ignara dei suoi sentimenti. I giudici negano le attenuanti generiche, nel caso esaminato, definito inquietante. Una vicenda nella quale l’imputata, sull’onda di un “insano capriccio” aveva coinvolto più persone, compresa una donna, il cui nome era stato utilizzato per inviare lettere infamanti e minacciose al suo “amore” che la ignorava, alla fidanzata di lui e al loro datore di lavoro. Il risultato è stato uno stato d’ansia generato in tutti i soggetti passivi coinvolti. La persona che a sua “insaputa” era usata come autrice delle missive aveva anche cambiato lavoro, anche nei suoi confronti l’imputata risponde del reato di stalking aggravato. Bimbo investito: reato per la madre che non lo tiene per mano di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 28 giugno 2018 n. 29505. I giudici della quarta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 29505 del 28 giugno 2018 ribadiscono la condanna per cooperazione nell’omicidio colposo del figlio, alla madre, investito nell’attraversamento stradale, per non aver adottato le dovute cautele atte a impedire l’evento. La vicenda - La Corte territoriale di Messina aveva confermato la sentenza di condanna del Tribunale di quella città nei confronti di una donna per il reato di omicidio stradale perché in cooperazione colposa con un automobilista aveva contribuito a cagionare la morte del figlio. L’automobilista nel circolare aveva urtato il bambino che stava attraversando la strada e a causa delle gravissime lesioni era poi deceduto. La madre del minore veniva ritenuta responsabile del reato di omicidio stradale in quanto aveva omesso di esercitare la dovuta vigilanza e cautela durante la fase di attraversamento, cioè quella di accertarsi che non provenissero veicoli ma, soprattutto, quella di tenere per mano il bambino, non impedendo così il verificarsi dell’evento che aveva l’obbligo giuridico di evitare ricoprendo la massima posizione di garanzia sulla vittima, bambino di appena tre anni. Contro la decisione della Corte territoriale l’imputata aveva proposto ricorso per cassazione lamentando violazione di legge e di motivazione sulla ritenuta sussistenza del nesso causale in quanto l’incidente poteva essere considerato evento eccezionale capace di escludere il rapporto di causalità. La decisione - Una volta che la vicenda giudiziaria è giunta in Cassazione gli Ermellini hanno respinto il ricorso confermando la condanna in quanto deve ritenersi colpevole per cooperazione nell’omicidio colposo del figlio, investito mentre attraversava la strada, la madre che non ha utilizzato le dovute cautele nella predetta fase di attraversamento, come quella di assicurarsi previamente che non provenissero veicoli e, soprattutto, quella di tenere per mano il figlio. Questo leggero e censurabile comportamento non aveva impedito il verificarsi dell’evento, prima l’investimento e poi la morte del bambino, e la madre del piccolo, assieme al conducente della vettura che lo aveva urtato, nei confronti del quale si è proceduto separatamente, è stata ritenuta responsabile dell’accaduto. La conferma della condanna è avvenuta nonostante la donna avesse lamentato l’insussistenza del nesso causale, in quando l’incidente sarebbe stato un evento eccezionale, capace di escludere il rapporto di causalità. Una doglianza inammissibile, secondo la Suprema corte, che rende il ricorso generico e fondato sugli stessi motivi già proposti in appello e motivatamente respinti in secondo grado. Nel caso de quo, chiariscono i giudici di Piazza Cavour, non può revocarsi in dubbio la ricostruzione operata dalle sentenze di merito, neppure il ricorso è dotato dei richiesti requisiti di specificità e pregnanza: infatti, non è ammissibile considerare quale causa interruttiva del nesso causale l’incidente occorso al minore durante l’attraversamento della strada, dovendosi, al contrario, considerare l’evento come realizzato in cooperazione colposa fra la conducente del veicolo e la madre. Liguria: emergenza salute nelle carceri liguri di Donatella Alfonso La Repubblica, 18 luglio 2018 Lo studio dell’associazione Antigone mette in luce il problema del massiccio ritorno della droga nei penitenziari. Sovraffollamento, carenza di operatori sociali e mancanza di un Garante dei detenuti complicano la situazione. La vera emergenza nelle carceri liguri è la salute. Quella della mente, messa a dura prova non solo dall’esperienza carceraria, ma anche dal massiccio ritorno della droga e da condizioni logistiche e di sovraffollamento che, nel caso di Marassi ma non solo, sono tornate ad essere difficili. Lo dicono i dati del XIV rapporto “Un anno in carcere” messo a punto dall’Associazione Antigone e presentato recentemente a Genova. “In media la Liguria, con cinque carceri, è relativamente tranquilla e ricalca la situazione nazionale - spiega Michele Miravalle, ricercatore universitario a Torino e coordinatore nazionale dell’osservatorio sulle carceri - Qui non viene applicato il 41bis, ad esempio; ma poi c’è il buco nero di Marassi. Che, anche con tutta la buona volontà degli operatori, monopolizza le problematiche di tutti gli istituti della regione. Il sovraffollamento, la salute mentale e la tossicodipendenza: un terzo circa dei detenuti è in cella per reati connessi alla droga, che spesso è costituita da sostanze “povere”, che fanno più male. E il sovraffollamento, con le celle da 4 o cinque posti, e di nuovo le brande su tre livelli, non ti permettono di trattare nulla”. I servizi di salute mentale sono affidati alle Asl, ma il numero troppo basso di operatori e la farraginosità del sistema di “domandine”, posto di fronte alla possibilità di avere risposte, fa sì che spesso la disperazione porti a tentativi autolesionistici ripetuti. “Anche un dente che ti fa male diventa un problema, se il dentista lo vedi dopo due mesi - racconta Michele Miravalle - ed ecco che c’è chi letteralmente perde la testa e sceglie di tagliarsi per ottenere almeno di essere ascoltato. Anche i tentativi di suicidio vanno letti più sotto questo profilo che veri e propri tentativi di togliersi la vita”. Prima di tutto, i numeri: al 31 maggio 2018 in Liguria c’era una popolazione carceraria di 58.569 persone, con una percentuale di affollamento del 127,7%; gli stranieri salgono al 52% invece del 34% nazionale. A Marassi c’erano 722 detenuti per 546 posti; 366 gli stranieri. A Pontedecimo (96 posti reali) ci sono 137 persone, di cui 70 sono donne - è infatti l’unica sezione femminile esistente in Liguria - e complessivamente 63 non italiani, tra donne e uomini. Scoppia anche La Spezia, con 216 persone (133 stranieri) in 151 posti, mentre va un po’ meglio a Chiavari (45 posti, 43 detenuti di cui 14 stranieri) e a Sanremo (238 posti, 246 persone, 137 stranieri) mentre Imperia ha 53 posti e 78 detenuti (49 stranieri). “A Sanremo e in parte anche ad Imperia c’è una prevalenza di stranieri che vengono fermati al confine o rinviati dalla Francia - riprende Miravalle - Questo porta ad arresti in blocco e un grande turnover; ragione che mette in affanno la possibilità di fare progetti di lungo respiro”. Sovraffollamento, pochissimi operatori sociali (il numero degli educatori, le figure preposte al colloquio con i detenuti e le detenute, capaci di indirizzare i progetti di recupero, è in costante calo) e, unico caso in Italia insieme alla Basilicata, la mancanza in Liguria di un garante dei detenuti; troppo abbandonati a sé stessi e alle loro disperazioni, come ben sanno i volontari di Antigone (adesso si è costituita una sezione ligure di cui è presidente Alberto Rizzerio). “Tutte ragioni per le quali il rischio è che il carcere come momento di rieducazione sia un fallimento - conclude Miravalle - cosa può fare un educatore di fronte a 60-70 persone o più? Ma soprattutto chiediamoci se un carcere affollato e non “curativo” produce sicurezza o il suo contrario”. Avellino: detenuto di 50 anni muore per arresto cardiocircolatorio avellinotoday.it, 18 luglio 2018 Un detenuto è morto nella Casa Circondariale di Avellino per un arresto cardiocircolatorio. A dare la notizia è il Segretario nazionale Sappe, Emilio Fattorello: “L’uomo, un cinquantenne italiano ristretto per reati legati allo spaccio, con posizione giuridica definitivo e con fine pena 2022, tossicodipendente è morto nonostante ogni tentativo messo in atto dagli operatori penitenziari. I medici del 118 non hanno potuto fare altro che certificare il decesso per arresto cardiocircolatorio. Il soggetto era affetto da varie patologie conseguenti alla tossicodipendenza. La salma è stata messa a disposizione dell’Autorità Giudiziaria competente per le ulteriori incombenze di rito”. Donato Capece, segretario generale del Sappe, evidenzia come “la situazione nelle carceri resta allarmante. Dal punto di vista sanitario, poi, è semplicemente terrificante: secondo recenti studi di settore è stato accertato che almeno una patologia è presente nel 60-80% dei detenuti. Questo significa che almeno due detenuti su tre sono malati. