Carceri, difficile sopravvivere. Dal 1992 si toglie la vita un detenuto ogni settimana di Francesco Barresi Italia Oggi, 16 luglio 2018 I dati diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Più di 1.300 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere nell’arco di 26 anni. Una media esatta di 51 incarcerati che si sono suicidati nelle celle italiane dal 1992 al 2017, circa un detenuto ogni settimana, elaborando i dati dell’ufficio statistico per lo sviluppo e la gestione del sistema informativo automatizzato (sezione statistica) del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia. Che registrano un totale di 1.339 persone che hanno deciso di togliersi la vita, con un massimo di 69 a un minimo di 39 morti annuali, in quasi 30 anni di carcere. Se guardiamo invece agli archi temporali si nota come il numero dei morti suicidi, quando raggiunge una punta massima, tende ad abbassarsi per poi aumentare progressivamente fino a un ulteriore ribasso. È il caso del 1993 con 61 vittime, a cui segue il ribasso del 1996 (45) per toccare il 2001 con 69 morti; da qui un drastico abbassamento l’anno successivo (52) fino alla discesa nel 2007 con 45 vittime, identico all’anno del 1996, per poi risalire al 2011 a quota 63. E ancora, una drastica discesa fino al 2015 con 39 suicidi, con un trend al rialzo nel 2017 che si alza a quota 48. Ma il dato suscita preoccupazione se comparato con il totale dei morti in cella per cause naturali (2.340) che, se confrontati al numero totale dei 1.339 suicidi, questi ultimi si rapportano per un 57,7%. I detenuti morti per cause naturali, sempre nello stesso arco temporale dal 1992 al 2017, chiaramente presentato cifre più alte che però non si discostano dalla metà dei rispettivi suicidi. Inoltre se confrontati in termini di media annuale vediamo che il valore relativo è di 48,75, esattamente 2,25 “punti” in più rispetto ai suicidi. Considerati sui 26 anni in questione, sempre su una media relativa, il numero dei suicidi è quasi equivalente al numero dei morti per cause naturali, ovvero per vecchiaia o una particolare malattia insorta. L’anno decisamente più nero per i detenuti morti senza incidenti risulta il 2005 con 115 prigionieri deceduti, e a seguire il 1993 e il 2013 con 111 rispettivamente. Ma è nell’anno 2014 che accade un fatto molto particolare: il numero dei carcerati morti naturalmente subisce una drastica riduzione rispetto al 2013, da 111 a 48. Questo a dispetto del “trend” che, sempre secondo i dati ministeriali, vedono solo nel 2016 l’anno più basso di vittime con 64 prigionieri a cui segue il 1997 (67) e il 2015 (69). Le cifre che girano sulle migliaia invece le troviamo sul numero dei detenuti in custodia: dal 1992 al 2017 il numero di persone in gattabuia sono state 3.456.944, una media di 132.959 prigionieri all’anno o di 395 al giorno. Anche se dai dati pubblicati dal ministero della giustizia risulta che il flusso degli entrati dalla libertà può includere più volte lo stesso individuo, le cifre si dimostrano in ogni caso molto alte. L’anno con il maggior numero di condannati in cella è il 2006 con 150.237 persone, seguono il 2010 con 149. 432 e il 1994 con 148.593. A partire dal 1992, se escludiamo i picchi più alti fi no al 2006, il numero dei detenuti si mantiene sostanzialmente stabile tra i 130 mila. Nel 2007 avviene una deflessione dell’andamento (quota 129.446) per poi risalire nel 2010 (149.4329). Ed è a partire da questo momento che avviene il fenomeno inverso, perché il numero dei detenuti cala improvvisamente con una rapida discesa: i numeri dal 2010 in poi scendono continuamente fi no ad arrivare, nel 2015, a quota 99.446, al di sotto delle centinaia di migliaia, per poi ritornare poco sopra 100 mila nel 2017 (quota 102.797). Il software calcola se si è recidivi. I dubbi del diritto di Giovanni Canzio Corriere della Sera, 16 luglio 2018 Anticipiamo un estratto - sul dubbio tra passato e futuro e su dubbio e “giustizia predittiva” - dall’intervento di Giovanni Canzio alla Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Il giurista dialogherà con Piergaetano Marchetti e Giovanni Maria Flick all’evento “Il dubbio e la legge”, giovedì 19 a Milano (Sala Maria Teresa della Biblioteca Braidense, ore 12, ingresso libero, organizzato in collaborazione con Pinacoteca di Brera e Fondazione Corriere della Sera). Il dubbio fra passato e futuro. Si afferma comunemente che l’accertamento della verità, con il giudizio conclusivo di conferma o falsificazione dell’ipotesi, è racchiuso nell’arco spazio-temporale del processo che si chiude definitivamente col giudicato. E però, il tradizionale quadro assiologico appare in crisi, essendo la stabilità dell’accertamento chiamata a misurarsi col potenziale affacciarsi nel futuro del “dubbio ragionevole” circa la reale fondatezza del risultato probatorio precedentemente raggiunto. Lo standard decisorio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, insieme col principio del contraddittorio in senso forte, è destinato, infatti, a promuovere la graduale cedibilità del giudicato e la potenziale revisione della condanna, soprattutto nei casi in cui da una nuova prova scientifica o da un nuovo metodo d’indagine, consentiti dall’evoluzione del sapere scientifico o tecnologico, possa sortire il ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell’imputato. Il dubbio e la “giustizia predittiva”. Avvertiva B.N. Cardozo, giudice della Suprema Corte Usa negli anni Trenta, che “ancora non è stata scritta la tavola dei logaritmi per la formula di giustizia”. Va emergendo, peraltro, il fenomeno dell’utilizzo, da parte di alcuni tribunali e corti statunitensi di tecniche informatiche per misurare il rischio di recidivanza del condannato, ai fini della determinazione dell’entità della pena o di una misura alternativa alla detenzione. Il dubbio del giudicante in ordine alla propensione dell’imputato a ripetere il delitto non trova più la soluzione in un criterio metodologico di accertamento del fatto e neppure in una puntuale prescrizione della legge, ma viene affidato a un algoritmo di valutazione del rischio, elaborato da un software giudiziario prodotto da una società privata (Compas: acronimo di Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions). Considerati i risultati pratici-soprattutto in termini di risparmio-conseguiti dall’impiego del modello matematico-statistico, neppure le cautele e gli avvertimenti delle corti e lo scetticismo degli studiosi, quanto al rispetto delle garanzie del due process (processo equo) nella raccolta delle informazioni utili per la valutazione del rischio nel mondo reale e all’eventuale pregiudizio discriminatorio, sono riusciti a frenare l’impetuosa avanzata delle tecniche informatiche di tipo predittivo nel sistema statunitense di giustizia penale. Si è forse agli inizi di uno sconvolgente (e però non auspicabile) mutamento di paradigma della struttura e della funzione della giurisdizione? A fronte della complessità tecnica, dei tempi e dei costi delle faticose operazioni giudiziali ricostruttive del fatto, la postmodernità metterà in crisi l’equità, l’efficacia e le garanzie del modello proprio del razionalismo critico, oppure resterà ben salda e vitale l’arte del giudicare reasoning under uncertainty, seppure by probabilities (“ragionando, considerando il dubbio”, seppure “nell’ambito delle probabilità”). Serve un surplus di ottimismo contro i professionisti della paura di Claudio Cerasa Il Foglio, 16 luglio 2018 Gli imprenditori della paura hanno un business chiamato emergenza e lo usano come un taxi. Per affrontare i populismi non serve però cadere nelle trappole del pessimismo. L’unico salvacondotto è un mix fatto di ottimismo e principio di realtà. Chi ci sta? Essere ottimisti in un momento in cui buona parte del mondo viene assediato, aggredito, dominato dai pessimisti non è semplice, perché in base ai canoni del pensiero unico essere ottimisti oggi significa essere contro una nuova razionalità assoluta e incontestabile che si chiama sfascismo. Essere sfascisti non vuol dire essere necessariamente dei cugini postumi dei fascisti (è così solo in alcuni casi). Significa far parte di una categoria di persone che ha scelto di costruire una propria identità politica sulla base esplicita dello sfascio, sull’idea cioè che l’unico modo per garantire un buon futuro ai nostri figli sia dimostrare che tutto quello che è stato fatto in passato deve essere sfasciato perché a farlo è stato qualcun altro. Lo sfascismo si basa sulla necessaria rimozione del passato ma si basa anche su un altro elemento cruciale, che si trova in modo più o meno involontario al centro del dibattito politico di questi giorni. È un tema che c’entra quando parliamo di vitalizi. Che c’entra quando parliamo di costi della politica. Che c’entra quando parliamo di immigrazione. Che c’entra quando non parliamo di economia. Che c’entra ogni volta che il mondo viene descritto per quello che sembra e non per quello che è. È un tema che abbiamo affrontato già molte volte, quello della distanza tra società reale e società virale, ma è un tema che oggi merita di essere rimesso a fuoco perché ci permette di fotografare la vera ragione per cui il governo populista è destinato a non avere una vita lunga. Gli sfascisti, oltre a teorizzare la necessaria rimozione del passato, teorizzano anche la necessaria rimozione del presente e per giustificare la propria appartenenza al partito della ruspa sono costretti spesso a negare la realtà e a costruirne una a propria immagine e somiglianza. Una realtà che tra le tante caratteristiche ne ha una che si trova al centro della narrazione populista: il mondo è uno sfascio, è uno schifo, è un disastro, e chiunque abbia una visione positiva sul presente e sul futuro è un pericoloso nemico del popolo. Geniale, no? Per questo, coloro che in modo fiero appartengono al partito unico dello sfascio hanno il dovere di trasformare ogni problema in un allarme e ogni guaio in un’emergenza: più il mondo sarà percepito come un mondo che non funziona e più verrà alimentata una domanda elettorale finalizzata a dare un sostegno al partito del cambiamento. Il principio vale nel corso della campagna elettorale ma vale anche quando la campagna elettorale è finita e quando magari si arriva a guidare un governo. Se tu hai costruito consenso sulla base di una paura che hai contribuito ad alimentare, il tuo interesse sarà quello di continuare a tenere alta quella paura e di creare una domanda di protezione sempre più alta che solo tu potrai risolvere. Lo schema della paura percepita vale su molti campi, ma vale prima di tutto sul tema dell’immigrazione. E il cortocircuito che si è andato a creare la scorsa settimana con lo sbarco della nave Diciotto è la perfetta fotografia di cosa significhi trasformare problemi risolvibili in allarmi nazionali. Lasciamo perdere il dato politico dello schiaffo ricevuto dal ministro dell’Interno -non voleva far attraccare la nave a Trapani, non voleva far sbarcare i profughi, voleva vederli scendere dalla nave solo con le manette, e alla fine la nave ha attraccato, i profughi sono sbarcati e nessuno è stato arrestato - e occupiamoci del dato per così dire sociologico e culturale. Che cosa è successo con la nave Diciotto? È successo quello che probabilmente avrete capito. Salvini ha trasformato da tempo il tema degli sbarchi dei migranti in Italia in un’emergenza nazionale. I dati sugli sbarchi dicono però che almeno da quel punto di vista l’immigrazione non è più un’emergenza. È un tema da governare, sì, ma non un’emergenza. I numeri sono questi. Dal primo gennaio 2018 al 13 luglio 2018 il numero di sbarchi in Italia è stato del 78,06 per cento inferiore rispetto al 2016 e dell’80,16 per cento inferiore rispetto al 2017. Nel 2017, gli arrivi provenienti dalla Libia erano a quota 82.820. Nel 2018, gli arrivi provenienti dalla Libia sono arrivati a quota 11.602. Salvini sa perfettamente che gli sbarchi in Italia sono un problema da governare, non un’emergenza, ma non potendosi permettere di dire che l’emergenza non c’è (ci ha costruito una campagna elettorale) è costretto ogni giorno ad alzare l’asticella della