Ma siete sicuri di aver letto la riforma penitenziaria? di Glauco Giostra Il Dubbio, 17 luglio 2018 Dopo la lunga fase delle critiche da parte di coloro che non avevano neppure letto il progetto di riforma penitenziaria, è giunta quella delle critiche di quanti dicono di averla letta. Speriamo per loro che mentano. Sta di fatto che la riforma va esalando gli ultimi rantoli tra Parlamento e governo, in una sorta di sagra delle giuridicolaggini, tutte compendiabili, stando ai pareri delle Commissioni giustizia, in un addebito di fondo: la riforma ad altro non mirerebbe che a dare una risposta “alla nota questione del sovraffollamento carcerario”, una risposta “svuota-carceri” che andrebbe “a totale scapito della sicurezza della collettività e con sacrificio del principio della certezza della pena”. Si potrebbe - ma ha ancora senso? - far notare che: - la riforma in realtà abroga l’unica normativa “svuota-carceri” presente nel nostro ordinamento (la legge 199 del 2010, che prevede l’ espiazione presso il domicilio delle pene sino a 18 mesi) e non introduce nessuna disposizione “svuota-carceri”, se con questo rozzo termine si intende sensatamente alludere a provvedimenti di mera deflazione della popolazione penitenziaria; - tutta la letteratura criminologica e le esperienze anche internazionali attestano che il graduale e meritato rientro nella società di soggetti che comunque vi dovranno fare ritorno è la maggiore garanzia di sicurezza; - la riforma, a leggerla senza pregiudizievole cecità, disegna appunto impegnativi percorsi di recupero sociale per i condannati in attuazione dell’art. 27 comma 3 Cost. - lo slogan della certezza della pena, con cui presumiamo si intenda dire che la pena debba rimanere immutabile qualunque sia l’atteggiamento del condannato durante la sua esecuzione, si scontra frontalmente con la giurisprudenza della Consulta. Nelle stesse ore in cui le Commissioni giustizia esprimevano il loro parere, la Corte costituzionale (sent. n. 149 del 2018) ha dichiarato illegittima la disposizione che prevedeva una più alta soglia di accesso alla semilibertà (26 anni invece di 20) per i condannati per sequestro di persona che hanno cagionato la morte del sequestrato. Incostituzionalità che discende dall’art. 27 comma 3 Cost., in forza del quale - ha precisato per l’ennesima volta la Corte - “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato (…); ma che non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società”. Ma, dicevamo, ha ancora senso argomentare? No, non ha senso. Non interessa che “svuota-carceri”, “pericolo per la sicurezza”, “incertezza della pena” siano affermazioni critiche destituite di ogni fondamento. Si tratta di slogan che sono graditi al popolo. E il popolo ha sempre ragione. Era probabilmente dello stesso avviso anche Barabba. Anche Fico spinge per la riforma del carcere di Giulia Merlo Il Dubbio, 17 luglio 2018 Il Presidente della Camera è l’unico 5 Stelle che ha commentato il post del fondatore: “pena certa significa anche formazione nuova per una persona che dovrà tornare nella società”. Il presidente della Camera, Roberto Fico, commenta le parole di Beppe Grillo sul carcere. Dopo una visita a Poggioreale, ha definito il post “una visione del mondo che crea dibattito. Si danno dei punti di vista che, in generale, sono molto importanti”. Pur non sbilanciandosi oltre, ha ribadito che la certezza della pena deve coniugarsi con la sua funzione riabilitativa: “È giusto che, per chi ha commesso dei reati, ci sia la certezza della pena. Però bisogna capire che la pena certa significa anche formazione nuova per una persona che dovrà tornare nella società”. Nella pratica, ha continuato il presidente della Camera, gli istituti di detenzione “Devono garantire la dignità della persona, altrimenti non si può pensare a un percorso formativo e riabilitativo”. Nessun grillino aveva ancora commentato il post del padre nobile Beppe Grillo sul carcere, nemmeno il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, immediatamente chiamato in causa dalle opposizioni. Il primo a farlo, al termine della visita al carcere di Poggioreale a Napoli, è stato il presidente della Camera, Roberto Fico: le dichiarazioni sono state sollecitate dai giornalisti ma pentastellato considerato il più “a sinistra” del Movimento non si è tirato indietro. Se la tesi del comico era quella di “un mondo senza carceri”, in cui si privilegiano le misure alternative, Fico non si è sbilanciato fino a questo punto: “Beppe nei suoi post fornisce una visione del mondo che crea dibattito. Un po’ come quando è nata l’esperienza civica, tramite i suoi spettacoli e, dopo il 2005, con il Movimento. Si danno dei punti di vista che, in gene- rale, sono molto importanti”, ha ragionato il presidente della Camera, legittimando di fatto le parole del fondatore del Movimento. Nel merito dell’ipotesi di abolizione delle carceri, Fico ha chiamato in causa il valore della certezza della pena, che però deve coniugarsi la sua funzione riabilitativa: “È giusto che, per chi ha commesso dei reati, ci sia la certezza della pena. Però bisogna capire che la pena certa significa anche formazione nuova per una persona che dovrà tornare nella società”. In altre parole, pur non arrivando a spingersi fino all’abolizione del carcere, anche Fico ha sottolineato l’importanza delle misure alternative alla detenzione e dei percorsi rieducativi. “Come comunità di cittadini, infatti, chiediamo certezza della pena, ma non possiamo non porci una domanda fondamentale: cosa farà il detenuto una volta scontata la pena, che persona e che cittadino sarà. Questo perché carcere e società esterna sono vasi comunicanti. E quindi sarà una persona migliore se in carcere avrà trovato la possibilità di costruire un’opportunità di riscatto e di formare o ricostruire la propria identità, seguendo per esempio percorsi di formazione o imparando un nuovo lavoro”, ha aggiunto poi in un post sulla sua pagina Facebook. Senza aggiungere altro sul post di Grillo, durante la visita in carcere è però entrato nel merito del ruolo degli istituti di detenzione: “Devono garantire la dignità della persona, altrimenti non si può pensare a un percorso formativo e riabilitativo”. Nel percorso di rieducazione, secondo Fico, “bisogna pensare che individui riconsegnamo alla società. Se escono persone scollegate dal mondo, senza un progetto, abbiamo fatto più un danno alla società e alla persona che un servizio”, per questo è importante lavorare per creare “un collegamento profondo tra ciò che avviene fuori e dentro, in modo che quando un detenuto esce sia già collegato con la società”. Al termine della visita a Poggioreale, Fico ha ragionato più complessivamente sullo stato delle carceri in Italia, sottolineando come “ci siano stati dei miglioramenti, ma la situazione rimane critica: qui oggi abbiamo 2.200 detenuti, dovrebbero essere 1.690, ma erano 3.000. Alcuni padiglioni rispettano gli standard, altri no”. In merito al sovraffollamento, ha spiegato che “ci sono state anche leggi sbagliate, come la Giovanardi-Fini, che hanno causato l’eccessivo affollamento” ma, per evitare invasioni di campo in un tema che si prospetta uno dei banchi di prova del governo, ha evidenziato come “su questi temi interverrà il ministro della Giustizia, che conosce bene la situazione”. Per ora, tuttavia, quella di Fico rimane l’unica presa di posizione sul post di Grillo da parte di un esponente di spicco del Movimento 5 Stelle. Il diretto interessato per competenza, il Guardasigilli Alfonso Bonafede, invece, ha scelto di non commentare, pur avendo in più occasioni affrontato la questione carceraria, da ultimo in un’intervista al Fatto Quotidiano, in cui ha spiegato di voler intervenire sul decreto attuativo della riforma dell’ordinamento penitenziario, in particolar modo l’allargamento delle misure alternative, perché “mina il principio della certezza della pena”. Certamente, comunque, la riforma del carcere fa parte del contratto di governo sottoscritto da Lega e 5 Stelle. Nel testo, si legge che “è necessario riscrivere la cosiddetta riforma dell’ordinamento penitenziario al fine di garantire la certezza della pena per chi delinque, valorizzando altresì il lavoro in carcere come forma principale di rieducazione e reinserimento della persona condannata. Si prevede altresì una rivisitazione sistematica e organica di tutte le misure premiali per garantire l’effettività del principio di rieducazione della pena”. Sulla carta, dunque, enfasi maggiore viene data, più che alla certezza della pena in senso lato, al fatto che la pena venga scontata in carcere. Come - e soprattutto se questo verrà influenzato dalle esternazioni di Grillo è tutto da vedere, anche perché l’altro contraente del contratto - la Lega di Matteo Salvini - difficilmente sarà disposto a cedere su una questione che, insieme al rafforzamento della legittima difesa, è tra gli elementi caratterizzanti della sua proposta politica. Tolleranza zero nelle carceri, lo stop di Fico di Conchita Sannino La Repubblica, 17 luglio 2018 No alla Giovanardi, sì a misure alternative. Presa di distanza dalla linea del governo. Due concetti chiave. “Un detenuto è una persona. Non si può negoziare sulla tutela della dignità, in carcere”. Anzi. Si deve lavorare sul sovraffollamento, ragiona Roberto Fico, all’uscita di una lunga mattinata dedicata al penitenziario di Poggioreale, a Napoli: il più affollato d’Italia, tra i più “popolosi” d’Europa. “Ad esempio abbiamo leggi sbagliate: prendiamo la Giovanardi-Fini che ha equiparato i reati sulle droghe leggere a quelle pesanti e ha fatto molti danni”. C’è lo spazio per il ricorso a misure alternative, sembra indicare. Il governo potrebbe rivedere quella norma? “Di questo - alza le mani Fico - si dovrà occupare il ministro Bonafede. Conosce molto bene il problema del sovraffollamento. Ed eravamo entrambi alla presentazione del Rapporto del Garante, sulle condizioni dei detenuti in Italia”. Quindi significativamente, aggiunge: “Su questo ci sarà sicuramente un processo in atto”. Si fa dunque più chiara ed esplicita una visione diversa, della giustizia. Quella di Fico è chiaramente alternativa tanto al pugno di Salvini, quanto alle bocciature del “suo” ministro M5S, recentemente schieratosi contro la riforma di Andrea Orlando sulle misure alternative e una dosata depenalizzazione, che avrebbe dovuto “smaltire” il macigno delle carceri-alveari, peraltro già nel mirino dell’Unione europea. Fico sceglie, non a caso, la struttura della sua città. Incontra e ascolta storie, volti, facce di tanti immigrati, tossicodipendenti, anche di trans, perfino di persone con disabilità che restano sedute e immobili dietro, ad esempio, i pesanti spioncini, nelle celle dell’antico padiglione “Roma”. Fico registra le criticità - ma “anche tanti sforzi apprezzabili”, ringraziando la direttrice Maria Luisa Palma. A Poggioreale sono quasi 3mila i detenuti, a fronte dei 1610 previsti dalla capienza massima. Uno scenario che serve a Fico per rilanciare principi che non sono di moda nel governo che propugna tolleranza zero e via libera all’alleggerimento delle sanzioni sulla legittima difesa. “Quando sei stato in alcuni padiglioni e hai visto determinate condizioni di vita in una cella”, spiega ancora il presidente della Camera, “devi chiederti se quella pena, sacrosanta, faccia il bene o faccia più male alla società, eseguita a quel modo. Noi ci dobbiamo chiedere sempre quale persona, dopo 5, 10 o 15 anni, noi restituiamo alla comunità che c’è fuori: se non c’è stato un collegamento con l’esterno, un corso, una possibilità di formazione, da dove si ricomincia?”. Le parole di Fico ribadiscono concetti costituzionali, oltre che di buon senso, ma rischiano di pesare nell’estate calda dello stop di via Arenula. E in ogni caso, parlano all’area della minoranza M5S che a lui guarda come un interprete fedele dei valori originari e non “intaccati” dal contratti con la destra. Una visione che non confligge comunque - Fico, da ex ragazzo delle marce anticamorra tiene a precisarlo - con il rigore verso le condanne di chi si è macchiato di reati gravi. E con Grillo che teorizza un Paese a carceri zero, appena 5 anni fa bacchettava Napolitano contro indulto e amnistia? “Ma Grillo ispira i grandi dibattiti - replica - sta a noi calare i principi nella realtà”. Le “opinioni personali” e i detenuti di Francesco Damato Il Dubbio, 17 luglio 2018 Anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, come già aveva fatto prima, durante e dopo la campagna elettorale il “capo” del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio, è caduto nella tentazione di liquidare come opinioni “personali” quelle che Beppe Grillo espone ogni tanto sul suo blog, ora ben distinto d’altronde da quello del partito. Questa volta Grillo, anche a costo di guadagnarsi un benvenuto da Piero Sansonetti fra i sostenitori della riforma penitenziaria predisposta dal governo di Paolo Gentiloni, ha spiazzato i suoi con la denuncia del superaffollamento delle carceri e con la condivisione delle pene alternative per sfoltirle. nella speranza sempre l’ultima a morire, si sa che maturino davvero i tempi per fare a meno degli istituti dove oggi marciscono quelli che pure dovrebbero passarvi per essere “rieducati”, secondo l’articolo 27 della Costituzione. Ebbene, sono proprio le misure alternative al carcere previste dalla riforma penitenziaria quelle che, prima ancora di arrivare in via Arenula come guardasigilli, avevano fatto storcere il naso a Bonafede. Che, approdato nel governo, ne ha bloccato il percorso difendendo il principio della certezza della pena in concorrenza con gli alleati leghisti. Il “garante”, “l’elevato” e non so cos’altro sia diventato Beppe Grillo nel Movimento arrivato al governo con la rapidità delle sue bracciate di nuotatore non si è lasciato fermare dalla sorpresa del suo amico guardasigilli. Egli ha aperto la 24. ma settimana del suo blog - “ufficiale” ma, ripeto, personale - riproponendo in poche righe il tema di “Un mondo senza carceri”. Basta cliccare sulla parola rossa del richiamo per rileggersi nel dettaglio le sue riflessioni dei