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%)”. Bari: caso Palagiustizia, la Camera approva lo stop ai processi La Repubblica, 18 luglio 2018 L’iter voluto dal ministro Bonafede verso la definitiva conversione in legge: dovrà passare ora dal Senato. Intanto a Bari i procedimenti senza detenuti restano congelati. Il decreto legge sulla giustizia penale barese che sospende processi e prescrizione è passato così come lo aveva proposto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Bocciati tutti gli emendamenti, ignorati i suggerimenti arrivati nelle scorse settimane da avvocati e magistrati baresi, il dl è stato approvato dalla Camera con 275 sì e 219 voti contrari dopo due giornate di accesa discussione in Parlamento. L’iter verso la definitiva conversione in legge dovrà passare ora dal Senato. Intanto a Bari i procedimenti senza detenuti restano congelati. Si continueranno a celebrare solo i processi urgenti, quelli per mafia e terrorismo, quelli con imputati detenuti, le udienze di convalida degli arresti, direttissime e udienze di Riesame su misure cautelari. Per il momento, stando al decreto, fino al 30 settembre. Il “periodo necessario - si legge nel testo - a consentire interventi di edilizia giudiziaria per il tribunale di Bari e per la Procura della Repubblica presso lo stesso tribunale”. Interventi che ad oggi non sono ancora partiti ed il Palagiustizia di via Nazariantz è stato dichiarato inagibile quasi due mesi fa e c’è tempo fino al 31 agosto per sgomberare tutti gli uffici. L’organizzazione del trasloco tocca alla Conferenza permanente la quale, tuttavia, aspetta indicazioni più precise dal Ministero. La recente ricerca di mercato avviata da via Arenula proprio per cercare un immobile che potesse ospitare gli uffici giudiziari penali si è conclusa con l’individuazione di un palazzo, l’ex Inpdap di via Oberdan, con riferimento al quale però non si conoscono ancora gli eventuali lavori da eseguire e quindi i tempi per renderlo disponibile. Ai capi degli uffici, però, il Ministero ha fatto pervenire nei giorni scorsi una nota con la quale si invita a programmare il trasferimento verso le due sedi di Modugno, ex sezione distaccata del Tribunale di Bari, a circa dieci chilometri dalla città, e un palazzo di proprietà dell’Inail in via Brigata Regina. Sembra concretizzarsi, quindi, il timore di chi, smantellata la tendopoli che era stata allestita dalla Protezione civile per celebrare le udienze di rinvio, presagiva una nuova soluzione “spezzatino”, cioè la frammentazione degli uffici penali in sedi diverse e distanti tra loro. Una nuova soluzione provvisoria, come già era via Nazariantz 17 anni fa, in attesa della realizzazione del Polo unico della Giustizia barese nelle ex Casermette. Intanto l’opposizione continua a ribadire che il dl è incostituzionale. “Il governo - chiede il deputato e coordinatore di Forza Italia per Bari e provincia Francesco Paolo Sisto, intervenuto in sede di dichiarazione di voto sul dl - si è chiesto cosa succederà quando in uno dei processi pendenti a Bari si eccepirà l’incostituzionalità della sospensione dei termini di prescrizione?” Napoli: il Tribunale di Sorveglianza funziona male, penalisti in sciopero di Dario Striano giustizianews24.it, 18 luglio 2018 Troppi disagi, troppi rinvii, troppe criticità. Penalisti in sciopero in Campania per denunciare, ancora una volta, le numerose disfunzioni del tribunale di Sorveglianza di Napoli che, da un lato, “mortificano il mestiere di avvocato”, dall’altro, invece, pregiudicano un diritto sacrosanto nell’ordinamento italiano, “il diritto di difesa dei detenuti”. L’astensione - L’altra mattina - lunedì 16 luglio - ha avuto inizio la tre giorni di astensione indetta dalle camere penali di Napoli, Benevento, Avellino, Napoli Nord, Nola, Santa Maria Capua Vetere e Torre Annunziata. Le toghe hanno deciso di sollevare nuovamente la problematica del Tribunale di Sorveglianza di Napoli dopo che “le istanze avanzate dall’avvocatura, e ribadite nel corso della riunione del 20 aprile 2018, sono state del tutto inevase”. “Permangono - si legge nella delibera - le gravissime e croniche disfunzioni che si traducono in una sistematica violazione del diritto di difesa, in particolare dei detenuti e in una quotidiana mortificazione della dignità e del decoro del ruolo dell’avvocato”. Il documento reca in calce le firme del presidente Attilio Belloni (in foto) per la Camera penale di Napoli e dei presidenti Nicolas Balzano (Torre Annunziata), Paolo Trofino (Napoli nord), Romolo Vignola (Santa Maria Capua Vetere), Vittorio Corcione (Nola), Monica Del Grosso (Benevento), e Giuseppe Saccone (Avellino). Le criticità strutturali e organizzative - Da una parte, dunque, le toghe campane denunciano le criticità strutturali del tribunale partenopeo, a cui si aggiungono “i problemi relativi alla carenza del personale e agli enormi carichi pendenti”. A partire dai fascicoli che si fatica a completare e ai ritardi con cui le informazioni arrivano alle cancellerie. “Per assumere una semplice informazione sullo stato del procedimento - si legge sulla delibera, ovvero per il deposito di una qualsiasi istanza, gli avvocati sono costretti ad estenuanti attese in un corridoio non climatizzato e privo di finestre, che si possono protrarre per oltre due ore”. Violati i diritti dei detenuti - Dall’altra, poi, ci sono “i diritti violati dei detenuti”. I penalisti continuano a segnalare, infatti, i gravi ritardi “nella definizione di procedimenti per liberazione anticipata, spesso riconosciuta al recluso solo dopo l’espiazione della condanna”. “Le istanze di misure alternative - chiariscono - vengono decise con ritardi inaccettabili a causa dei rinvii per incompletezza del fascicolo e le istanze di liberazione anticipata vengono disposte dopo il fine pena già maturato”. È ancora sciopero - Non c’è pace, dunque, per il tribunale di Sorveglianza di Napoli che, nella classifica di criticità che motivano l’astensione dalle udienze iniziata lunedì dai penalisti, risulta essere al primo posto in Campania. Le toghe campane hanno più volte, infatti, incrociato le braccia negli ultimi anni per sottolineare le disfunzioni dell’organo chiamato a decidere sulle richieste di pene alternative alla detenzione in cella, presentate da condannati a pene brevi, o da detenuti in carcere. Monza: da oggi i diritti dei detenuti hanno uno strumento in più di Filippo Panza mbnews.it, 18 luglio 2018 La rieducazione e il reinserimento sociale di chi finisce in un carcere parte anche dalla possibilità di essere ascoltati ed aiutati. È questa la premessa che ha portato anche nel carcere di Monza alla nascita dello “Sportello del Garante dei detenuti”. Si tratta di un ufficio messo a disposizione di chi sta scontando una pena e delle loro famiglie, che potranno presentare richieste o istanze in merito al rispetto dei propri diritti civili e ai disagi dovuti alla restrizione della libertà personale. Il ventaglio di tematiche su cui l’azione del Garante dei detenuti cercherà di fornire un supporto è molto ampio. Dal regolare corso dei procedimenti relativi a pratiche in materia di pensioni, invalidità, disoccupazione e tasse all’effettivo accesso ai servizi sanitari, dallo svolgimento di corsi e certificazioni scolastiche e professionali alla possibilità di usare la patente di guida quando si ha il permesso di andare a lavorare fuori dal carcere. “Abbiamo deciso di aprire uno sportello direttamente accessibile