paura, trasformando ciascuno sbarco in un’emergenza e arrivando a vivere situazioni follemente paradossali come quelle vissute giovedì sera, quando uno sbarco tutto sommato ordinario si è trasformato in un’emergenza politica solo perché il ministro dell’Interno aveva deciso di far diventare un evento di ordinaria amministrazione un evento epocale da fermare a ogni costo. Gli imprenditori della paura, lo sappiamo, hanno un business chiamato emergenza e il loro fatturato di solito è direttamente proporzionale agli allarmi generati. Ma al contrario di quello che si potrebbe credere - e qui arriviamo ai nostri giorni - a pagare il prezzo della politica della paura non sono solo i profughi tenuti in ostaggio su un’imbarcazione: è prima di tutto, se ci consentite senza retorica, il futuro dell’Italia. Diciamo questo non per questioni vuote legate all’umanità o alla disumanità di una politica al posto di un’altra ma perché quando un governo trasforma l’agenda della percezione nella priorità di un paese, a farne le spese sono prima di tutto i problemi reali di una nazione. Questo non significa che l’immigrazione irregolare non sia un tema da affrontare con severità e con attenzione e questo non significa negare che in Italia esistano casi in cui l’immigrazione non regolata abbia contribuito a far aumentare in modo legittimo l’insicurezza di alcuni pezzi di paese. Significa fare un ragionamento diverso. Significa rendersi conto che l’unico modo possibile per combattere i professionisti della paura è smascherare la loro pericolosa truffa: ci si occupa dei problemi fittizi che si trovano in cima all’agenda della percezione solo per dribblare i problemi reali. Meglio parlare dei vitalizi che parlare della fuga degli investimenti dall’Italia (secondo le stime dell’agenzia Reuters basate su dati forniti dalla Banca centrale europea attraverso il sistema dei pagamenti transfrontalieri Target 2, la quota di investimenti persi dall’Italia da maggio a oggi è pari a 55 miliardi). Meglio parlare di flessibilità che parlare di produttività. Meglio parlare di pensioni d’oro che parlare di crescita. Meglio parlare di moralismo che parlare di efficienza. Potremmo andare avanti per ore a spiegare cosa rischia un paese che si concentra più sulla fuffa che sulla realtà. Ma il nostro articolo non si può concludere senza esplicitare un elemento cruciale da tenere a mente per dare un senso compiuto al nostro ragionamento. Un elemento che riguarda un rischio che l’Italia può correre nei prossimi mesi: ribellarsi al pessimismo sfascista con un surplus di pessimismo moralista. Per quanto possa sembrare paradossale, lo sfascismo non lo si affronta con un’aggiunta di disfattismo ma lo si neutralizza con un’aggiunta di ottimismo. Essere ottimisti verso il futuro, e verso il presente, è l’unico vaccino possibile contro l’egemonia del pensiero unico sfascista. Perché parlare del mondo per quello che è, e non solo per quello che sembra, è l’unico modo per occuparsi dei problemi reali di un paese e per non prendere in giro gli elettori. Il salvacondotto contro lo sfascismo è l’ottimismo. E per combattere la società dello sfascio mai come oggi bisogna aggrapparsi all’unico antidoto possibile alla politica della post verità: il principio di realtà. Essere ottimisti nell’era del pessimismo. A Firenze, il 27 ottobre, alla nostra festa dell’ottimismo partiremo proprio da qui. “Prima gli italiani” e fastidio per le élite, ecco le molle che spingono i sovranisti di Diodato Pirone Il Messaggero, 16 luglio 2018 Se non è una novità che a distanza di 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino il mondo stia entrando in una fase nuova, lo è però l’incredibile velocità del passaggio e le sue forme inedite che sta prendendo anche in Italia. Chi avrebbe mai detto fino a pochi mesi fa che lo slogan più gettonato in Italia sarebbe stato proprio “prima gli italiani”? Il dato emerge da un “carotaggio” della società demoscopica Swg che sta fotografando la redistribuzione delle idee e delle domande sociali. “Prima gli italiani” è la molla dell’orientamento politico scelta dal 19% degli elettori. Nettamente la più importante se si pensa che la seconda “spinta” avvertita dagli italiani, l’ambientalismo” è a quota 12% e la terza, la “lotta alla casta” è lo slogan preferito dall’11% degli elettori. Il grande successo di “prima gli italiani”, il vero fenomeno degli ultimi mesi, spiega anche il grande successo della Lega di Matteo Salvini che secondo i sondaggisti contende al Movimento 5Stelle il titolo di primo partito italiano. “Ma sarebbe sbagliato ridurre questi dati all’ambito elettorale - assicura Enzo Risso, direttore Swg. Negli ultimi 25 anni abbiamo condiviso l’idea che eravamo entrati nell’età post moderna e che erano finite le ideologie. Tutto questo è finito. Stanno prendendo piede nuove narrazioni, che magari non hanno la grandezza di alcune grandi suggestioni del passato, ma godono di un grandissimo valore aggiunto: aiutano a collocare l’individuo di oggi in un processo sociale e storico collettivo”. Secondo Risso è questa relazione fra “nuove narrazioni e domande individuali non ancora collocate” il “segreto” che spiega il successo sorprendente di fenomeni politici internazionali come ad esempio la Brexit, sul versante sovranista, il macronismo su quello “moderato” ma anche l’incredibile popolarità del socialista Bernie Sanders in America che fu ad un soffio dal vincere le primarie democratiche del 2016. “Il successo di “prima gli italiani” - assicura Risso - è dovuto al fatto che questa è una narrazione difensiva di una società che cerca protezione dopo la crisi economica e il fallimento delle speranze liberiste. È il frutto della percezione che la società è più fragile e chi arriva, l’immigrato, diventa un pericolo”. “C’è poi una seconda narrazione forte - aggiunge Risso - che è quella “popolo contro élites”. Nasce dalla delusione per le mancanze della socialdemocrazia che non ha saputo rappresentare un’alternativa alle logiche liberiste e non ha limitato l’apertura della forbice delle diseguaglianze sociali”. Il 61% degli italiani prevede che nel prossimo futuro lo scontro fra cittadini e “poteri forti” sarà “molto o abbastanza duro”. Una percentuale tenuta alta dalla convinzione che le classi dirigenti, non solo quelle politiche, si siano arricchite senza poi redistribuire una parte del benessere ai meno fortunati. Secondo i ricercatori triestini c’è infine attesa nel Paese - ma ovviamente non solo in Italia - per una terza narrazione che piacerebbe al 35% degli italiani (vedi tabella) che tutt’ora si sentono di sinistra. “Questa quota di italiani sono sensibili soprattutto a quattro temi - dice Risso. La riduzione delle disuguaglianze; l’inversione di rotta sulla flessibilità del lavoro, l’ampliamento dei diritti civili e la ripresa delle retribuzioni”. Impossibile predire quale dei tre “racconti” emergerà stabilmente sugli altri. Secondo l’Swg i segnali sono ancora confusi e “ossimorici”, cioè contraddittori ma compatibili fra loro come quello di una sfiducia nella classe dirigente e di una maggiore fiducia nella tecnologia. “Una sola cosa è certa - chiosa Risso - l’epoca del liberismo che rompeva i muri, quella cantata dai Pink Floyd con “An other brick in the wall” è tramontata. I muri li stiamo ricostruendo per paura ma al tempo stesso abbiamo anche più fiducia nell’ambiente e vogliamo meno disuguaglianza”. Ci vorrà tempo prima di trovare una sintesi. L’idea dello stop alla prescrizione? Vi spieghiamo perché lede i diritti di Vincenzo Comi e Antonio Mazzone* Il Tempo, 16 luglio 2018 Nel dibattito che si è aperto in questi giorni in tema di riforme del settore-giustizia si è avanzata la proposta di “bloccare” la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. E si è anche parlato di consentire alla Corte di Appello di riformare la sentenza in senso sfavorevole all’imputato, anche in mancanza di impugnazione del Pubblico Ministero. Si tratta di proposte che non sono condivisibili sul piano costituzionale italiano e convenzionale europeo e che sono inadeguate per conseguire gli obiettivi dell’accelerazione dei tempi processuali e della riduzione delle pendenze. Per risolvere il grave problema della durata del processo penale occorre piuttosto proporre e attuare una riforma normativa organica. Il problema non è la prescrizione in sé ma delineare e poi applicare in concreto un modello di processo che permetta di definirlo in temi ragionevoli. Bloccare la prescrizione vuol dire prevedere un processo che duri all’infinito. E ciò non è ammissibile neppure sul piano del diritto naturale. Un tale blocco non è neanche compatibile con un’esigenza di efficienza del sistema e di effettività della sanzione. La sanzione si applica al condannato in via definitiva. Se il processo resta pendente all’infinito, la sanzione è concretamente inattuabile. Il “blocco” della prescrizione che è stato proposto senza neppure prevedere la contestuale introduzione di termini di fase, la cui inosservanza deve essere anch’essa sanzionata mediante la previsione dell’effetto estintivo del reato. Un tale modello di termini (con previsione, anche, di un termine massimo di durata del processo, in caso di annullamento con rinvio in sede di giudizio di Cassazione) sarebbe, anche, utile al fine di individuare, nell’ipotesi di sua inosservanza e di conseguente prescrizione del reato, a quale fase sia riferibile la mancata definizione del processo nel tempo normativamente previsto. L’ipotesi, poi, di abolizione del divieto di reformatio in pejus in appello in mancanza di impugnazione del P.M. appare di difficile inquadramento sistematico in presenza di un ordinamento strutturato sul principio devolutivo dell’impugnazione e caratterizzato da una recentissima riforma che ha riaffermato la regola dell’inammissibilità dell’impugnazione in caso di insufficiente specificazione dei relativi motivi e richieste. E appare anche impossibile individuare una compatibilità con il diritto di difesa, come delineato in sede costituzionale italiana e convenzionale europea, dell’ipotesi dell’imputato appellante che debba difendersi dalla possibilità di un aumento di pena senza potersi relazionare a un atto di impugnazione del P.M. che spieghi perché la pena irrogata in primo grado sarebbe da ritenersi insufficiente. In un sistema basato sull’obbligatorietà dell’azione penale, al fine di conseguire un effetto deflattivo delle pendenze processuali, bisogna invece partire dalla ridefinizione del ruolo dell’udienza preliminare, rafforzandone la funzione di udienza-filtro, diretta a selezionare ciò che meriti effettivamente la trattazione dibattimentale: e ciò può farsi, soltanto, mediante una revisione delle condizioni che legittimino il rinvio a giudizio dell’imputato. E, contestualmente, occorre aprire un dibattito sulla rimodulazione dei riti alternativi. *Avvocati penalisti della Camera Penale di Roma Legge sulla legittima difesa, il patto elettorale tra Salvini e la lobby delle armi di Marco Mensurati e Fabio Tonacci La Repubblica, 16 luglio 2018 Un “contratto” impegna il ministro dell’Interno a coinvolgere le potenti associazioni quando si discute dei loro interessi. A partire dal ddl caro alla Lega che autorizza le vittime di reati a sparare agli aggressori. Se Matteo Salvini farà ciò che, per iscritto e “sul suo onore”, si è impegnato a fare una volta eletto, l’Italia avrà presto una legge sulla legittima difesa scritta a quattro mani con la lobby delle armi. L’11 febbraio scorso, in piena campagna elettorale, il vicepremier e ministro dell’Interno ha firmato un documento, articolato in otto punti, col quale si è impegnato pubblicamente a “coinvolgere e consultare il Comitato Direttiva 477 e le altre associazioni di comparto ogni qual volta siano in discussione provvedimenti che possano influire sul diritto di praticare l’attività sportiva con armi e/o venatoria, o su quello più generale a detenere e utilizzare legittimamente a qualsiasi titolo armi, richiedendone la convocazione presso gli organi legislativi o amministrativi in ogni caso si renda opportuno udirne direttamente il parere”. Il Comitato D-477 - Ma cos’è questo Comitato? Lo spiega