Ma è possibile un mondo senza carceri? Il sogno di Grillo, le tesi di Christie di Marco Gritti agi.it, 15 luglio 2018 “Visto che la prigione rappresenta l’università del crimine, dovremmo trovare soluzioni alternative al carcere”, professava il teorico dell’abolizionismo carcerario. Oggi il garante del M5S rilancia. “Un mondo senza carceri”, lo sogna Beppe Grillo che sul suo blog ha attaccato il sistema punitivo definendolo “antico come il mondo e non funzionante”. Per Grillo “il vero problema sono i recidivi”, cioè i detenuti che tornano in carcere dopo esserci già stati. Persone che, dopo aver scontato una pena, commettono cioè un nuovo crimine per il quale vengono nuovamente reclusi. In Italia, dove i carcerati sono 58.223, succede in quasi due casi su tre. Il 63% delle persone che si trova in un istituto penitenziario lo aveva già frequentato in precedenza. La reclusione, per Grillo, è un metodo che “non funziona”. Cosa ha scritto Beppe Grillo sul suo blog: “Di tutti i detenuti, circa il 35% sono in custodia cautelare. Cioè quasi 20.000 persone. Aumentano anche chi viene arrestato preventivamente ed è ancora in attesa di una sentenza di primo grado. Oggi sono più di 10.000 persone. Sono numeri incredibili, allarmanti. Inoltre rinchiudere una persona per anni dentro una stanza, oltre ad essere una tortura senza senso, non porta a nulla e non capisco quali risultati dovrebbe portare. Oggi è chiaro. Se non fosse chiaro abbiamo i dati a dircelo. É chiaro che servono mezzi alternativi. E non sono l’unico che sta cercando di far capire che il sistema non va così come è costruito. Nils Christie è un criminologo norvegese e ha dedicato gran parte del suo impegno accademico a far emergere le distorsioni del sistema penitenziario. Sono pienamente d’accordo con lui quando dice che le carceri sono una struttura progettata per infliggere legalmente dolore, uno strumento di controllo sociale e un vero e proprio business. Un business fantastico, perché continua a crescere e se si ferma, non c’è che fare una nuova legge e creare altri criminali. Dobbiamo capire che lo stato delle nostre prigioni non solo è il prodotto del crimine, ma dello stato generale della cultura di un paese. Dobbiamo tendere a un mondo a carceri zero, o almeno, al minimo possibile. Come il Canada che con il welfare ha dimostrato come sia possibile limitare il ricorso alla detenzione e indirizzare il denaro verso lo stato sociale invece che verso lo stato penale. Quindi in questa prospettiva, la soluzione penale diventa una delle possibilità, non più la sola. La punizione diventa una, ma solo una, tra diverse opzioni. La pena non è mai la riposta adeguata al crimine per la sua soluzione; anzi si limita a fabbricarlo. La prigione, il più delle volte, è dannosa per gli individui. La cosa importante nella politica carceraria di un qualsiasi paese civile sarebbe cercare misure alternative al carcere e molto spesso questo significa accompagnarli verso uno standard di vita accettabile: provare a cercare un’abitazione, cercare alternative nei periodi di disoccupazione, rieducare, reintegrare, far si che si possa ricreare una vita. Per davvero”. A supporto dell’ipotesi di un mondo senza carceri Grillo cita Nils Christie, criminologo morto nel 2015 e padre dell’abolizionismo penitenziario. Professore all’Università di Oslo dal 1966, Christie ha scritto diversi libri che trattano di crimini, tra cui quello del 2004 intitolato “A suitable amount of crime”, una modica quantità di crimine. Al centro della sua teoria c’è il ripensamento del sistema penitenziario: “Visto che la prigione rappresenta l’università del crimine, dovremmo trovare soluzioni alternative al carcere”, diceva Christie durante il Vaffa-day di Genova del primo dicembre 2013, a cui era stato invitato proprio da Grillo. In Norvegia, spiegava cinque anni fa il professore, “stiamo creando una forma di comitato per risolvere i principali conflitti sociali”. Niente carcere per chi mi ha rubato la bicicletta, per esempio: “Non voglio provocare altro dolore a chi ha commesso un simile crimine, preferisco parlargli, capire cos’ha fatto con la mia bici, eventualmente farmi pagare le riparazioni necessarie”. Un meccanismo che in Norvegia si chiama “Conflict solving board”, e che prevede la risoluzione dei danni attraverso il dialogo e il confronto tra persona offesa e responsabile. Senza bisogno della reclusione: per Christie le carceri “sono sistema per somministrare intenzionalmente sofferenza alle persone”, diceva invitando a tornare a essere “più gentili gli uni con gli altri”. In un altro video pubblicato da Beppe Grillo poco prima dell’evento di Genova, Christie ribadiva che “in carcere le persone soffrono” ed è compito dei Paesi “cercare di ridurre le prigioni e trovare alternative”. Motivo per cui è necessario ripensare al “numero di persone in carcere” e al tipo di reato per cui si può finire reclusi. Ridurre il carcere e ripensare il modello, accompagnando “le persone verso uno standard di vita accettabile”. Non si tratta di un’amnistia totale, spiegava Chistie secondo cui “esistono persone per cui serve comunque l’autorità statale”, quelle che ha commesso atrocità. Che ne sarà della riforma della giustizia di Orlando? La scorsa estate il Parlamento approvava la riforma della giustizia dell’ex ministro Andrea Orlando, la legge numero 103 del 23 giugno 2017, voluta dal governo di centrosinistra. Il 16 marzo di quest’anno entravano in vigore alcuni decreti legislativi, tra cui quello sulla riforma della giustizia penale: il Consiglio dei Ministri scriveva che “il provvedimento ha principalmente l’obiettivo di rendere più attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla riforma del 1975, per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza di Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e Corti europee”. In particolare “riducendo il ricorso al carcere in favore di situazioni che, senza indebolire la sicurezza della collettività, riportino al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata dall’art. 27 della Costituzione”. Sul tavolo anche il tema del numero di carcerati: il governo si muoveva nel tentativo di “diminuire il sovraffollamento, sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere, sia potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva”. Il tentativo del governo, insomma, sembrava andare - seppur lentamente - nella direzione indicata anche da Nils Christie. La riforma della giustizia, dopo l’insediamento del nuovo governo pentaleghista, è stato delegato ed è stato bocciato da Camera e Senato, anche se non in termini definitivi visto che dovrà essere discusso entro la deadline del prossimo 3 agosto. “Altrimenti il testo decadrà”, spiega ad Agi Michele Miravalle dell’Osservatorio di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei carcerati. Alla stesura di quel testo aveva partecipato, in una fase iniziale, proprio Antigone. La bocciatura della riforma è un atto di “pura demagogia”, ha scritto Antigone su Twitter commentando il post di Grillo. Per l’associazione quanto scritto dal comico genovese ex leader dei cinque stelle “sconfessa l’operato del suo governo e del ministro della Giustizia del M5S”. “La riforma Orlando poteva aiutare”, aggiunge Miravalle, anche perché se verrà stracciata si tornerà al testo del 1975. Una legge vecchia di oltre quarant’anni, con la spiacevole conseguenza che una serie di aspetti sono oramai superati: visto che nelle carceri italiane il 39% delle persone sono straniere, si rendono necessarie alcune modifiche strutturali. “Per esempio il diritto di essere in contatto con il detenuto - spiega Miravalle: perché tecnologie come Skype sono utilizzate in altri ambiti ma non in per avvicinare i parenti dei carcerati che vivono magari lontanissimi, fuori dall’Italia?”