giorni scorsi. “Il sistema punitivo che stiamo adottando - ha riassunto Grillo coinvolgendo con quel plurale anche il suo amico Bonafede, credo - è antico come il mondo, ma soprattutto non funziona”. C’è tuttavia qualcuno che condivide in modo assai curioso il ragionamento del fondatore del Movimento delle 5 Stelle, o della strana banda musicale che è diventata con i tanti che suonano ciascuno per conto suo. Antonio Ingroia, per esempio, che non manca mai di una certa urticante franchezza, anche adesso che non è più magistrato - e che magistrato - ma fa l’avvocato e ha scoperto, come egli stesso ha più volte raccontato, la parte nascosta del pianeta della giustizia frequentato per tanti anni da pubblico ministero, si è doluto con Il Dubbio della qualità e non della quantità della frequentazione carceraria. Mi ha colpito, in particolare, il passaggio della sua intervista in cui Ingroia ha detto a Errico Novi che “da noi la percentuale di corrotti e di mafiosi negli istituti di pena è bassissima”. Alta, troppo alta, intollerabilmente alta sarebbe invece quella di chi ha commesso reati - o è solo accusato, aggiungerei, di averli commessi - “in condizioni di disagio e di marginalità”. Che con la pena detentiva “si incancreniscono” e rendono probabile che chi esce dal carcere vi ritorni, per giunta con la complicità di quei giornali che riferiscono “con troppa enfasi” dei “rari casi di evasione dai domiciliari o dai regimi di semilibertà”. Tolti “i corrotti e i mafiosi”, condannati ma più spesso in attesa di giudizio, e di frequente assolti senza che nessuno chieda loro uno straccio di scuse, i detenuti da disagio e marginalità dovrebbero essere quelli per droga ma anche per omicidi, rapine, furti. Ebbene, qui ho una certa difficoltà a seguire l’ex pubblico ministero Ingroia. E chiedo all’avvocato che ne ha preso il posto se sia giusto confinare gli altri, cioè gli accusati di corruzione e di mafia, al netto delle assoluzioni confinate nelle pagine interne dei giornali, in un’area a dir poco di indifferenza, come ha finito per fare lui, volente o nolente. Di costoro non vorrei che si potesse pensare e dire che se diventassero finalmente tanti, superaffollando solo loro le carceri italiane, potremmo pure disinteressarci del problema. E accettare l’idea che, riempite ben bene le celle di questi detenuti, se ne possano o addirittura se ne debbano buttar via le chiavi. Quello delle chiavi delle celle da buttare è il sogno - si sa - dei manettari e giustizialisti. Che in questi ultimi tempi si sono sentiti incoraggiati - spero più a torto che a ragione - dalla nascita del cosiddetto governo del cambiamento, ma alla rovescia, visto il già ricordato blocco subìto dalla riforma penitenziaria. Che neppure il presidente grillino della Camera Roberto Fico è riuscito ad evitare, per quanti tentativi abbia compiuto nelle more della crisi di governo, e forse anche dopo, ricevendo delegazioni e promuovendo riunioni. Non a caso, pur parlando anche lui del carattere “personale” della sortita di Grillo, il titolare della terza carica dello Stato ha mostrato di condividerla rispondendo ai giornalisti durante una visita al carcere di Poggioreale. Fico ha anzi avvertito sulla questione l’apertura di un “dibattito”. Altro che la frettolosa e infastidita liquidazione del problema, preferita da altri nel Movimento, come la solita, stravagante “provocazione” di un comico prestato alla politica, o addirittura alla pre-politica dopo le distanze che lui stesso ne ha preso. Antonio Mattone: “il carcere ti toglie la dignità senza creare sicurezza” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 17 luglio 2018 Intervista al giornalista e scrittore, da 10 anni volontario a Poggioreale. “Una volta che finisco la pena la palla passa a me, come mi hai ripetuto tante volte tu, mi ha scritto una volta un detenuto raccogliendo la sfida che gli ho lanciato. Questa frase, riportata in uno degli articoli all’interno del volume, esprime la consapevolezza che ciascuno è protagonista del proprio destino e del proprio cambiamento. Allo stesso modo “la palla” deve passare alla società civile e politica che deve finalmente comprendere che un soggetto umiliato nella sua dignità di uomo non potrà mai essere rieducato alla legalità”. Ecco la suggestione che sta dietro il titolo del libro di Antonio Mattone, E adesso la palla passa a me. Malavita, solitudine e riscatto nel carcere (Guida Editore), raccolta di scritti realizzati durante i dieci anni da volontario presso il carcere di Poggioreale, città che ieri ha ospitato la presentazione del volume alla presenza del Presidente della Camera Roberto Fico. Antonio Mattone, la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo era nata e si era sviluppata proprio all’interno dei cancelli di Poggioreale e di altre carceri. La funzione securitaria del carcere è quindi solo un’illusione? Raffaele Cutolo ha accresciuto all’interno del carcere il proprio potere, gestendo tutta una serie di favori elargiti sia ai detenuti che ad alcune guardie carcerarie e creando una delle più potenti organizzazioni criminali: si tratta di un esempio plastico dei limiti della funzione securitaria del regime detentivo. Ciò non vuol dire che per alcuni casi non vi sia bisogno del carcere, ma per come l’istituzione si è sviluppata in questi ultimi anni è diventata soltanto un moltiplicatore di violenze. Lei ha rilevato, durante la sua esperienza a Poggioreale, la presenza di innocenti sottoposti a carcerazione preventiva o domiciliare. Cosa può raccontarci al riguardo? Nonostante mi ponga come volontario e non come giudice, ho potuto osservare i casi di gente che è stata in un secondo tempo scarcerata e quindi, data la successiva assoluzione, la loro carcerazione può a rigor di logica venire derubricata come ingiusta. Penso che alcune persone abbiano scontato da innocenti - a causa della loro ingenuità o perché vittime di eventi e di avvocati non sempre all’altezza - diversi anni di carcere. È una circostanza terribile, in quanto ad essa si collega spesso la perdita del lavoro e degli affetti. Un’esperienza drammatica che ti segna. Nei suoi scritti ha testimoniato le difficoltà incontrate dagli agenti penitenziari. Potrebbe parlarcene? Quello di agente penitenziario è un lavoro difficile, usurante, con turni massacranti e una formazione carente. Non tutti riescono a reggere lo stress, con la conseguenza che alcuni riversano sui familiari o sugli stessi detenuti il loro disagio. Ritengo che vi sia bisogno di maggior dialogo e vicinanza, anche attraverso l’instaurazione di un rapporto diverso da quello rigidamente codificato tra guardia e detenuto. Per mia personale esperienza ho conosciuto a Poggioreale un agente che veniva soprannominato “il soldatino” e manifestava problematiche psicologiche tali che si decise di privarlo della pistola d’ordinanza: prima che ciò potesse avvenire, con quella stessa pistola si uccise. Ritiene che, con la chiusura degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e l’apertura delle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), le condizioni dei detenuti affetti da disturbi psichici sia effettivamente migliorata o si profilano nuovi problemi all’orizzonte? Le loro condizioni sono sicuramente migliorate. Durante gli anni precedenti, la situazione degli Opg era alquanto drammatica - c’erano ancora i letti di contenzione - mentre con la riforma già si assistette ad una certa apertura in merito. È stata sicuramente una svolta positiva, ma alcuni problemi permangono. Le Rems non sono presenti in tutte le regioni, in alcune devono essere ancora costruite. Anche delle case- lavoro non si parla molto: strutture in cui, in realtà, il lavoro manca, che finiscono per diventare una permanenza inutile di gente che vive un disagio personale senza poter essere aiutata in un possibile percorso riabilitativo. Altra cosa da fare sarebbe abrogare le misure di sicurezza - bisognerebbe avere il coraggio di farlo - e potenziare i Dsm (Dipartimenti di salute mentale) territoriali. Lasciare sguarniti i Dsm delle Asl significa abbandonare queste persone, non fornire loro alcun valido aiuto. Potrebbe parlarci dei ritardi riguardo l’applicazione, in materia di diritto alla sanità, del Dpcm dell’aprile 2008? Al contrario delle critiche che le sono state mosse, credo che tale riforma sia sacrosanta. Ciò nonostante, permangono dei ritardi. In Campania si è imposta la questione del continuo turn over di medici e infermieri: il concetto di presa in carico di un malato, proprio della riforma, non ottiene così adeguato adempimento, in quanto cambiando sempre medici non è possibile offrire la necessaria continuità terapeutica. Si registrano problematiche riguardanti ricoveri, interventi, esami, quando questi non possono essere eseguiti all’interno della struttura, mentre anche l’ambito relativo alle cure psichiatriche andrebbe migliorato. Cosa ne pensa dell’approccio in materia di giustizia e carceri del nuovo governo giallo- verde? Attenderei, per giudicare, i primi passi concreti del nuovo esecutivo, mentre mi preme rimarcare una differenza di sensibilità e vedute tra i due partiti al governo, Lega e Movimento 5 Stelle. L’approccio leghista punta su un discorso securitario piuttosto radicale e, in primis, sulla costruzione di nuove carceri. La costruzione di nuove carceri, tuttavia, richiederebbe da una parte una considerevole quantità di tempo e dall’altra ingenti risorse, quando invece constatiamo la preoccupante mancanza di personale che interessa le strutture detentive già esistenti. Mi sembra essere un’ipotesi alquanto irrealistica. A conti fatti, inoltre, non è il carcere che crea sicurezza: la sicurezza si crea soltanto se le persone cambiano. Il carcere, allo stato attuale, non cambia gli individui, piuttosto li impoverisce, li incattivisce: con impegno uno può diventare un buon detenuto, non un buon cittadino. Non esistono ricette precostituite: piuttosto che la logica del “buttare via la chiave” occorrerebbe invece rinvenire quella chiave interiore che permetta all’uomo di migliorare i propri comportamenti e il proprio modo di vivere in società. Si tratta di un percorso personale, non automatico né pilotabile dall’esterno. La strada migliore, a mio avviso, è quella rappresentata dalle misure alternative. Musacchio (Scuola “don Peppe Diana”): il carcere duro per i mafiosi non va abolito intervista di Lucia De Sanctis nuovatlantide.org, 17 luglio 2018 Tra le poche misure efficaci contro le mafie vi sono senza dubbio il 41bis e la legge La Torre sulle confische dei beni. Lo afferma Vincenzo Musacchio giurista e direttore della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise. È cambiato il 41bis nel corso degli anni? Certamente sì. Siamo di fronte a dati di natura oggettiva poiché il 41bis di oggi è un provvedimento personale sottoposto all’esame giudiziale, mentre prima non lo era e poteva essere applicato in base ad una scelta discrezionale dell’amministrazione penitenziaria. Il “carcere duro” per i mafiosi ha avuto moltissime critiche a livello nazionale, europeo ed internazionale, come si spiega questa ostilità? Se si legge con cognizione di causa il contenuto dell’ art. 41bis si noterà che lo stesso dispone una restrizione degli spazi di libertà prevista dalla legge e giustificata in modo specifico per ciascuna delle singole misure adottate. In buona sostanza viene rispettato il principio di determinatezza, di conseguenza, ritengo che il nostro Paese rispetti a pieno le regole del diritto rendendo trasparente il regime di massima sicurezza. Non dobbiamo mai dimenticarci che a decidere su tale regime carcerario sia un giudice in ossequio al principio di legalità e di giurisdizione. Da Potere al Popolo è arrivata al proposta di abolire il 41bis, che ne pensa? Pur provenendo da un area di sinistra (ho militato nel Pci), la giudico molto negativamente. Abolire il 41bis vuol dire fare un regalo ai mafiosi. Io non credo che i cittadini italiani apprezzerebbero l’abolizione del carcere duro per i mafiosi. Ci sarebbe certamente una reazione popolare ad un provvedimento di abolizione del 41bis specie da parte dalle innumerevoli famiglie vittime di crimini mafiosi. L’art. 27 della Costituzione, sul valore rieducativo della pena, dunque per i mafiosi non vale? Certo che vale ma per rieducarsi occorre pentirsi dimostrando in concreto la volontà di un percorso di recupero, rieducazione e risocializzazione: questo accade per i mafiosi? Da studioso del fenomeno ritengo proprio di no! Non ho mai visto un capo mafia rinnegare il suo mondo criminale. Chi lo ha fatto spesso ha solo finto di partecipare all’opera di rieducazione, per ottenere lo sconto di pena. In conclusione cosa possiamo dire? Che il 41bis è una misura assolutamente indispensabile poiché molti boss mafiosi dal carcere continuano a gestire il sistema degli appalti, delle estorsioni e delle collusioni con la politica. Queste a mio giudizio sono le vere disfunzioni a cui occorrerebbe porre rimedio! Se modificare il 41bis significa incidere su queste alterazioni allora sono d’accordo. Da tempo sono convinto che il 41bis debba essere potenziato e i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione debbano essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente riservati, collocati se possibile nelle isole, sul modello territoriale di Pianosa e l’Asinara. I boss mafiosi col 41bis e con la piena efficienza del sistema delle confische dei loro beni, saranno sconfitti e al tempo stesso avremo onorato la memoria di Falcone e Borsellino e di tutte le vittime delle mafie italiane. Sarò controcorrente ma a mio giudizio il 41bis va inasprito e applicato con più rigore. Nella lotta alle mafie ancor oggi resta uno strumento efficace e necessario. Analisi delle proposte di governo: “la difesa è sempre legittima” di Bruno Tinti Italia Oggi, 17 luglio 2018 È questo il convincimento di Matteo Salvini, che non corrisponde assolutamente al vero. Difesa significa reazione a un’aggressione altrui. Se la reazione comporta l’uso della violenza, questa può essere legittima o meno. La legittimità si valuta in funzione della sua idoneità a