a Repubblica il suo presidente, Giulio Magnani. “Siamo un’associazione che tutela i privati cittadini che hanno armi da fuoco. In Italia rappresentiamo la Firearms United (confederazione europea dei possessori di pistole, ndr) e collaboriamo con Anpam, Conarmi e Assoarmieri”. Cioè le più importanti sigle dei fabbricanti di armi, un settore che vale più o meno lo 0,7 % del Pil (2.500 imprese, tra indotto e produzione, 92.000 occupati) e si rivolge a 1,3 milioni di titolari di licenza. Cacciatori, tiratori sportivi, appassionati di armi (anche da guerra) e gente comune in cerca di sicurezza, che riempie i poligoni, meglio se privati. Insomma, il Comitato è il braccio operativo di una lobby molto pesante. “La parola lobby non ci spaventa affatto - rivendica Magnani - Non facciamo niente di illegale, difendiamo solo i diritti di molte persone perbene, diritti che sono stati erosi da leggi scritte in malafede”. Tra gli sponsor del sito del Comitato c’è Brownells, la filiale italiana della Brownells inc, multinazionale dell’Iowa. Il suo CEO, Pete Brownell, nel 2017 è stato eletto presidente della potente National Rifle Association americana, che ha sponsorizzato la scalata di Trump. “Ma al di là del banner, il rapporto con la Nra è ancora embrionale”, precisa Magnani. “Sul mio onore” - L’intestazione del foglio firmato da Salvini, in qualità di candidato premier e a nome dell’intera Lega, recita: “Assunzione pubblica di impegno a tutela dei detentori legali di armi, dei tiratori sportivi, dei cacciatori e dei collezionisti di armi”. La firma è stata messa durante la sua partecipazione all’Hit Show di Vicenza, la più importante fiera delle armi del nostro Paese. Almeno altri 12 candidati (8 della Lega, 2 di Fratelli d’Italia e 2 di Forza Italia) hanno condiviso quel documento. La cosa, però, è passata inosservata, perché i media si sono concentrati sulla scelta di consentire ai bambini l’accesso ai padiglioni dove erano esposti fucili e pistole. Oggi però, torna di attualità. E non solo per l’imminente discussione del disegno di legge della Lega sulla legittima difesa, il cui senso è già stato anticipato dal ministro dell’Interno (“il cittadino che si difende non deve essere processato”). In agenda ci sono altre due scadenze fondamentali per la lobby delle armi. La legittima difesa - Con il documento (punto 8) Salvini si è vincolato “a tutelare prioritariamente il diritto dei cittadini vittime di reati a non essere perseguiti e danneggiati (anche economicamente ) dallo Stato e dai loro stessi aggressori”. È l’interesse di chi vuole difendersi in casa propria o nel proprio negozio, sparando. Il caso Stacchio, per capirci. Il disegno di legge leghista depositato in Commissione Giustizia al Senato modifica l’articolo 52 del Codice penale, introducendo proprio la “presunzione di legittima difesa” a cui si può appellare “colui che compie un atto per respingere l’ingresso o l’intrusione mediante effrazione o contro la volontà del proprietario (…) con violenza o minaccia di uso di armi di una o più persone, con violazione di domicilio”. In soldoni, viene cancellata la necessità di dimostrare la proporzionalità tra difesa e offesa. Si spara, e poi si vede. Casualmente, è ciò che ha chiesto il Comitato. La direttiva europea - Ma ancor più importante, per la lobby, è il recepimento delle modifiche volute da Bruxelle alla direttiva europea numero 477 (da cui il nome del Comitato). La riforma è nata sull’onda dello sconcerto per la strage di Charlie Hebdo, quando i terroristi entrarono nella redazione del giornale satirico di Parigi, uccidendo 12 persone a colpi di kalashnikov. Le indagini hanno dimostrato che quei fucili provenivano dal giro dei poligoni francesi, dove, come in Italia, i più appassionati chiedono di sparare con costose armi d’assalto. La riforma della 477 ha, dunque, l’obiettivo di limitarne la circolazione e introduce norme anche per ridurre la disponibilità dei caricatori. Si tratta di un passaggio cruciale. A seconda di come l’Italia recepirà le novità, infatti, si potrebbero aprire o chiudere importanti occasioni di mercato. E non è un caso che il Comitato e le associazioni, attraverso siti e riviste specializzate, seguano ogni singolo passaggio della riforma, che avrebbe dovuto conoscere, lo scorso 22 giugno, uno snodo fondamentale. Quel giorno scadeva il termine per i pareri delle commissioni parlamentari sullo schema di legge predisposto dal governo Gentiloni, ma, con un blitz, il nuovo parlamento a trazione leghista si è dato altri 40 giorni di tempo, rimandando il termine al 31 luglio e assecondando le istanze del Comitato che insiste per evitare di inserire troppe regole. “Continuiamo a sostenere l’azione del Comitato, che per la prima volta ha dimostrato come la comunità dei possessori d’armi, se unita, può fare veramente la differenza”, è stato il commento di Firearms united a questa prima battaglia vinta. La guerra però è ancora lunga. Ma la lobby, a questo punto, si sente garantita da Salvini. Scrive Armi e Tiro, rivista di settore vicina alle posizioni del Comitato: “L’Unione europea ha adottato misure manifestamente sproporzionate. I parlamentari della Lega-Salvini premier, hanno manifestato una grande attenzione ai diritti dei cittadini appassionati di armi”. Del resto, nell’impegno firmato da Salvini si fa esplicito riferimento (punto 4) al modo in cui il Governo avrebbe dovuto recepire la “direttiva armi”. Sì dirà che niente c’entra con questo, che trattasi di una generica promessa fatta in campagna elettorale senza obblighi contrattuali. E però, a domanda, il presidente del Comitato spiega: “Dopo la vittoria elettorale Salvini è stato troppo impegnato, ma abbiamo continui contatti con esponenti della Lega di cui non voglio fare i nomi”. I poligoni privati - C’è poi una terza scadenza che preoccupa la lobby. Riguarda l’emanazione da parte del Viminale del regolamento per i poligoni privati. In Italia ci sono due tipi di strutture in cui si può sparare: quelle “pubbliche” del Tiro a segno nazionale (Tsn), in cui vigono norme di sicurezza molto severe e rigorosi controlli; quelle “private” per le quali si parla da anni di far west normativo. I controlli sono scarsi, in alcuni poligoni viene data la pistola in mano anche a chi non ha la licenza e basta farsi un giro su Google per trovare fotografie di campi tiro abborracciati, copertoni di automobili usati come protezione e linee di tiro occupate da cecchini improvvisati che impugnano M16, AR15 e altri fucili di uso militare. È dal 2010 che il ministero deve scrivere un regolamento ad hoc ma, a causa delle pressioni della lobby, non lo ha mai fatto. Nel marzo del 2017 gli uffici del ministero, allora retto da Marco Minniti, hanno finalmente prodotto una bozza di decreto che però ha mandato su tutte le furie il Comitato D-477 e le altre associazioni che sono riuscite, con la nuova legislatura, a bloccarla. A mandare all’aria lo schema di regolamento del 2017, una interrogazione parlamentare presentata dalla senatrice leghista Anna Bonfrisco, che ha chiesto al ministro dell’Interno (allora uscente) “di porre la massima attenzione ai possibili effetti sull’occupazione, diretta ed indiretta, che deriverebbero dall’introduzione di nuove regole in un settore che, in tanti anni di attività ha sempre funzionato senza creare particolari problemi per la sicurezza e per l’incolumità dei cittadini”. Con la bozza ferma in Parlamento, il settore continuerà a macinare milioni di euro. Grazie a una legge del 1931. Anche ai domiciliari non si sfugge all’evasione Italia Oggi, 16 luglio 2018 A volte il carcere è preferibile agli arresti domiciliari insostenibili, ma non si sfugge al reato di evasione. Una scena inverosimile ma reale, come descritta nella sentenza 14502/2018 del 23 marzo. Nel 2007 un uomo era stato condannato dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere a scontare la sua pena con gli arresti domiciliari. Nel 2010 l’uomo però si allontanò dall’abitazione chiamando i carabinieri per farsi prelevare in un bar vicino casa sua. Motivo? L’ambiente famigliare risultava talmente insopportabile da preferire un “tranquillo” soggiorno tra le sbarre. La vicenda arrivò fi no alla Corte d’appello di Napoli che però “ha ritenuto di escludere l’elemento soggettivo del reato in relazione alla condotta del ricorrente”, come si legge nel dispositivo. Ma a tale situazione particolare ha opposto ricorso il procuratore generale della repubblica, “deducendo la violazione di legge e il vizio di motivazione con riferimento all’art. 385 cod. pen., essendo l’elemento soggettivo del reato di evasione dagli arresti domiciliari integrato dal dolo generico”. La vicenda è stata analizzata dagli ermellini di piazza Cavour che, in punto di diritto, hanno quotato positivamente il ricorso del procuratore generale perché “nel fatto commesso dall’imputato non può essere esclusa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato”. Infatti nel reato di evasione dagli arresti domiciliari il dolo è generico, “e consiste nella consapevole violazione del divieto di lasciare il luogo di esecuzione della misura senza la prescritta autorizzazione”, chiariscono i giudici, “a nulla rilevando i motivi che hanno determinato la condotta dell’agente”. Infatti la condotta dell’uomo “si è qualificata dalla volontà specifica di darsi alla macchia e/o di approfittare dello status di libero per delinquere, ossia da un atteggiamento psicologico che non solo non è previsto dalla norma, ma al più può rappresentare un movente, come tale non rilevante per la configurabilità del delitto”. E quindi “neppure l’esigenza di sottrarsi al clima conflittuale creatosi con i familiari che lo ospitavano, nel corso della restrizione domiciliare, peraltro asserita dall’imputato, ne esclude il dolo di evasione”. Sul segreto professionale le garanzie dei giudici di Marina Castellaneta Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2018 Il sequestro e l’esame di documenti che potrebbero rientrare nel diritto degli avvocati al segreto professionale è possibile solo se le misure sono necessarie in una società democratica e nel rispetto delle regole della rule of law. La Corte europea dei diritti dell’uomo torna sul privilegio degli avvocati con la sentenza sul ricorso 39731/12 contro la Norvegia. A rivolgersi a Strasburgo un avvocato sospeso dalla professione perché accusato di alcuni reati. Gli erano stati sequestrati documenti e copie del disco fisso. Tuttavia, in base al diritto interno, alcuni documenti, in via presuntiva, dovevano essere considerati coperti dal segreto professionale e, quindi, in via preventiva, spettava al tribunale individuare il materiale sequestrabile. La Cedu ha precisato che il segreto professionale può essere derogato solo in casi eccezionali e con alcune misure di salvaguardia da abusi. Se il ricorrente può chiedere un controllo dinanzi a un giudice, la Convenzione europea è rispettata anche quando non è consentito un accertamento sulla sussistenza di indizi in via preliminare rispetto all’autorizzazione a perquisire l’ufficio del legale. Rispetto alle garanzie di una società democratica, Strasburgo dà il via libera ad alcune attività per accertare reati ma chiede, ad esempio, che alle perquisizioni sia presente un rappresentante dell’Ordine. Segnalazioni antiriciclaggio: fatture false e prelievi monitorati di Laura Ambrosi Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2018 Un terzo delle segnalazioni di operazioni sospette deriva da violazioni fiscali associate ad attività di auto-riciclaggio o strumentali a condotte più gravi commesse da organizzazioni criminali attraverso frodi fiscali anche internazionali, caratterizzate da flussi da o verso Paesi a rischio, o con sistemi di false fatturazioni. Alcune fattispecie segnalate riguardano poi la costituzione di società da parte di prestanome e con versamento fittizio del capitale nonché l’utilizzo irregolare di factoring. È l’interessante situazione che emerge dall’analisi svolta dalla Uif della Banca d’Italia nel terzo bollettino, pubblicato la scorsa settimana, sull’esame delle casistiche di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo. Il documento è utile