all’interno del carcere per dare un segnale di vicinanza e di attenzione ai detenuti e a tutti coloro che operano nelle case circondariali - spiega Carlo Lio, Difensore regionale di Regione Lombardia, che esercita per legge anche le funzioni di Garante dei detenuti - una volta al mese sarò personalmente presente allo Sportello, nel mio piccolo voglio contribuire a tenere viva la fiammella di speranza che chi è privato della propria libertà porta dentro se stesso”. Ecco perché l’iniziativa, che vede la Casa circondariale di via S. Quirico a Monza arrivare seconda in Lombardia, dopo il carcere di Opera a Milano e i servizi simili presenti a San Vittore e Bollate, sempre nell’area metropolitana del capoluogo meneghino, assume un significato molto più profondo della semplice apertura di un ufficio istituzionale di garanzia. “Lo Sportello come postazione fissa e stanziale all’interno del nostro carcere ha un valore nell’ottica dei principi costituzionali e del trattamento dei detenuti - afferma la direttrice del carcere di Monza, Maria Pitaniello - saperne cogliere lo spirito costituirà un beneficio per tutti e migliorare le condizioni di vivibilità all’interno delle nostre strutture”. L’intenzione del Difensore regionale della Lombardia, che ha avviato lo “Sportello del Garante dei detenuti” grazie ad un accordo con il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria, è di estendere progressivamente l’iniziativa anche agli altri 18 istituti carcerari della Lombardia. “Da ottobre mi attiverò per andare oltre l’area metropolitana milanese - annuncia Lio - cercherò di coinvolgere da subito le Case circondariali di Bergamo, Brescia e Sondrio”. Monza, insomma, potrebbe fare da apripista in un percorso che punta a concepire il carcere con una mentalità molto più aperta, orientata alla vivibilità e socialità rispetto al passato. Su questa strada il capoluogo della Brianza anche recentemente, con l’inserimento lavorativo delle persone in esecuzione penale, ha dimostrato di essere all’avanguardia in Italia. A Monza lo “Sportello del Garante dei detenuti” avrà una platea potenziale di utenti piuttosto numerosa. I detenuti presenti nelle 15 sezioni, considerando le diverse condizioni giuridiche, sono, infatti, 636 uomini, di cui 280 stranieri. In pratica una piccolo paese, con tante esigenze e problematiche. Che, per essere affrontate al meglio, richiedono un approccio quanto più possibile multidisciplinare. “Intorno al mondo del carcere ruotano una vastità e varietà di soggetti, dall’area pedagogica all’ambito amministrativa fino a quello sanitaria - sostiene Simone Luerti, magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Milano - il rischio è la parcellizzazione e la frammentazione dei diritti dei detenuti, per questo il ruolo del Garante è anche di portare una coscienza che guarda all’uomo privato della libertà personale nella sua totalità e dignità. Più che far uscire il detenuto dal carcere, dobbiamo puntare a realizzare il processo contrario”. Mettere insieme le risorse e le competenze di tutti, insomma, è una delle premesse e degli auspici dello “Sportello del Garante dei detenuti”. Non a caso, allora, l’inaugurazione ufficiale nella Casa circondariale di Monza, ha visto la presenza, tra gli altri, dei rappresentanti delle istituzioni cittadine, il Presidente del Consiglio comunale di Monza, Filippo Carati, il sindaco di Lissone, Concetta Monguzzi, il primo cittadino di Brugherio, Marco Troiano. Non mancavano nemmeno il Prefetto di Monza e della Brianza, Giovanna Vilasi, il Procuratore Capo di Monza, Luisa Zanetti, la presidente della camera penale di Monza, Maura Traverso, il vice questore di Monza, Angelo Re, oltre ai vertici del mondo delle associazioni, del sistema formativo e dei Tribunali. Rovigo: blitz dei Nas in carcere, sequestrati farmaci scaduti polesine24.it, 18 luglio 2018 Ieri il controllo del Nucleo Antisofisticazione e Sanità dell’Arma. Blitz dei Nas nel carcere di Rovigo. Ieri mattina, poco dopo le 9, alcuni uomini del Nucleo Antisofisticazioni e Sanità dell’Arma dei Carabinieri hanno eseguito un’ispezione nella casa circondariale della città. In particolare i militari hanno controllato l’infermeria, esaminando tutto il materiale sanitario presente. Da qui la scoperta della presenza di alcuni farmaci scaduti, in particolare alcune confezioni di insulina, prelevate e sequestrate. Gli uomini del Nas sono stati all’interno dell’area di reclusione un paio di ore, non riscontrando, sembra, ulteriori anomalie. Difficile al momento stabilire se sia stato un blitz dietro specifica segnalazione, o un normale controllo eseguito in una delle carceri della regione, così come accaduto nella casa circondariale di Padova lo scorso marzo. E a eseguire l’ispezione nella zona dedicata alle medicazioni dei detenuti, ieri mattina, sono stati proprio alcuni uomini dei Nas di Padova, arrivati esclusivamente per fare questo controllo. Quello di ieri è il primo controllo del Nucleo Antisofisticazioni e Sanità dell’Arma nella nuova casa circondariale di Rovigo: cioè, da quando questa è stata trasferita nella nuova sede lungo la tangenziale. Milano: i volontari della sicurezza, boom dei gruppi di controllo del vicinato Redattore Sociale, 18 luglio 2018 Il racconto di Walter Valsecchi, uno dei primi a fondare a Parabiago, nel milanese, i gruppi di cittadini che, tramite Whatsapp, segnalano situazioni di degrado, atti vandalici o persone sospette. Nel comune a nord di Milano ora i gruppi sono 34 e coinvolgono quasi 7 mila persone. “Ho perso il conto delle serate dedicate alle riunioni di presentazione e organizzative”. Walter Valsecchi rappresenta un nuovo tipo di volontario, che si dedica a un aspetto della vita sociale fino a qualche anno fa ignorato dal mondo non profit: la sicurezza. Dieci anni fa è stato tra i fondatori dei Gruppi di controllo del vicinato di Parabiago, cittadina di 28 mila abitanti nell’alto milanese. Oggi i gruppi in questo comune sono 34 e coinvolgono quasi 7 mila persone. Per ogni gruppo è attiva una chat su Whatsapp e chi ne fa parte può segnalare situazioni di degrado, atti vandalici, presenza di persone sospette. I coordinatori delle chat poi comunicano tra loro e fanno arrivare all’amministrazione comunale le segnalazioni. “La regola principale, però, è che quando si ha il sospetto che ci si trovi di fronte a un reato la prima cosa da fare è chiamare le forze dell’ordine, poi si segnala anche sulla chat”, sottolinea Walter Valsecchi. I gruppi di controllo a Parabiago sono nati in collaborazione con il Comune e la polizia locale. Non sono ronde, nessuno deve sognarsi di fare lo sceriffo. “È un sistema che funziona -assicura-. Anche perché rende attenti e partecipi i cittadini a quel che accade nel proprio territorio. Il problema è che viviamo in una società in cui non ci si parla, in cui non si conosce il proprio vicino. Questo sistema riattiva invece questi rapporti”. Valsecchi è stato poi chiamato da cittadini o sindaci di altri comuni perché li aiutasse a creare gruppi di controllo del vicinato anche nel loro territorio. Il fenomeno negli ultimi anni si è diffuso rapidamente. Solo nell’alto milanese sono 70 i comuni in cui i cittadini si sono organizzati per sorvegliare il proprio condominio, via o quartiere. Tanto che oggi il prefetto di Milano, Giuliana Lamorgese, ha sottoscritto con 40 comuni del territorio metropolitano il Protocollo d’Intesa “Progetto Controllo del Vicinato” che disciplina le attività di questi gruppi. “Con questo protocollo vogliamo valorizzare l’attività di sentinelle dei cittadini e dare alcune regole a quella che possiamo definire una sicurezza partecipata - ha detto presentando l’iniziativa. I cittadini dovranno limitarsi a fare segnalazioni, astenendosi in ogni caso dall’assumere comportamenti incauti od imprudenti, che potrebbero determinare situazioni di pericolo. Non potranno utilizzare uniformi, emblemi, simboli, altri segni distintivi o denominazioni riconducibili, anche indirettamente, ai Corpi di Polizia statali e locali, alle Forze Armate o ad altri Corpi dello Stato, ovvero che contengono riferimenti a partiti, movimenti politici e sindacali, nonché sponsorizzazioni private. È esclusa qualsiasi iniziativa personale, ovvero qualunque