respingere l’aggressione: quando la violenza non è necessaria (tra me e l’aggressore c’è una saracinesca) o non è più necessaria (l’aggressore fugge o è stato messo in condizioni di non nuocere), la violenza non è legittima. C’è poi un secondo tipo di valutazione: la proporzionalità. Se l’aggressore mi colpisce con uno schiaffo non posso difendermi sparandogli un colpo di pistola. Naturalmente, nella pratica, queste situazioni sono molto più sfumate, sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo: tra me e l’aggressore c’è sì una saracinesca ma non è chiusa a chiave e quello mi sta minacciando con un coltello; e, al momento, l’aggressore mi ha dato “solo” uno schiaffo ma è grosso e infuriato e tutto lascia pensare che intende riempirmi di botte; e io ho 70 anni e sono debole di cuore... Sicché occorre capire, accertare, valutare... Ecco, quest’ultima cosa è territorio inesplorato per i grillo-leghisti, per il loro leader in particolare. Salvini è come Camilla Giorgi, una tennista molto carina che tira botte da orbi; e “solo” botte da orbi. Quando le hanno chiesto come pensa di variare il suo tennis quando sarebbe necessario, ha risposto: “Non lo so, io non penso molto”. Su questo tema Salvini ha avuto un’illuminazione, come San Paolo quando è caduto da cavallo sulla via di Damasco: “La difesa è sempre legittima”; che però, come ho già spiegato, non è vero. Inoltre, siccome non ha ben chiaro il concetto di difesa, secondo Bossi sparare a un ladro che scappa è “difesa” anche se non saprebbe spiegare da cosa, visto che - appunto - l’ex aggressore sta scappando. C’è un altro problema. Salvini non pensa, e va bene. Ma vuole che nessun altro pensi al posto suo. Sicché affidare al giudice l’incarico di valutare se di “difesa” si è trattato e se la reazione è stata proporzionata, non gli va giù. Secondo lui, la “difesa sempre legittima” è causa di immunità che non deve nemmeno essere accertata. Se poi il “difensore” ha ammazzato un “aggressore” bambino che cercava di rubare un paio di mele nel suo orto, va bene così, uno di meno. E dire che la legge italiana in questa materia è molto permissiva e - soprattutto - consente spazi di “aggiustamento dei fatti” molto ampi. Per i furti in abitazione, il criterio della proporzionalità è stato abolito: si può sparare a un ladro che è entrato in casa, nel giardino, in cantina, in garage, nel capannone, nell’ufficio. Basta che abbia un atteggiamento aggressivo o che, pur avendolo avuto, non stia “desistendo” cioè non stia scappando. Sull’atteggiamento aggressivo fa evidentemente fede il racconto dell’aggredito: quando l’aggressione c’è stata non c’era nessuno. E qui ognuno può raccontare le palle che vuole. “Era fuori della saracinesca che però non era chiusa a chiave” (non è vero, l’ha aperta lui subito dopo il fatto); “aveva in mano un coltello” (non è vero, ce lo ha messo lui dopo avergli sparato); “ho provato a spaventarlo sparando un colpo in aria ma lui mi è venuto addosso e ho dovuto sparargliene un altro paio in pieno petto” (non è vero, prima gliene ha sparati due in pieno petto e, poi, un altro in aria). Se la storia è plausibile e ben raccontata, il nostro giustiziere la farà franca. Certo, se gli spara nella schiena o addirittura dal balcone mentre scappa, sostenere che si è trattato di “difesa” diventa impossibile. Inoltre, al di là delle palle, ci sono molte situazioni in cui la legittima difesa è riconosciuta dalla legge e dalla giurisprudenza. Mi sveglio e vedo un tizio in camera da letto che mi ingiunge di non muovermi; è buio, il tizio sembra grosso e minaccioso, mi sono appena svegliato, sono spaventato e agitato: se gli sparo dovrebbe andarmi bene. Certamente mi andrà bene se sento rumori in casa, mi armo (con arma legittimamente detenuta), scopro un tizio grande e grosso che rovista nei cassetti, io sono piccolo o vecchio o tutti e due, gli ingiungo di smetterla ma lui non lo fa e mi si avvicina con aria minacciosa (vero o no, così io racconterò), gli sparo e chiasso finito. Insomma, la possibilità di “difendersi legittimamente” è molto ampia. Quello che è certo si è che la situazione va valutata da un pm e da un giudice. A tacer d’altro perché, non fosse così, lo spazio per ammazzare moglie o suocera (o marito e amante di lui) diventerebbe grande assai: sono entrato/a in casa, ho visto un’ombra o due, “chi va là” ho intimato ma lui/loro mi sono venuti addosso, mi sono difeso/a; non ho capito che erano solo moglie, suocera, marito, amante. Quindi, Salvini, prima di sparare... affermazioni insostenibili, ci pensi. Sia mai che scatti la legittima difesa degli elettori. Legittima difesa extralarge. Ecco le 5 proposte di legge Italia Oggi, 17 luglio 2018 In Parlamento sono state depositate 5 proposte di legge: una della Lega, a prima firma del capogruppo al senato, Massimiliano Romeo; una di iniziativa popolare; una terza targata Fratelli d’Italia e due di Forza Italia. Tutti e cinque i testi, da mercoledì, saranno all’esame della commissione giustizia del senato. Obiettivo comune delle forze di centrodestra, sia di governo che di opposizione: “allargare” le maglie della legittima difesa, puntando a far sì che questa, nella pratica, sia sempre presunta e, quindi, riconosciuta. Come? “Tenendo in massima considerazione anche lo stato emotivo e psicologico della vittima”. Attualmente, l’art. 52 del codice penale prevede, infatti che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. In particolare, nei casi previsti dall’art. 614 (violazione del domicilio, ndr) “sussiste il rapporto di proporzione se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: la propria o la altrui incolumità; i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione”. In più, “la disposizione si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. La proposta della Lega, unico tra i partiti proponenti al governo, modifica così l’art. 52, aggiungendo un comma con l’obiettivo di riconoscere sempre la legittima difesa, senza più principio di proporzionalità: “Si considera che abbia agito per difesa legittima colui che compie un atto per respingere l’ingresso o l’intrusione mediante effrazione o contro la volontà del proprietario o di chi ha la legittima disponibilità dell’immobile, con violenza o minaccia di uso di armi da parte di una o più persone, con violazione del domicilio di cui all’art. 614, 1° e 2° comma, ovvero in ogni altro luogo ove sia esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale”. La Lega punta anche a inasprire le pene. E modifica l’art. 165 cp, limitando al massimo la sospensione condizionale della pena, che viene “subordinata al pagamento integrale dell’importo dovuto per il risanamento del danno alla persona offesa”. La proposta di legge di iniziativa popolare, invece, punta a modificare l’art. 614 sulla violazione di domicilio, inasprendo le pene, e l’art. 55 cp, che disciplina “l’eccesso colposo”. La proposta di Fdi modifica l’art. 52 cp, allargando ai luoghi adiacenti a quelli sotto tutela il riconoscimento della legittima difesa. E estendendo la portata della sua “presunzione”. Infine, le due proposte targate Fi intervengono su versanti diversi: sull’art. 52 cp, prevedendo che “la punibilità” va “comunque esclusa quando il fatto è stato commesso per concitazione o paura”; sull’art. 55, disponendo che “la colpa è esclusa quando l’eccesso” di difesa sia dovuto “al condizionamento psicologico determinato dal comportamento di colui verso il quale la reazione sia diretta”. Nel diritto penale il dubbio è tensione verso la verità di Giovanni Maria Flick Corriere della Sera, 17 luglio 2018 Quando all’inizio del mio percorso culturale, istituzionale e professionale, sono entrato nella “selva oscura” del diritto, nell’alternativa tra il dubbio e la certezza ho scelto quest’ultima senza esitazione. Era l’obiettivo da raggiungere; era un traguardo che ispirava sicurezza, soprattutto in un campo minato come quello del diritto penale, l’extrema ratio delle regole da proporre e da seguire - anche con l’impiego della forza - per assicurare le basi della convivenza e del rispetto reciproco. Questo bisogno di certezza e le istanze che la fondano erano per me una ragione sufficiente per sottovalutare i rischi di dogmatismo, di autoritarismo, di staticità che il raggiungimento effettivo o apparente della certezza porta con se, soprattutto nel mondo del diritto. Quei rischi erano nascosti da una serie di vantaggi: l’utopia dell’uniformità delle soluzioni che la legge da applicare propone (anzi, impone!); quella della eguaglianza e della stabilità dei risultati in cui si traduce, attraverso la sua applicazione da parte di un giudice chiamato soltanto ad interpretarla e non a crearla; l’utopia della saggezza di una legge che nasce dal confronto tra maggioranza e opposizione, come espressione di democrazia e rispetto dei diritti dei singoli e delle minoranze, nel momento in cui si affermano le scelte della maggioranza. Insomma, la certezza del diritto e della sentenza (una volta diventata definitiva), garantite sia dalla maestà e dalla sovranità della legge; sia dalla facilità e quindi brevità (a parole) del percorso per arrivare alla affermazione della legge attraverso la sua applicazione al caso concreto. Via via che quel percorso progrediva, attraverso una serie di esperienza culturali ed operative (come giudice, professore, avvocato, ministro della giustizia ed infine giudice costituzionale) mi sono reso conto che non era per nulla facile. Soprattutto, mi sono reso conto che era un percorso destinato molto di più ad alimentare l’approfondimento del dubbio che non la soddisfazione (o meglio l’acquiescenza) della certezza. Il processo penale è in realtà un cammino dal dubbio alla certezza, regolato sotto molteplici profili. Per sciogliere l’alternativa fra colpevolezza e innocenza si deve passare dal giudizio storico sul fatto al giudizio valutativo sulla regola, attraverso il confronto fra i due e la possibilità di iscrivere il primo (con la sua specificità) nello spazio di applicabilità della seconda (con la sua genericità). L’intreccio tra i due momenti del giudizio (storico e valutativo) è inscindibile, nonostante la tentazione di separarli per uno schematismo di comodo: ricostruzione del fatto; valutazione del diritto. In realtà l’accertamento del fatto è una realtà non solo ricognitiva, ma ampiamente valutativa. Basta pensare che il fatto di cui ci si occupa non esiste più; si è dissolto nel passato. Deve essere ricostruito per via induttiva, attraverso le tracce (le prove) che ha lasciato: da quelle materiali (le impronte, le modificazioni della realtà fisica) a quelle intellettuali (le testimonianze), a quelle scientifiche e neuro-scientifiche, con la loro suggestione di infallibilità in realtà tutta da discutere. Basta pensare alla ricostruzione del fatto proposta dal legislatore: con una complessità e una variabilità di significati che è il fratto dell’evoluzione e della complessità della vita sociale e della conseguente ambiguità del linguaggio. Basta pensare ai limiti ed alle regole che disciplinano la raccolta e l’utilizzazione delle diverse tracce del passato, per ricostruire oggi quella realtà che non esiste più. Basta pensare ai requisiti essenziali del processo: la neutralità ed imparzialità del giudice; la formulazione della domanda da parte del pubblico ministero; la garanzia della difesa e la essenzialità del contraddittorio, cioè del confronto fra accusa e difesa. Basta pensare infine al punto di approdo: la ricerca - mediata dalla presunzione costituzionale di innocenza - di una “verità” al di là di “ogni ragionevole dubbio”. Quale è la soglia della ragionevolezza? Altrettanto complesso è il secondo momento del processo: il giudizio di valore giuridico sull’applicabilità della regola astratta al caso concreto emerso dal giudizio storico. Il principio costituzionale di legalità (articolo 25 della Costituzione) nasce dall’esigenza di garantire la libertà personale dagli abusi del potere punitivo dello stato; nonché dall’esigenza di garantire la conoscenza preventiva della regola, come condizione di libertà nella scelta del proprio agire. Da quel principio discendono una serie di corollari: la c.d. riserva di legge per porre le regole; la capacità della legge di disciplinare solo il futuro (irretroattività); la necessitò di determinare con precisione quanto è vietato (tassatività); il divieto per il giudice di estendere l’applicazione della legge a situazioni non previste (divieto di analogia). Tuttavia la fiducia nella legge come unica fonte delle regole e la sfiducia nel giudice è via via venuta meno: vuoi per i problemi interni alla funzionalità e rappresentatività dei parlamenti; vuoi per la nascita e la crescita di più fonti giurisdizionali sovranazionali e convenzionali; (le corti europee di Strasburgo e del Lussemburgo); vuoi per il crescente attivismo della Corte costituzionale, della Cassazione e dei giudici nazionali nell’interpretare la legge in modo coerente con la legge fondamentale, la Costituzione; vuoi, infine, per la crescente tendenza dei giudici a riempire gli spazi di regolamentazione lasciati vuoti dal legislatore (la supplenza). In questa situazione complessa, era inevitabile per me approdare al dubbio, lasciando l’approdo apparentemente sicuro della certezza. Non il dubbio fine a se stesso: espressione di ansia e di nevrosi, o di relativismo e di autocompiacimento e disinteresse per la realtà dei problemi, a tutto favore della speculazione astratta e fine a sé stessa. Ma il dubbio come ansia e tensione continua verso la ricerca della verità, con la consapevolezza di quanto tale ricerca sia faticosa e difficile. Insomma, il “ragionevole dubbio” e l’umiltà di cercare la legge vivente più che quella vigente; di muovere dal diritto per come vive più che per come dovrebbe vivere; di superare il formalismo e di cercare di risolvere la conflittualità ricorrente nel rapporto tra fatto e diritto non con esso, ma attraverso uno sforzo culturale e di dialogo. Patto tra Salvini e la lobby delle armi. Le opposizioni: “Far West che favorisce i delitti” di Fabio Tonacci Il Manifesto, 17 luglio 2018 Polemiche dal