per chi, professionisti compresi, deve adempiere agli obblighi antiriciclaggio e in particolare alla segnalazione delle operazioni sospette apprese nel corso dell’attività. La normativa non prevede in concreto quando far scattare la segnalazione, ma la impone quando il professionista sa (o sospetta o ha motivi ragionevoli per sospettare) che siano in corso (siano state compiute o tentate) operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo o che comunque i fondi, a prescindere dalla loro entità, provengano da attività criminosa. Per tale ragione la Uif divulga le segnalazioni più significative che rappresentano un importante riferimento. Vediamo i casi più interessanti. Affitto di azienda e società fallita. Pochi giorni prima di essere dichiarata fallita una società concedeva in affitto a terzi, poi rivelatisi prestanome, un ramo d’azienda. La stipula del contratto appariva finalizzata a mantenere il possesso dei beni e all’esercizio del diritto di prelazione all’acquisto di cui gode l’affittuario dell’impresa dichiarata fallita. L’operazione è stata segnalata per l’emissione di numerosi assegni circolari richiesti da un membro della società poi fallita in favore di altro soggetto riconducibile a una società di nuova costituzione affittuaria dell’azienda. Rientro di capitali con fittizio acquisto. Un imprenditore riceveva bonifici da una società estera con causale relativa a un preliminare di compravendita immobiliare. In realtà il titolare effettivo della società ordinante era lo stesso imprenditore. La compravendita fittizia consentiva di rimpatriare fondi detenuti illegalmente all’estero e non dichiarati. Crediti di imposta inesistenti. Una società poneva in essere operazioni di disposizione di crediti Iva di ingente ammontare vantati nei confronti dell’Erario, per il periodo d’imposta precedente. L’ammontare dei crediti era sproporzionato rispetto ai volumi di attività della società. False fatturazioni nell’edilizia. Una ditta individuale, attiva nel settore edile, effettuava una rilevante movimentazione in contanti riconducibile a false fatturazioni. È poi emersa una serie di rapporti finanziari tra diverse società, attive in Italia e all’estero in comparti eterogenei e riconducibili a un gruppo di soggetti direttamente o indirettamente collegati a diverse consorterie mafiose. Il sospetto è stato innescato dagli ingenti prelievi di contante eseguito dalla ditta, di recente costituzione, con sede nel Sud Italia e riconducibile a un ragazzo di giovane età. Costituzione di società con versamento fittizio del capitale. In sede di costituzione di alcune Srl, i soci hanno effettuato conferimenti tramite assegni risultati falsi. Una delle società ha acquisito una partecipazione in un intermediario finanziario, successivamente cancellato dagli elenchi dalla competente Autorità di vigilanza. Riciclaggio dei proventi di una frode nel factoring. Nell’ambito di un’operazione di smobilizzo di crediti, il debitore ceduto non effettua i pagamenti dovuti che, invece, vengono effettuati da altra impresa riconducibile al titolare della società cedente. Una parte dei finanziamenti ottenuti è reinvestita, con un giro di fondi tra persone fisiche e giuridiche collegate, in compravendite immobiliari. Falsa rappresentazione contabile. Numerose segnalazioni descrivevano l’opacità della proprietà di una società attiva nella produzione di macchinari industriali che, tramite il legale rappresentante, aveva chiesto l’apertura di rapporti continuativi. Da successivi approfondimenti emergeva che la titolarità effettiva era riconducibile a un imprenditore fallito, condannato per bancarotta fraudolenta. L’esame dei bilanci avvalorava l’ipotesi che l’imprenditore si apprestasse a reiterare l’illecito. Riciclaggio tramite polizze assicurative. I fondi provenienti da evasione erano usati per sottoscrivere polizze poi cedute a un soggetto diverso dall’originario contraente poco prima della richiesta di liquidazione finalizzata al trasferimento del ricavo netto in paradiso fiscale. Il sospetto scaturiva dalla richiesta di riscatto totale delle polizze vita emesse dalla società, tramite accredito su un conto estero intestato al richiedente presso una banca con sede in uno Stato a fiscalità privilegiata. Per il furto del borsello dentro il carrello della spesa scatta l’aggravante della destrezza di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2018 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 14 giugno 2018 n. 27390. La circostanza aggravante della destrezza di cui all’articolo 625, comma 1, numero 4, del Cp, richiede un comportamento dell’agente caratterizzato da particolari - ossia speciali, ancorché non straordinarie - abilità, astuzia o avvedutezza, ossia in qualificazioni del suo agire che si aggiungono alla condotta furtiva in sé considerata. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 2730 del 14 giugno 2018. ? Nel caso specifico la Corte ha ritenuto correttamente ravvisata la destrezza nell’impossessamento di un borsello che la persona offesa aveva lasciato incustodito momentaneamente all’interno del carrello della spesa, sul rilievo delle modalità dell’impossessamento, realizzato non su un oggetto posato in bella vista sul carrello, bensì ben inserito all’interno dello stesso, onde l’imputato, per sottrarlo, aveva dovuto agire con particolare sveltezza e repentinità, dimostrando una non comune abilità esecutiva. La decisione è in linea con la recente decisione delle sezioni Unite, 27 aprile 2017, Quarticelli, secondo cui la circostanza aggravante della destrezza richiede un comportamento dell’agente, posto in essere prima o durante l’impossessamento del bene mobile altrui, caratterizzato da particolare abilità, astuzia o avvedutezza, idoneo a sorprendere, attenuare o eludere la sorveglianza sul bene stesso; sicché non sussiste detta aggravante nell’ipotesi di furto commesso da chi si limiti ad approfittare di situazioni, dallo stesso non provocate, di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore della cosa. Con tale decisione, come è noto, le sezioni Unite hanno preso le distanze dall’orientamento meno restrittivo in forza del quale per la configurabilità dell’aggravante della destrezza sarebbe sufficiente che l’agente approfitti di una condizione contingentemente favorevole, o di una frazione di tempo in cui la parte offesa ha momentaneamente sospeso la vigilanza sul bene, in quanto impegnata, nello stesso luogo di detenzione della cosa o in luogo immediatamente prossimo, a curare attività di vita o di lavoro (tra le altre, Sezione V, 18 febbraio 2015, Marcelli). Al contrario, le Sezioni unite hanno fatto proprio l’orientamento più rigoroso in forza del quale l’aggravante della destrezza è configurabile solo in presenza di condotte caratterizzate da una speciale abilità nel distogliere l’attenzione della persona offesa dal controllo e dal possesso della cosa (cfr. Sezione II, 18 febbraio 2015, Di Battista), di guisa che l’aggravante è da escludere allorquando l’agente abbia commesso il furto semplicemente approfittando della situazione di assenza di vigilanza sulla res da parte del possessore (Sezione IV, 10 novembre 2015, Cammareri). Configurabilità dell’aggravante del metodo mafioso. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2018 Reati - Estorsione - Aggravante del metodo mafioso - Configurabilità - Criteri. La configurabilità della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 del decreto legge n. 152/1991 conv. nella legge n. 203/1991, ovvero l’avvalersi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., si determinano avendo riguardo ai profili costitutivi dell’azione tipica del consorzio mafioso, consistenti nell’impiego della forza di intimidazione del vincolo associativo e nella condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva, con la conseguenza che gli ulteriori aspetti presi in considerazione dall’art. 416-bis cod. pen. non assumono valore qualificante. (Fattispecie relativa al reato di estorsione in cui l’autore del reato aveva usato implicita ma inequivoca minaccia a motivo dell’ubicazione dell’attività commerciale della persona offesa in zona sottoposta al controllo di una cosca criminale). • Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 27 giugno 2018 n. 29416. Reato - Circostanze - Aggravanti in genere - Estorsione - Aggravante di cui all’art. 7, l. n. 203 del 1991 - Caratteristiche della condotta minacciosa - Fattispecie. La “ratio” sottostante all’aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 7, l. 203/91, risiede nel fine di contrastare in maniera più decisa, data la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, partecipi o non di reati associativi, utilizzino metodi mafiosi, cioè si comportino come mafiosi oppure ostentino, in maniera evidente e provocatoria, una condotta idonea a esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione che sono proprie delle organizzazioni della specie considerata. • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 2 gennaio 2017 n. 32. Reato - Circostanze aggravanti - Aggravante speciale del metodo mafioso - Configurabilità - Presupposti - Fattispecie. Ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 7, legge n. 203 del 1991 è necessario l’effettivo ricorso, nell’occasione delittuosa contestata, al metodo mafioso, il quale deve essersi concretizzato in un comportamento oggettivamente idoneo a esercitare sulle vittime del reato la particolare coartazione psicologica evocata dalla norma menzionata e non può essere desunto dalla mera reazione delle stesse vittime alla condotta tenuta dall’agente. (Nella fattispecie la Suprema corte ha negato che la ricorrenza della circostanza aggravante potesse escludersi per il fatto che la vittima si era immediatamente rivolta alle forze dell’ordine). • Corte di cassazione, sezione II penale, sentenza 13 novembre 2015 n. 45321. Reato - Circostanze aggravanti - A effetto speciale - Metodo mafioso - Configurabilità. L’aggravante del metodo mafioso - a effetto speciale, poiché in forza di essa la pena è aumentata da un terzo alla metà - è configurabile rispetto a ogni delitto, non punito con l’ergastolo, realizzato attraverso una condotta specificamente evocativa della forza intimidatrice derivante dal gruppo associativo di stampo mafioso, indipendentemente dal fatto che il soggetto agente faccia parte o meno del sodalizio mafioso, non potendo invece essere desunta dalle mere caratteristiche soggettive di chi pone in essere la condotta, anche in concorso con altri. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 13 ottobre 2014 n. 42818. Reati - Aggravante del sodalizio mafioso - Configurabilità - Fattispecie. La circostanza aggravante di cui all’articolo 7 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito dalla legge 12 luglio 1991 n. 203 configurabile rispetto a ogni delitto, punito con sanzione diversa dall’ergastolo, che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del Cpovvero al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso, si applica sia alla condotta di colui che, facendo parte di un’organizzazione criminosa dotata degli elementi costitutivi delineati dall’articolo 416-bis del Cp, ricorra a metodi mafiosi per la commissione dei singoli reati o agisca al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, sia alla condotta di colui che, pur non essendo organicamente inserito nel sodalizio di stampo mafioso, evochi la forza di intimidazione promanante in un certo ambito territoriale dall’associazione di stampo mafioso e sfrutti le conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà del contesto sociale per la più agevole commissione degli illeciti. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 11 maggio 2004 n. 22629. Verona: a Montorio i detenuti sono quasi 200 oltre la capienza massima veronasera.it, 16 luglio 2018 Il Garante Margherita Forestan ha illustrato la sua relazione annuale (riferita al 2017) sul carcere veronese durante l’ultimo Consiglio comunale. A fine 2017 - ha spiegato la garante - le persone detenute a livello nazionale sono salite ad oltre 57mila, 3mila in più rispetto al 2016 e i posti disponibili sono sempre 50mila circa. In riferimento al carcere di Montorio, la popolazione carceraria è passata dai 470 detenuti del 2016 ai 513 del 2017, con 196 detenuti in eccesso rispetto alla capienza della struttura. I dati più recenti ci indicano nel 34% del totale della popolazione detenuta è composta da persone coinvolte nel mondo della droga, con in crescita il numero di cittadini stranieri provenienti dall’area del Maghreb e Centro Africa. Una situazione che accresce indubbiamente le situazioni di disagio all’interno dell’istituto penitenziario. Da considerare che gli episodi di violenza e di sopraffazione registrati nel 2017 sono stati 1.429, tra i quali risultano più frequenti: incendi dolosi, danneggiamenti gravi, risse, manifestazioni di protesta collettive, tentati suicidi; e nei confronti del personale: aggressioni, minacce e oltraggio. Sono stati 545 i colloqui individuali e 12 di gruppo tra il garante e le persone detenute. Nonostante i 142 giorni trascorsi in carcere il tempo non basta mai e le richieste spaziano dal privato al mondo della pena, dalla spiegazione dei contenuti delle sentenze alla verifica delle istanze, dai solleciti alle istituzioni alle necessità mediche, dalle piccole proteste alle proposte collettive alla semplice necessità di una parola di sostegno. Questi i principali problemi che emergono: la territorialità della pena; la necessità di rendere più facili gli accessi dei famigliari; la difficoltà di produrre i documenti familiari e telefonici per poter chiamare le famiglie, soprattutto in paesi dove non esistono uffici anagrafici; il problema del lavoro e la richiesta di accedere alle comunità terapeutiche da parte della popolazione carceraria sia italiana che straniera. Venezia: dare un’occasione di riscatto e futuro fuori dal carcere La Nuova Venezia, 16 luglio 2018 È l’obiettivo dell’associazione Fondamenta delle convertite ora alla ricerca di volontari per assistere i detenuti nei lavori socialmente utili. “Cerchiamo volontari - gari, giovani - che abbiano voglia di dare ai detenuti e alle detenute di Santa Maria Maggiore e della Giudecca - che il Tribunale di sorveglianza ha ritenuto abbiano i titoli - l’opportunità di lasciare di tanto in tanto il carcere, per trascorrere una giornata da persone libere visitando un museo o vendendo nei mercatini i prodotti realizzati nei laboratori del carcere”. A lanciare l’appello sono Paolo Sprocati e Gianni Trevisan: il primo ex assessore e già ai vertici di Insula, neo presidente dell’associazione Fondamenta delle convertite (dal nome della riva che porta al carcere della Giudecca); il secondo mentore esterno della nuova associazione, dopo aver guidato per 25 anni la coop sociale Il Cerchio. “Abbiamo voluto questo progetto per riunire le forze di quanti che seguono il mondo del lavoro in carcere”, spiega ancora Sprocati, “e che negli ultimi anni si sono dovuti concentrare molto sulle attività lavorative, per riuscire a stare sul mercato della libera concorrenza. Le forze sono ristrette, mentre ci sono ambiti nei quali si può fare molto: come, nell’immediato, l’assistenza per permettere ai detenuti e alle detenute che hanno ottenuto un permesso di lasciare il carcere dalla mattina alla sera. In prospettiva anche quello di seguirli nelle ore dei lavori socialmente utili, che per legge i detenuti ammessi alla semi libertà o a qualche permesso, devono eseguire come forma di risarcimento alla collettività, ma che invece non hanno l’opportunità di fare, perché manca la struttura di supporto. Quella che ci proponiamo di costruire, trovando anche le attività”. In attesa di far crescere l’associazione (chi fosse interessato può scrivere a fondamentaconvertite@gmail.it), il gruppo ha organizzato importanti occasioni di socialità come il pranzo di Natale e Pasqua in carcere. “Sarebbe bello ricreare appuntamenti come la sfilata che ha visto insieme detenute e agenti”, ricorda Trevisan. In consiglio, rappresentanti delle coop sociali Il Cerchio, Il Granello di Senape, Rio Terà dei Pensieri e contatti con Caritas e Comune. Napoli: cambia l’orario delle visite, alta tensione nel carcere di Poggioreale di Valerio Papalia fanpage.it, 16 luglio 2018 Una giornata da dimenticare, quella di ieri sabato 14 luglio, per il carcere napoletano di Poggioreale: 40 detenuti, al termine dell’ora, si sono rifiutati di tornare nelle proprie celle per protestare contro la modifica degli orari di visita da parte dei parenti. È un periodo ad alta tensione quello che si sta vivendo nel carcere napoletano di Poggioreale. Il culmine è stato raggiunto nella giornata di sabato 14 luglio quando intorno alle 15, al termine dell’ora d’aria, 40 detenuti italiani - tutti ristretti nel reparto Avellino - si sono rifiutati di fare ritorno nelle loro celle. Stando a quanto si apprende, si tratterebbe di una protesta contro la modifica degli orari delle visite da parte dei parenti, che hanno portato a un malcontento diffuso all’interno dell’istituto di pena partenopeo. La situazione, che stava diventando incandescente, è rientrata soltanto dopo una lunga trattativa tra il Comandante di Reparto e i detenuti, che solo allora sono rientrati nelle proprie celle. Sempre sabato e sempre nel reparto Avellino del carcere di Napoli, un detenuto ha improvvisamente dato fuoco al materasso all’interno della sua cella: soltanto il pronto intervento degli agenti della Polizia Penitenziaria ha evitato che l’incendio si propagasse e causasse danni più ingenti. A riferire quanto sta accadendo nel carcere di Poggioreale è l’Osapp, l’Organizzazione sindacale autonoma di Polizia Penitenziaria, che rende nota la difficile situazione in cui sono costretti a lavorare gli agenti, sempre in affanno per la carenza di personale, tra risse e malumori. Carinola (Ce): venti detenuti ammessi al lavoro esterno per attività di utilità sociale napolivillage.com, 16 luglio 2018 Venti detenuti della casa di reclusione di Carinola ammessi al lavoro esterno per attività di utilità sociale presteranno il proprio contributo per la sistemazione di alcuni locali e la piccola manutenzione edile nelle sedi della Camera di Commercio di Napoli. È il contenuto di un accordo stipulato tra la direzione della casa di reclusione e l’ente camerale partenopeo. L’intesa è stata siglata tra Carmen Campi, direttore della casa di reclusione di Carinola, e Girolamo Pettrone, commissario straordinario dell’ente camerale partenopeo. “L’accordo, reso possibile dalla normativa che stabilisce i lavori di utilità sociale extracarcerari, garantisce un duplice vantaggio - ha dichiarato il direttore - da un lato, favorire l’offerta di un modello di relazione utile al reinserimento socio-lavorativo di detenuti meritevoli che avranno la possibilità di espiare parte della pena fuori dall’istituto impegnandosi dall’altro, contribuire al risparmio della Camera di Commercio per quanto riguarda la spesa per i lavori programmati”. Per Pettrone questa iniziativa sociale comporta un risparmio per l’ente di oltre 350mila euro. “Si tratta di un’iniziativa - ha affermato - dal forte connotato sociale e di collaborazione istituzionale che si ritiene debba essere replicata sul territorio”. Ancona: la scuola e il carcere, un progetto per incontrarsi tra studenti e detenuti qdmnotizie.it, 16 luglio 2018 Uno scritto può permettere di uscire dalle proprie “quattro mura” per incontrarsi. Questo è il progetto realizzato da alcuni detenuti del carcere di Montacuto di Ancona con gli alunni delle classi prime della scuola secondaria di primo grado Lorenzini e le classi quinte delle primarie Cappannini e Collodi dell’Istituto Comprensivo San Francesco di Jesi. “Sono architetture - dichiarano le insegnanti - che abbattono virtualmente le loro barriere e diventano luoghi per scambiarsi idee, per conoscere l’altro, per arricchire e sviluppare nuovi modi di relazione, per accettare il diverso e crescere proiettandosi avanti liberi nelle idee e sgombri da pregiudizi”. Un carcere e una scuola, luoghi che insegnano e segnano la vita. Uomini reclusi che scrivono un libro, “Fiabe in libertà” in cui raccontano di un lupo bianco che liberano dalla sua vita accidentata. Bambini che, con l’aiuto delle loro insegnanti, leggono la fiaba, la modificano facendola propria, cambiando i sentieri che il lupo percorre, che cade e poi si rialza. Un viaggio, quello del lupo, che rappresenta un’esperienza di vita reale che si trasforma in un percorso di crescita. L’errore e la stessa pena possono e devono essere superati e non stigmatizzati, il tragitto non è sempre semplice, ma ci si rialza aiutandosi e aiutando. Le porte si sono aperte il 17 giugno quando alcune insegnanti coinvolte nel progetto sono state ricevute dalla direttrice del carcere, Santa Lebboroni e da alcuni suoi collaboratori presso la sede di Montacuto. L’occasione è stata il momento per un confronto, per presentare i lavori realizzati dai bambini e dai ragazzi all’interno dei Progetti di Lettura e Continuità, poi raccolti in un libro che è stato donato alla direttrice che ha espresso grande soddisfazione per l’attività svolta. Trieste: “Sport in Carcere”, al Coroneo il progetto per il recupero dei detenuti triesteprima.it, 16 luglio 2018 Il progetto prevede la possibilità di intervenire all’interno della struttura penitenziaria con alcune attività, allo scopo di tentare, attraverso la pratica sportiva, di migliorare la condizione dei detenuti. Ha avuto luogo, presso la sala conferenze della Casa Circondariale di Trieste, la presentazione ufficiale del Progetto “Sport in Carcere” alla presenza, tra gli altri, del Direttore del Carcere triestino dott. Ottavio Casarano, del presidente del Comitato Regionale del Coni ing. Giorgio Brandolin, della senatrice Tatiana Roic e del Delegato Coni di Trieste prof. Ernesto Mari. Il Progetto è partito a seguito di una convenzione firmata dal Direttore della Casa Circondariale e dal Presidente Regionale del Coni e prevede la possibilità di intervenire all’interno della struttura penitenziaria con alcune attività, allo scopo di tentare, attraverso la pratica sportiva, di migliorare la condizione dei detenuti, consentendo loro di partecipare ad attività organizzate e strutturate. Il dott. Casarano ha dichiarato, nel suo intervento, di appoggiare in maniera totale l’iniziativa, confidando nell’interesse che questa potrebbe suscitare da parte dei detenuti e ribadendo come lo sport, inteso anche come rispetto degli altri e delle regole, possa consentire una crescita individuale per agevolare l’inserimento dei detenuti nella società. Ha anche anticipato che, vista la carenza di spazi adeguati all’interno della struttura di via Coroneo, è allo studio la possibilità di prevedere nel futuro la creazione di un ampio spazio all’interno del Carcere adibito all’attività sportiva, per la quale è già previsto un finanziamento. Il presidente del Comitato del Coni del Friuli Venezia Giulia Giorgio Brandolin ha ribadito il grande interesse per l’iniziativa, ricordando che è in vigore un protocollo di intesa a livello nazionale firmato dal Presidente Malagò e dai Ministri della Giustizia Cancellieri e Orlando, e garantendo il massimo impegno da parte del Coni e delle Federazioni Sportive interessate. Ha inoltre ringraziato tutti i Docenti e tecnici che a vario titolo saranno impegnati nelle varie attività in questa sperimentazione, che si spera possa essere confermata e implementata del 2019. Ha preso quindi la parola la senatrice Tatiana Roic, portando i saluti istituzionali e suoi personali. Si è dichiarata molto interessata e favorevolmente colpita dall’iniziativa e ha garantito, per quanto in suo potere, il massimo appoggio, concordando soprattutto sul suo valore educativo e ribadendo che i detenuti sono persone che, anche se hanno sbagliato, hanno il diritto di essere considerate parte integrante della società, e ogni progetto che possa consentire loro di migliorarsi come persone, pensando ad un futuro reinserimento nella società civile, deve essere supportato e condiviso. Il Delegato del Coni di Trieste Ernesto Mari, infine, ha dapprima ringraziato il Direttore dott. Casarano e le responsabili dell’Area Pedagogica del carcere dott.sse Bonuomo e Miccoli per il sostegno e la