forma, individuale o collettiva, di pattugliamento del territorio”. I Comuni con la polizia locale dovranno coordinare questi gruppi. Per Walter Valsecchi i gruppi di controllo di vicinato funzionano se hanno due caratteristiche. La prima è che siano dedicati a un territorio piccolo: “Quelli che funzionano meglio sono quelli di caseggiato o al massimo di via”. Inoltre, devono parteciparvi almeno il 50 per cento delle famiglie che abitano in quel territorio. “Altrimenti non c’è un vero controllo. L’attività è infatti limitata a quello che una persona può osservare nella sua vita quotidiana, visto che non si possono e non si devono fare pattugliamenti o altro”. La costituzione e la gestione di un gruppo richiede tempo, soprattutto per chi fa il coordinatore della chat. “Bisogna anche fare riunioni periodiche, tenere i rapporti con il comune e le forze dell’ordine. Però se tutti si impegnano con serietà, la cosa funziona. Nelle vie dove ci sono gruppi di controllo, i furti sono diminuiti. Le segnalazioni, comunque, riguardano soprattutto casi di vandalismo, presenza di persone che suonano alle porte per proporre servizi o prodotti, auto sospette che fanno più giri nel quartiere senza un motivo apparente”. A Legnano è stata creata anche una chat tra i negozianti. “Ha permesso di sventare furti o di far individuare gli autori di reati”, aggiunge Valsecchi. Sono gli anziani il tallone d’Achille dei gruppi di controllo di vicinato. “Non riusciamo a coinvolgerli perché non hanno dimestichezza con gli smart-phone e Whatsapp - racconta Valsecchi. E purtroppo i casi di truffe e raggiri nei loro confronti aumentano”. Roma: un’ora d’aria, anzi di musica di Paolo De Matthaeis dazebaonews.it, 18 luglio 2018 Il lavoro dei grandi compositori entra in carcere per un’esperienza unica. Il Coro Gesualdo a Rebibbia: “l’uomo non nasce “stonato” va semplicemente “ri-accordato”, affrancato e confortato”. Sono le ore dieci e trenta di un venerdì qualsiasi e alla Casa di Reclusione di Rebibbia un gruppo di detenuti aspetta con pazienza che vengano aperte le porte dell’aula di musica. Da alcuni mesi c’è un nuovo incontro nel carcere e si prospetta stimolante perché, alle undici circa, s’attraversa un confine particolare per molti nuovo e curioso. Il mondo della musica è magico - a detta di molti favorisce l’evasione - rappresenta un coinvolgimento di sensazioni che appaga e quasi rende invulnerabili dal frastuono e l’indifferenza che ci circonda. Questa interpretazione - assai romantica - ha creato falsi miti e costruito personaggi che hanno preso l’Arte come giustificazione dei propri insuccessi ribaltandone il significato, lo studio e l’originalità sposando i luoghi comuni. Così Romolo, Dario, Alessandro, Davide, Federico assieme agli altri armati di carta, matita e gomma firmano il registro preparato dal personale dell’Area Educativa. Una piccola tastiera musicale, una lavagna e tanti gessetti per iniziare sono pronti e disponibili, ma il discorso - una volta preso posto - cambia subito e iniziamo un rapido giro di presentazioni, sempre, ogni giorno, perché il numero delle persone cresce e c’è sempre qualcuno che s’aggiunge all’elenco. È luglio - fa caldo - ho appena comunicato che continuerò gli incontri e qualche detenuto mi ha confidato che questa dell’ora di Musica è l’unica attività che non si ferma durante il periodo estivo e che parecchi l’aspettano con impazienza. Gli argomenti sono tanti - mi giustifico così con il corpo di guardia - e inizio a chiacchierare con tutti di forme musicali, ma anche di forme sociali e politiche, perché la Musica non vive solo di suoni e questo suona strano perché tutti s’aspettavano altro. Il laboratorio diventa sempre più folle e stravagante perché la lavagna si riempie di simboli, righi, chiavi, frazioni, note e le forme cominciano pian piano ad affiorare tra concetti di consonanze e dissonanze, fastidi e piaceri alla scoperta di quello che si conosce o si credeva di sapere rinominandolo per fissare dei punti di riferimento solidi perché magari domani potrebbero tornare utili. I detenuti sono perplessi perché c’era l’idea del canto, l’idea della canzone e della batteria e di un giro di chitarra e qualcuno s’era pure preparato una cantata. Ma è così difficile scrivere una canzone? È difficile raccontarsi, difficile trovare un pubblico disposto a starti vicino sostenendoti, difficile è trasferire un modello di vita specialmente oggi che questi vengono dettati ed insegnati da assurde dinamiche economiche. Cosa vuoi raccontare agli altri? Ma hai qualcosa da scrivere? Perché dovrei ascoltarti? “Il re è nudo” e “la legge non ammette ignoranza”: lentamente tiro fuori le storie dei grandi musicisti, tutti poveri, tutti miseri ma ingegnosi che ebbero la forza di sopravvivere in condizioni estreme raccontando favole ai loro principi. Artisti ormai celebrati che hanno conosciuto le carceri come Bach, Paganini, Cimarosa - il gioco d’azzardo come Mozart - l’alcolismo e tutti gli errori possibili che li riportano in mezzo a noi tra gli imperfetti - le favole di allora erano rivolte alla meraviglia di intrattenere e per mezzo di uno strumento qualsiasi, spesso auto costruito, s’accampavano suoni e parole. Le grandi Civiltà sono nate intorno ad un fuoco tra danze e risate, pianti e rituali che lentamente e civilmente abbiamo sostituito trasformando le nostre proprie paure in momenti da scongiurare ed esorcizzare. Abbiamo costruito difese e composto canti per proteggerci e le preghiere sono diventate proteste rivolte sempre ad individuare una causa più o meno giusta. L’uomo reclama, non prega più ed esige il suo tributo fino a quando gli viene sottratta la libertà che prima o poi “dipende” e lo castiga nella sua crescita naturale. Nasce così il Coro Carlo Gesualdo - scongiurando ogni riferimento dello stato detentivo dei partecipanti - con l’idea di mantenere un nome “libero” ho pensato ad una figura “fuori dal coro”: un Principe che uccise la moglie e il proprio amante condannando se stesso ad un carcere “particolare” fatto di preoccupazioni e isolamento. Gesualdo signore di Venosa non fu mai incarcerato per il delitto d’onore, si risposò e s’esiliò nella sua magione scrivendo musica, circondandosi di artisti che pagava, producendo e stampando la propria musica che tutta racchiudeva l’idea di riscatto verso una società spesso connivente e meschina. L’idea del Coro dei detenuti, ad onore di cronaca, è stata dell’ufficio delle politiche sociali di Roma Capitale che individuando una certa “attitudine” in un’attività di concerto presso la Casa di Reclusione ha pensato ad un’attività aggregante che andasse oltre. Ci siamo ritrovati a discutere circa le metodologie e le finalità che, a parer mio, dovevano essere ambiziose ricostruendo per i detenuti la grammatica e la semantica dei suoni, attraverso le parole e il pensiero. Fondamentalmente l’uomo non nasce “stonato” va semplicemente “ri-accordato”, affrancato e confortato. La chiave per riuscire in questo intento è la conoscenza - forse due corde tese fatalmente suoneranno armonicamente, ma tutte le corde in circolazione possono produrre suoni riconoscibili se opportunatamente calibrate e suonate con abilità. La Musica non sta nell’accordare lo strumento o nel capire se l’individuo sia cosciente e addirittura meritevole; L’Arte è radicata nella narrazione, nella memoria, nella celebrazione del personale e nel rapporto rispettoso che s’istaura tra le persone. Proprio come tra le note si sviluppano “legami armonici” tra gli individui fioriscono sentimenti di stima e rispetto ai quali dobbiamo ambire per raggiungere obiettivi comuni. Gli accordi musicali sono come i matrimoni, come le famiglie e se ne trovano di tante specie e gli stessi possono manifestarsi in posizioni diverse - la conoscenza della Musica permette di combinarli sempre in maniera egregia evitando quella fatalità casuale dovuta all’assenza di comunicazione che porta a vere e proprie barriere sociali. Oggi entrando in quella sala all’interno del carcere si chiacchiera di Musica, si racconta che esistono chiavi antiche e che queste sono ancora oggi disegnate con le lettere delle note corrispondenti - qualcuno porta la chiave di Sol tatuata sul braccio - prima era solo un simbolo, un