Pd: “Poteva dimostrare serietà mantenendo l’impegno a diminuire il prezzo della benzina, ma stiamo ancora aspettando”. Alla vigilia dell’audizione a Montecitorio dei rappresentanti dei fabbricanti di armi nell’ambito del recepimento della direttiva europea sulla detenzione e l’acquisizione, scoppia il caso del documento firmato da Matteo Salvini con la lobby dello sparo. “Assunzione pubblica di impegno a tutela dei detentori legali di armi”, si legge nell’intestazione. L’esistenza di tale documento è stata rivelata da Repubblica ed è stata siglata nel febbraio scorso, in piena campagna elettorale, durante la fiera “Hit Show” di Vicenza. Se rispettata (“sul mio onore mi impegno...”, si legge nel foglio), vincola il ministro dell’Interno a coinvolgere la lobby in ogni provvedimento che, anche in senso lato, la riguardi. Compreso quindi quello sulla legittima difesa, attorno alla quale sono state depositate in Parlamento tre diverse proposte di legge (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia). A polemizzare sono gli esponenti del Partito Democratico e di Possibile, la formazione di Pippo Civati. “Mentre tutto il mondo cerca un argine alla diffusione della armi - in America è attiva la più grande campagna mai vista dopo le stragi nelle scuole - il ministro dell’Interno forza la mano per sostenere la sua lobby”, scrive su Facebook il vicepresidente della Camera Ettore Rosato. “Lo fa in nome della parola data: ma non sarebbe stato meglio dimostrare tanta serietà e onorabilità mantenendo l’impegno su qualcosa di più importante per gli italiani come diminuire il prezzo della benzina? Doveva essere fatto nel primo Consiglio dei ministri. Stiamo ancora aspettando. Sul suo onore”. Interviene anche Alessia Morani, della presidenza del gruppo dem a Montecitorio. “L’unica lobby che allunga la manina sul serio per ora è quella delle armi con cui Salvini ha sottoscritto un patto - si legge sul suo profilo twitter. Serve una mobilitazione perché questi signori sono veramente pericolosi”. E il senatore Pd Roberto Rampi aggiunge: “Altro che legittima difesa. Altro che prima gli italiani, Salvini prima di tutto ha firmato un atto d’onore con le lobby delle armi in Italia”. Andrea Maestri, esponente di Possibile, punta invece la sua critica sul ruolo del Movimento 5 Stelle. “Quella di Salvini non è una riforma della legittima difesa, ma un Far West, un Italia americanizzata che produrrebbe solo più delitti. In tutto questo il Movimento 5 Stelle è pienamente d’accordo: il ministro della Giustizia Bonafede non ha parlato di un intervento restrittivo al rilascio di porto d’armi, ma solo di legittima difesa come ‘priorità’ di questo governo, con l’applauso di Forza Italia che ha promosso un tour sull’argomento”. Stupro: niente aggravante se la vittima beve alcolici per scelta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2018 In caso di stupro, non può scattare l’aggravante dell’uso di sostanze alcoliche se la vittima ha bevuto spontaneamente. La Corte di cassazione, con la sentenza 32462 della terza sezione penale, accoglie in parte il ricorso di due imputati cinquantenni condannati dalla Corte d’Appello per un caso di stupro di gruppo. Nella pena di tre anni inflitta dai giudici di secondo grado aveva pesato anche l’aggravante che scatta quando il fatto è commesso con l’uso di sostanze alcoliche. Per la Cassazione però la Corte territoriale deve rivedere il suo verdetto rispetto all’aggravante perché dagli atti delle indagini risulta che la donna si era “ubriacata” per sua scelta. I giudici di legittimità respingono per il resto la tesi della difesa dei due violentatori secondo i quali il consenso era stato prestato prima della cena a casa della vittima e dunque non c’era stata alcuna violenza sessuale. ?La Suprema corte ricorda che la condizione di inferiorità psichica o fisica c’è sia quando l’assunzione di alcol è spontanea sia quando è indotta. In ogni caso si determina, infatti, uno stato di “infermità” della vittima e l’aggressione della sua sfera sessuale è comunque messa in atto con modalità insidiose e subdole. Ed è dunque chiaro che in tali circostanze non si possa parlare di consenso. Tuttavia la pena potrebbe essere rivista al ribasso in sede di rinvio perché la Cassazione nega che, nello specifico, si corretto applicare l’aggravante dell’uso delle bevande alcoliche. La norma, spiegano i giudici, prevede, infatti, “l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti (o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa)”. L’uso di alcol deve essere quindi necessariamente strumentale alla violenza sessuale “ovvero deve essere il soggetto attivo del reato che usa l’alcol per la violenza, somministrandolo alla vittima; invece l’uso volontario, incide sì, come visto, sulla valutazione del valido consenso, ma non anche sulla sussistenza dell’aggravante”. Patteggiamento e ricorso in cassazione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2018 Limiti alla deducibilità dell’erronea qualificazione giuridica del fatto. Procedimenti speciali - Applicazione della pena su richiesta delle parti - Sentenza - Ricorso in cassazione - Motivi deducibili - Art. 448, c. 2 bis, cod. proc. pen. L’art. 448, come novellato dalla L. 103/2017, prevede che il ricorso in cassazione contro la sentenza di patteggiamento sia possibile solo “per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”. Ne consegue che la qualificazione giuridica del fatto ritenuta in sentenza, che corrisponda a quella oggetto del libero accordo tra le parti, può essere oggetto di discussione attraverso il ricorso in cassazione solo allorquando risulti, con indiscussa immediatezza, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione o risulti frutto di un errore manifesto. (Nella specie la Suprema corte ha ritenuto il ricorso inammissibile risolvendosi la censura nella prospettazione di una lettura alternativa del fatto incompatibile con l’imputazione e con la scelta del rito effettuata dall’imputato). • Corte di cassazione, sezione VI penale, ordinanza 2 luglio 2018 n. 29671. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Art. 448 cod. proc. pen. - Provvedimento del giudice - Impugnazione - In cassazione - Tassatività motivi - Ratio. La modifica all’art. 448 c.p.p. recata dalla l. 103/2017 ha inteso circoscrivere il ricorso avverso la sentenza di patteggiamento ai casi tassativamente elencati al comma 2-bis, al fine di ridurre la strumentalità del ricorso stesso, considerando che la sentenza emessa in tale procedimento speciale presuppone l’accordo tra le parti e l’implicita rinuncia dell’imputato a contestare l’accusa formulata e l’applicazione della pena nella misura proposta; pertanto quando la sentenza corrisponde alla volontà pattizia del giudicabile deve ritenersi inammissibile il ricorso fondato su una lettura alternativa del fatto. • Corte di cassazione, sezione VI penale, ordinanza 2 luglio 2018 n. 29671. Procedimenti speciali - Patteggiamento - Sentenza - In genere - Erronea qualificazione giuridica del fatto - Deducibilità come motivo di ricorso per cassazione - Limiti - Fattispecie. In tema di patteggiamento, la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del fatto contenuto in sentenza deve essere limitata ai casi di errore manifesto, ossia ai casi in cui sussiste l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in un accordo sui reati, mentre deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità. (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso la dedotta violazione di legge nella qualificazione del fatto di cui alla sentenza impugnata in ordine alla sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 80, d.P.R. n. 309 del 1990, a fronte della detenzione da parte dei due imputati rispettivamente di kg. 110 e 45 lordi di hashish). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 17 agosto 2015 n. 34902. Procedimenti speciali - Penali - Patteggiamento - Sentenza - Erronea qualificazione giuridica del fatto - Deducibilità come motivo di ricorso per cassazione. L’erronea qualificazione del fatto contenuta in sentenza emessa a seguito di patteggiamento non può essere dedotta come motivo di ricorso per cassazione se non nei casi di errore manifesto, ossia nei casi in cui sussiste l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in un accordo sui reati; viceversa, ogni qual volta la diversa qualificazione del fatto presenti margini di opinabilità deve escludersi la possibilità del ricorso; inoltre, la verifica sull’osservanza della previsione contenuta nell’art. 444, comma secondo, c.p.p. deve essere compiuta esclusivamente sulla base dei capi di imputazione, della succinta motivazione della sentenza e dei motivi dedotti nel ricorso. (Fattispecie in cui la Corte, in applicazione del principio, ha escluso sia la rilevanza di decisioni che, in sede cautelare, avevano ritenuto l’insussistenza dei reati contestati sia l’ammissibilità di motivi la cui valutazione implicava la necessità di una verifica dibattimentale). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 2 aprile 2013 n. 15009. Bancarotta documentale: sussiste se è difficile ricostruire la contabilità di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2018 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 16 luglio 2017 n. 32654. Il reato di bancarotta fraudolenta documentale sussiste non solo quando la ricostruzione del patrimonio si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili siano tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari siano ostacolati da difficoltà superabili con particolare diligenza. La vicenda - E così la Cassazione - con la sentenza n. 32654/18 - ha ravvisato la presenza del reato quando la ricostruzione della documentazione sia avvenuta aliunde. Questo perché la necessità di acquisire presso terzi la documentazione costituisce la riprova che la tenuta dei libri e delle altre scritture contabili era inidonea a rendere percepibile la reale rappresentazione del patrimonio o del movimento di affari della società. Si legge nella sentenza come per integrare tale reato sia sufficiente il dolo generico, rappresentato dalla consapevolezza nell’agente che la confusa tenuta della contabilità potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio, non essendo, per contro, necessaria la specifica volontà di impedire quella ricostruzione. La Corte richiama, poi, una scrittura del 2 dicembre 2008, che, riportata nell’atto di appello allegato al ricorso, indicava soltanto un procedimento da svolgersi in contraddittorio tra i contraenti al fine di arrivare a una “parificazione dei conti”, per poi determinare i saldi attivi e passivi. Eccessiva genericità per la difesa - Ma è evidente come si trattasse di espressioni talmente generiche, da non consentire di cogliere alcuna condotta concretamente idonea a condurre alla regolarizzazione delle scritture contabili della società. In definitiva quindi respinto il ricorso e confermati i reati. Friuli Venezia Giulia: il Garante tra gli internati di Tolmezzo e nel carcere di Trieste di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 luglio 2018 Internati al 41bis al carcere di Tolmezzo e celle infestate da insetti, in particolar modo dalle cimici da letto, all’istituto penitenziario di Trieste. Visita lampo effettuata dal collegio del Garante nazionale delle persone private delle libertà, composto dal presidente Mauro Palma e dai due membri Daniela Robert ed Emilia Rossi. Per quanto riguarda le condizioni igienico sanitaria del penitenziario Coroneo di Trieste, il collegio del Garante ha trovato una situazione molto differenziata. Accanto a una sezione femminile dove c’è una cura degli ambienti, anche quelli comuni, parte delle sezioni maschili necessitano invece di una urgente presa in carico da parte dell’amministrazione penitenziaria perché le igieniche “sono chiaramente inaccettabili”. Per quanto riguarda gli internati al 41bis, sette sono le presenze nella “casa lavoro” di Tolmezzo. Parliamo di persone che avevano finito di scontare il carcere duro, ma che alla fine della pena sono stati raggiunti da una misura di sicurezza da espletare sempre al 41bis. La figura degli internati è stata affrontata più volte da Il Dubbio e il Garante nazionale Mauro Palma ha già espresso serie perplessità nell’ultima Relazione al Parlamento presentata un mese fa, anche alla luce di alcune sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Soprattutto quando la sua applicazione concreta non si differenzia nelle forme e nel regime applicato dalla precedente esecuzione della pena, con l’aggravante della indeterminatezza della durata, dati i possibili rinnovi della misura. Come ha già ricordato Il Dubbio, questa disposizione suscita, da sempre, notevoli perplessità. In primo luogo, infatti, è difficile comprendere come la pericolosità sociale che qualifica l’internato, assegnato a colonia agricola o a casa di lavoro, oppure ricoverato in una Rems, possa essere coniugata con i ben differenti parametri del 41bis. In secondo luogo, è stato osservato in dottrina che l’accertamento, da parte del magistrato di sorveglianza, circa la permanenza della suddetta pericolosità finisce inevitabilmente per incidere sulla sussistenza dei presupposti stabiliti per l’applicazione del regime speciale: invero, qualora venga accertato che “è probabile che il soggetto commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”, ben difficilmente - in sede di controllo del decreto ministeriale - si potrà escludere l’attuale capacità del medesimo di mantenere collegamenti con il crimine organizzato. In sintesi, un internato può scontare, di fatto, una lunga pena al 41bis. Un caso emblematico del quale si occupò il Partito Radicale, è quello di Vincenzo Stranieri. Ha un tumore alla laringe e i 24 anni di 41bis gli hanno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma invece di uscire, è stato internato e sempre al 41bis. Ed è lui uno dei sette internati al carcere di Tolmezzo, dove ha fatto visita il collegio del Garante Nazionale. Giorni fa, la figlia di Stranieri, ha chiesto aiuto all’esponente del partito radicale Rita Bernardini, perché non