collaborazione e poi ha illustrato il Progetto e gli interventi previsti. In sostanza ci saranno dei corsi di educazione fisica per i detenuti maschi (tenuti dai Docenti della Scuola dello Sport proff. Tiziano Vidoni e Vincenzo Stera) e per le detenute (tenuto dalla prof.ssa Patrizia Montaguti) e interventi della Federazione di atletica con i tecnici Omar Fanciullo e Lorenzo Cristoforo Masucci, della Federazione Calcio con i tecnici Lorenzo Cernuta e Giorgio Ianza e della Federazione scacchi con Massimo Varini. Da parte del Direttore è stato ricordato anche che la Triestina Calcio ha voluto partecipare all’iniziativa inviando del materiale sportivo da distribuire ai detenuti. È stato specificato inoltre che il Progetto parte in questi giorni per concludersi entro la fine del corrente anno: la speranza, ribadita da tutti, è che possa riprendere nel 2019, magari anche con l’inserimento di ulteriori discipline sportive. Né la vendetta né la punizione. Riparazione, l’altra via della giustizia di Carlo Baroni Corriere della Sera, 16 luglio 2018 Il caso del Sudafrica nel saggio di Claudia Mazzucato, Gian Luca Potestà e Arturo Cattaneo (il Mulino): un Paese che è la patria dell’altro, epicentro di culture lontane. Verità e Riconciliazione sono due parole che non potrebbero camminare insieme. Magari procedere sulla stessa strada, ma a distanza l’una dall’altra. Alla fine della Verità c’è la giustizia (qualche volta) o la vendetta (più spesso). Perché certe cose è meglio non saperle. La Verità è un esercizio di memoria. Si porta dietro le scorie di una vita. Raggiungerla ci farà liberi ma non è detto che ci renda migliori o più buoni. Per ricongiungere Verità e Riconciliazione ci vuole un atto creativo. Il coraggio di capovolgere i ruoli. Vittime e carnefici si devono scambiare gli abiti e vedersi, per la prima volta, nei panni dell’altro. Storie di giustizia riparativa, pubblicato dal Mulino, è un libro che racconta questo cammino. Nel Paese dove era più improbabile che succedesse. O forse proprio per questo: il Sudafrica del post-apartheid. Lacerato e diviso. Un puzzle di odî e rancori quasi impossibile da ricomporre. Ma, come scrive Claudia Mazzucato - una delle curatrici del libro, insieme con Gian Luca Potestà ed Arturo Cattaneo, tutti docenti all’Università Cattolica di Milano - “per chi si occupa di diritto e giustizia luoghi così non possono che esercitare un interesse irresistibile, forse addirittura un fascino”. Il Sudafrica è la patria dell’”altro”, l’epicentro di culture e storie che, a prima vista, non hanno niente da dirsi. Figuriamoci condividere una strada. Il “Paese arcobaleno” non è solo lo slogan riuscito per attrarre turisti. Undici lingue ufficiali, decine di etnie diverse. Un cocktail imbevibile per più di tre secoli, l’unica bevanda possibile dal giorno della liberazione di Nelson Mandela. Il faticoso ritorno di Gandhi: la via sudafricana alla mano tesa, recita il capitolo introduttivo. Il Mahatma che, per uno degli strani percorsi della vita, cominciò la sua carriera di avvocato proprio in Sudafrica, a Durban: città, ancora oggi, popolata da un’ampia comunità di origine indiana. E nel Sudafrica coloniale maturò l’idea che ci potesse, ci dovesse essere una via pacifica alla ribellione. Quel “non volere restituire il colpo” che disinnesca il processo di sangue e vendetta. La Commissione verità e riconciliazione, istituita a metà degli anni Novanta, con alla guida Desmond Tutu, “presuppone l’idea di giustizia riparativa in luogo di quella retributiva”. Come dire che al male non si risponde con il male. “Gli sforzi di un oppressore saranno vani se ci rifiutiamo di sottometterci alla sua tirannia”, scriveva Lev Tolstoj, un padre nobile della giustizia riparativa, un antesignano che ispirò Gandhi e anche Mandela. Perché “in ogni caso l’idea di giustizia come spartizione, separazione e confine deve fare i conti con la presenza dell’altro”. E a questo proposito giusto rifarsi a un libro per certi versi profetico, La conquista dell’America. Il problema dell’altro di Tzvetan Todorov. Anche la scelta di un religioso, il vescovo Desmond Tutu, poteva prestare il fianco a critiche. Termini come colpa, perdono, confessione, tipici del linguaggio religioso fecero irruzione nel dibattito politico. Al punto da paventare un’inevitabile contaminazione tra teologia e politica. Il Sudafrica aveva teorizzato per decenni la “sparizione” del diverso da noi. Fino a quando le parti si invertirono. E il “fantasma” prese consistenza politica. E decise di restare lì, guardare negli occhi l’oppressore, l’aguzzino. Resistendo all’impulso di “restituire il colpo” o anche di rimuovere il male subìto. Perdonare, forse. O semplicemente lasciar fare tutto all’oblio che, se non cancella, lenisce almeno il dolore. Ma “se non tiri fuori ciò che è dentro di te, ciò che è dentro di te ti ucciderà”, scrive in questo saggio Etienne van Heerden. Van Heerden faceva parte della comunità dei “giusti”. L’etnia bianca degli afrikaaner che dominava il Sudafrica. Che l’aveva diviso in due. Aveva teorizzato l’apartheid. E sarà un professore di Diritto costituzionale, Hans van der Riet, ad aprirgli gli occhi sull’orrore, sull’ingiustizia dentro l’università santuario dei boeri, a Stellenbosch.ù La generazione nata con l’ubuntu (l’abbraccio) arriverà decenni dopo. L’ubuntu qualcosa di così pregnante da diventare il faro della Costituzione sudafricana. Ubuntu è la chiave che ci apre all’altro per permetterci di esprimere la nostra umanità: io sono ciò che sono per merito di ciò che noi tutti siamo. L’altro è decisivo. Con il volto sorridente e le camicie a fiori di Nelson Mandela. Lo stesso sorriso di Pumla Gobodo-Madikizela, discriminata per il colore della pelle, le stesse camicie a fiori di Albie Sachs, giudice della Corte costituzionale, ferito quasi a morte in un attentato organizzato dai servizi sudafricani per il suo attivismo a favore dei diritti civili. Sono loro a pronunciare le “parole giuste dalla periferia del mondo” come scrive nella postfazione Gabrio Forti. Il cammino del Sudafrica, e del mondo intero, è ancora lungo. Migranti. Il nuovo corso dell’Italia (e i partner sbagliati) di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 16 luglio 2018 La politica sui migranti del nuovo governo italiano modifica prassi consolidate. Ma non bisogna tacere limiti e dubbi. Il sentiero è assai stretto e occorre prudenza: basterebbe un fortunale estivo per tramutare un successo in disastro. Tuttavia, se tre indizi fanno una prova, è impossibile negare che la politica sui migranti del nuovo governo italiano vada modificando, di fatto, prassi consolidate, equilibri europei che sembravano scolpiti nel marmo e che, come marmo, stavano diventando la pietra tombale della nostra convivenza democratica, trasformando le periferie italiane in bombe sociali. Dopo i casi delle navi Aquarius e Lifeline, anche stavolta spuntano da ore di febbrili trattative nostri partner disposti a fare i partner, condividendo cioè non più solo a chiacchiere la comune responsabilità europea di fronte alle migrazioni e accogliendo quote dei 450 profughi dell’ultimo barcone, salvati nel Mediterraneo dall’intervento di un battello della nostra Finanza e di uno di Frontex. Poco conta se saranno un terzo o più i migranti ricollocati, vale il principio sostanziale: non è azzardato ipotizzare che, nei fatti, si stia superando l’odioso regolamento di Dublino per il quale restavano inchiodati da noi (e in Grecia) tutti i richiedenti asilo del Mediterraneo. Buona notizia è la (manifestata) disponibilità di Francia e Germania a fare il loro. Ottima notizia è l’apparizione, infine, del nostro presidente del Consiglio non da semplice comparsa. Dopo esordi in cui era davvero sembrato il mero esecutore di un contratto alieno, Giuseppe Conte ha fatto sentire la sua voce e ha determinato una svolta durante il fine settimana nelle trattative con l’Europa, forte dell’esperienza e del sostegno del ministro degli Esteri Moavero dietro cui si staglia sempre più visibile e rassicurante il profilo di Sergio Mattarella: sicché si può sostenere che, adesso più che mai, la scrivania del premier abbia una terza gamba (oltre alla leghista e alla pentastellata) da cui trarre stabilità e autonomia, con effetti che potrebbero sorprenderci parecchio in futuro. Socio di maggioranza in materia continua a essere, com’è ovvio, Matteo Salvini. Che col suo “barbarico” puntare i piedi ha determinato la crisi del politicamente corretto che ci ingessava davanti agli europei: anche stavolta il “Capitano” ha sbarrato i porti, certo con l’ennesima scommessa sulla pelle di centinaia di profughi allo stremo. Qui sta il suo punto di forza, per ora: la sinistra è ontologicamente nell’impossibilità di perseguire soluzioni così semplici e dure (gradite forse a due terzi degli italiani); e tutte le altre soluzioni sono più complesse, hanno tempi lunghi e sono difficili da veicolare. Qui stanno però anche i limiti del salvinismo. Se vuole uscire da una estenuante estate di “casi” da cui potrebbe prima o poi saltar fuori una tragedia, Salvini ha bisogno di strategia e partner. E quanto siano sbagliati i partner che si sta scegliendo è dimostrato ancora dalle risposte del gruppo Visegrád: l’ennesimo rifiuto a collaborare dell’Ungheria di Orbán e la sortita del premier ceco Babis secondo cui la via imboccata da Conte “ci porta all’inferno” e i profughi devono restare dove stanno: da noi. Il ministro leghista è uomo di marketing e in questo periodo sta vendendo come suoi anche i successi di Minniti: i raffronti sugli sbarchi di un anno fa sono scorretti perché la svolta del ministro pd (di cui beneficia anche Salvini) iniziò appunto ad agosto 2017 e ancora oggi dispiega i suoi effetti benché gli equilibri libici di allora siano mutati. Ora, per paradosso, la scomparsa delle “odiate” navi Ong e il ritorno delle carrette del mare rendono le mosse del “Capitano” più difficili: una cosa è fermare una nave attrezzata come Aquarius, tutt’altro sarebbe respingere profughi su un barcone che affonda. Amando però il rilancio continuo, Salvini risponde al ceco Babis: aiutateci a raccogliere tutti e a riportarli in Libia. I profughi raccolti in queste ore hanno vissuto mesi in lager libici mangiando 30 grammi di pasta al giorno. Così qui l’azzardo sembra basarsi sulla durata dell’effetto Lucifero di cui parlava su queste colonne Mauro Magatti e che pare avere ipnotizzato l’Occidente e la sua psicologia di massa: oscurando non solo il ruolo della comunità europea ma il senso stesso di comune umanità. Migranti. La leggenda dei 35 euro: ora ogni rifugiato costa meno della metà di Alessandra Ziniti La Repubblica, 16 luglio 2018 Il nuovo appalto per il Cara di Mineo assegna a chi lo gestirà 15,60 euro a ospite. Ben lontano dalle cifre indicate dal Viminale. Tolte di mezzo le Ong, “ avvertite” a dovere navi militari e private che se continuano a sottrarre migranti alle amorevoli cure delle motovedette libiche possono ritrovarsi fuori dai porti italiani, l’ultima crociata che Matteo Salvini rilancia un giorno sì e un giorno no sui suoi profili social è quella sui famigerati 35 euro, il costo che - a suo dire - graverebbe sui bilanci della comunità italiana per ogni migrante “ mantenuto”. Lo ha ribadito ancora ieri in una diretta Facebook da Verona: “Siamo tenuti a garantire servizi che costano molto meno e penso che, rispettando la legge e i diritti umani, entro l’estate i nuovi appalti avranno costi assolutamente inferiori”, ha detto, annunciando l’obiettivo di un risparmio annuo di 500 milioni. Il ministro, si sa, non può essere certo “corretto”, meno che meno da una prefettura, neanche da quelle ( e sono più d’una in Italia) che una bella sforbiciata ai costi dell’accoglienza l’hanno già data. E non per passare i fondi risparmiati dalle strutture che ospitano i migranti ai rimpatri ( perché questo, come il ministro ben sa ma omette di dire non si può proprio fare), ma semplicemente perché questo già prevedeva una circolare a firma Minniti dell’anno scorso con la quale il Viminale aveva già dato disposizioni di rivedere al ribasso i costi di alcuni servizi. Lo scandalo del Cara di Mineo e del