. La riforma Orlando, spiegano da Antigone, non era perfetta: aveva aspetti positivi e altri negativi. Però poteva rappresentare un tassello per ammodernare la situazione italiana, anche per evitare di incorrere in nuove condanne da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per maltrattamenti e torture, come accaduto nel 2013. Cancellare una riforma lunga anni potrebbe essere anche, secondo Miravalle, uno spreco economico, esponendo l’Italia a nuovi risarcimenti nei confronti dei detenuti, oltre che un passo indietro sul piano internazionale. Valente (Pd): Bonafede incoerente, non blocchi riforma delle carceri senatoripd.it, 15 luglio 2018 “A leggere l’intervista del ministro Bonafede, che rispondendo alle parole di Grillo sulle carceri inutili e dannose dichiara di volere istituti di detenzione e percorsi rieducativi migliori, c’è da pensare che in materia di giustizia il governo soffra di schizofrenia politica”. Dichiara la senatrice Valeria Valente, Vicepresidente del gruppo Pd al Senato e Segretaria della Commissione Giustizia. “Mentre infatti dice di voler incentivare il fine rieducativo della pena, come primo atto blocca la riforma del sistema penitenziario avviata nella scorsa legislatura che ha proprio questo come suo asse portante, continuando a definirla pretestuosamente uno ‘svuota carceri’”, continua Valente. “Quella approntata dal precedente governo e ora all’attenzione delle commissioni parlamentari è una riforma attesa da tempo, che prova finalmente a ricostruire un sistema carcerario in grado di rimettere al centro la dignità dell’essere umano, e che mira ad affermare non solo formalmente i principi cardine della nostra Costituzione, a partire dalla funzione rieducativa della pena, provando ad aggredire in maniera efficace e pragmatico il dato drammatico della recidiva”. “Si tratta, forse è utile ricordarlo, di un disegno scaturito da un lungo e ampio percorso di ascolto e partecipazione di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nel sistema penitenziario”. Così Valente, che continua: “esponenti della magistratura, delle forze dell’ordine, docenti universitari, esperti e tecnici, convocati dall’ex ministro Orlando ai tavoli degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, il cui lavoro e le cui proposte sono poi confluite nel testo finale. Una riforma dunque non esclusivo patrimonio del Pd, ma di tanti operatori della giustizia che hanno contribuito a scriverla”. “Per queste ragioni il blocco della riforma oltre che incomprensibile - se non per ragioni di equilibri politici dentro la maggioranza - è un grave errore, perché significa rinviare la questione sine die, e lasciare l’emergenza senza risposte”. “L’occasione per migliorare il sistema penitenziario è ora”, conclude la senatrice. “Se davvero il ministro ha l’obiettivo di incentivare il fine rieducativo della pena riprenda quel testo e ci confronteremo”. Sentenza della Cassazione: stop al Garante regionale sui colloqui riservati con i 41bis Il Fatto Quotidiano, 15 luglio 2018 La Prima Sezione penale della Cassazione, presieduta da Monica Boni, ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia che ha consentito al Garante regionale dei detenuti di Lazio e Umbria, l’ex presidente di Antigone Stefano Anastasia, di effettuare un colloquio riservato con il boss della camorra Umberto Onda, detenuto al 41bis a Spoleto (Perugia). Fino a quel colloquio avvenuto il 29 marzo scorso, questa prerogativa era stata riconosciuta solo al Garante nazionale istituito nel 2013 dopo l’adesione a una Convenzione Onu del 2002: attualmente è Mauro Palma. Ai Garanti regionali, ai sacerdoti e i parlamentari la legge riconosce solo il diritto di far visita, ciascuno per specifiche finalità, ai detenuti. L’istituto di Spoleto aveva negato al Garante regionale l’incontro riservato con Onda, che ha fatto ricorso; il magistrato di sorveglianza di Spoleto ha dato ragione al detenuto e il Tribunale, respingendo l’appello del Dap, ha confermato. Il Fatto aveva raccontato la vicenda il 3 marzo scorso. Ora però la Cassazione ha annullato l’ordinanza accogliendo il ricorso della Procura generale: il caso dovrà essere riesaminato secondo quanto stabilito dalla Suprema Corte. Diritti dei minori detenuti, progetto di Defence for Children minori.it, 15 luglio 2018 Promuovere i diritti dei minorenni detenuti, favorire la loro partecipazione e sostenere il reinserimento dopo l’esperienza penale: sono questi, in sintesi, gli obiettivi del progetto europeo Children’s Rights Behind Bars 2, un’iniziativa promossa da Defence for Children International in collaborazione con il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del Ministero della giustizia e cofinanziata dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione Europea. La prima fase del progetto (marzo 2014 - febbraio 2016) ha previsto la realizzazione della Guida pratica per professionisti sul monitoraggio dei luoghi dove i minorenni sono privati della libertà, attualmente disponibile nella versione inglese sul sito dedicato a Children’s Rights Behind Bars 2. La seconda fase del progetto (gennaio 2017 - dicembre 2018) comprende varie iniziative: la traduzione in italiano della Guida e la sua pubblicazione a settembre; attività formative rivolte agli operatori; incontri con i ragazzi detenuti degli istituti penali per minorenni Fornelli di Bari e Ferrante Aporti di Torino mirati all’identificazione e alla costruzione partecipata di strumenti di comunicazione delle istanze dei ragazzi (due videoclip e un documentario che sarà lanciato a settembre); seminari per far conoscere Children’s Rights Behind Bars 2, portare fuori le voci dei ragazzi e riflettere su possibili percorsi riabilitativi. Partner del progetto sono, oltre al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e Defence for Children International (Italia e Belgio): Helsinki Committee for Human Rights (Polonia), The Howard League for social reform (Regno Unito), Dci World Service. Un baby gangster di meno per ogni attività sociale in più di Paolo Foschini Corriere della Sera, 15 luglio 2018 Sono quasi trentamila in Italia i minorenni e giovani adulti finiti nella rete penale. Da Palermo a Napoli i risultati dei Centri di aggregazione per fare prevenzione. Partiamo dall’esempio di soluzione, che poi del problema parliamo dopo. Dodici anni fa le Catacombe di San Gennaro, nel cuore di un quartiere di antica fama diciamo problematica quale il Rione Sanità di Napoli, raccoglievano ogni anno a stento seimila visitatori. Oggi la cooperativa di giovani che le gestisce dà lavoro a 23 persone tra soci e dipendenti, con attorno una galassia di volontari: e tutti loro insieme, nel 2017, di visitatori ne hanno accolti 104mila. Le cose possono cambiare. E per farle cambiare non bastano né la polizia né la galera. La soluzione, le soluzioni, alla fine possono solo essere sociali. Una di queste, ormai sperimentata e sostenibile, sono i Centri di aggregazione giovanile. Lo dicono i risultati che iniziano ad arrivare. Il problema sul tappeto, naturalmente, è quello della devianza e della criminalità giovanile. In particolare nelle periferie e in particolare al sud: un milione di abitanti alle prese con meno servizi, meno lavoro, più disagio, più crimine organizzato che nel resto del Paese. La Fondazione Con il Sud però ha messo insieme un rapporto secondo cui anche i luoghi più difficili - questa è la sintesi - se vi si crea e sostiene un percorso di “coesione sociale” trasformano le loro caratteristiche in elementi di rinascita. Facciamo un passo indietro, per un confronto. Vediamo anche solo quanto costa il modello “repressione e basta”. La relazione del Ministero della giustizia dice che i minori e giovani adulti (under 25) finiti nella rete penale nel 2016 sono stati 26.898. Lo stanziamento per la giustizia minorile in quell’anno ha superato di poco i 145 milioni di euro. Togliendo dal conto circa tremila che non sono andati a carico dello Stato per varie ragioni ogni minore arrestato è costato in quell’anno una media di 6.264 euro, e la cifra non comprende comunque tutte le voci di spesa. E va ricordato che il 92 per cento dello stanziamento complessivo finisce comunque alle carceri. E poi, dall’altra parte, ci sono i centri di aggregazione giovanile di cui parla la Fondazione Con il Sud. Ne citano alcuni, sempre a titolo di esempio. Uno infatti si chiama proprio così, “Associazione Per Esempio”, e si trova a Palermo così come altri due, il “Centro di coesione per il protagonismo giovanile” e il “Centro Tau”. Si occupano tutti di lotta alla povertà educativa, integrazione, arte e cultura, sport: insomma tolgono i ragazzi “dalla strada” per far fare loro delle cose, pur lasciandoli spesso “nella via” perché “anche il vicolo è un luogo in cui si cresce”, ma “sottraendo manovalanza a basso costo alle mafie”. La stessa ricetta del centro “Marianella Garcia” di Catania o delle “Officine Gomitoli” di Napoli. Decine di contratti - Ora: il “costo medio annuale” di ogni ragazzo che frequenta un Centro di aggregazione giovanile è