bel disegno - oggi rivela una storia e che se questa fosse sistemata su uno dei cinque righi offrirebbe persino un riferimento ideale, proprio come l’ultima corda del violino che rappresenta un confine sonoro, un limite superabile solo con l’immaginazione o con l’aiuto di un altro strumento. Le “dissonanze” sono all’ordine del giorno, ma rappresentano opportunità di soluzione perché affianco un suono che stride ne segue subito un altro che risolve e il discorso ritrova l’armonia. Le pause diventano momenti d’attesa da gestire e misurare perché grazie a queste c’è la possibilità di preparare una nuova entrata di una nuova voce creando attimi d’aspetto e fantasia che sono l’anima della Musica e del nostro essere. Così prende forma il coro Gesualdo che ha l’ambizione di portare il lavoro dei grandi compositori in carcere per un’esperienza diversa, unica: Monteverdi, Banchieri, Palestrina, Festa, Gesualdo, Cipriano, Josquin, Gastoldi, Orlando di Lasso, Willaert, Janequin entrano a gamba tesa in un ambiente tecnicamente difficile. La Musica è un ovvio pretesto, ogni madrigale, ogni nota è carica di vita attraverso i secoli la musica è rimasta testimone di fatti e accadimenti - grazie a questi rileggiamo con occhi e orecchie le rime di Tasso, Petrarca, Rinuccini che sotto censura inventavano un linguaggio fatto di segni, metafore, allegorie e miracolosamente venivano tradotte in musica e codificate per un pubblico particolare. Ascolto e mi raccontano dei loro figli, delle famiglie e persino del perché si trovano in questa situazione, l’ora di musica vola rapida e ancora una volta m’hanno detto: “a ma è anche oggi c’hai messo il caos in testa”. Tranquillo, venerdì rimettiamo tutto a posto. Migranti. Il piano del governo: regolarizzati con un decreto flussi di Federico Capurso La Stampa, 18 luglio 2018 Di “movimenti secondari” dei migranti, a Palazzo Chigi, fino a ieri non voleva sentir parlare nessuno: “È una priorità della Germania, non nostra”. Nelle ultime ore, però, il destino di quei richiedenti asilo che sono già presenti sul territorio europeo e che, in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato, per ragioni economiche si spostano da un Paese all’altro dell’Unione, è finito in cima al mazzo di carte del ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Perché una proposta italiana sui movimenti secondari - ragiona il governo - può diventare il perno per strappare un buon accordo con Francia e Germania sulla gestione degli sbarchi e delle rotte nordafricane. L’idea ha già passato il vaglio dei vertici della Lega e prevede una rivoluzione sostanziale del “decreto flussi”. Il governo ogni anno stabilisce quanti cittadini extracomunitari possono fare il loro ingresso in Italia per motivi di lavoro. Adesso, quel provvedimento vorrebbe essere utilizzato per gestire soprattutto i migranti irregolari e i richiedenti asilo già presenti nel nostro Paese, diminuendo la quota di arrivi dai confini esterni all’Ue. “Perché dovremmo fare arrivare da fuori della forza lavoro di cui abbiamo bisogno, se abbiamo in casa un bacino a cui attingere?”, ragionano a Palazzo Chigi. Inoltre, l’inserimento nel mercato del lavoro, impostato sulla base delle esigenze esposte al governo ogni anno dalle Regioni e da Confindustria, “garantirebbe una regolarizzazione di massa, facendo emergere il lavoro in nero; e si risparmierebbe tempo e denaro per i rimpatri”. L’intenzione dell’esecutivo, secondo quanto filtra, è quella di “sbloccare il decreto flussi già nei prossimi mesi”, passando da un provvedimento della presidenza del Consiglio nel quale inserire la nuova categoria dei richiedenti asilo tra i destinatari del “decreto flussi” e, contestualmente, aumentare la quota di nuovi lavoratori extra- Ue previsti. Solo dopo averne testato in Italia l’impatto e l’efficacia, la proposta verrebbe girata a Bruxelles, da dove sono già arrivati input positivi. Con gli altri Paesi europei, dove si utilizzano strumenti analoghi al “decreto flussi” italiano, si potrebbe dunque avviare un coordinamento per la redistribuzione dei richiedenti asilo basata sulle necessità lavorative nazionali. Prima, però, si dovrà riuscire a portare dei risultati in Italia, rimettendo in moto uno strumento arrugginito. Non è un caso, infatti, se a Palazzo Chigi si usa il termine “sbloccare”. Negli ultimi anni il “decreto flussi” è stato sempre più svuotato della sua efficacia: se nel 2007 prevedeva 158 mila permessi di lavoro subordinato e 80 mila stagionali, nel 2018 i permessi complessivi sono scesi a meno di 31 mila. Le maglie, dunque, si sono fatte sempre più strette. E l’obiettivo, adesso, è quello di allargarle nuovamente, come chiesto proprio in questi giorni dal presidente della comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo durante l’incontro con il premier Giuseppe Conte. “Sono necessari ancora 50 mila visti lavorativi”, ha sottolineato Impagliazzo, che ha poi invocato un intervento di Confindustria. L’associazione degli imprenditori, nonostante segua con interesse e benevolenza l’idea di uno sblocco del “decreto flussi”, rimane però in attesa dei prossimi passi del governo. Anche per valutare, a questo punto, gli effetti delle modifiche che l’esecutivo vuole apportare allo strumento. La questione è delicata. Soprattutto per l’elettorato leghista, da sempre sensibile al tema. Era proprio il leader Matteo Salvini, in campagna elettorale, a condurre le sue battaglie anti-migranti partendo da una premessa: “Ben venga chi, tra i migranti, ha un lavoro e si vuole integrare; chi invece è irregolare, deve essere rimpatriato”. Una discriminante che, alla luce di questa proposta, assume tutt’altro peso. Migranti. La posta in gioco nella guerra mediatica di Gianandrea Gaiani Il Messaggero, 18 luglio 2018 La volontà del governo italiano di chiudere la rotta libica dell’immigrazione illegale sta provocando una battaglia senza esclusione di colpi che si combatte anche sul fronte mediatico. Da un lato il governo punta a riconsegnare presto alle autorità libiche i clandestini soccorsi in mare dalle navi europee, attuando di fatto quei respingimenti assistiti che la Ue ha finora rifiutato di applicare ma che molti Stati (inclusa l’Austria, presidente di turno dell’Unione) caldeggiano. Dall’altro lato della barricata vi sono le forze politiche “immigrazioniste” e le tante organizzazioni coinvolte nella “industria del soccorso e dell’accoglienza” che dal 2014 ha fatturato solo in Italia tra i 3 e i 5 miliardi annui. Le accuse formulate ieri dalla ong spagnola Proactiva Open Arms alla Guardia costiera libica per la morte di alcuni immigrati conferma quanto questa battaglia sia diventata aspra. L’accusa, condita con le immagini di donne e bambini morti e superstiti, va presa con le molle: l’intervento delle motovedette libiche è avvenuto molto lontano dall’area dove la Open Arms sostiene di aver trovato vittime e relitto, la fonte non è certo neutrale e le due navi dell’ong spagnola, la Open Arms e la Astral (con a bordo 4 eurodeputati) potrebbero sfruttare la vicenda per cercare di forzare l’accesso, a loro precluso, ai porti italiani. Nel marzo scorso la stessa Open Arms trasgredì gli ordini del centro per il soccorso di Roma e imbarcò migranti illegali sottraendoli alle motovedette di Tripoli venendo poi posta sotto sequestro dalla giustizia italiana. Benché la Guardia costiera libica, addestrata, aiutata ed equipaggiata dall’Italia, effettui la gran parte dei soccorsi, obiettivo della “lobby dell’accoglienza” è screditarla dipingendola come criminale o quanto meno inadeguata a far fronte a un’emergenza in cui la responsabilità delle vittime dovrebbe ricadere sui trafficanti. La posta in gioco è alta: dimostrare che la Libia non può essere un porto sicuro e far così riprendere i flussi illegali verso l’Italia impedendo la chiusura di quell’autostrada del crimine rappresentata dalla rotta libica. Eppure ripristinare il controllo sulle frontiere nazionali, prerogativa di ogni Stato che voglia dirsi tale, dovrebbe essere nell’interesse di tutti anche per ragioni di sicurezza e ordine pubblico. I canali legali per dare asilo a chi fugge davvero da una guerra esistono da molto prima di questa crisi ma non è più tollerabile, neppure sul