suo mega appalto da 100 milioni di euro finito nelle mani degli “amici” di Luca Odevaine e di Mafia Capitale non è, per fortuna, passato invano. E così, ad esempio, proprio dal Cara di Mineo ( lo stesso centro che Salvini ha più volte visitato da segretario della Lega prospettandone la chiusura in campagna elettorale se fosse stato eletto) arriva il più evidente esempio di risparmio. Costi più che dimezzati senza bisogno di aspettare Salvini. Le cifre parlano chiarissimo: le aziende o i raggruppamenti di imprese ( quattro e non più una sola come era prima) che da settembre subentreranno alla gestione commissariale del più grande centro per richiedenti asilo d’Europa con i suoi 2.400 ospiti prenderanno 15,60 euro a migrante per garantire alloggio, vitto, assistenza sanitaria e psicologica, pulizie, e ancora attività fondamentali per l’integrazione dei richiedenti asilo, dalle lezioni di italiano allo sport ai corsi di formazione. I cento milioni di euro dell’appaltone scandalo sono diventati 50 per tre anni nel nuovo capitolato d’appalto predisposto dalla prefettura di Catania secondo le linee guide emanate dal Viminale lo scorso anno, scesi ancora a poco più di 40 in virtù del ribasso medio dei quattro lotti sulla base d’asta. Appalto che dovrebbe essere aggiudicato a fine mese non appena gli uffici della prefettura di Catania avranno ultimato tutte le verifiche sulla certificazione antimafia delle imprese aggiudicatarie. Insomma, forse il ministro Salvini che continua a sventolare minaccioso i suoi “ tagli” all’accoglienza lasciando intendere alla sua platea di populisti che “è finita la pacchia negli hotel a 5 stelle che accolgono i migranti” e che dice di aver dato mandato agli uffici del Viminale di elaborare una “mappa di voci da tagliare” potrebbe semplicemente andare a guardare sul sito della prefettura di Catania alla voce “amministrazione trasparente” e perdere qualche minuto nell’esaminare le singole voci dei capitolati d’appalto. Giusto per citarne qualcuna a titolo esemplificativo: 7,50 per tre pasti al giorno a testa, 0,95 centesimi a testa per biancheria da letto e vestiario, 0,70 per l’assistenza sanitaria, 0,30 per il trasporto, appena cinque centesimi a testa al giorno per la lavanderia, due per il materiale didattico e ludico, un centesimo per il barbiere. A cui vanno sommati 5,20 centesimi per il personale addetto e i 2,50 centesimi quotidiani di pocket money, gli unici soldi che vanno in tasca ai richiedenti asilo. Perché ovviamente di richiedenti asilo stiamo parlando, quelli che hanno diritto a trovare ospitalità nel circuito dell’accoglienza, e non di migranti a qualsiasi titolo sul territorio italiano. Forse val la pena di ricordare anche questo per riportare i fatti ad una corretta narrazione. Ungheria. “Non prendiamo migranti, quella italiana strada per l’inferno” La Stampa, 16 luglio 2018 Dopo Francia, Malta e Germania anche Spagna e Portogallo hanno dato la loro disponibilità a prendere 50 dei 450 migranti salvati su un barcone nei pressi dell’isola di Linosa. E mentre il premier Giuseppe Conte plaude al risultato, il primo ministro della Repubblica Ceca, Andrej Babis, attacca il governo, dicendo che questa è la “strada verso l’inferno”. Aggiunge che il suo Paese “non prenderà nessun migrante” e chiede di attenersi al “principio di volontarietà” per il quale ci si era accordati al Consiglio europeo, mantenendo rigida la posizione anti immigrazione, che condivide con Polonia, Slovacchia e Ungheria. “Non accogliamo nessuno. Gli elettori ungheresi si sono espressi chiaramente alle ultime elezioni: non vogliono vivere in un paese di immigrati” dice Istvan Hollik, portavoce del gruppo parlamentare di Fidesz, il partito del premier Viktor Orban. “Gli ungheresi rifiutano il piano Soros”, aggiunge, definendo “navi Soros” quelle che salvano migranti in mare. “Questa è la solidarietà e la responsabilità che abbiamo sempre chiesto all’Europa - aveva scritto Conte su Facebook- e che ora, dopo i risultati ottenuti all’ultimo Consiglio europeo, stanno cominciando a diventare realtà”. Ma intanto la nave Open Arms dell’ong spagnola Proactiva sta di nuovo dirigendosi verso la Sar libica. È quanto segnalato sul sito Marine Traffic, che monitora le rotte delle navi. L’imbarcazione risulta seguita a breve distanza dallo yacht Astral, della stessa ong. “Anche se l’Italia chiude i porti non può mettere le porte al mare- scrive su Facebook l’organizzazione non governativa. Navighiamo verso quel luogo dove non ci sono clandestini o delinquenti, solo vite umane in pericolo. E troppi morti sul fondale”. “Risparmino tempo e denaro perché i porti italiani per loro non sono disponibili”: replica il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, in Russia. “L’Italia ha finito di essere il campo profughi del mondo”. Viveri per i migranti al largo di Pozzallo - 43 donne e 14 bambini sono sbarcati al porto di Pozzallo dopo l’autorizzazione concessa dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, a i soggetti più deboli del gruppo di circa 450 migranti soccorsi al largo di Linosa. Le condizioni di alcuni bambini sono state giudicate delicate per ustioni dovute alla prolungata esposizione al sole. Agli altri migranti saranno consegnati viveri per due giorni da una motovedetta della Guardia costiera, per loro on è stata ancora presa una decisione per lo sbarco in un porto sicuro. Dimessa dall’ospedale la donna soccorsa ieri - Buone notizie arrivano infine dall’ospedale di Modica, con le dimissioni della ventenne migrante che ieri è stata protagonista di un’evacuazione medica dalla nave Monte Sperone perché fortemente disidratata. Con lei i suoi due piccoli bambini che sono prelevati successivamente. Ancora ricoverati altri due migranti, uno per una grave forma disidratazione e l’altro per una polmonite. Turchia. Sempre più poteri per Erdogan: ora controllerà anche lo stato maggiore La Stampa, 16 luglio 2018 A stabilirlo è un decreto emanato proprio nel giorno in cui la Turchia commemora il secondo anniversario del fallito colpo di stato. Il nuovo governo turco di Recep Tayyip Erdogan controllerà anche lo stato maggiore dell’esercito. A stabilirlo è un decreto emanato oggi sulla base dei nuovi poteri del presidenzialismo, nel giorno simbolo in cui la Turchia commemora il secondo anniversario del fallito colpo di stato. Le forze armate passano così sotto l’autorità del ministero della Difesa, alla cui guida Erdogan ha nominato pochi giorni fa proprio l’ex capo di stato maggiore di Ankara, Hulusi Akar. Il decreto prevede una serie di altre modifiche alla macchina statale, tra cui il Consiglio militare supremo (Yas), che decide le nomine dei vertici delle forze armate, e il Consiglio di sicurezza nazionale (Mgk), che indica le misure da adottare nella lotta al terrorismo. Entrambi saranno convocati su ordine di Erdogan. Il presidente ha inoltre nominato 6 nuovi rettori universitari. Islam, laicità, democrazia: perché la Tunisia è sempre l’apripista del mondo arabo di Paola Piacenza Corriere della Sera, 16 luglio 2018 Duecento pagine: è il distillato della seconda rivoluzione tunisina che, a distanza di soli sette anni da quella dei gelsomini che ha innescato le “primavere” in tutto il mondo arabo, potrebbe segnare un altro importante cambio di passo nell’unico reale percorso democratico che quella stagione ha prodotto in Maghreb e in Medio Oriente. Un vero kit progressista quello compilato dalla Commissione per le libertà individuali e l’uguaglianza (Colibe) e consegnato nelle mani del presidente della repubblica, Beji Caid Essebsi: abolizione della pena di morte, soppressione dell’articolo 230 del codice penale secondo cui l’omosessualità è un reato, riforma della legge sull’eredità nella direzione di una maggior uguaglianza tra uomini e donne. Le promesse tradite - Questi i tre punti su cui promette di concentrarsi il dibattito già accesso in previsione delle elezioni legislative e presidenziali che si terranno nel 2019. Le elezioni municipali dello scorso marzo hanno consegnato il ritratto di un Paese stanco e demotivato sul piano politico: l’affluenza scarsa (35%) e, soprattutto, la defezione dei giovani hanno confermato la sfiducia nel processo democratico e la sconnessione dei cittadini dagli ideali della rivoluzione. Le promesse non sono state mantenute, la disoccupazione non è scesa, il costo della vita è aumentato, opportunità per le nuove generazione non si sono aperte e, anche se lungo la costa e nella capitale il turismo è in ripresa (quasi due milioni sono stati i visitatori stranieri da gennaio ad aprile), nell’interno, soprattutto nel bacino minerario di Gafsa, le famiglie sono ridotte in povertà. La sindaca di Tunisi - Eppure non si stanca di fare da apripista, la Tunisia. Se la pena capitale non è più applicata dal 1991 (ma continua a essere pronunciata, teoricamente ci sono 70 persone nel braccio della morte) e persino il partito islamista moderato Ennahdha, per bocca del suo anziano leader Rached Ghannouchi, sull’articolo 230 ha dichiarato di non ritenere che “pronunciarsi sull’intimità delle persone sia prerogativa dello Stato”, è sull’uguaglianza in materia di eredità che si gioca la partita. La donna, a norma di legge, in Tunisia eredita la metà dell’uomo con lo stesso grado di parentela. Una buccia di banana su cui è scivolata anche Souad Abderrahim, la vittoriosa capolista di Ennahdha a Tunisi (e appena eletta sindaca della capitale dopo lunghe negoziazioni): mentre lei in campagna elettorale rifiutava di prendere posizione su un tema così spinoso, sempre più famiglie sceglievano in autonomia di rimediare allo squilibrio attraverso donazioni tra viventi, da genitori a figli e tra fratelli e sorelle. Un tema tutt’altro che secondario, poiché chiama in causa tradizioni antichissime e il diritto di famiglia, una battaglia che ha portato in strada a manifestare migliaia di persone. E anche lo slogan viene da lontano: “Egalité”. Quale modello - Ma quale direzione sta prendendo il complesso mix di politica e religione, democrazia e tradizione, aspirazioni riformiste e consapevolezza di essere un laboratorio sotto costante osservazione tanto da parte del mondo arabo come dall’Occidente? E, soprattutto, qual è il modello? La Turchia di Erdogan o i cristiano-democratici europei? Secondo Naoufel Eljammali deputato di Ennahdha, alla guida del comitato Diritti, libertà civili e affari esteri, già ministro del Lavoro tra il 2013 e il 2014, “la luce viene da dentro, dalla Tunisia stessa. Il modello lo offre la nostra storia. Perciò offriamo al mondo la nostra esperienza, che è unica. E forniamo la soluzione: oggi noi ci definiamo “musulmani democratici”, il nostro approccio alla politica ha rotto con le movenze islamiche classiche. L’ultimo congresso di Ennahdha ha sancito la separazione netta tra religione e politica. Un modello che i nostri amici europei dovrebbero valorizzare”. Tra le poche emanazioni dei Fratelli Musulmani che non siano state represse nel mondo arabo (insieme al Partito per la Giustizia e lo Sviluppo marocchino), Ennahdha sembra aver trovato una terza via, tutta tunisina, all’Islam politico: “Se chiedi a un membro del partito se Ennahdha e i Fratelli Musulmani sono la stessa cosa ti dirà di no” commenta con un sorriso Rafik Halouani, esperto di elezioni e coordinatore della rete di cittadini Mourakiboun. E non si può dire che avrebbe del tutto torto. “Il modello tunisino è diverso da qualunque altro perché è diversa la società tunisina, da noi un pensiero religioso radicale ormai non ha più speranza di attecchire” spiega Halouani. “Senza contare che dal 2011 a oggi l’Islam politico ha cambiato rotta. I partiti politici sono emanazione della società, come da voi ora lo è la Lega di Salvini, e la società tunisina è senz’altro la più aperta di tutto il mondo arabo e di buona parte di quello musulmano. In Tunisia ha tradizionalmente vinto una visione progressista dell’Islam, è stata la prima società musulmana a interdire la schiavitù all’inizio del 1800, mentre alcuni paesi del Golfo l’hanno mantenuta fino alla prima guerra mondiale. Da noi la condizione della donna è in costante evoluzione. E non abbiamo nemmeno la tradizione dei