riesce ad avere notizie del padre. Vivendo a Taranto non ha la possibilità economica di recarsi fino a Tolmezzo per fargli visita e non può sentirlo telefonicamente essendo il padre operato alla gola per un tumore maligno. Il rapporto del Garante sulla vista degli istituti penitenziari della regione Friuli Venezia Giulia, verrà inoltrato con le sue osservazioni e raccomandazioni alle Amministrazioni coinvolte e sarà successivamente reso pubblico sul suo sito insieme alle eventuali risposte. Napoli: Roberto Fico a Poggioreale “sovraffollamento e degrado” di Conchita Sannino La Repubblica, 17 luglio 2018 Il presidente della Camera: “Garantire dignità ai detenuti è un dovere dello Stato”. “La stagione del sovraffollamento e del degrado, alimentati anche da leggi sbagliate, non ce la siamo ancora lasciata alle spalle”. Roberto Fico attraversa padiglioni e storie di Poggioreale, nel caldo torrido di metà luglio. “Garantire la dignità delle persone detenute è un dovere basilare dello Stato. Così come lo è anche assicurare percorsi di risocializzazione e di formazione nelle carceri. Un tema su cui questo carcere sta facendo comunque i suoi sforzi, perché alcune situazioni sono certamente migliorate, e sta portando avanti i suoi progetti”. Focus su dignità, ma sono 2300 Roberto Fico attraversa padiglioni e storie di Poggioreale: 2300 detenuti contro i 1610 di capienza massima, significa il 42 per cento in più, al netto di alcune strutture fatiscenti, di pochi laboratori e spazi non adeguati alla socialità. Una volta fuori, il presidente della Camera ribadisce l’idea di una giustizia “che sia in grado di pensare a quale persona riconsegnamo alla società, dopo queste sbarre”. Una linea spiegata con forza: “Perché se un detenuto resta chiuso per 10 anni e poi esce senza che vi sia un solo progetto, scollegato dal territorio e senza formazione, allora abbiamo fatto non solo un danno alla persona, ma alla società. Senza rendere un vero e proprio servizio”. I danni della “Giovanardi-Fini” - Fico ragiona poi sui tanti in carcere per reati legati alle droghe leggere. “Sul sovraffollamento, abbiamo anche delle leggi molto sbagliate come la Giovanardi-Fini che equipara le droghe leggere alle droghe pesanti. Sbagli che hanno affollato le carceri”. Presidente, lei pensa che rivedrete quella norma? Fico risponde a Repubblica. “Di questo si occuperà il ministro della Giustizia”. Le tensioni in cella. Obbligo della dignità, diritti “non negoziabili”, quindi. Una visione che deve fare i conti con le caratteristiche di un carcere in cui la direttrice Maria Luisa Palma sta dando corpo a nuovi progetti, e che sarà ringraziata da Fico per il suo difficile lavoro di innovazione. Ma le criticità rischiano di esplodere anche ieri. “Mentre era in corso la visita, un detenuto ha aggredito con schiaffi e pugni un agente della penitenziaria, pretendeva di cambiare cella. Ulteriore segno di arroganza e di certezza di immunità”, protesta in una nota Leo Beneduci, il segretario dell’organizzazione sindacale Osapp. Ma dalla direzione del penitenziario, poco dopo, spiegano: “Si è trattato di un episodio subito circoscritto e punito. Un carcere è lo specchio della società, anche qui c’è l’aumento delle persone con disagio mentale”. “Presidente, ci aiuti” Tante voci, al padiglione Roma (il più vecchio) o San Paolo (quello sanitario). “Ciao presidente, vengo dall’Africa, dovrei uscire, ero tossico e sto facendo quello che mi ha detto il Sert, spero mi mettano in comunità”, dice A., senegalese. “Mi sto curando qui, ma abbiamo bisogno di una mano in più per i detenuti che non stanno bene”, racconta C., malato cronico. “Sto su abbassi dallo spioncino di ferro o non mi vede”, sorride L., una trans. Per Samuele Ciambriello, il garante, “il dilemma degli spazi è centrale. Occorrono più misure alternative. Le pene non vanno inasprite, ma con equilibrio “liberate”. Un doloroso caso a parte resta quello dei detenuti con disturbi mentali. dopo l’avvenuta chiusura degli Opg. “Né in carcere né in nessun luogo chiuso è possibile assicurare un programma terapeutico che deve essere sempre realizzato dai servizi territoriali- spiega ieri a Fico anche Fedele Maurano, responsabile della sanità mentale a Napoli - Non c’è cura senza libertà”. Napoli: stop alla riforma e pochi agenti penitenziari, è caos in carcere di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 17 luglio 2018 Diversi gli episodi di violenza accaduti dietro le mura dei penitenziari campani. La responsabilità di ciò che sta avvenendo è della politica. A Napoli fa caldo. È da qualche giorno che l’afa estiva si è impadronita del clima in città. Quell’umidità appiccicosa che come nemico ha soltanto il vento che ogni tanto si solleva dal mare e procura sollievo e frescura. Ma siamo a luglio, è giusto che sia così. Si sta avvicinando la “stagione”, è ora di mare e di prendere la tintarella sotto al sole. Ma c’è un luogo dove di questi tempi si sta davvero male. Un posto dove al peggio non c’è mai fine, dove il sudore è una piaga difficile da curare. Stiamo parlando del carcere, della prigione. Di un “mostro di ferro e cemento” in cui anche la speranza che dovrebbe essere l’ultima a morire, in questi mesi preferisce essere latitante. Perché è questo lo stato d’animo di chi è costretto a stare dietro le sbarre. Agenti, volontari e detenuti. L’intera comunità penitenziaria d’estate è protagonista di una tragedia, di un dramma che affligge da anni questo paese dal punto di vista umano. Una situazione prossima alla catastrofe e contro la quale la politica non è stata in grado di rimediare. Non è un caso che questo periodo bollente sarà il più rovente di sempre. Sono passati ormai 5 mesi da quando l’ultimo governo, quello con premier Paolo Gentiloni per intenderci, ha lasciato al palo la riforma dell’ordinamento penitenziario. Un pacchetto di provvedimenti che sarebbero stati approvati per decreto da parte dell’esecutivo, così come stabilito dal Parlamento e senza inutili tam tam nelle varie commissioni. Invece, la timidezza della politica e la paura di perdere ancora più voti e consenso, ha trasformato i nostri governanti in pecore tremanti di fronte ai leoni del giustizialismo che con la bava alla bocca hanno ruggito per il motto della “certezza della pena” dimenticando la “certezza del diritto”. Ed ora? Niente, per adesso bisogna attendere che il governo e il parlamento diano seguito alle dichiarazioni del neo ministro di Grazia e Giustizia Alfonso Bonafede che ha dichiarato di volersi occupare della faccenda in tempi brevi, affermando anche che molti punti della riforma saranno cambiati o cancellati. Eppure, questa riforma avrebbe semplicemente reso più umana la vita dentro le carceri. Avrebbe permesso a quei detenuti che rispettano specifici requisiti, di poter usufruire di pene alternative. Avrebbe permesso di allargare la forbice di coloro che sperano di iniziare un lavoro dietro le sbarre. Avrebbe favorito e reso più facile le spinose procedure per i colloqui familiari. Ma attenzione, il tutto non è certamente automatico. Quando si è bollata tale riforma come una banale “svuota carceri” si è semplicemente affermata una colossale bugia. Semplicemente perché tutto resterà al vaglio delle decisione del magistrato di sorveglianza. Addirittura il decreto è incompleto, in quanto non è stata approvata la parte dedicata al diritto alla sessualità in carcere e non è stata considerata la detenzione minorile. Così, tra rivolte, violenze tra detenuti e nei confronti degli agenti penitenziari e tentativi di suicidio di cui molti - purtroppo - andati anche a buon fine, all’interno delle carceri nostrane stiamo assistendo ad un vero e proprio caos. Una situazione esplosiva, un’ escalation di aggressività e rabbia che potrebbe comportare conseguenze ben peggiori di quelle che stiamo leggendo dalle ultime notizie di cronaca. Un incendio che sta iniziando a divampare anche all’interno degli istituti di pena minorili. Ad oggi le prigioni sono ancora vittime del sovraffollamento, con tanti detenuti ancora in attesa di giudizio o sottoposti al regime di carcerazione preventiva. Gli agenti penitenziari sono costretti a lavorare in sotto numero e con scarse risorse. I volontari e le associazioni che si occupano di questo tema delicato e complesso sono lasciati da soli. Di conseguenza, il carcere è di fatto un emergenza sociale. Un tema troppo importante per continuare a fare finta di nulla. Eppure, in Italia, sono in pochi ad essersene accorti e a fare qualcosa in merito. Tutti gli altri non sanno o fanno finta di non sapere. Il che è molto peggio. Pesaro: detenuto suicida, Antigone Marche “episodio prevedibile” viverepesaro.it, 17 luglio 2018 L’associazione regionale appoggia la richiesta di chiarezza del Garante Nobili. “È capitato quello che temevamo. Da tempo abbiamo segnalato i problemi delle persone ristrette a Villa Fastiggi che hanno doppia diagnosi e problemi sanitari. Ora, si risolva la situazione”. “Abbiamo visto una persona dimagrire 15 chili in meno di un mese, auto-lesionarsi ed essere totalmente dissociata dal mondo circostante, eppure venire dichiarata compatibile con il regime penitenziario. Tanto compatibile che in molti erano preoccupati per la situazione e ora, dopo circa un anno di richieste di misure alternative per problemi gravi di salute, si trova nel reparto psichiatrico di un ospedale regionale. Ne abbiamo vista un’altra con disabilità e seri problemi fisici dover rinunciare al diritto a presentarsi al suo processo perché non aiutata nei difficili spostamenti ed essere considerata “noiosa” perché si lamenta della situazione che vive”. Queste le parole dell’associazione Antigone Marche alla notizia dell’uomo di 35 anni che si è suicidato all’interno della Casa Circondariale di Villa Fastiggi nei giorni scorsi. “Potremmo andare avanti a lungo con casi simili - prosegue l’associazione - perché ne abbiamo viste tante di persone ristrette a Pesaro che sostengono di non essere assistite e curate adeguatamente. Ma, si sa, sono solo detenuti e, dunque, chi gli può credere? Chi può fidarsi di quello che dicono? Ecco, ora, di fronte a un suicidio, forse qualcuno prenderà sul serio la situazione. Una situazione grave e pesante, non degna di un sistema democratico e civile che comprende nella sua Costituzione l’articolo 27. Quanto avvenuto a Pesaro, che indecentemente abbiamo saputo con giorni di distanza e senza neanche spiegazioni precise, era purtroppo prevedibile. Ci indigna e ci porta con forza a chiedere, ora più che mai, che si faccia chiarezza e che si ponga termine a una situazione sanitaria pesante e deficitaria che denunciamo, inascoltati, da tempo. La Regione e la Sanità regionale in primis dovrebbero risponderne. Bene ha fatto il Garante, quindi, a sollevare la questione e a porre domande. Cosa è successo? Perché persone con problemi psichiatrici o di dipendenze patologiche non hanno un’attenzione maggiore? E, aggiungeremmo noi, siamo davvero sicuri che il miglior sistema sia quello che rinchiude in carcere le persone con problemi psichiatrici e di dipendenza patologica anziché offrire loro sistemi e strutture alternative? Certo, a quanto pare ora il vento del cambiamento parla di nuove carceri e meno misure alternative perché la pena deve essere la pena, magari anche con un po’ di dolore fisico. È altrettanto certo che noi ci opporremo sempre a questa logica e continueremo a fare quello che facciamo: entrare in carcere ed evidenziare quello che vediamo. Ad altri, se vogliono umanamente e politicamente, il voler ascoltare”. Milano: gli avvocati scrivono al ministro Bonafede “salvi l’Ipm Beccaria” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 17 luglio 2018 “Nel carcere minorile continua situazione di pericolo e violazioni dei diritti”. Il Garante: “Potenziamo le comunità”. Una lettera al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per chiedere “un intervento urgente che consenta di superare l’evidente situazione di pericolo delle persone e dei diritti” all’interno del carcere minorile Beccaria. Un appello firmato dai rappresentanti degli avvocati, dal presidente della Camera penale Monica Gambirasio e dalla collega della Camera minorile Grazia Ofelia Cesaro, per segnalare come “le criticità della struttura non possano che essere messe in correlazione con le condizioni in cui versa il Beccaria e la sua organizzazione”. L’incendio del 7 luglio, quando due ragazzi hanno appiccato il fuoco nelle celle del secondo piano, e che ha portato cinque detenuti e tre agenti in ospedale intossicati, ha mobilitato ancora una volta la classe forense, che nella lettera elenca le numerose problematiche emerse negli ultimi anni: “Proteste collettive, emergenze igienico-sanitarie, violenze e atti di autolesionismo”, e soprattutto “una quindicina di tentativi di suicidio negli ultimi due anni”. Dopo il rogo, anche lo storico cappellano del carcere, don Gino Rigoldi, ha lanciato l’allarme: “La situazione è esplosiva - ha detto - intervenga il ministero”. La mancanza di un direttore a tempo pieno, gli infiniti lavori di ristrutturazione che hanno ridotto la capienza del penitenziario, la presenza di minorenni accanto a ragazzi fino ai 24 anni, sono micce che periodicamente fanno esplodere il malcontento. “Per i giovani detenuti è sempre più incombente e reale l’eventualità di trasferimento in altri istituti, allontanandosi così dai propri affetti e, in qualche caso - sottolineano gli avvocati - anche con conseguenti ostacoli per la prosecuzione o attivazione dei progetti rieducativi sul territorio milanese”. “Abbiamo scritto al ministro per cercare di trovare una soluzione - dice l’avvocato Gambirasio. Se ci vuole incontrare per approfondire le problematiche del Beccaria, noi e la Camera minorile siamo disponibili. C’è la necessità di ripensare la struttura per renderla più funzionale all’età e alle necessità degli ospiti, che devono poter portare a termine i percorsi formativi, non delegando tutto alla buona volontà delle persone che lavorano all’interno”. Attualmente al Beccaria c’è una trentina di detenuti. “La ristrutturazione non ha portato un miglioramento, ma una riduzione della capienza - spiega l’avvocato Eugenio Losco, referente per il carcere della Camera penale. Credo sia possibile trovare per tutti i ragazzi la possibilità di proseguire il percorso di recupero fuori dal carcere”. Della situazione al Beccaria si sta occupando anche il Comune, con il Garante dei detenuti, Alessandra Naldi, che oggi incontrerà alcuni operatori. “Ho visitato il Beccaria la scorsa settimana - dice Naldi - l’impressione è che la struttura miri a sopravvivere. Credo che sia necessario un forte investimento sulle comunità di recupero, una città come la nostra deve trovare per queste persone delle soluzioni alternative alla detenzione”. Bologna: emergenza caldo al carcere della Dozza, il Comune scrive al Guardasigilli La Repubblica, 17 luglio 2018 “Il ministro Bonafede mandi ventilatori al carcere bolognese della Dozza”. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, doti “in tempi brevissimi, e comunque entro la fine di luglio, il carcere della Dozza di ventilatori o apparecchi refrigeranti per i detenuti e di condizionatori per tutti gli uffici degli agenti di Polizia penitenziaria”, chiede il Consiglio comunale all’unanimità. Il sollievo dal caldo è solo uno spunto per domandare “un piano di investimenti per migliorare le condizioni del carcere della Dozza e di tutte le carceri italiane”, che passano anche da “un piano di assunzioni per aumentare il numero di agenti” ma anche di “personale educativo, il cui ruolo è fondamentale per il reinserimento dei detenuti nella società e il cui numero è notoriamente carente”. L’aula di Palazzo d’Accursio s’è mossa dopo le segnalazioni sugli effetti del caldo all’interno del carcere e ha preso posizione approvando nella seduta di oggi un ordine del giorno proposto dal consigliere Pd Raffaele Persiano, poi modificato tramite alcuni emendamenti proposti dalla dem Elena Leti e da Federico Martelloni di Coalizione Civica. Visto che quello targato Lega-M5S “si è presentato come governo del cambiamento, l’auspicio - ha dichiarato il dem Persiano - è che sui temi rispetto ai quali c’è una trasversalità di opinioni si possa davvero fare una battaglia insieme per vedere se davvero l’aria è cambiata o se è rimasta la stessa, calda, di prima”. Nei giorni scorsi sul tema era intervenuta anche la Giunta con la risposta fornita dall’assessore agli Affari generali, Susanna Zaccaria, alle domane poste in Question time da Marco Piazza (M5S) e Mirka Cocconelli (Lega). Tutte le “accortezze organizzative” che possono alleviare il caldo “sono all’attenzione del nostro Garante e di conseguenza l’attenzione della Giunta- ha detto Zaccaria- e si cercherà sicuramente di utilizzare tutto ciò che è a nostra disposizione per migliorare la condizione sia delle detenute e dei detenuti che degli agenti di Polizia penitenziaria”. Venezia: il 68% degli avvocati bocciati all’esame di Stato, scoppia il caso di Marco Bonet Corriere del Veneto, 17 luglio 2018 All’esame di Stato veneti penultimi in Italia. “Il ministero della Giustizia mandi gli ispettori”. Sessione da tregenda per i praticanti avvocati del Veneto, partiti pieni di speranze per affrontare la prima prova del fatidico esame di abilitazione professionale e rientrati furiosi dopo aver scoperto di essere tra i peggiori d’Italia. “Una strage” si legge tra social network, forum e siti di riferimento, specie se confrontati con i risultati messi a segno dagli altri distretti d’appello. Pierantonio Zanettin, ex Csm. “L’unica strada è il ricorso al Tar”. È andata peggio solo a Caltanissetta. E lì, gli aspiranti avvocati, erano molti meno, all’incirca un quinto. Sessione da tregenda per i praticanti del Veneto, partiti pieni di speranze per affrontare la prima prova del fatidico esame di abilitazione professionale e rientrati furiosi dopo aver scoperto di essere tra i peggiori d’Italia. Allo scritto (un parere di civile ed uno di penale, più un atto alternativamente di civile, penale o amministrativo) si erano presentati in 1.162; sono passati all’orale in 377, il 32,4%. “Una strage” si legge tra social network, forum e siti di riferimento, specie se confrontata con i risultati degli altri distretti: promosso il 58,1% dei candidati a Catanzaro, il 64,8% a Torino, addirittura il 70,8% a Firenze. La media nazionale è del 45,1%, tredici punti sopra. Possibile che i veneti, laureati per la maggior parte nella prestigiosa scuola giuridica del Bo di Padova e a Verona, siano tutti somari?, si chiedono i ragazzi (in qualche caso consolati dai dominus increduli), adombrando complotti e vendette da parte degli storici “rivali” di Bologna chiamati a correggere i compiti. Ora, senza addentrarsi in dietrologie, è chiaro che il meccanismo di valutazione lascia molti con l’amaro in bocca, se non altro perché è impossibile avere risposta alla più semplice delle domande: dove ho sbagliato? Gli elaborati vengono infatti riconsegnati completamente bianchi, immacolati, senza segni che indichino errori di forma, concettuali o logici. Nessuna griglia valutativa, nulla che permetta di capire le ragioni di una bocciatura non soltanto rispetto ai colleghi degli altri distretti ma anche rispetto a quelli dello stesso distretto che sono invece riusciti a superare la prova, magari con soluzioni simili. Solo il voto della commissione valutatrice. “Sono curioso di sapere come intendono comportarsi gli ordini veneti - dice Gianluca Schiavon, responsabile Giustizia di Rifondazione comunista a cui si sono rivolti molti praticanti - ma anche che faranno i nostri parlamentari perché è chiaro che questi risultati, specie se confrontati col resto d’Italia, impongono approfondimenti e trasparenza. Nell’immediato il ministro della Giustizia dovrebbe mandare gli ispettori presso la Commissione del Distretto di Corte d’Appello di Bologna che ha corretto i compiti di Venezia. Nel lungo periodo, invece, va pensata una modifica normativa che renda meno arbitraria l’ammissione agli orali, riducendo la disparità di trattamento con gli altri ordini professionali, penso ad architetti e ingegneri, ed il resto d’Europa. In Spagna non c’è l’esame, altrove si opta per una preselezione “a crocette”, che per un breve periodo fu utilizzata anche in Italia nel concorso di magistratura”. Pierantonio Zanettin, avvocato, ex membro del Csm e deputato in commissione Giustizia, allarga le braccia: “Da che ho memoria è sempre stato così. Anch’io fui bocciato la prima volta, nel 1986, e la vissi come una violenza. Qualche passo avanti è stato fatto, penso al sorteggio delle commissioni di valutazione, ma certo è poca roba. I compiti in bianco? Inutile girarci attorno, si tratta di una prassi consolidatasi ad hoc per ostacolare i ricorsi al Tar. Ma al di là delle proteste, quella è l’unica via: rivolgersi al giudice amministrativo. E non demordere”. Ma va detto che il ricorso al Tar è una strada per molti inaccessibile, anche per via dell’alto costo del contributo unificato. Non intravede soluzioni all’orizzonte neppure Giacomo Guidoni, coordinatore Triveneto dell’Aiga, l’associazione dei Giovani Avvocati: “Spiace per i colleghi ma ho 40 anni, ho sostenuto l’esame 13 anni fa e le criticità erano esattamente le stesse, come la percentuale dei promossi, che si aggira da sempre attorno al 30%. Lo scritto è lo scoglio più duro, anch’io ricevetti un’insufficienza e anch’io non riuscii ad avere risposta sul perché, si stupirono perfino i commissari. L’orale è invece più meritocratico, anche se ora, con la riforma, paradossalmente peggiorerà pure quello, diventando una prova sempre più teorica e sempre meno pratica”. Guidoni, in ogni caso, non punta il dito contro le commissioni valutatrici: “I compiti sono tantissimi, gli esaminatori pochi, il tempo stringatissimo. È dura garantire un minimo di qualità a queste condizioni”. Belluno: al via nuovo progetto nella sezione del carcere per detenuti transessuali Ristretti Orizzonti, 17 luglio 2018 Per parlare di sé con la scrittura e il teatro. Partito il progetto sperimentale delle associazioni Jabar e Aics in collaborazione con il carcere di Rebibbia: culminerà in uno spettacolo. Tutto è nato da un laboratorio di scrittura creativa e auto-narrazione per imparare ad aprirsi e raccontarsi, ma senza dover scendere per forza nei particolari. Se tutto andrà bene, le storie condivise o inventate nel corso delle lezioni diventeranno il copione di uno spettacolo teatrale totalmente nuovo nel suo genere, scritto e messo in scena da 7 detenute transessuali, che si potrà vedere (in carcere, per ora) a partire dall’inverno. Il progetto è ambizioso ed è nato da una riflessione tra l’associazione bellunese Jabar, che opera da anni a favore delle persone recluse ed ex recluse del carcere di Belluno (frazione di Baldenich), e Antonio Turco, attore, autore e funzionario pedagogico dell’amministrazione penitenziaria di Rebibbia (Roma), già ospite del capoluogo dolomitico e della sezione Aics provinciale con lo spettacolo “Il Corno di Olifante” della sua compagnia Teatro Stabile Assai, la prima a nascere dietro le sbarre. Di qui la stesura di una proposta per entrare anche nella sezione bellunese delle transessuali, una delle cinque presenti nelle strutture penitenziarie italiane (oltre a Belluno ci sono anche Rimini, Firenze, Roma e Napoli), dove portare la scrittura e la recitazione come forme di narrazione, espressione e in un certo senso liberazione. Il percorso è stato inaugurato martedì 10 e mercoledì 11 luglio da Turco e Tamara Boccia, pedagogista sua collaboratrice. Assieme a loro c’erano anche quattro volontarie della Jabar. Dopo aver presentato l’idea progettuale, accolta con entusiasmo dalle detenute presenti, sono stati gettati i primi passi di un percorso che sarà tenuto dalle operatrici bellunesi e seguito a distanza da Turco e Boccia, per culminare non soltanto nella realizzazione di uno spettacolo teatrale che andrà in scena con tutta probabilità a dicembre, ma anche per scambiarsi alcune scene tra Belluno e Rebibbia e creare una sorta di ponte tra i due percorsi teatrali, nell’ottica di scambiare in futuro non soltanto le carte, ma anche le persone. Si tratta di un progetto pilota a livello nazionale, un gemellaggio tra un carcere molto grande e strategico e uno più piccolo e periferico. Contestualmente, l’idea è di portare all’interno della Casa circondariale di Belluno l’opera “Borsellino atto finale”, portando sul palco anche alcuni detenuti dell’istituto di Baldenich: si tratta di un’attività che la compagnia teatrale ha già portato avanti a Locri, Reggio Calabria e Viterbo. Il progetto nella sua connotazione bellunese è finanziato dal Csv Belluno e sostenuto dal dipartimento Politiche sociali di Aics nazionale, per promuovere la cultura della legalità e della corresponsabilità, in particolare nella gestione delle dinamiche interattive tra pari, per impedire la ghettizzazione e la discriminazione di categorie che ancora oggi sono da considerarsi esposte. Ufficio stampa Centro di servizio per il Volontariato - provincia di Belluno Alessandria: SocialWood, da laboratorio in carcere a Social Lab fondazionesocial.it, 17 luglio 2018 Dopo circa un anno e mezzo dal suo avvio, il progetto “SocialWood. Da laboratorio in carcere a social lab” ha ottenuto importanti risultati, quali la possibilità di realizzare all’interno del carcere una vera e propria bottega dei prodotti artigianali realizzati dai detenuti, oltre che di altri manufatti realizzati grazie alle sinergie attivate con altri progetti sociali. La bottega, che verrà inaugurata dopo il periodo estivo grazie al contirbuto della Fondazione SociAL nell’ambito del Bando 2017, rappresenta il trait d’union tra l’interno e l’esterno del carcere: un ambiente osmotico dove costruire progetti In&Out a favore dei detenuti e delle proprie famiglie. La bottega permetterà ad alcuni detenuti in art. 21 di rientrare nel mercato del lavoro con un percorso che parte dalla fase detentiva per poi concludersi con la fase di messa in libertà. Il tutto è stato e sarà possibile anche grazie a nuove ed importanti collaborazioni con altre realtà ed enti presenti sul territorio: la Cooperativa sociale Kepos, l’Associazione Centro Down di Alessandria, il Cissaca ed l’Asl di Alessandria che hanno creduto fortemente nel progetto ed hanno deciso di investire risorse umane, materiali ed immateriali nel progetto. Le nuove collaborazioni permetteranno di coinvolgere nelle attività anche altri soggetti che vivono in situazione di disagio di diversa natura: sociale, economico, fisico e/o psichico. Dopo aver organizzato l’attività nei laboratori della Casa Circondariale “Cantiello e Gaeta” e ideato la bottega solidale sulle mura carcerarie, il passo ulteriore che si sta compiendo è la creazione di un Social Lab all’esterno. Questo passaggio è fondamentale per la sostenibilità delle attività e dare continuità ai percorsi formativi interni gestiti da Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri. “L’obiettivo è quello di mettere in campo un sistema organizzato di enti del terzo settore che prendano i carico i detenuti all’interno del carcere, sviluppino un processo di formazione qualificante dando un orizzonte ai detenuti per quando verranno scarcerati, ovvero il poter continuare l’attività all’esterno dando loro un lavoro stabile” afferma Andrea Ferrari, Presidente dell’Associazione ISES, capofila del progetto SocialWood. Tale fase verrà gestita dalla Cooperativa Sociale Kepos (partner del progetto) che sta definendo in queste settimane l’acquisto dei locali in cui verrà fisicamente sviluppato il laboratorio. Mauro Pusterla, amministratore di Kepos sottolinea che: “Il progetto permette di creare nel contempo un’attività lavorativa e un percorso di recupero sociale per persone la cui partecipazione ad un’attività occupazionale rappresenta uno strumento socializzante con valenza pedagogica e terapeutica, atta ad integrare un programma riabilitativo e formativo più ampio e a verificare l’eventuale grado d’idoneità al lavoro”. Attraverso il laboratorio le persone svantaggiate avranno la possibilità di essere inserite/reinserite nel mercato del lavoro oppure di permanenza presso il servizio stesso, inseriti in