piano morale, assicurare l’accoglienza a chiunque paghi criminali per attraversare illegalmente le nostre frontiere. Il governo di Fayez al-Sarraj, per quanto non controlli pienamente la Tripolitania, è stato insediato a dall’Onu ed è sostenuto dalla Ue e da Roma: è quindi legittimo aiutarlo con fondi e mezzi navali a gestire le sue acque e a bloccare i flussi, accogliendo e rimpatriando i migranti con il supporto delle agenzie dell’Onu finanziate in modo consistente anche dall’Italia. Del resto proprio Tripoli ha plaudito all’iniziativa dei “porti chiusi” sostenendo che solo in questo modo cesseranno i flussi illegali e con essi anche le tragedie in mare. A questo proposito, l’accoglienza offerta da alcuni paesi europei a parte dei migranti sbarcati lunedì a Pozzallo è stata un successo politico per l’attuale governo italiano, il primo a riuscire a imporre ai partner la condivisione dei migranti illegali. Sul piano pratico però si tratta di un autogol poiché l’accoglienza in Paesi del Nord Europa, il cui welfare è ambito dai migranti, rischia di incentivare tanti che sperano in nuove repliche di quel copione. Ora che Roma ha chiuso i porti alle navi delle Ong, che raccoglievano i migranti illegali a breve distanza dalle coste libiche, i trafficanti sembrano voler sostituire almeno in parte i poco affidabili gommoni con i barconi in legno, più capienti e con un’autonomia utile a raggiungere Lampedusa ma a rischio di ribaltamento per il sovraccarico. La stessa situazione che il 3 ottobre 2013 portò alla morte di oltre 360 persone di fronte a Lampedusa. Roma all’epoca rispose con l’operazione di soccorso Mare Nostrum le cui conseguenze sono state l’arrivo in Italia in 5 anni di quasi 700 mila migranti illegali. Una decisione sciagurata e oggi certo non più replicabile ma se non si chiude al più presto la rotta libica tragedie come quella potrebbero ripetersi alimentando nuove speculazioni. L’Ong Open Arms denuncia: “migranti abbandonati in mare dai libici” di Adriana Pollice Il Manifesto, 18 luglio 2018 Morti una donna e un bambino, un’altra donna tratta in salvo da Open Arms. Salvini: “Tutte bugie, io tengo duro”. Una barca con 158 migranti è stata intercettata dalla Guardia costiera libica al largo di Khoms: una nota della Marina di Tripoli ieri mattina informava brevemente sull’operazione aggiungendo che il gruppo aveva ricevuto aiuti umanitari e assistenza medica prima di essere portato in un campo profughi. Secondo Proactiva Open Arms al racconto manca un pezzo: “La Guardia costiera libica non ha detto che hanno lasciato due donne e un bambino a bordo e hanno affondato la nave perché non volevano salire sulle motovedette” ha scritto ieri sui social il fondatore della Ong catalana, Oscar Camps. Nel video postato si vedono i corpi di una donna e di un bambino, privi di vita, sulle assi di legno del fondo di un gommone distrutto. “Quando siamo arrivati - prosegue Camps - abbiamo trovato solo una delle donne ancora viva. Quanto tempo avremo a che fare con gli assassini arruolati dal governo italiano?”. I corpi sono stati recuperati e portati a bordo dell’Open arms: a una prima analisi del medico di bordo, Giovanna Scaccabarozzi, il bambino di circa cinque anni ha resistito più a lungo ma non abbastanza per poter essere salvato. È riuscita invece a sopravvivere Josephine: viene dal Camerun ed è rimasta due giorni in mare, aggrappata a un asse della carena. Uno dei volontari si è gettato in acqua per recuperarla e, con il resto dell’equipaggio, l’ha issata a bordo assiderata e sotto choc, come racconta Annalisa Camilli, giornalista dell’Internazionale che ha seguito il salvataggio. Secondo l’Ong, lunedì erano stati avvistati due gommoni, come da comunicazioni tra il mercantile Triades e la Marina libica. La Guardia costiera di Tripoli avrebbe però deciso di effettuare le operazioni di salvataggio da sola. Quello che è avvenuto, accusa Camps, “è la conseguenza diretta del fatto che l’Europa ritiene la Libia un paese con un governo e una Guardia costiera capace di intervenire. Denunciamo l’omissione di soccorso in acque internazionali della presunta Guardia costiera libica, legittimata dall’Italia”. Open arms nel pomeriggio ha messo la prua verso nord, in direzione Lampedusa. Non per entrare in porto ma almeno consegnare i due corpi e la sopravvissuta alla Marina italiana. Non è escluso però che possa dirigersi verso al Spagna. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è stato costretto a correre ai ripari. Lunedì aveva ripetuto: “Dobbiamo cambiare la normativa per includere i porti libici in quelli sicuri. C’è questa ipocrisia in Europa per cui si danno soldi ai libici, si forniscono le motovedette ma poi si ritiene la Libia un porto non sicuro”. Nel pomeriggio è arrivata una nota: secondo il Viminale quella di Proactiva Open Arms sarebbe “una fake news”, la fonte una giornalista tedesca presente al salvataggio. Il portavoce della Marina di Tripoli, Ayoub Qasem, si è poi difeso: “Nessuno è rimasto in mare. Probabilmente alcuni migranti sono annegati prima dell’arrivo delle motovedette” per poi accusare le Ong che “ostacolano le nostre attività”. Intanto però ci sono i numeri. In base ai dati diffusi dall’Oim, i morti nel Mediterraneo nel 2018 sono stati 1.443, in proporzione molti di più rispetto al 2017 visto che gli sbarchi sono calati dell’81%. Il deputato di Leu Erasmo Palazzotto, che è a bordo dell’Astral (la seconda imbarcazione della Proactiva open arms), ha attaccato: “Caro Salvini e caro Minniti, di questi assassini siete responsabili voi con i vostri accordi. L’Italia presti soccorso alla donna sopravvissuta che ha urgente bisogno di cure”. Il leader leghista non fa una piega: “Il mio obiettivo è salvare tutti, ma evitare che arrivino in Italia. Bugie e insulti di Ong straniere confermano che siamo nel giusto. Le Ong i porti italiani li vedranno in cartolina”. Le conseguenze degli attracchi bloccati sono altri morti. Gli ultimi, in acque italiane, risalgono a venerdì. I 450 a bordo del peschereccio partito da Zuara erano arrivati a Linosa. Il tragitto monitorato dal Centro di coordinamento di Malta e poi di Roma ma nessuno è andato a salvarli perché la politica dei due governi questo impone. Erano senza acqua né cibo, al largo dell’isola siciliana hanno visto due motovedette della Capitaneria di porto e una della Guardia di finanza ferme e nessuna operazione per prenderli a bordo. In 34 allora si sono buttati in mare per raggiungere i soccorritori a nuoto. Solo allora, difronte al pericolo immediato, è stato possibile mettere da parte il veto del Viminale e mettere i battelli in acqua per salvarli. Quattro somali però sono annegati. Migranti morti in mare, lite tra le ong e il ministro Salvini di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 18 luglio 2018 La Open Arms al leader leghista: “I libici hanno lasciato morire quella donna e quel bambino”. La replica: “Bugie e insulti”. I cadaveri in acqua di una donna e di un bimbo. E poi il volto sfinito di Josephine, ancora viva dopo 2 giorni in mare. Sono le immagini postate ieri su Twitter dalla Ong catalana Proactiva Open Arms, tornata a navigare in acque libiche. Con il suo fondatore, Oscar Camps, che accusa la Libia e l’Italia: “I libici hanno lasciato morire quella donna e quel bambino. La guardia costiera libica ha reso noto di aver intercettato una barca con 158 persone e aver fornito loro assistenza: quello che non dice, però, è che hanno lasciato due donne e un bambino a bordo e che hanno affondato l’imbarcazione perché non volevano salire sulle loro motovedette. Sono assassini arruolati dall’Italia. Ecco cosa fanno i tuoi amici, Salvini...”