putsch che portano i militari al potere nei momenti di crisi”. “Dignità e Verità” - Negli uffici dell’Idv, l’Istanza Dignità e Verità, nel quartiere Montplaisir di Tunisi, si prova con fatica a scrivere un nuovo capitolo della storia. Ibtihel Abdellatif, uno dei 13 membri della commissione e referente per le donne nel processo giuridico di transizione, interrompe un’audizione per parlare con noi: “La vittima nel processo in corso è lo Stato tunisino. Stiamo tirando le fila di un grande caso di corruzione in cui sono coinvolti Ben Ali e la famigli Trabelsi (la famiglia della moglie del dittatore, Leila, che molti qui chiamano “Lady Macbeth”, ndr). Ci sono uomini d’affari coinvolti, abbiamo loro ritirato il passaporto, dovranno rispondere alla giustizia convenzionale e alla giustizia transizionale. Ci dovrà essere una compensazione e miliardi di dinari rientreranno in Tunisia” conclude ottimista. “Ma la missione della Giustizia transizionale non è solo far rispettare la legge, è rivelare la verità. Per aiutare il Paese a procedere nel cammino. E ricompensare chi ha sofferto. I soldi che riusciremo a recuperare finiranno nella fondazione Karama per le vittime”. La catarsi mancata - Sessantacinquemila file relativi a violazioni dei diritti umani durante la dittatura. Ma solo 50 mila persone sentite finora. Duecento impiegati per gestire la massa di dossier e un budget risicato. L’Ivd aveva quattro anni per finire il lavoro e la possibilità di richiedere un quinto anno in caso di ritardi. E sono in molti qui a ritenere che il lavoro dell’Istanza sia stato troppo politicizzato, oltre che troppo lento, e che si sia perduta l’occasione di fornire ai cittadini una nuova idea di giustizia. La catarsi, la riconciliazione sul modello sudafricano e marocchino, non c’è stata. Le autorità non hanno mai veramente collaborato. “La contro-rivoluzione, i vecchi collaboratori del dittatore che nel frattempo si sono riciclati, hanno fatto ostruzionismo” conferma Ibtihel Abdellatif. “Ma non possiamo buttare al vento il lavoro fatto finora. Qui, in queste stanze, abbiamo organizzato un call center per accogliere richieste e rispondere a dubbi, diamo a tutti la possibilità di depositare la propria testimonianza. Abbiamo centri di riabilitazione fisica e psicologica, nove uffici regionali per essere accanto alle vittime e non costringerle a venire a Tunisi, e sei unità mobili per raggiungere anche i villaggi più remoti. Io mi sono occupata soprattutto delle donne. All’inizio rispondevano in poche, pensavano che solo gli uomini avessero diritto alla giustizia, poi hanno capito che anche le vittime “indirette”, le mogli, le figlie degli arrestati, dovevano parlare”. Tra le vittime c’è anche lei: “Se sotto Ben Ali, a causa del velo, che metto dal 1987, mi era proibito lavorare negli uffici pubblici e andare all’università, oggi ricevo regolarmente minacce per il lavoro che faccio all’Idv. Mi chiamano anche cento volte al giorno e al telefono mi fanno sentire il sonoro di uno stupro. Ho tre figli maschi che vanno all’università. Ne ho parlato con loro e abbiamo concluso che se io, che sono una leader, mollo, nessuna donna parlerà più. In questa fase non possiamo essere deboli, e siamo costretti a essere intelligenti. La rivoluzione ci ha dato una seconda vita, non possiamo tornare indietro”. Scelte simboliche - Non ha nessuna intenzione di arretrare nemmeno Mehrezia Labidi deputata di Ennahdha, già vicepresidente dell’Assemblea Costituente tra il 2011-2014. Archiviata la vittoria risicata alle municipali, guarda già al 2019: “C’è qualcosa di inquietante nella disillusione dei giovani verso la vita politica. È nostro dovere costruire un “bureau de la jeunesse” per dialogare con loro” dice. “Siamo l’unico partito politico che ha saputo produrre un’immagine di perseveranza, che ha uno zoccolo duro di seguaci. Ma non dobbiamo accontentarci, è imperativo creare ancora più apertura, più femminilizzazione, e pensare a programmi che puntino al miglioramento del quotidiano dei tunisini”. Sull’immagine finora Ennahdha ha lavorato bene: la candidata alla circoscrizione 1 di Tunisi, Soaud Abderrahim professionista affermata, tailleur e capelli al vento, ha battuto l’avversario del partito modernista Nidaa Tounes. E nella circoscrizione di Monastir il partito islamista è arrivato a candidare un membro della comunità ebraica. Scelte strumentali, dimostrative? “Ma la politica è questo: dimostrare” non esita ad affermare Labidi. “In Francia ci sono partiti che candidano i “beur” (seconde generazioni con genitori immigrati dal nord-Africa, ndr) perché vogliono dimostrare di essere aperti dal punto di vista sociale. Noi vogliamo dimostrare che crediamo nelle donne e nelle minoranze. Nella Costituzione rivoluzionaria abbiamo scritto che la Tunisia è uno stato laico, aperto a tutti i cittadini, qualunque sia il loro sesso, religione, provenienza”. “Non fare il ramadan” - Se la trasformazione è in corso, secondo Rafik Halouani, è proprio grazie al cocktail che si è creato tra il “femminismo di stato” à la Bourghiba (il “padre della nazione” che posizionò il Paese all’avanguardia del mondo arabo in materia di diritti delle donne sostituendo la prassi del ripudio con il divorzio e fissando l’età minima per il matrimonio a 15 anni, poi 18) e le istanze islamiste portate da Ennahdha: “La nuova costituzione tunisina è più avanguardista di quella dell’era Bourghiba” spiega Halouani. “Parla di libertà di coscienza e di separazione tra stato e religione. Ma la “laicità” da noi non può essere “alla francese” con lo Stato che impone scelte di vita ai cittadini, come vestirsi e dove praticare la religione. Per la Tunisia forse è più adatto il termine inglese secular e il modello che ne consegue. Ma al di là del vocabolario, ciò che è davvero importante è che il discorso su questi temi in Tunisia sia pubblico. C’è gente che manifesta per il diritto di non fare il ramadan e di avere locali aperti durante quel periodo, c’è uno spazio sociale in cui i valori si creano e si modificano. Certo, in un momento in cui globalmente crescono la destra e i nazionalismi, la Tunisia non fa eccezione: anche qui assistiamo al ritorno del nazionalismo, la tradizione in certi ambiti è ancora molto forte, ma se ne parla in maniera democratica. E non è solo questione di leggi, è questione di cultura”. Si è dibattuto anche delle recenti affermazioni del ministro dell’Interno italiano, Matteo Salvini, sul fatto che la Tunisia esporterebbe criminali? “Si è trattato di dichiarazioni poco educate da parte di un ministro. E gratuite. Lo Stato tunisino dovrebbe rispondere in maniera forte alle bugie e non giocare al gioco che si profila con la crescita dei populismi che ignorano i diritti dell’uomo. Come? Rifiutando categoricamente di collaborare alla creazione di campi di concentramento sulla sponda sud del Mediterraneo”. Yemen. Carceri segrete e torture: qual è il ruolo degli Emirati Arabi Uniti di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2018 Mentre la scarsa attenzione ricevuta dal conflitto in corso dal marzo 2015 nello Yemen è per lo più riservata all’Arabia Saudita (e giustamente, dato anche che l’Italia le ha ripetutamente fornito bombe), quasi nulla si sa sul ruolo degli Emirati arabi uniti, messo in luce negli ultimi giorni da un rapporto di Amnesty International. Da quando, nel marzo 2015, hanno aderito alla coalizione guidata dai sauditi, gli Emirati hanno creato, addestrato, equipaggiato e finanziato varie forze di sicurezza locali, tra cui la Cintura di sicurezza e la Forza di élite, e costruito alleanze con singoli responsabili della sicurezza yemeniti, aggirando il governo locale. Amnesty International ha svolto ricerche su 51 uomini arrestati da tali forze tra marzo 2016 e maggio 2018 nelle provincie di Aden, Lahj, Abyan, Hadramawt e Shabwa. Molti di essi hanno trascorso periodi di sparizione forzata e 19 di essi risultano tuttora scomparsi. Siamo di fronte a veri e propri crimini di guerra. Le famiglie dei detenuti vivono un incubo senza fine. Alle loro richieste di sapere dove i loro parenti siano detenuti o se siano ancora vivi, la risposta è il silenzio o l’intimidazione. Invano madri, mogli e sorelle degli scomparsi svolgono regolari proteste lungo il percorso tra gli uffici governativi e della procura, le sedi dei servizi di sicurezza, le prigioni, le basi della coalizione a guida saudita e vari altri luoghi per presentare denunce relative ai loro cari. Il rapporto di Amnesty International denuncia poi il massiccio uso dei maltrattamenti e della tortura nei centri di detenzione gestiti dalle forze emiratine e yemenite. Detenuti ed ex detenuti hanno riferito di scariche elettriche, pestaggi e violenze sessuali. Uno di loro ha visto un compagno di prigionia venir portato via in un sacco da cadavere dopo essere stato ripetutamente torturato. Un altro ex detenuto ha raccontato che i soldati degli Emirati di stanza nella base di Aden gli hanno inserito più volte un oggetto nell’ano, fino a farlo sanguinare e lo hanno tenuto a lungo in una buca nel terreno lasciandogli fuori solo la testa. Un altro caso descritto nel rapporto di Amnesty International riguarda un uomo arrestato nella sua abitazione dalle Forze di élite di Shabwani e rilasciato ore dopo nei pressi dell’abitazione dei suoi familiari con segni visibili di tortura. È morto poco dopo il ricovero in ospedale. Ufficialmente create dagli Emirati per combattere il terrorismo, dando la caccia ai membri di al-Qaeda nella Penisola araba e del gruppo denominatosi Stato islamico, la Cintura di sicurezza e le Forze di élite hanno preso di mira anche persone che hanno espresso critiche nei confronti della coalizione a guida saudita e dell’operato delle forze di sicurezza appoggiate dagli Emirati, nonché leader locali, attivisti, giornalisti e simpatizzanti e militanti del partito al-Islah, sezione yemenita della Fratellanza musulmana. Gli Emirati negano da sempre di essere coinvolti in pratiche detentive illegali, nonostante ogni prova dimostri il contrario. Il governo yemenita ha ammesso di fronte a un panel di esperti delle Nazioni Unite di non avere il controllo sulle forze di sicurezza addestrate e sostenute dagli Emirati. Lo Zimbabwe si prepara alle elezioni: un’occasione per rompere col passato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 luglio 2018 Il 30 luglio si svolgeranno nello Zimbabwe le prime elezioni dopo la fine dell’era di Robert Mugabe, l’ex presidente dimessosi il 21 novembre 2017 dopo aver diretto col pugno di ferro il paese africano per 37 anni, segnati da gravi violazioni dei diritti umani e dalla fuga di milioni di persone in cerca di un futuro migliore all’estero. In molte delle precedenti elezioni in cui il nome di Robert Mugabe era stampato sulla scheda elettorale vi furono gravi atti di violenza: nel 2008, ad esempio, la violenza contro i sostenitori del candidato dell’opposizione fece oltre 200 vittime. In quello che probabilmente è il peggiore episodio del regime di Mugabe, il periodo di violenza di stato della metà degli anni Ottanta chiamato “operazione Gukurahundi”, furono assassinate almeno 20.000 persone appartenenti al gruppo etnico Ndebele, una minoranza considerata associata all’opposizione. Il presidente attuale, Emmerson Mnangagwa, ne sa qualcosa: all’epoca era ministro per la Sicurezza interna. Questo spiega i suoi continui inviti a dimenticare il passato e guardare al futuro. Tantissime persone hanno purtroppo ancora buona memoria del programma di sgomberi forzati del 2005 chiamato “operazione Murambatsvina”, che causò lo sfollamento di 700.000 persone. Amnesty International ha sottoposto ai candidati e ai partiti politici che competeranno alle elezioni del 31 luglio un’agenda sui diritti umani basata su sette raccomandazioni, tra le quali fare piena luce sulle violazioni avvenute in passato, indagare su recenti casi di sparizione forzata (tra i quali quello del giornalista Itai Dzamara, visto per l’ultima volta il 9 marzo 2015), porre fine all’impunità delle forze di sicurezza, garantire il diritto alla libertà di espressione, di manifestazione e di associazione e dare priorità ai diritti delle donne e delle bambine.