di 1.400 euro, con oscillazioni dai 500 ai 2.200 a seconda delle attività. Meno di un quarto di quanto costa alla collettività “recuperare” ragazzi dopo che sono entrati nei circuiti penali. Quanto contano per la “sicurezza” del Rione Sanità quelle decine di contratti di lavoro e quelle migliaia di turisti che attraversano il quartiere? I Centri sono opportunità di scambio e crescita culturale. Sono gestiti da organizzazioni del Terzo settore in un’ottica comunitaria. “La forza delle strutture criminali - ricorda il rapporto - si fonda anche sulla possibilità di controllare intere aree dove le strutture carenti sono quelle sociali primarie”. Fondazione Con il Sud ne ha finora sostenute oltre 1.100 nei campi più disparati. Che sono ancora una goccia, nel mare di quel che serve al Sud. Ma sono anche l’indicazione di una strada. La lezione perduta delle leggi razziali di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 15 luglio 2018 “A 80 anni di distanza dalla infamia delle leggi razziali, la dignità umana è ancora in pericolo. Si assiste a un crescente manifestarsi di atti di intolleranza razziale, odio e pericolosa radicalizzazione. Non pensavamo di veder nuovamente leggi e decreti democraticamente approvati, ma che violano fondamentali principi. Questi atti di intolleranza sono purtroppo alimentati e legittimati anche da esponenti delle istituzioni”. Sono parole di Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane, pubblicate dal giornale Pagine Ebraiche (13 luglio). Nel governo del cambiamento le nuove leggi razziali sono nell’aria, ispirano frasi come “difesa della razza bianca”(detta in campagna elettorale), stimolano l’antica ostilità verso i rom, inducono a vedere ogni singolo nero come “l’invasione” e certe mamme a ritirare i figli dalle scuole multietniche. Ma la difficoltà è che l’Italia ha già fatto la brutta esperienza di approvare, di imporre e di osservare leggi razziali che hanno marchiato la nostra storia. Sono le leggi razziali contro gli ebrei, una stagione tragica e non dimenticabile, nella quale una rigorosa propaganda e una paurosa ubbidienza hanno portato a riconoscere all’improvviso differenze che non esistevano e non c’erano mai state, e a operare o accettare respingimenti ed espulsioni (e poi arresti e deportazioni) che un minuto prima sarebbero sembrate impossibili. In Italia il razzismo che torna pone adesso bianchi contro neri, cittadini contro stranieri, paura, attentamente coltivata, che crede nei confini chiusi. Come insegnano le tragiche vicende che l’Italia ha già vissuto, il razzismo è come il gas misterioso usato in questi giorni in Inghilterra da certi agenti segreti per eliminare avversari altrettanto misteriosi. Basta un soffio d’aria contaminata per morire. Più grave se quel gas è manovrato dalle istituzioni. Il razzismo italiano costringe gli italiani a respirare a pieni polmoni storie non vere sulle frontiere, sugli stranieri, sul salvataggio in mare, prima descritto come un “business” e poi, in mancanza di prove, vietato anche se costa la vita ai migranti, e non importa se sono bambini. Provo a ricordare i tre punti su cui si basa la “difesa della razza” nell’Italia dei nostri giorni. Comincio con la parola d’ordine “prima gli italiani”, che è un grimaldello potente per far saltare un minimo di legame tra residente e straniero. Sappiamo tutti che non è una trovata italiana. Sappiamo anche che è barbara perché esime da ogni senso di fratellanza e di solidarietà. È un proclama di egoismo assoluto che considera colpa (o reato, diranno le leggi razziali in arrivo) dare una mano, anche in situazione di estrema emergenza, a chi non sia italiano. È anche un diffusore di falsa euforia. Induce a credere che ci siano tante cose che ci vengono negate perché se le godono gli stranieri. Ma se calpestiamo gli stranieri, e neghiamo i loro diritti, tutto finalmente tornerà a noi. Naturalmente non c’era nulla e non torna nulla. Ma avremo collaborato a spingere indietro e umiliare e mettere sotto il nemico. Un secondo modo per avviarsi verso la completa estirpazione di sentimenti umani è di lanciare il famoso grido di disprezzo verso i non razzisti: “Allora prendete i profughi in casa vostra”. La frase non nasce da un rigurgito di rabbia in strada, ma da un partito diventato governo e potente istituzione. Ridicolizza il difensore dei migranti e finge di credere che difendere chi muore è il passatempo dei ricchi e il business di grandi speculatori. È una trovata che punta a scansare l’accusa di irresponsabilità e a far apparire fatui e boriosi coloro che scendono in campo nel tentativo di difendere. Il loro numero diminuisce costantemente. Ma il più potente gesto di discriminazione resta la pretesa distinzione fra chi fugge da una guerra e chi viene in cerca della bella vita. Le poche volte che qualcuno parla con finta serietà di questa inesistente e impossibile distinzione (“chi fugge da una guerra verrà sempre accolto”) sembra non sapere nulla dell’Africa e di tutte le sue guerre, e finge di ignorare del tutto l’afflusso di profughi da Medio Oriente e Oriente, compresi i luoghi in cui, pur non essendoci alcuna guerra, esplode una autobomba al giorno. Che la povertà e il terrore di restare a vivere in certi luoghi diventino un unico sentimento (disperazione) viene ignorato fornendo statistiche false. Ma tutto è falso sui migranti (tranne il numero dei morti in mare). Il falso sarà ratificato dalle nuove leggi razziali. C’è, fra noi, chi ha imparato tanto tempo fa che senza menzogna, le leggi razziali non possono esistere. Tacere? No, parlate anche voi di Roberto Saviano L’Espresso, 15 luglio 2018 Oggi siamo tutti chiamati a non lasciar passare sotto silenzio la propaganda velenosa di questo governo incompetente Per poter criticare chi è al governo serve la consapevolezza che qualunque dettaglio potrà essere usato per delegittimarti, dettaglio che spesso nulla ha a che vedere con le tue parole o con la verità. È la regola dello squadrismo, aggredire, inventare, mischiare vero e falso in una poltiglia verosimile da sputare addosso ai nemico. Meglio far ordine. Quello che non tutti sanno è che sono nato a Napoli e cresciuto nel Casertano, in Terra di lavoro. Sono poi tornato a Napoli negli anni dell’università e ci sono rimasto fino al 2008, quando già avevo da due anni la scorta. Sono andato via da Napoli perché non riuscivo a trovare casa. La mia condizione metteva paura o infastidiva i vicini che nelle riunioni di condominio chiedevano che fossi sfrattato. Da allora sono diventato nomade, ma le mie origini non le ho mai dimenticate. Sono sempre stato fiero di essere cresciuto in Terra di lavoro perché attorno a me, nonostante gli enormi problemi di criminalità, ho sempre visto gente operosa e sono stato cresciuto io stesso pensando di dovermi mantenere da solo anche mentre studiavo. Quando ero all’università scrivevo recensioni di libri su Pulp, inchieste sulla camorra per Retrovie, per il Manifesto e il blog Nazione Indiana e per la rivista letteraria Nuovi Argomenti. Non guadagnavo molto (venivo pagato al massimo 50 euro ad articolo), ma sono sempre stato orgoglioso di poter vivere con poco e soprattutto di poter vivere del mio lavoro. Napoli non è mai stata una città cara, quindi potevo riuscirci vivendo di piccoli lavori. Prima di Gomorra non avevo viaggiato molto all’estero, la mia è stata una vita senza privazioni ma spartana. Del resto sono così, anche adesso. Mi concedo un solo lusso: i libri. Ne compro tantissimi, più di quanti potrò mai leggerne, ma da ragazzo erano l’unica cosa che davvero desiderassi. Questa lunga premessa autobiografica mi serve per introdurre un tema, quello della paura di parlare, della paura di esprimere il proprio pensiero che hanno molte persone che godono di fama e che io non ho. Critichi il governo? Verrai attaccato, verrà isolato un dettaglio, magari falso ma verosimile (tipo l’attico a Manhattan che mi ha appioppato un ex senatore cosentiniano e che ora leghisti e grillini usano come se lo avessero letto su Wikipedia) e, partendo da quello, anche se non è reato, ti mettono alla gogna per dire: vedete, ha un attico a Manhattan, non può parlare. Sei un privilegiato, un radical chic. E così pretendono di spazzar via tutto ciò che è stata e ancora è la mia vita. Mi sveglio la mattina con decine di messaggi di persone - qualcuna mi vuol pure bene - che mi dicono di smetterla, di tacere, di farlo per me. Sono ormai 