. Il ministro dell’Interno, che alle Ong ha già chiuso da più di un mese i porti italiani, reagisce pronto: “Bugie e insulti di qualche Ong straniera confermano che siamo nel giusto. Io tengo duro. #portichiusi e #cuoriaperti”. Il Viminale, anzi, contrattacca: la versione data da Open Arms è “una fake news”. Anche la Guardia costiera libica contesta la ricostruzione della Ong: “Era presente una troupe della tv tedesca Rtl che ha filmato tutto. Nella notte tra lunedì e martedì siamo intervenuti per un gommone in panne a largo di Garabulli. Aveva 165 persone a bordo, tra cui 34 donne e 12 bambini. Abbiamo recuperato anche il corpo di una bimba che aveva meno di un mese. Chiedete ai tedeschi, che hanno potuto vedere da vicino le difficoltà in cui operiamo, con la scarsità di mezzi, soprattutto per le operazioni di soccorso notturno”. Interviene pure il portavoce della Marina militare libica, Ayoub Qasem: “Accuse false e inesatte. La nostra guardia costiera ha recuperato tutti i passeggeri prima di distruggere l’imbarcazione. Probabilmente alcuni sono annegati prima dell’arrivo delle motovedette”. E 4 migranti erano morti già sabato scorso, tuffandosi da un barcone al largo di Linosa. Il Pd, con Delrio, chiede al governo di riferire in Aula sulla denuncia di Open Arms: “Venga fatta piena luce”. Ma il premier Conte, in una lettera al premier ceco Babis, non ha dubbi: “L’Italia non ha imboccato la via dell’inferno, piuttosto la strada maestra della legalità, della responsabilità condivisa, dell’azione concreta e di matrice autenticamente europea”. Intanto il ministro degli Affari esteri Moavero Milanesi ha mandato una lettera all’Alto rappresentante dell’Ue Mogherini: l’Italia non ritiene più applicabili le disposizioni della missione Eunavformed Sophia, che individuano solo il nostro Paese come luogo di sbarco dei migranti soccorsi dalle proprie unità. Nelson Mandela, cento anni fa la nascita: una vita all’insegna della libertà di Matteo Cruccu Corriere della Sera, 18 luglio 2018 Il 18 marzo 1918 nasceva il padre del Sudafrica moderno, icona di libertà in tutto il mondo. “Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso”. Già della materia dei sogni, uno in particolare, quello della libertà, è impastata l’intera esistenza di Nelson Mandela, di cui oggi si celebra il centenario della nascita. Dalla scomparsa, sono passati quasi cinque anni, eppure il lascito del padre del Sudafrica è vivo più che mai. Nelle bandiere di chi è ancora oppresso. Di chi combatte le diseguaglianze, di razza e di ceto, che stentano a scomparire, anzi qua e là s’allargano. Di chi insomma spera, quindi sogna, in un futuro migliore. Giovane avvocato - Nelson Mandela nasce dunque il 18 luglio 1918 in un villaggio, Mvezi, del Transkei. Fin da ragazzo sviluppa un’avversione verso ogni genere d’imposizione, a partire dal matrimonio combinato a cui sembra costretto a 23 anni. Scappa dunque a Johannesburg, dove studia legge e diventa avvocato. Sono gli anni in cui in Sudafrica nasce e si sviluppa il durissimo apartheid, segregazione razziale rigida e odiosa: Nelson da subito lo combatte, iscrivendosi all’Anc, il partito della maggioranza nera, e diventandone presto uno dei capi. Il prigioniero - Nel 1963 viene arrestato dal potere bianco, accusato di alto tradimento e condannato all’ergastolo. La sua celletta nel famigerato carcere di Robben Island, davanti a Città del Capo, diventa un luogo simbolo del XX secolo: in tutto il mondo nasce un movimento trasversale contro l’apartheid e il prigioniero Nelson diventa l’icona di questa battaglia, con canzoni, film, proteste dedicate ovunque. Ma il regime della segregazione persiste, nonostante il boicottaggio internazionale. E, per 26 lunghi anni, Mandela rimarrà tra le sbarre. Dalla prigione spedirà delle lettere, di lotta ma anche d’amore, ora finite in un volume, “Lettere dal Carcere”, appunto, a cura di Sahm Venter per il Saggiatore. Uomo libero - La storia però vive di accelerazioni e in quel 1989 in cui tutto cambia, con il crollo progressivo del socialismo nell’Europa dell’Est, anche il Sudafrica è costretto a uscire dal suo isolamento fuori dal tempo. Il presidente in carica Willem De Klerk avvia il disgelo, comprendendo che l’apartheid non può durare ancora a lungo: legalizza l’Anc, sospende le condanne e rilascia i prigionieri politici. Compreso il più illustre: l’11 febbraio 1990, Nelson Mandela viene rilasciato, accolto dalla sua gente e dalla fedele (e controversa) moglie Winnie che lo ha atteso per tutta la detenzione. Presidente - Tornando dunque in libertà, Nelson riprende subito l’impegno politico in prima persona, accompagnando De Klerk nel processo di riforme e ottenendo, insieme a lui, il Premio Nobel per la Pace nel 1993. E sfidandolo nel 1994 alla presidenza del Sudafrica: Mandela vince e diviene il primo nero a ricoprire la carica. Il paese è problematico, lunga è la strada per conquistare anche l’uguaglianza sociale oltreché quella politica e il flagello dell’Aids imperversa ovunque. Sul passato, invece, Nelson sceglie la strada della pacificazione con i bianchi, con una commissione speciale che diverrà un modello anche per altri conflitti, vedi l’Irlanda del Nord. Il ritiro - Dopo cinque anni Nelson lascia la presidenza al delfino Thabo Mbeki. Il bilancio del suo mandato è importantissimo a livello simbolico, anche se il Paese rimane ancora afflitto dalle disparità in campo economico, la classe dirigente prevalentemente formata dai bianchi. Nel frattempo Nelson si sposa con Graca Machel, vedova del presidente mozambicano, Samora, antico alleato dell’Anc. Madiba, come lo chiamano i suoi sostenitori, vigila sul Sudafrica, finché a 86 anni, nel 2004, non decide di ritirarsi definitivamente dalla vita politica. La Coppa - E nel 2004, Mandela è protagonista di un altro storico risultato per il nuovo Sudafrica: dopo la coppa del mondo di rugby nel 1995, con la squadra finalmente rispecchiante la multietnicità del Paese, dopo che era stata sempre a prevalenza bianca, il Paese si aggiudica i Mondiali di calcio del 2010. L’intervento del vecchio leader è decisivo per l’assegnazione della Coppa: sei anni dopo, Madiba non potrà presenziare all’esordio per un lutto familiare, ma riuscirà a venire all’atto conclusivo, omaggiato nel frattempo dai calciatori di tutto il Pianeta. L’addio - Nel marzo del 2013, il vecchio leone inizia a mostrare la fatica degli anni: viene ricoverato una prima volta e poi dimesso, finché nel luglio, torna di nuovo in ospedale e, tra mille rumour e smentite, entra in stato vegetativo. L’agonia dura sei mesi, finché il 5 dicembre Mandela muore: la notizia suscita un’enorme emozione in tutto il mondo, tantissimi capi di stato si precipitano a Johannesburg e migliaia di persone seguiranno i funerali. Nelson verrà sepolto nella cittadina in cui era cresciuto, Qunu, la terra da cui era partito questo lungo viaggio verso la libertà Stati Uniti. Il culto per le armi da fuoco nel Paese dei 100 morti al giorno di Vittorio Zucconi La Repubblica, 18 luglio 2018 Più armi da fuoco, più morti innocenti. Una semplice equazione che da 40 anni la lobby americana delle armi cerca di nascondere spendendo tre milioni all’anno per sopprimere ricerche e comprare parlamentari. Più armi da fuoco, più morti innocenti. Tutto qui. Bambini, studenti, familiari, bersagli di stragisti, suicidi, incidenti, questa semplice equazione che da 40 anni la lobby americana delle armi cerca di nascondere spendendo tre milioni all’anno per sopprimere ricerche e comprare parlamentari, dovrebbe essere l’inizio e la fine di ogni illusione e di ogni discussione sulla “difesa a mano armata”. Ma non lo è. Avvinghiata alla Costituzione che sembra - ma nel tempo l’interpretazione è variata - concedere a ogni cittadini il diritto di portare armi e appesa al falso senso di sicurezza che stringere in pugno il calcio di un’automatica o imbracciare un fucile semiautomatico produce - lo so, l’ho provato, è un sentimento intossicante - la “gun culture”, la cultura della pistola, vende legalmente dieci milioni di armi da fuoco ogni anno per 12 miliardi di dollari. E delle 36mila persone che cadono sotto i colpi al ritmo di quasi cento al giorno, la percentuale di criminali violenti fermati da cittadino armato per legittima difesa, o per legittimo sospetto, è microscopica, ridotta a qualche caso aneddotico. Quella pistola, quell’AR, il fucile d’assalto, uccidono chi li possiede più che chi li aggredisce. Non basta un articolo di giornale per riassumere e illustrare i 62 studi accademici migliori, quelli che non servono cioè interessi o pregiudizi politici, selezionati dagli anni ‘90 a oggi, per dimostrare la ovvietà di un rapporto di causa ed effetto che la logica illustra e la paura nasconde dietro l’illusione dell’autodifesa. Dal 1992, quando il Centro per il