un sistema che rispecchia, seppure in ambiente protetto, le caratteristiche, i tempi, i ritmi e le regole dell’ambiente lavoro. Ravenna: al via una serie di progetti per migliorare le condizioni di vita dei detenuti ravennanotizie.it, 17 luglio 2018 Migliorare le condizioni di salute e di vita delle persone sottoposte alla pena detentiva, sostenendo attività socio-educative, di socializzazione, interrelazione e per l’inserimento lavorativo. Sono questi gli obiettivi del programma che l’Assessorato alle Politiche Sociali ha messo a punto in accordo con la direzione della Casa Circondariale di Ravenna e Uiepe (Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna), insieme con associazioni, cooperative sociali, società sportive e altri enti che hanno presentato progetti di varia tipologia: teatro, sport, cultura, gastronomia, informatica. A seguito di Avviso pubblico è stata formulata la graduatoria dei progetti da inserire nel programma “Promozione della salute in carcere, umanizzazione della pena e reinserimento delle persone in esecuzione penale. Piano distrettuale per la salute e il benessere sociale 2018. Programma d’interventi rivolti alle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale”, presentato questa mattina in municipio dall’assessora alle Politiche sociali, Valentina Morigi, da Carmela De Lorenzo, direttrice della Casa circondariale di Ravenna e da Maria Paola Schiaffelli, direttrice Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna (Uiepe). Il progetto si inserisce nel quadro degli interventi realizzati a livello di Comitato locale per l’esecuzione penale adulti di Ravenna ed è parte integrante del Piano di zona per la salute e il benessere sociale del distretto di Ravenna, Cervia e Russi. “Da anni è in corso una collaborazione e un coordinamento costanti e proficui con la direzione carceraria - ha affermato l’assessora alle Politiche sociali Valentina Morigi - per rendere partecipe e coinvolgere la città nella progettualità dei percorsi pensati per i detenuti. La nostra forza è quella di essere riusciti a fare rete e approntare un programma di miglioramento delle condizioni e di possibilità di riabilitazione e reinserimento grazie alla sensibilità di tante realtà del terzo settore che condividono con l’amministrazione obiettivi di empatia sociale intesi a rendere migliore la vita di tutti”. Due le tipologie di interventi previste: quelle da realizzare all’interno dell’istituto di penale quelle previste in area penale esterna, misure alternative alla detenzione e di comunità. Le risorse derivano dal fondo regionale che viene ripartito fra i comuni sede di carcere, tenendo conto di diversi indicatori: popolazione detenuta, detenuti stranieri e numero di soggetti sottoposti a misure esterne di esecuzione penale. Per il 2018 dal fondo regionale sono stati assegnati al Comune di Ravenna € 32.544,77. Il Comune partecipa con una quota di cofinanziamento, in misura non inferiore al 30%, che finanzia il costo di un dipendente con il ruolo di educatore per lo sportello informativo e per la gestione delle dimissioni con l’obiettivo di valutare il percorso più opportuno di reinserimento. Il costo complessivo del progetto ammonta quindi a € 48.068,77. Reggio Calabria: il progetto pilota “Luci da dentro” rivolto ai detenuti di Daniela De Blasio* strill.it, 17 luglio 2018 In un mondo sempre più invaso dalla plastica c’è l’urgenza di acquisire nuove tecniche per la sua rigenerazione al fine di salvaguardare l’ambiente e costruire un sistema ecosostenibile da consegnare alle nuove generazioni. È questo l’obiettivo principale del Progetto pilota “Luci da dentro” rivolto ai detenuti in un percorso che li vedrà tornare sui “banchi di scuola” per acquisire le procedure di riutilizzo della plastica per la realizzazione di prodotti in materiale riciclato. Il progetto, sviluppato in collaborazione tra la Casa Circondariale di Reggio Calabria, la Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Reggio Calabria e la Lega dei Diritti Umani (LIDU)vuole, infatti, fornire ai detenuti gli strumenti teorici e pratici per attivare un percorso virtuoso che determini il vantaggio di ridurre notevolmente i consumi di importanti risorse naturali, promuovendo, allo stesso tempo, la sensibilizzazione rispetto alla tutela ed alla valorizzazione del territorio. Non secondaria è la finalità di arginare il problema dei rifiuti incoraggiando atteggiamenti responsabili e corretti nei confronti della natura, nonché di offrire ai destinatari un’opportunità reale di rieducazione e reinserimento nella società civile attraverso la commercializzazione dei prodotti realizzati. Partners del progetto sono la Camera di Commercio di Reggio Calabria rappresentata dal Presidente Dott. Tramontana, il Coordinamento di Reggio Calabria di “Libera contro le mafie” rappresentata dall’Avv. Giuseppe Marino ed il Presidente del Centro Comunitario Agape con il Dott. Mario Nasone. Il progetto è coordinato dal Direttore dell’Area Socio-educativa Dott. Emilio Campolo e dalla dott.ssa Caterina Pellicanò, affiancati dall’ Avv. Paola Carbone, che da anni collabora attivamente con l’Ufficio della Consigliera di Parità. Il progetto è stato realizzato con il supporto delle volontarie, dott.ssa Alessandra Trunfio, assistente sociale e la sociologa dott.ssa Nunzia Saladino. La Lega dei Diritti Umani ha affiancato al progetto l’avv. Maria Antonia Belgio e l’avv. Teresa Ciccone. Le opere realizzate saranno esposte nel corso della presentazione del progetto presso la Camera di Commercio di Reggio Calabria, giovedì 19 luglio alle ore 11.00. *Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Reggio Calabria “Fuori fuoco”, sei detenuti raccontano cinecitta.com, 17 luglio 2018 Il 17 luglio alle 17 il presidente Roberto Fico accoglierà alla Camera dei Deputati una delegazione di detenuti/registi del carcere di Terni, per la proiezione del loro documentario Fuori fuoco, prodotto da Alba Produzioni con Rai Cinema. L’iniziativa nasce dall’On. Walter Verini, commissione Giustizia, che riconosciuto il valore di questa produzione molto speciale. Interverranno l’On. Andrea Orlando (ex Ministro della Giustizia), Stefano Anastasia (Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Regioni Lazio e Umbria) e Chiara Pellegrini (Direttrice Casa Circondariale di Terni). Il film, presentato in anteprima all’ultima edizione del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, verrà distribuito nelle sale da settembre mentre una versione breve è già andata in onda per Speciale TG1. L’esperimento, il primo in Italia, durato alcuni anni, è stato reso possibile grazie all’impegno e alla determinazione della Direttrice del carcere di massima sicurezza di Terni, Chiara Pellegrini, nell’ottica di dare voce ai detenuti attraverso il cinema e facilitare il loro reinserimento nella società. I sei detenuti/registi selezionati per il progetto hanno appreso l’uso della telecamera con un workshop all’interno del carcere e poi hanno avuto la libertà di scegliere cosa raccontare e con quale linguaggio, sia della loro vita che di quella dei loro compagni di prigionia disponibili a essere ripresi. Pesanti le condanne: omicidio, rapina a mano armata, traffico di stupefacenti. Sei storie, personalità e nazionalità diverse, stadi diversi della detenzione. Nel film nulla è stato messo in scena. Alla fine delle riprese, sfruttando un permesso speciale, Slimane Tali è evaso, scappando nel suo paese, il Marocco, con il quale l’Italia non ha un trattato di estradizione. Oreste Crisostomi, film-maker di Terni, durante un cineforum all’interno del carcere ha ispirato i detenuti per la definizione del soggetto del film, da un’idea di Michele Lo Foco. Ferdinando Vicentini Orgnani e Sandro Frezza (produttore Alba Produzioni) hanno accompagnato per quasi tre anni la realizzazione. Il successivo coinvolgimento di Rai Cinema ha dato il via alla produzione di un vero lungometraggio, la cui versione breve (52’) è andata in onda su Rai 1. Un grande artista, Michelangelo Pistoletto, ha regalato l’immagine emblematica di una sua opera per il manifesto del film. “Non lasciamoli soli”, di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti di Andrea De Lotto pressenza.com, 17 luglio 2018 Carceri in Libia: se questa è la pacchia! “Non lasciamoli soli” (Chiarelettere, 2018) raccoglie le storie dei migranti passati dalle prigione più o meno clandestine della Libia. Di solito chi fa la recensione di un libro ce l’ha a fianco a sé. In questo caso non ce l’ho e vi spiego perché. Ho letto questo libro, non d’un fiato, perché non è possibile. Bisogna leggerlo finché il nostro cuore e il nostro stomaco reggono, poi bisogna appoggiarlo e riprenderlo, leggerlo quasi in apnea, perché gli occhi non si riempiano di lacrime, le mani non lo accartoccino di rabbia fino a distruggerlo, non si spacchi lo schermo della TV quando si sentono dire idiozie e volgarità da parte di uomini di potere. È un libro che ci fa togliere la testa da sotto la sabbia, è davvero un libro che poteva essere scritto, mutatis mutandis, nel 1944 da un inviato in Germania. E noi avremmo passato, dopo, il tempo a dire: “Ma chi leggeva quel libro non faceva nulla?” “Sapendo cosa avveniva nei campi di concentramento, non c’era una reazione umana e popolare diffusa?” “Ma è possibile?” Bene, credo che sia quella che si auspica questo libro. Per questo non ce l’ho in mano, perché l’ho subito passato ad un amico invitandolo caldamente a leggerlo e poi a passarlo e ripassarlo, come un testimone. E via e via. Se saranno vendute 10mila copie di questo libro, ogni copia deve essere letta da 10 persone. Si deve sapere. Sono un maestro elementare, insegno italiano agli immigrati, la maggior parte di loro arriva dal centro Africa, ha fatto un viaggio omerico: deserto, fame, sete, maltrattamenti, furti, mare. Me ne hanno parlato dopo mesi che ci conoscevamo, in una chiacchierata che è iniziata senza alcuna premeditazione. Ma i miei alunni se devono associare una parola all’aggettivo cattivo, dicono: Libia. Il peggio, l’incubo, peggio del mare, del deserto, di tutto. È la lotteria che ha portato in carcere buona parte di loro, col semplice ricatto di farsi mandare soldi. I miei alunni mi hanno raccontato: “Ogni mattina entra uno nella cella con un bastone e picchia, per dare il buongiorno, in attesa che tu ti faccia mandare dei soldi”. Con i miei alunni basta nominare la Libia perché gli sguardi cambino e si legga in quegli occhi quello che cercano di dimenticare. In questo libro c’è il racconto completo di quello che è l’inferno della Libia, sostenuto dai governi dell’Europa e dal nostro governo. Un libro “osceno”, ovvero che svela ciò che c’è dietro la scena. Già il titolo è un invito, un grido disperato, che parla alla prima persona plurale, a noi, NOI. Rafforzo questo grido. Comprate, leggete, prestate, regalate questo libro. Che nessuno dica: Non sapevo.. Grazie a Francesco Viviano e Alessandra Ziniti che l’hanno scritto. Migranti. L’Unione europea boccia Salvini: “non consideriamo sicura la Libia” di Andrea Colombo Il Manifesto, 17 luglio 2018 Bertaud, portavoce della Commissione Europea per l’immigrazione: “Nessuna imbarcazione europea riporterà i profughi in Libia”. La scelta cinica di adoperare i migranti come ostaggi da spendere nel braccio di ferro con l’Unione europea ha forse fatto le prime vittime. Il ministro Salvini, da Mosca, trascura il particolare. Conferma di procedere sulla stessa linea e ingaggia un nuovo scontro con l’Europa. Chiede alla Ue di considerare la Libia “porto sicuro”. Incassa un secco no da parte della portavoce della Commissione europea, Natasha Bertaud: “Non consideriamo che lo sia”. Nessun Paese nessuna imbarcazione europea riporteranno i profughi su quelle spiagge. Il ministro italiano replica minaccioso: “O si cambia o saremo costretti a procedere da soli”. Sia chiaro, se la cura suggerita da Salvini, cioè la blindatura dei confini, “il blocco delle partenze aiutando Tunisia, Marocco, Libia ed Egitto a controllare mari, porti e confini”, è totalmente sbagliata, non si può dire altrettanto della diagnosi. Quando accusa l’Europa di doppiezza dargli torto è impossibile: “C’è un’ipocrisia di fondo in base alla quale si danno i soldi ai libici, si forniscono le motovedette, si addestra la Guardia costiera ma poi si ritiene la Libia un porto non sicuro”. In effetti da un lato, giustamente, l’Europa riconosce che respingere i profughi significherebbe metterli nelle mani di torturatori e stupratori, ma allo stesso tempo la commissaria Mogherini vanta come risultato eccezionale la “caduta degli sbarchi dell’85% rispetto all’anno scorso”. Come se fosse inumano riportare i migranti nei lager libici ma non lasciarceli per impedirgli di arrivare in Europa. Le stesse fonti della Commissione devono percepire la contraddizione, perché fanno filtrare una spiegazione di tipo giuridico e non politico. C’è una sentenza del 2012 della Corte europea per i diritti dell’uomo che va in questo senso, spiegano. Ecco perché sia Salvini che la stessa Mogherini che la sottosegretaria agli Esteri Del Re insistono sulla possibilità che la Libia venga dichiarata invece “Paese sicuro” nel prossimi futuro. Pensando alle notizie che dalla Libia arrivano, suona come una beffa macabra. Salvini ci spera. Punta a fare della Fortezza Europa la nuova strategia dell’intera Ue: “Non far partire e non far più sbarcare nessuna persona è l’obiettivo. La Ue deve convincersi che è l’unica soluzione”. E sul divieto dei respingimenti: “Qualcosa che è vietato oggi può diventare normalità domani”. Non è la linea di Conte, che mira a ripetere lo schema di accordi bilaterali con vari Paesi che ha sbloccato la situazione dei 450 profughi tra sabato e domenica. Non è la linea degli “alleati a metà” della Lega, i forzisti che, al contrario, insistono con la Gelmini sulla revisione di Dublino. Non è neppure, ovviamente la linea della Ue, che però gela anche Conte. “Siamo contenti che nel weekend si sia trovata una soluzione sulle due navi, ma siamo convinti che soluzioni ad hoc non possano durare a lungo termine”, commenta infatti il portavoce della Commissione