12 anni che mi sveglio così, con chi mi dice: per il tuo bene, Roberto, taci. Ma gli inviti a tacere - a meno che non provengano da mia madre che, per inciso, pur preoccupatissima, non mi ha mai detto di smettere di fare il mio lavoro - mi hanno sempre lasciato uno strano sapore in bocca. Perché dovrei tacere io? Perché invece non parlate anche voi? Prima era il clan dei casalesi, poi Berlusconi che voleva strozzare chi scriveva di mafia, poi Renzi e il suo odio per i gufi, ovvero per chi dice che le cose non vanno bene e ora è il turno della galassia leghista e grillina. Ci si abitua anche a ricevere merda, merda sui social e merda dalla politica. Alla fine basta non aver paura e capire che è concime. Ma se fino a ieri qualcuno aveva l’illusione che tutto sommato si potesse restare nel proprio angolo in tranquillità a scrivere, recitare, cantare, oggi nessuno può più permettersi di avere paura di esprimere il proprio pensiero per non diventare bersaglio, perché dove molti sono bersaglio, nessuno più lo è. La storia è piena di delegittimazioni orchestrate per mettere a tacere chi dava fastidio. Giuseppe Di Vittorio fu accusato di organizzare scioperi mentre possedeva ville sul mare. “Se le trovate, prendetevele”, fu la sua risposta. Gino Strada di avere una villa a Montecarlo mentre andava nei luoghi di guerra a dare soccorso. Giovanni Falcone, quando subì l’attentato dell’Addaura, era in una villa (presa in fitto) sul mare. L’accusa fu che l’attentato se lo fosse fatto da solo: “Cosa nostra non sbaglia!”, ripetevano milioni di italiani in quei giorni, divenuti tutti esperti di mafia. Ma soprattutto insinuavano: “Avete visto? La bella villa in cui faceva le vacanze, che dava direttamente sulla scogliera”, “Conviene fare antimafia se si campa così”. Vergognose accuse che ferirono un uomo bersaglio di aggressioni civili e che lo esposero al massacro militare. Nel 64 a.C. Marco Tullio Cicerone era candidato alla carica di console della Repubblica romana: suo fratello Quinto, per aiutarlo a vincere le elezioni, scrisse il “Commentariolum petitionis”, una specie di manuale per la campagna elettorale. Più che di consigli politici, dí contenuti politici, si tratta di strategie di comunicazione. Come quella di rispondere sempre sì alle richieste della gente, anche se si sapeva già in partenza di non riuscire a soddisfarle. Tra questi consigli si legge anche: “abbi cura che (...) sorga nei confronti dei tuoi avversari un sospetto, appropriato al loro comportamento, o di colpa, o di lusso o di sperpero”. Un sospetto appropriato al loro comportamento, non una verità quindi, ma un’accusa verosimile, che rovinasse la reputazione dell’avversario. In altre parole, il fratello di Cicerone stava dicendo che le fake news diffamatorie in politica sono ammesse, anzi, sono prassi utile. L’obiettivo delle calunnie è insinuare che di disoccupazione può parlare solo il disoccupato, di indigenza solo l’indigente, di precarietà solo il precario per una semplicissima ragione: chi vive in condizioni di fragilità è facilmente ricattabile e riducibile al silenzio. Chi vive disagi - come ho spesso scritto - non ha tempo e possibilità di vedere la situazione nella sua interezza, è esposto soprattutto in questa fase a una tempesta d’odio di portata tale da lasciare difficilmente incolumi. Stai male? Non hai un lavoro? Non hai una casa? I tuoi figli sceglieranno di emigrare? Questo governo risponde: non ti dico cosa farò per aiutarti, ma ti offro qualcuno con cui prendertela e soprattutto, se mi voti, ti assicuro questo: non resterai mai senza un nemico. Ecco, l’obiettivo è solo creare un nemico, e se il nemico ti dicono anche che vive nel lusso, sarà più facile odiarlo perché inneschi anche invidia. Ecco il motivo per cui oggi c’è bisogno di tutti. Tutti. A tavola, nei taxi, nelle corsie d’ospedale. In qualunque discussione, bisogna smontare il fango, le balle, è opera che ognuno può e deve fare. Il nostro tempo ci chiede di essere più di quello che siamo. Oggi non è ammesso disimpegno perché quella che vediamo non è politica ma comunicazione (molto bassa, a dire il vero) di un ministro onnipresente (Salvini) che mette bocca ovunque e che sta letteralmente stressando gli “alleati” in maniera scientifica e consapevole per avere visibilità. Eppure la politica vera non è ferma, ma si muove, sotterranea, fin troppo sotterranea per non destare sospetti. Sandro Veronesi invita persone famose e amate a salire sulle imbarcazioni delle Ong nel Mediterraneo per farsi testimoni delle calunnie e del fango che da oltre un anno il M5S e la Lega inventano su chi salva vite, io invito le persone non famose ad approfondire, a non fermarsi ai post di Di Battista, Salvini, Di Maio o Toninelli su Facebook e Instagram, a non fermarsi ai loro tweet, perché sono pieni di menzogne, inesattezze e strumentalizzazioni. Io invito chi oggi nutre qualche dubbio, ma non sa da dove cominciare, a provare a capire davvero perché le Ong devono essere tagliate fuori, perché gli unici testimoni di morte e torture devono essere allontanati per non riferirci cosa accade. Hai visto mai, magari sapendo delle torture, poi, allo specchio ci potremmo spaventare della nostra stessa ferocia? Invito tutti a soffermarsi sui numeri dell’immigrazione per capire che se di emergenza si tratta, l’emergenza sta altrove. Una politica che non riesce a gestire flussi che sono invece, anche nei loro picchi, assolutamente assorbibili e soprattutto necessari, è una politica incapace: questa è la vera emergenza che ci sta distruggendo. Incapaci i governi che lo hanno preceduto, e incapace questo governo. L’immigrazione è un dato di fatto, non si può arginare o cancellare con un tweet, si può e si deve gestire con umanità. Gli immigrati servono al nostro Paese che demograficamente sta scomparendo e alla nostra economia perché non collassi. Gli immigrati servono a noi perché integrazione significa crescita e conoscenza. Significa compromesso e arricchimento. Pretendiamo da questo governo - che si autodefinisce il Governo del Cambiamento - una svolta reale e, soprattutto, nella direzione giusta. Se io dico che questo governo è incompetente inutile rispondermi: taci, hai l’attico a Manhattan. Se io dovessi tacere - tanto per essere chiari - non è che le cose andrebbero meglio. Andranno invece meglio quando i Salvini, i Di Maio, i Toninelli la smetteranno di usare í migranti come paravento per la loro incompetenza, e quando voi inizierete a pretendere che loro la smettano di prendervi in giro. Come vedete tutto è ancora nelle vostre mani. Il vostro compito non si è esaurito nella cabina elettorale, lì è solo cominciato. Sardegna: ergastolani senza mai un permesso, ma ora ci sono più speranze castedduonline.it, 15 luglio 2018 “Finalmente si profila una speranza per gli ergastolani sardi che, come Mario Trudu, detenuto da 40 anni, non hanno mai potuto fruire di un permesso. La sentenza con cui la Consulta ha sancito l’incostituzionalità dell’articolo che nega la possibilità di accedere a qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo ostativo ristabilisce dopo essere rimasto offuscato per tanto tempo il principio della funzione rieducativa della pena garantita dalla carta costituzionale”. “Finalmente si profila una speranza per gli ergastolani sardi che, come Mario Trudu, detenuto da 40 anni, non hanno mai potuto fruire di un permesso. La sentenza con cui la Consulta ha sancito l’incostituzionalità dell’articolo che nega la possibilità di accedere a qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo ostativo ristabilisce dopo essere rimasto offuscato per tanto tempo il principio della funzione rieducativa della pena garantita dalla carta costituzionale”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Rifome”, sottolineando “il negativo peso che l’interpretazione del dispositivo ha avuto negli anni sottraendo persone private della libertà ai benefici di legge nonostante abbiano partecipato attivamente al trattamento riabilitativo o maturato anche con la produzione scritta di libri una revisione del proprio vissuto”. “La recentissima sentenza della Corte Costituzionale, presieduta da Giorgio Lattanzi, non solo afferma il principio che i benefici costituiscono la necessaria graduale risposta al percorso di cambiamento iniziato dal detenuto, pur se colpevole di un grave reato, ma valorizzano - osserva Caligaris - anche il lavoro che il sistema penitenziario mette in