Controllo delle Malattie di Atlanta tentò di completare senza successo una ricerca definitiva sulla relazione fra armi e vittime e fu aggredito dalla Nra, la lobby degli armaioli che scatenò una campagna nazionale accusando il Centro di “scienza spazzatura”, la diffusione delle Glock, Colt, Armalite è cresciuta. E con essa il numero di vittime, confermando un antico proverbio: “Quando un proiettile lascia la canna non ha più amici o nemici, ma soltanto bersagli”. I casi singoli - il padre che fredda in Texas il figlio che rientrava a casa di nascosto nella notte scambiato per un intruso, il bambino che gioca con la pistola di papà, la lite familiare per “futili motivi” che degenera in sparatoria per la presenza di un’automatica in casa - non escono neppure dal nido delle notizie locali. Esplodono invece le stragi, quelle che un tempo prevedevano almeno quattro vittime per essere definite tali e oggi sono scese a tre morti, vista la diffusione, che increspano la superficie dell’opinione pubblica, accendono lumini, producono marce e omelie, prima che l’acqua si quieti e tutto torni come prima. Con un effetto paradossale: se la politica o l’opinione pubblica si agitano e mostrano segni di risveglio dall’incantesimo a mano armata, la vendita di armi schizza in alto. Nel 2016, quando l’elezione di Hillary Clinton, favorevole a una limitazione del commercio, sembrava imminente, gli armaioli vendettero cifre record, 12 milioni di pezzi. È un gorgo irresistibile, nel quale ogni tentativo di introdurre elementi di moderazione senza intaccare l’apparente dettato della Costituzione viene inghiottito e che la lobby alimenta, senza fare distinzione fra Repubblicani e Democratici. Perché nessuno, negli stati del Sud, rischia la trombatura per denunciare l’insensatezza ci norme che permettono in alcuni casi di portare con sé le armi nascoste e autorizza a sparare nel “sospetto” di essere minacciati. Non ci sono politici progressisti o conservatori che osino prendere di petto la lobby che ora sta raggiungendo anche il governo italiano attraverso Matteo Salvini, ma non soltanto perché hanno le tasche profonde e la spregiudicatezza di usare senza pudore. Non osano perché il dogma del libero possesso di armi è ormai nel tessuto della cultura popolare. Se smagliature si aprono, come accadde dopo il massacro dio Parkland, in Florida, che ha portato centinaia di migliaia di giovani a Washington per piangere e promettere mobilitazione, le volpi della politica, a partire da Trump idolo della lobby, spendono qualche buona parola, invitano a pregare, promettono qualche lodevole modifica a norme che permettono anche ai casi psichiatrici di acquistare armi e poi aspettano che il mare si calmi. Le ricerche dicono che soltanto fra i giovanissimi sotto i 24 anni, l’opposizione alle armi è forte, ma con l’aumentare dell’età il richiamo del West torna e gli anziani vogliono restare aggrappati alle loro pistole e fucili, fino a quando “qualcuno me le strapperà dalle mie mani fredde” come disse Charlton Heston, il “Mosè” che divenne il volto e la voce mistica degli spacciatori di armi. E i vecchi, a differenza dei giovani, votano, garantendo la maggioranza ai pro-gun. L’illusione dell’autodifesa, della propria casa trasformata in fortezza, è troppo seducente, troppo elementare, soprattutto nel tempo della paranoia sapientemente sfruttata e moltiplicata dalle infezioni dei Social e delle notizie false, contro le orde di assassini, stupratori, gangster, rapinatori riversati dalle invasioni apparenti di immigrati illegali. Un’anziana signora aggredita da un immigrato fa esplodere la collera e fa fiondare cittadini da armaiolo per spendere i 1200 dollari necessari per un fucile semiautomatico o i 200 per una Glock, la pistola preferita del momento. Su quell’aggressione, la lobby costruirà cattedrali di paura, monumenti di voti e camionate di dollari. Sui bambini della elementare del Connecticut stroncati da un giovanotto armato (dalla mamma) come Rambo, lumini, veglie e lacrime. La Corte europea dei diritti dell’uomo condanna la Russia per l’omicidio Politkovskaia La Stampa, 18 luglio 2018 La sentenza: Mosca non ha cercato i mandanti. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato la Russia per non “avere messo in atto le indagini appropriate per indentificare i mandanti” dell’omicidio della giornalista russa Anna Politkovskaia, avvenuto nel 2006. “Lo Stato russo ha mancato agli obblighi relativi alla effettività e alla durata delle indagini”, sostiene la sentenza della Corte, violando così la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. La Corte rileva in particolare che “se le autorità hanno trovato e condannato un gruppo di uomini direttamente coinvolti nell’assassinio della signora Politkovskaja, non hanno attuato adeguate misure investigative per identificare i mandanti dell’omicidio”. Secondo la Corte le autorità “hanno sviluppato una teoria sull’istigatore dell’omicidio, dirigendo la loro indagine su un uomo d’affari russo che risiedeva a Londra, ora deceduto”, ma avrebbero dovuto “studiare altre ipotesi, comprese quelle suggerite dalle ricorrenti, secondo cui nell’assassinio sono stati coinvolti gli agenti del FSB, i servizi segreti russi, o l’amministrazione della Repubblica cecena”. Lo Stato russo quindi, “non ha adempiuto agli obblighi relativi all’efficacia e alla durata dell’indagine” violando così la Convenzione dei diritti dell’uomo. Afghanistan. Numero record di vittime civili nel paese che per l’Europa è “sicuro” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 luglio 2018 Secondo dati diffusi il 15 luglio dalle Nazioni Unite, in Afghanistan nei primi sei mesi dell’anno sono state uccise 1.692 persone e altre 3.430 sono rimaste ferite. Si tratta del numero più elevato registrato da 10 anni a questa parte, quando si è iniziato a tenere il triste conto delle vittime civili nel paese asiatico. Questa notizia ha spinto Amnesty International a sollecitare nuovamente la comunità internazionale a non abbandonare gli afgani che fuggono da un conflitto che ha raggiunto livelli record e a cessare di rimandarli nel loro paese. Continuare a definirlo “sicuro” è sempre più inconcepibile. Ogni anno in Afghanistan, a partire dal 2014, oltre 10.000 civili sono stati uccisi o feriti. Si teme che anche nel 2018 andrà nello stesso modo. Con l’aumento delle vittime è andato di pari passo quello dei ritorni forzati, decine di migliaia, di afgani dall’Unione europea, dalla Turchia e da altri stati. Il caso più clamoroso, ma nient’affatto isolato, è quello di Taibeh Abbasi, una studentessa di 19 anni che ha appena conseguito la maturità in Norvegia. Pochi giorni aver festeggiato la maturità, le autorità norvegesi hanno respinto il ricorso contro il provvedimento di rimpatrio della sua famiglia. Taibeh sogna ancora di proseguire i suoi studi in Norvegia e laurearsi in Medicina. Ma questo sogno, per una ragazza che non ha mai conosciuto l’Afghanistan (essendo nata in Iran, dove la sua famiglia si era rifugiata a causa della guerra), rischia di essere interrotto presto. La cosa paradossale è che il governo norvegese sconsiglia i suoi stessi cittadini dal viaggiare in qualunque regione dell’Afghanistan e persino la zona iper-protetta della capitale Kabul dove si trova l’ambasciata è stata sottoposta ad attentati dei gruppi armati. E che dire della Germania? Recentemente un ragazzo di 23 anni si è tolto la vita sei giorni dopo essere stato rimpatriato in Afghanistan. Faceva parte di un gruppo di 69 afgani rimpatriati dal governo tedesco il 4 luglio. Il suo corpo è stato ritrovato il 10 luglio in un albergo messo a disposizione dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni. La notizia dei 69 rimpatri era stata trionfalmente annunciata dal ministro dell’Interno tedesco, Horst Seehofer, in occasione del suo 69esimo compleanno. A rimpatriare, a migliaia, gli afgani è anche la Turchia, paese che ospita una delle più numerose comunità di rifugiati al mondo. Dal 2018 ha iniziato a erigere un muro al confine con l’Iran per impedire ulteriori arrivi. E da quando, nel marzo 2016, ha firmato un accordo con l’Unione europea per impedire alle persone in cerca di salvezza di raggiungere l’Europa, sono iniziati i rimpatri.