Schinas. “La politica estera non si improvvisa”, chiosa la capogruppo azzurra al Senato Bernini. Tra la fine di questo mese e l’inizio del prossimo la Commissione cercherà di mettere a punto una soluzione provvisoria basata sui “centri sorvegliati” nei Paesi di primo ingresso e sul tentativo di codificare maggiormente le ridislocazioni. La Mogherini insisterà per un’accelerazione della già prevista modifica della missione Sophia. L’idea di Conte è apportare una modifica lieve ma radicale: ripartire nei diversi paesi i porti di sbarco, mentre al momento le navi arrivano tutte in Italia. Far accettare la proposta è però un’impresa quasi impossibile. Difficilmente però la “revisione” metterà in discussione la guida italiana della missione. Perdere il comando significherebbe infatti avere meno argomenti e minor potere contrattuale. Sarebbe autolesionismo anche per Salvini, che pare essersi convinto. La situazione è in realtà lontanissima da una soluzione. Le parole di Salvini da Mosca, dopo aver minacciato il veto sulla conferma delle sanzioni contro la Russia, sfiorano la dichiarazione di guerra: “La Ue vuole continuare ad agevolare lo sporco lavoro degli scafisti? Non lo farà in mio nome”. Migranti. Omissione di soccorso, il potere di dare la morte di Luigi Manconi Il Manifesto, 17 luglio 2018 Migranti. Sulle navi delle Ong, in realtà, i corpi di donne e uomini di buona volontà già si muovono da tempo. Sono quelli dei componenti degli equipaggi, dei soccorritori e dei volontari, ma anche quelli di coloro che hanno deciso di testimoniare quanto accade loro di vedere. Nella giornata di oggi le navi Astral e Open Arms della Ong spagnola Proactiva saranno nella zona Sar auto assegnatasi dall’attuale e traballante regime libico. Ed è probabile che saranno le sole due imbarcazioni. Le sole che per l’intera estate potranno garantire un presidio di vigilanza e salvataggio nel Mediterraneo. In altre parole, sembra vicino a realizzarsi quel disegno, prima non dichiarato, poi fieramente rivendicato, di “liberare il Mediterraneo dalle Ong”. Ciò avviene parallelamente al ripiegare della Guardia costiera italiana verso le nostre coste. E all’inevitabile sottrarsi dei mercantili e delle navi militari dalle aree di maggior rischio per le imbarcazioni di profughi. E, soprattutto, alla delega del soccorso alla Guardia costiera libica, oscillante tra fallimentare imperizia e complicità criminale. Tutto ciò non può che incrementare il numero dei morti. È questa una delle ragioni per cui non ho trovato nulla di retorico nella lettera aperta inviata da Sandro Veronesi a Roberto Saviano, e nella risposta di quest’ultimo. E nemmeno di letterario, se non per il fatto che - a dialogare - sono due valenti scrittori. Sulle navi delle Ong, in realtà, i corpi di donne e uomini di buona volontà già si muovono da tempo. Sono quelli dei componenti degli equipaggi, dei soccorritori e dei volontari, ma anche quelli di coloro che hanno deciso di testimoniare quanto accade loro di vedere. Nella missione attualmente in corso, un deputato di Liberi e Uguali, una giornalista di Internazionale e uno di Reuters, un noto cuoco. Veronesi, nella sua lettera, chiama quello presente il “tempo del corpo”. E il corpo è da sempre al centro della politica, ne costituisce la posta in gioco e il fine ultimo, l’oggetto di cura dei governi e la vittima del potere dispotico. E ancora, il corpo è la sede profonda dell’identità umana e dei diritti fondamentali che ne discendono. In alcune circostanze - dittatura, guerra, conflitto mortale - la tutela del corpo vivo, o la sua soppressione, assumono l’intero senso della politica nella sua forma massima e ultima. Un passo indietro nel tempo: nell’antica Roma il pater familias poteva disporre del destino dei propri figli fino a sopprimerli. Disponeva, cioè, del potere di vita e di morte nei confronti di chi lo avesse disonorato o avesse violato leggi fondamentali. Qui, oggi, l’arcaico potere di dare la morte torna ad agitare i pensieri collettivi e la nostra vita sociale, trovando due pretesti alla propria volontà di imporsi. Il primo rimanda all’antico fondarsi del potere sull’interesse dello stato. Dare la morte o la vita come conseguenza del soccorrere o del non soccorrere si collega alla necessità della sicurezza statuale (difendere i confini, respingere l’invasione, proteggere i cittadini dal nemico). Il secondo motivo risiede nella riduzione di tutto ciò che è universale alla misura del particolare. Interessi generali e valori comuni devono sottomettersi a provvedimenti locali e a vantaggi prossimi. Ne discende inevitabilmente una spirale di chiusura ed esclusione: il soccorso non riguarda tutti e non tutti sono meritevoli di soccorso. È il rovesciamento radicale del principio di uguaglianza e dell’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Il potere di dare la morte - come altro chiamare il rifiuto di soccorso? - torna nelle mani dell’autorità che vendica una violazione (dei confini, delle competenze territoriali, delle leggi nazionali). Ma che cosa davvero violano quei fuggiaschi che vogliono raggiungere le nostre terre? Dietro tutto ciò c’è la negazione di quel principio naturale che è la pulsione dell’essere umano ad aggregarsi ad altri esseri umani. Tra i tanti motivi che tengono insieme una comunità - dalla cooperazione economica alla difesa comune contro insidie esterne e interne - il legame primo è quello che nasce dal bisogno dell’altro. Della protezione da parte dell’altro. La società organizzata nasce proprio per rispondere in maniera efficace, attraverso un’attività di reciproco soccorso e vicendevole tutela, alla rivelazione della debolezza di chi si trovi solo e in stato di pericolo. È il mutuo soccorso. È per questa ragione che negare o indebolire il diritto/dovere al salvataggio corrisponde a erodere la stessa identità umana e quel passaggio essenziale da individuo isolato a comunità associata. E credo che questo sia il compito che ci spetta oggi: creare una rete di sostegno reciproco contro le violazioni dei diritti fondamentali. Una rete di mutuo soccorso, appunto: civile, culturale, politico e legale. Su tale questione, negli ultimi giorni, abbiamo verificato la disponibilità di persone come Giovanni Maria Flick, Liliana Segre, Alessandro Bergonzoni, Valerio Onida, Luigi Ferrajoli, Emma Bonino, Paolo Virzì, Valentina Calderone, Vladimiro Zagrebelsky, Costanza Quatriglio, Giuliano Pisapia, Alessandro Gamberini, Alessandra Ballerini, Antonella Soldo, Gad Lerner, Pierfrancesco Majorino, Andrea Pugiotto, Riccardo Magi, e molti altri ancora. Un sodalizio, una lobby virtuosa, che inalberi quel nome: “Mutuo Soccorso”, e sia capace di far sentire la propria voce, più alta del silenzio complice come dello strepito interessato. Nella consapevolezza che il diritto/dovere al soccorso è un principio assoluto. Che precede le Costituzioni dei singoli stati, gli ordinamenti giuridici e i codici nazionali, e che prevale su tutto. Assoluto, appunto. Se ne sono mostrati ben consapevoli i membri del Consiglio costituzionale francese che, valutando negativamente la legge istitutiva di una sorta di reato di solidarietà, hanno scritto: “Va protetta la libertà di aiutare gli altri per spirito umanitario, regolare o irregolare che sia il loro soggiorno sul territorio nazionale”. Libia. Lì dove i profughi iniziano la traversata: Tripoli in mano a quattro milizie di Maurizio Caprara Corriere della Sera, 17 luglio 2018 Viaggio il Libia, un Paese senza stabilità. I meccanismi di una struttura “mafiosa”: ogni fazione ha propri ambiti di supremazia e, appena collidono, scatta la sparatoria. Si è scolorita la scritta “Finally we are free”, finalmente siamo liberi, tracciata nel 2011 sul lungomare di Tripoli. Risale ai giorni della cacciata di Muhammar el Gheddafi. Sulla via al Shat, parallela alla costa, palazzine nuove e cantieri bloccati si alternano a case con facciate dalla vernice scrostata. Quasi nessun pedone. Su un muro di cinta spicca una toppa in mattoni larga tre metri, sutura di uno sfondamento. Più avanti, due luna park deserti e giostre coperte da veli di sabbia portata dal vento. Panorama spettrale, mentre sulle carreggiate il traffico delle auto si ingolfa. “Usate medicine salvavita? Dobbiamo sapere di quali avreste bisogno qualora foste feriti e veniste operati”, ha domandato poco fa in inglese l’agente di scorta su un’auto blindata. “Dobbiamo saperlo prima di muoverci”, aveva aggiunto. Vista da occhi stranieri anche questa è la routine nella Libia che a sette anni dalla guerra non trova autentica pace. Assaggiata nel 2011, la libertà è svanita. Ancora più dei colori vivaci che aveva la scritta. La capitale del Paese del quale in Italia si parla solo come piattaforma di partenza per migranti e profughi è in mano a quattro milizie. Sono queste i veri poteri più che il governo di accordo nazionale guidato da Fayez Mustafa al Sarraj, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale. Dal 2017 le milizie hanno sulle istituzioni un controllo senza precedenti. Uno dei vice del presidente del Consiglio nazionale al Sarraj, Fathi al Majbari, di recente, ha diffuso una dichiarazione. Insoddisfatto della ripartizione dei proventi del greggio, il generale Khalifa Haftar aveva sottratto alla National Oil Corporation il controllo di pozzi petroliferi per affidarlo a una struttura parallela dell’Est della Libia. Al Majbari aveva approvato la scelta. Il 26 giugno, stando a una fonte a lui vicina, gli è stata assaltata la casa. Stava per essere rapito. È fuggito. Non che Haftar sia buono. Il generale appoggiato da Egitto e Russia che domina la Cirenaica usa metodi brutali. E il suo blocco di alcuni pozzi, terminato in seguito a pressioni di Stati Uniti, Francia e Italia, aveva ridotto di oltre la metà la produzione libica di greggio che era in febbraio di un milione e 280 mila barili al giorno. A Tripoli se un ordine si rintraccia è nella struttura verticale delle milizie, simile più a quella della mafia che alla rete orizzontale della camorra.Ogni fazione ha ambiti di supremazia, ma i perimetri delle rispettive influenze oscillano. Appena collidono, cortocircuito.Scatta una sparatoria. Prevedere quando accade è difficile. La “Rada” o “Sdf” - Special deterrence force, Forza speciale di deterrenza - è guidata da Abdeurrauf Kara e cacciò gli uomini di Haftar nel 2014. La “Trb” - la Tripoli revolutionaries brigade di Haitham al Tajuri - ha in mano la Polizia diplomatica che si occupa delle ambasciate, tra le quali la italiana è la sola dell’Unione Europea in funzione. La Nawasi brigade - salafita - è collegata a Kara e controlla tra l’altro la base della Libyan coast guard, la Marina. La Abdul Salim unit dell’Apparato di sicurezza centrale - detta anche “al Kikli”, dal comandante Abdelghani al Kikli - è forte nell’area di Abu Salim. Un decreto, il 555 del Consiglio presidenziale, ha potenziato la Sdf riconoscendole un ruolo anti-terrorismo. Dettaglio: a dirigerla è un uomo accusato di violazione dei diritti umani. Tra le principali fonti di introiti dei gruppi in armi rientrano la speculazionesul dinaro, la moneta locale, e il pizzo. La prima viene compiuta così: emissari delle milizie ottengono lettere di credito per importare beni, ricevono euro o dollari al cambio ufficiale e invece di spenderli li vendono al mercato nero. In porto arrivano container vuoti. Servono a far finta che si sia importato qualcosa. Il pizzo si avvale della crisi di liquidità. Davanti ad alcune banche o simil-banche si creano file. Un miliziano si fa intestare un assegno da una persona in attesa. Poi entra, ritira una somma x di danaro e a chi ha emesso l’assegno ne dà x meno y. Protestare sarebbe più caro. Ai giornalisti stranieri occorre un’autorizzazione anche per intervistare passanti. Da quando nel 2017 la Cnn ha mostrato schiavi venduti all’asta, i potentati giudicano gli inviati presenze ostili. È in questa atmosfera che le esortazioni provenienti dall’estero a istituire in Libia centri per filtrare quanti chiedono asilo in Europa sono percepite come mire inquietanti. Tra i libici, oltre sei milioni di abitanti, c’è chi teme che i migranti arrivino dal Sud spinti da un piano volto ad alterare la demografia del Paese. Passi dei quali da noi non si calcolano gli effetti aumentano le difficoltà per le organizzazioni internazionali che l’Italia ha contribuito dieci mesi fa a far agire a Tripoli. Più che un aumento dei fondi, alla Libia serve stabilizzazione. Sarraj non controlla quasi niente fuori dalla capitale. E oggi i finanziamenti non rafforzano necessariamente autorità centrali, bensì fazioni. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, a Tripoli, ha detto: “È necessario raddoppiare gli sforzi per ripristinare un’efficace unità nazionale. Per garantire la stabilità necessaria allo sviluppo”. È così. Se l’anarco-oligarchia fosse sostituita da vere autorità centrali, l’economia crescerebbe. Con la ricostruzione, a migranti in arrivo dal Sud non interesserebbe solo l’Europa. La prima da costruire, però, è una pace. Turchia. Assolto il caporedattore di Cumhuriyet ad Ankara di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 17 luglio 2018 Erdem Gül, il caporedattore di Ankara del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, è stato assolto oggi in appello dall’accusa di “rivelazione di segreto di Stato”, per cui era stato condannato in primo grado a 5 anni insieme all’ex direttore del giornale Can Dundar. La vicenda riguarda la pubblicazione nel 2015 di un’inchiesta che ebbe molto risalto sul passaggio di armi dei servizi segreti turchi in Siria. Gül si è presentato stamattina davanti ai giudici della 14sima Corte Penale di Istanbul che hanno deciso la sua assoluzione perché il suo articolo è uscito dopo quello iniziale di Dundar, facendo così venir meno gli elementi di “segretezza” delle informazioni rivelate. Per lo stesso caso, però, il caporedattore di Cumhuriyet resta invece imputato per “terrorismo” sempre insieme a Dundar - che dal 2016 vive in Germania - e al deputato del Chp Enis Berberoglu, attualmente in carcere, accusato di aver fornito i documenti ai due giornalisti.