atto per ristabilire un corretto rapporto tra la società e chi si è macchiato di una grave colpa. Negarli quindi significa mortificare l’impegno quotidiano degli operatori penitenziari “. “Il caso di Mario Trudu, nato ad Arzana nel 1950, in carcere dal 1979, diplomato all’Istituto d’Arte di Spoleto, autore di due libri, è emblematico. Finora infatti non ha potuto fruire di alcun beneficio e con l’età vive una condizione di salute difficile. L’unica concessione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è stato il suo trasferimento, dopo diverse istanze con esito negativo, nel Carcere di Oristano-Massama. L’auspicio è che il pronunciamento della Consulta - conclude la presidente di SDR - si applichi a tutti i casi previsti, come quello segnalato, ma che diventi anche un’occasione di dibattito sereno sulla funzione propria del “fine pena mai”, se possa essere uno strumento utile per la società e perfettamente in linea con quanto stabilisce la Costituzione”.. Campania: “nelle Rems non c’è posto”, assolti ma condannati al carcere di Ettore Mautone Il Mattino, 15 luglio 2018 Accusati di reati ma incapaci di intendere e di volere mancano i posti nelle strutture per effettuare il ricovero. In Campania una lista di attesa con 44 detenuti per diciotto di questi l’unica soluzione rimane la cella. C’è un problema di liste di attesa, ma anche di percorsi alternativi (poco esplorati) e dunque di scarsa appropriatezza dei ricoveri per le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), Parliamo delle strutture psichiatriche previste dalla legge 81 del 2014, che hanno fissato al 31 marzo del 2015 la chiusura degli Opg Oggi nelle carceri sono in Osservazione). Nelle Rems dovrebbero finire i pazienti psichiatrici autori di gravi reati che non possono andare in carcere perché giudicati incapaci dì intendere e di volere. In Italia di queste strutture ce ne sono 30: ognuna ospita al massimo 20 persone. Ma sono affollate e scontano tempi lunghi per liberare posti. E intanto si resta in carcere o, peggio, liberi. I numeri - Quelli del XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione (“Un anno di carcere”) elaborato da Antigone parlano chiaro: le code per entrare nelle Rems “sono piuttosto affollate”. Nel 2017 erano ricoverate 289 persone ma manca un quadro nazionale. L’analisi parte dai dati di tre Regioni rappresentative. La Lombardia ha una lista di 8 persone, il Piemonte 13 (di cui 4 in carcere) e la Campania 44 (di cui 18 in carcere) anche per difficoltà a far accettare percorsi alternativi. “Un problema in crescita” sottolinea Michele Miravalle, responsabile dell’Osservatorio Antigone sulle carceri. “Anche le Rems sono luoghi dì restrizione, con visibili dispositivi dì sicurezza e dovrebbero essere l’extrema ratio - aggiunge Fedele Maurano, psichiatra responsabile del dipartimento di Salute mentale della Asl Napoli 1 - invece si dispongono spesso ricoveri in tali strutture senza valutare le alternative”. Le liste di attesa? “Esistono, ma perché le Rems sono utilizzate male, non solo come approdo di soggetti considerati socialmente pericolosi e non imputabili, ma anche come luogo di ricovero per chi ha una storie cliniche diverse, tali da consentire un trattamento sul territorio”. Le alternative - Proprio Maurano racconta di un’esperienza in atto nella periferia nord di Napoli, dove con un gruppo operatori psichiatrici si stanno sperimentando misure di sicurezza non detentive in una residenza sanitaria pubblica di 10 posti dove sono seguite 4 persone autori di gravi reati. “Stiamo lavorando da anni - dice Maurano - in un lungo percorso che ha sottratto questi pazienti alla segregazione in Opg. In una relazione di cura e in condizioni di libertà stanno ricostruendo la loro vita. Sanno che se si allontanano e sfuggono a questa possibilità vanno in carcere. Un percorso possibile”. La Campania - All’avvio della legge 81 nel 2015 le Rems dovevano essere solo 2 per 40 posti letto visto che i pazienti che residuavano negli Opg erano in totale 36, La programmazione ne prevedeva una a Calvi Risorta (per Caserta e Napoli), e un’altra a San Nicola Baronia (per Avellino, Benevento e Salerno). Poi si sono aggiunte quelle di Mondragone (che è anche centro diurno), e Vairano. Posti letto in sovrannumero che hanno garantito lo svuotamento degli Opg e che oggi spesso ospitano pazienti psichiatrici trattabili in altri percorsi di cura. Per questo c’è un alto turn-over che potrebbe essere ancora più frequente. Il nodo dell’affollamento delle Rems? È legato al potenziamento dei servizi di salute mentale sul territorio. A metà giugno la Campania ha stretto un’intesa con la Procura generale. E intanto la Asl di Napoli 1 ha territorializzato l’assistenza in carcere, attivando un modello di assistenza unico. A Secondigliano ci sono poi 18 posti letto che sono un altro segmento dell’assistenza. La chiave di volta, indicata da Maurano, “è attivare programmi riabilitativi e terapeutici individuali, in base alla conoscenza che i servizi hanno di un soggetto con problemi dì salute mentale e che commette un reato”. Ma servono risorse. Pesaro: detenuto di 35 anni si uccide in cella La Repubblica, 15 luglio 2018 Si è ucciso con un sacchetto di plastica e il gas della bombola da cucina. A preoccupare è l’alto numero di soggetti con patologie psichiche e la mancanza di assistenza adeguata. Un detenuto di 35 anni si ucciso nel carcere di Villa Fastiggi a Pesaro, dove stava scontando una condanna a sei anni per spaccio di stupefacenti. L’uomo si è messo una sacchetto intorno alle testa, riempiendolo con il gas della bombola da cucina. Il Garante dei diritti delle Marche Andrea Nobili ha effettuato un sopralluogo nell’istituto di pena, dove erano state segnalate negli scorsi mesi varie criticità, in particolare “la presenza di un alto numero di soggetti con patologie di carattere psichiatrico o legate alla tossicodipendenza”. Nobili ritiene “non più rinviabile l’adozione di misure urgenti per far fronte ai più volte segnalati problemi dell’istituto penitenziario”. Il Garante rinnova “la preoccupazione già espressa a maggio alle autorità dell’amministrazione penitenziaria, sia nazionale sia regionale, ancor prima delle due aggressioni ai danni di alcuni agenti di polizia penitenziaria”. “Preoccupazione - sottolinea Nobili - condivisa anche nel corso del sopralluogo a giugno con alcuni parlamentari marchigiani, nell’ambito del quale, tra le varie criticità rappresentate, era stata evidenziata quella inerente la situazione sanitaria soprattutto sul versante delle patologie di tipo psichiatrico o legate alle tossicodipendenze, che a Pesaro registrano una percentuale sicuramente degna di nota. In quella circostanza era stata fatta presente la carenza di professionisti dell’area educativo-trattamentale e psicologica e quella relativa agli agenti di polizia penitenziaria”. Lecco: “lettere dal carcere” per dare un volto umano e una dignità ai detenuti leccoonline.com, 15 luglio 2018 “Il carcere è un luogo fatto di storie, di vite, di volti: è assolutamente necessario instaurare un legame con i detenuti cercando di far emergere le loro capacità e le loro attitudini, per ricordare loro che nonostante gli errori sono prima di tutto esseri umani”. Ha esordito così il dr. Massimo Parisi, il direttore della Casa Circondariale di Bollate ospite ieri sera, venerdì 13 luglio, della presentazione del libro “Quando lavorare è bello. Lettere dal carcere”, della scrittrice lecchese Giovanna Rotondo. “Ho scritto questo volume con molta semplicità - ha spiegato l’autrice - durante un progetto di legatoria svolto all’interno della Casa Circondariale di Lecco: avendo lavorato per mesi - da ottobre a maggio, dal lunedì al venerdì, per cinque ore al giorno - a stretto contatto con i detenuti, posso affermare che sono molto orgogliosa e soddisfatta. Sono persone comuni, con le loro gioie e le loro paure, gravate dalla consapevolezza di non aver rispettato le regole”. Presenti all’iniziativa, andata in scena presso l’Oratorio di Pescarenico nell’ambito della tradizionale Sagra, diversi ospiti tra cui Antonina D’Onofrio, direttrice della Casa Circondariale di Lecco, Don Mario Proserpio, cappellano del carcere, e il sindaco di Lecco Virginio Brivio. Tra i numerosi messaggi emersi nel corso della serata, particolarmente importante quello relativo all’importanza dell’inclusione sociale svolta già dall’interno delle carceri, nel tentativo di creare un “ponte di contatto” con il mondo esterno. “Penso soprattutto ai giovani, sempre più presenti all’interno delle nostre strutture: sono spesso senza famiglia, soli, non di rado anche alle prese con gravi disturbi e problemi di dipendenze” ha commentato Antonina D’Onofrio. A fare davvero la differenza, dunque, sono i rapporti umani che si riescono a creare anche e soprattutto con l’esterno, per cercare di far sentire queste persone parte di una comunità con l’ausilio di progetti come ad esempio “Oltre il Muro, Oltre i muri”, ricordato da Beatrice Civillini, dello Spazio Il Giglio, che ha avuto come protagonisti alcuni anziani che si sono prestati a vivere delle esperienze “dietro le sbarre”, a fianco dei detenuti: “I legami non si possono costruire dietro agli schermi, ma vanno coltivati, guardandosi negli occhi e confrontandosi con chi ha sbagliato. Solo puntando ad uno scambio reciproco si riescono ad abbattere i pregiudizi che spesso nascono nei confronti di queste persone”. In più occasioni, così, sono stati portati all’esterno della Casa Circondariale piccoli lavoretti creati all’interno del carcere, nonché veri e propri messaggi che sono stati poi affissi sulla vetrina de Il Giglio. Non è mancato, nel corso del dibattito, il commento del sindaco Virginio Brivio. “Ringrazio tutti i presenti a questa serata, significativamente inserita all’interno di un momento conviviale come quello della Sagra di Pescarenico: dall’autrice, a tutte le persone che si prestano quotidianamente ad attività di volontariato all’interno del carcere, della cui presenza in città non bisogna mai dimenticarsi, per far sì che possa diventare una vera risorsa per l’intera collettività”. Preziosi anche gli interventi di don Mario Proserpio - moderatore della serata - e di Monsignor Franco Cecchin, che hanno voluto ricordare, ancora una volta, come la chiave per creare un collante tra interno e esterno possa essere soltanto l’empatia. “Spesso il carcere è un luogo che non si vuole conoscere, ma in realtà vi posso assicurare, per esperienza personale, che è l’unica vera medicina per chi ha rotto il patto sociale” ha concluso don Mario. Gioiosa Ionica (Rc): presentati a palazzo Amaduri i lavori artistici realizzati dai detenuti di Gianluca Albanese lentelocale.it, 15 luglio 2018 Quadri, soprammobili e oggetti in argilla. Tutti di pregevole fattura, che compongono una vera e propria galleria d’arte allestita in uno dei palazzi più belli della Locride. È il frutto dei lavori realizzati da 41 detenuti della casa circondariale di Locri, coinvolti in un progetto realizzato dalla Zefiro Art, col patrocinio del Comune di Gioiosa Ionica e il sostegno della direttrice del carcere Patrizia Delfino. Le opere sono state presentate, unitamente alle valutazioni complessive sul progetto, ieri mattina a palazzo Amaduri di Gioiosa Ionica. Preceduta dalla proiezione di un video in cui alcuni detenuti-artisti hanno spiegato le motivazioni che li hanno spinti a realizzare le loro opere, la mattinata è iniziata coi saluti del sindaco Salvatore Fuda, che ha spiegato, tra l’altro, che “Il reinserimento sociale dei detenuti è un affare della comunità, e sono lieto di ammirare queste opere qui stamattina, visto che palazzo Amaduri ospita un laboratorio di ceramica”. La presidente di Zefiro Art Carmela Salvatore (che ha curato ripresa e montaggio del video proiettato all’inizio) ha esposto il progetto dal punto di vista tecnico, spiegando soprattutto che “Il legame con la terra è indissolubile. Ecco perché abbiamo chiesto ai detenuti di procurarsi un pezzo di argilla della propria terra”. La psicologa Lorena Bruzzese ha spiegato il progetto dal punto di vista psicopedagogico, incentrando il suo intervento sul c.s. “Art counseling”, mentre la direttrice del carcere di Locri Patrizia Delfino, dopo aver ricordato i tanti lavori compiuti dai detenuti della casa circondariale, ha rimarcato come “Il messaggio di fondo delle opere realizzate è il rifiuto alla violenza di genere” di quelle che la funzionaria dell’Uepe di Reggio Calabria (e direttrice del carcere di Laureana di Borrello) Angela Marcello ha definito “Professionalità e doti artistiche nascoste che scopriamo tra i detenuti e che siamo lieti di realizzare nonostante le difficoltà dovute alla carenza di risorse da parte del Ministero”. Il presidente del Tribunale di Locri Rodolfo Palermo ha concluso l’incontro ricordando alcuni progetti realizzati a palazzo di Giustizia con l’utilizzo dei detenuti “Come quello denominato - ha detto - “i colori della legalità” grazie al quale sono stati tinteggiati gli interni del tribunale penale” e la ricostruzione del campo sportivo di San Luca, con due detenuti che indossarono la maglia della nazionale magistrati nella partita giocata lì contro la nazionale cantanti. “Queste iniziative - ha concluso Palermo - fanno emergere la parte buona in ognuno di noi e le tante qualità di chi, pur avendo sbagliato, ha tutto il diritto di recuperare”. Migranti. Conte scrive all’Europa: Francia e Malta ne accolgono 100 di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 15 luglio 2018 I profughi trasferiti su due navi militari. Arrestati due scafisti. Salvini: “Grazie”. I profughi in salvo su due navi. L’Europa coinvolta e la promessa di Francia e Malta di ricollocarli. Dopo un’altra giornata ad altissima tensione il vicepremier Matteo Salvini ha voluto fare i “complimenti al presidente Conte per i risultati che sta ottenendo nella gestione dei 450 immigrati”, mentre incassava anche un provvedimento che aveva fortemente auspicato: sono stati fermati i due migranti autori delle minacce all’equipaggio della Vos Thalassa. L’annuncio della soluzione della crisi - aperta dall’arrivo di una nuova nave carica di 450 profughi al largo di Lampedusa - l’ha data lo stesso premier Conte. “Francia e Malta prenderanno 50 migranti ciascuno. E a breve arriveranno le adesioni di altri Paesi. Finalmente l’Italia è ascoltata”, ha scritto su Facebook. Mentre la Farnesina chiedeva aiuto agli altri Governi d’Europa. Una soddisfazione condivisa con Luigi Di Maio (“Non si può arretrare, è auspicabile che chi arriva e chi sta arrivando venga redistribuito in tutti gli altri Paesi”) e col ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli: “Più risultati in questi 45 giorni che in tanti anni”. Aveva dovuto coinvolgere i più alti vertici europei Conte, mentre il barcone si avvicinava a Lampedusa e i profughi si gettavano a mare, motivo per il quale sono intervenute una nave della Guardia di finanza italiana e un pattugliatore inglese della missione Frontex. Con una lettera a Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, Conte ha chiesto il rispetto degli accordi appena sottoscritti. E ha annunciato che chiederà “l’adeguamento immediato del Piano operativo dell’Operazione Eunavfor Med (la missione Sophia, ndr) in relazione al porto di sbarco, che non può continuare ad essere identificato solo in Italia”. “O vengono redistribuiti o non sbarcano”, aveva detto Salvini. E i migranti, disidratati e allo stremo, hanno atteso a bordo le cancellerie europee. Intanto la procura di Trapani, guidata da Alfredo Morvillo, ha fermato Ibrahim Tijani Mirghani, nato in Sudan (Darfur) nell’87 e Ibrahim Amid, nato in Ghana, perché è emerso che “usavano violenza e minaccia per costringere il comandante Dobrescu a compiere un atto contrario ai propri doveri o, comunque, per influire su di lui. In particolare, dopo che il rimorchiatore Vos Thalassa aveva proceduto al soccorso in area Sar libica di 67 migranti” e si preparava a dirigersi verso la costa libica, i due indagati “unitamente ad altri soggetti allo stato non compiutamente identificati accerchiavano, spintonavano e minacciavano ripetutamente di morte (mimando al contempo il gesto di tagliargli la gola e di gettarlo in mare) il marinaio di guardia Lucivero Pantaleo” e “costringevano il comandante Dobrescu a invertire la rotta”. Per entrambi anche l’accusa di aver favorito l’immigrazione clandestina dei compagni di viaggio. “Grazie”, commenta Salvini dopo la notizia dei fermi. Migranti. I dannati della Libia di Angelo Ferracuti Il Manifesto, 15 luglio 2018 Il dolore è scritto sulla pelle, nei corpi, ma il vissuto di chi è stato torturato e violentato nei “mezra”, depositi di umanità, in Libia viene fuori a poco a poco, prima negli incubi o con strani disturbi fisici. Cinque anni di storie raccolti all’ospedale di Senigallia. Quando dall’entrata principale con l’ascensore saliamo al sesto piano, i reparti amministrativi dell’ospedale di Senigallia dove incontro Stefania Pagani sono deserti. Lei è una dottoressa bionda, piccola di statura, e un viso espressivo con grandi occhi castani, l’accento ibrido mescola il tarantino d’origine che circola in quello marchigiano della terra dove si è trasferita da adolescente. Negli ultimi cinque anni come medico legale ha visitato e ascoltato le storie tragiche di più di trecento richiedenti asilo, arrivati dagli Sprar e dai centri di accoglienza (Cas) della Prefettura. Ha visitato soprattutto giovani con meno di trent’anni, donne e uomini, venuti da Ghana, Senegal, tanti dalla Nigeria, una nazione divisa da tensioni etniche tra cristiani e musulmani, ma anche dal Gambia, dalla Costa D’Avorio, dilaniata da una guerra civile, dal Mali, dove imperversano le insurrezioni jihadiste. Donne e uomini che avevano affrontato il deserto, e li accumunava aver subito torture, gente scappata da guerre, perseguitata per motivi religiosi o di orientamento sessuale. Più di trecento, racconta. “La medicina forense umanitaria viene incontro alle persone che attraverso le loro storie raccontano di aver subito violenze, nel corpo e nella psiche”, dice, seria e decisa. E allora lei, quando incontra una persona, quando questa entra nell’ambulatorio, comincia a leggerla, decifra le ferite sugli arti, le mutilazioni. “I segni che hanno sulla pelle, sui corpi” - dice ancora - “raccontano già il dolore e i drammi, il corpo diventa testimone”. Nelle prigioni libiche i torturatori più efficaci sono quelli in grado di esercitare una violenza che più si avvicina al confine con la morte, i volts da non superare durante le scariche elettriche inferte sui genitali, per non provocare l’arresto cardiaco, l’acqua bollente versata da grandi pentole sulle braccia o sul ventre. Quelli più esperti nella pratica della falaka o falanga sanno come colpire le piante dei piedi con spranghe di ferro di uomini legati tenuti a testa in giù che urlano terrorizzati e non riusciranno più a camminare per mesi. Lo spavento che provocano, deve restare a vita nella memoria e nei cuori palpitanti di quelle persone. Questa è la nota situazione in Libia dopo l’accordo tra il governo Gentiloni e quello di Fayez Al Sarraj, definito disumano dalle Nazioni Unite, che ha fatto dire all’Alto commissario Zeid Raad Al Hussein: “La sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Quei ricordi e quelle paure spesso si spostano nella vita onirica e diventano incubi. Stefania dice che non è facile farli parlare, “ci vuole tempo”, riferisce mentre prendo appunti sul mio taccuino e siamo da una parte e dall’altra di una lunga scrivania. “Inizialmente raccontano di avere disturbi del sonno, cefalee persistenti, somatizzazioni. Ma gli esami sono sempre negativi, perché sono i sintomi di qualcosa di molto più profondo”. Raccontano solo la punta dell’iceberg. Una ragazza che aveva subìto violenze sessuali di gruppo lungo la traversata nel deserto - racconta - “nella memoria del corpo aveva sviluppato una serie di sintomi, aveva dolore all’orecchio, non sentiva bene, avvertiva un ronzio, e poi lamentava bruciore agli occhi”. Gli esami anche nel suo caso furono negativi. Mentre la violentavano, le avevano gettato sabbia negli occhi e fatto tagli alle gambe. “Era piccola, graziosa, impaurita da morire”, dice Stefania, sorridendo con dolcezza. “Il racconto di un sintomo di un ghanese non è uguale a quello di un italiano o di un francese, sono sempre affiancata da mediatori culturali capaci di interpretare i segni e i sintomi, ma prima deve svilupparsi tra me e loro un’empatia, e poi una vera e propria alleanza terapeutica”. I mediatori a volte piangono, si commuovono, “perché quando ascolti una storia di violenza della tua terra, è come se facessero una violenza anche a te”. Quella sessuale nelle carceri libiche è una forma etologica di dominio. Le donne sono spesso stuprate, anche le bambine sono costrette a fare sesso con i miliziani, e quando ne arrivano di nuove, i carcerieri scelgono quelle tra di loro fisicamente più debilitate o incinte e le uccidono, poi chiedono alle sopravvissute di pulire in terra le macchie di sangue versato e di sotterrare i corpi. Di ognuno si deve ricostruire la storia, ma a volte alcuni hanno crisi di pianto o alterazioni spazio temporali, ci sono ragazzi che hanno subìto abusi da persone dello stesso sesso, costretti a rapporti anali, violati in gruppo da detenuti minacciati dai carcerieri che urlavano “violentatelo o vi uccido!”“. Quando queste persone arrivano, intimidite nell’ambulatorio, Stefania Pagani si mette pazientemente in ascolto, poi li fa spogliare e accomodare sul lettino. “Certificare che certi segni sono compatibili con le storie raccontate, per loro ha un grande valore, riesce a ridare una dignità alla persona, la tortura ha invece l’obiettivo di distruggere”, dice abbassando il tono di voce e diventando più intima. Alessandro Leogrande ne La frontiera (Feltrinelli,) il libro che meglio ha raccontato questi nuovi dannati della terra, riferisce alla perfezione cosa significa tutto questo: “Alla base di ogni viaggio c’è un fondo oscuro, una zona d’ombra che raramente viene rivelata, neanche a se stessi. Un groviglio di pulsioni e ferite segrete che spesso rimangono tali. Ma capita altre volte che ci siano dei viaggiatori che ne hanno passate così tante da esserne saturi. Sono talmente appesantiti dalla violenza e dai traumi che hanno dovuto subire, nauseati dall’odore della morte che hanno avvicinato, da non voler far altro che parlarne”. Uno degli ultimi casi di cui Stefania si è occupata, riguardava un ragazzo africano vissuto per due anni nelle prigioni libiche. “Si riteneva fortunato perché era arrivato vivo qui per raccontare la sua storia, da testimone, anche per i tanti che non ce l’avevano fatta”. Mi riferisce quella di un ragazzo africano giovanissimo che a otto anni è andato a lavorare in un Paese lontano. Minorenne, è assoldato e costretto a combattere da un gruppo di ribelli, torturato e obbligato a uccidere sotto l’effetto di droghe, poi a scavare fosse dove mettere i corpi. Durante la visita, ricordando quelle storie, diceva a Stefania che non doveva avere paura di lui, li aveva uccisi ma non era un assassino. “Il suo cruccio era che le persone potessero giudicarlo per le cose che raccontava” dice la dottoressa. Era fuggito, aveva attraversato il Mali, il Burkina Faso, poi era arrivato in Libia. Lì era stato catturato e portato nei “magazzini”, i mezra, dove i trafficanti di esseri umani segregano le persone. Lì sono torturati, privati delle unghie, le gambe legate con una corda, il corpo viene sollevato, e colpito in modo continuativo fino a tramortirlo. Un altro ragazzo, raccontava che per umiliarlo lo facevano camminare accosciato in un terreno pietroso. “Aveva escoriazioni sulle gambe, sulle mani”, ricorda di quella visita. Il più delle volte si fa raccontare la parte di storia finalizzata alla valutazione del trauma, “non dall’inizio, però, per non ritraumatizzare: il fatto di dover raccontare troppe volte, nel ricordo può riacutizzare il dolore”. È un lavoro che si fa in équipe, altri medici intervengono singolarmente, c’è sempre uno psichiatra, così come può esserci un dermatologo, un vulnologo capace di valutare ustioni e lesioni della cute. “La loro pelle è diversa, tende a fare cheloidi in maniera superiore alla pelle chiara”. Mi fa vedere alcune foto che ha sul display del telefonino, sono parti di corpi che appartengono a persone che hanno subìto violenze, immagini atroci di mani o di piedi ai quali sono state amputate dita, segni di arma da taglio sul petto, stampi di frustate sulla schiena. Alcuni altri hanno scarificazioni, segni o incisioni tribali, simboli di appartenenza a gruppi etnici-religiosi: ormai è capace di riconoscere anche quelli. Essendo un medico imparziale, questo lo ripete più volte, deve solo capire se il segno è verosimile, “mi limito a dare una compatibilità a una lesione, riconducibile a una violenza particolare, devi far capire loro che non sei lì per giudicarli, il tuo compito è valutare se la manifestazione fisica e i segni sono compatibili con ciò che raccontano”. Molti non sanno se riusciranno mai a dimenticare lo strazio di quello che hanno vissuto, “sono persone che soffrono incubi notturni, alcuni hanno subìto più lutti, prima violenze nel loro Paese, poi hanno perso amici e parenti lungo la traversata”. Uno di loro - penso mentre stiamo attraversando il lungo corridoio, avvicinandoci lentamente all’uscita - si chiamava Emmanuel Chidi Nabdi. Cristiano, con la moglie Chinyere era scappato dalla Nigeria dalla violenza terrorista dei fondamentalisti islamici di Boko Haram. Usciti salvi all’assalto a una chiesa, nell’esplosione avevano già perso una figlia e i genitori. Durante la traversata dalla Libia verso Palermo sua moglie incinta è stata picchiata e ha abortito. Lui è stato ucciso il 5 luglio di due anni fa a Fermo, nella mia città, da un razzista che prima di colpirlo con un pugno ha chiamato la sua sposa “scimmia africana”. Francia. Presentato il nuovo piano antiterrorismo di Lorenzo Zacchi geopolitica.info, 15 luglio 2018 A distanza di due anni dal tragico attentato di Nizza, la Francia presenta il suo nuovo piano anti terrorismo, che implementa quello presentato dall’ex primo ministro Valls nel 2016. Precisamente due anni fa, a Nizza, morivano 85 persone (86 con l’attentatore) a seguito dell’attacco terroristico compiuto da Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, cittadino franco tunisino di 31 anni. Due anni dopo il primo ministro francese, Edouard Philippe, svela il nuovo piano antiterrorismo nel quartier generale della Direzione Generale per la Sicurezza Interna francese (Dgsi): 40 misure, di cui 32 svelate e 8 secretate, che saranno immediatamente in vigore e implementeranno il vecchio piano anti terrorismo. Elenchiamo alcune delle misure più significative, che confermano l’altissima attenzione che il governo francese continua a volgere alla questione della sicurezza. Da gennaio 2017 i servizi di sicurezza hanno sventato 25 potenziali attacchi terroristici, segno che la minaccia, nonostante nel 2018 si registri un crollo di morti per attentato nel territorio francese, resta ancora alta. Una prima misura è quella che vede la creazione di una specifica cellula che si occuperà di profilare gli identikit degli attentatori, analizzando e identificando i fattori che causano più frequentemente la radicalizzazione e il passaggio effettivo all’azione. La cellula sarà posta all’interno del Coordinamento nazionale dell’intelligence e della lotta contro il terrorismo (Cnr-Lt), organo istituito un anno fa dall’Eliseo. Una task force posta sotto l’Unità di coordinamento antiterrorismo (Uclat) si occuperà dei detenuti terroristi e dei prigionieri comuni alla fine della loro pena. Entro la fine del 2019, infatti, 450 potenziali radicalizzati avranno scontato la loro pena e saranno liberi: un numero elevato che costituisce un pericolo per la sicurezza interna francese. Questa task force opererà in stretto contatto con il National Intelligence Office, creato nel 2017, che monitora all’interno delle carceri 3000 detenuti considerati radicalizzati. Intensificare le indagini di sicurezza per l’accesso a luoghi o a manifestazioni sensibili: il servizio nazionale di investigazioni e sicurezza amministrative (Sneas) potrà effettuare oltre 800.000 indagini all’anno. La creazione, come annunciato da Macron nel 2017 alla Sorbona, di un’Accademia di intelligence europea, che inizierà la propria attività nella prima metà del 2019. Sempre a livello europeo la Francia insisterà per accelerare i tempi del ritiro dal web del materiale considerato pericoloso e di propaganda jihadista. Verranno aumentati i fondi per la protezione e per il risarcimento delle vittime del terrorismo, fattore che Philippe considera “fondamentale” per la tenuta della società civile francese. Creare una procura nazionale antiterrorismo: un procuratore specifico per la materia e un pool di magistrati immediatamente mobilitati in caso di attacco terroristico. Sino ad oggi la materia era affidata a una sezione del Pubblico Ministero di Parigi. Il fenomeno del terrorismo in Francia, come ribadito da Philippe, è prettamente endogeno: la gran parte delle persone considerate radicalizzate ha passaporto francese. Inoltre il fenomeno è in continua evoluzione, e i profili sono sempre meno riconoscibili, soprattutto in carcere: i detenuti potenzialmente pericolosi tengono un profilo basso, per evitare di essere riconosciuti e perseguiti. La sovrapposizione con l’ambiente criminale rende la minaccia terroristica ancora più liquida e difficile da tracciare. L’implementazione dei controlli in carcere e il follow up riservato agli ex detenuti, unito all’incremento delle misure relative al monitoraggio locale tramite i Gruppi di Valutazione Dipartimentale (Ged), prova ad andare incontro alle nuove minacce. Quel che manca è una risposta al fenomeno dei foreign fighters di ritorno, aspetto che in Francia non può essere sottovalutato dato il gran numero di combattenti partiti dal paese. Al momento da Parigi hanno fatto sapere che chi, con passaporto francese, è detenuto con le accuse di terrorismo in paesi nei quali ha combattuto, come Iraq e Siria, non sarà estradato e rimarrà giudicato dai tribunali locali. Intanto nel porto di Genova è partita l’operazione Neptune, organizzata dall’Interpol - Antiterrorismo di Lione con l’adesione del Servizio per la cooperazione internazionale di polizia e della Direzione centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere. Obiettivo rintracciare possibili foreign fighters, dato che il porto di Genova rappresenta il principale approdo per le rotte provenienti dal Nord Africa. Stati Uniti. L’industria multimilionaria della detenzione dei minori migranti Associated Press, 15 luglio 2018 Attualmente, più di 11.800 bambini di età compresa tra i pochi mesi e i 17 anni sono ospitati in circa 90 strutture in quindici stati degli Stati Uniti. La detenzione di bambini immigrati è diventata un’industria emergente negli Stati Uniti che attualmente sposta un finanziamento annuale di 1.000 milioni di dollari, il che significa un aumento del 10% nell’ultimo decennio, secondo i risultati di un’analisi condotta dall’agenzia AP. Secondo i dati dell’agenzia, il dato relativo ai sussidi sanitari e ai servizi umanitari per alloggiare e fornire assistenza ai minori migranti non accompagnati detenuti è passato da 74,5 milioni di dollari nel 2007 a 958 milioni di dollari nel 2017. L’agenzia sta anche analizzando un nuovo round di proposte nel crescente sforzo della Casa Bianca per mantenere i bambini immigrati sotto la custodia del governo. Attualmente, oltre 11.800 bambini di età compresa tra pochi mesi e 17 anni sono ospitati in circa 90 strutture in quindici stati, tra cui Arizona, California, Florida, New York, Texas e Washington.. I minorenni sono detenuti mentre i loro genitori aspettano una procedura di immigrazione e, nel caso in cui non hanno alcun accompagnamento, sono essi stessi soggetti a tale processo. Budget milionario - Lo scorso maggio sono stati proposti cinque progetti per ottenere punti di osservazioni e guardie per monitorare le strutture che potrebbero comportare un esborso di 500 milioni di dollari. Nuove proposte sono previste per il prossimo mese di ottobre. Kenneth Wolfe, portavoce del Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti, HHS, ha riferito all’AP che il budget dovrebbe essere sufficiente per ottenere “il numero di letti necessari per fornire un’adeguata assistenza ai bambini”. Secondo l’agenzia, i principali destinatari del programma di sussidi sono state le organizzazioni di Southwest Key e Baptist Child & Family Services, che dal 2008 hanno ricevuto rispettivamente 1.390 e 942 milioni di dollari. Un’altra organizzazione che ha beneficiato del programma è stata International Educational Services, che ha ricevuto oltre 72 milioni di dollari durante l’ultimo anno fiscale, prima di ritirarsi in mezzo a un’ondata di lamentele sulle condizioni dei loro rifugi. Chi gestisce i soldi? I beneficiari, tra cui organizzazioni senza scopo di lucro e istituzioni religiose, sostengono che i bambini sono ben assistiti e che le ingenti somme di denaro sono necessarie per ospitare, trasportare, educare e fornire assistenza medica a migliaia di bambini mentre si incontrano con le tue procedure governative e gli ordini del tribunale. La pratica di separare le famiglie di immigrati privi di documenti al confine con gli Stati Uniti con il Messico è entrato in vigore lo slogan della “tolleranza zero” della politica di immigrazione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Dopo forti critiche e polemiche scatenate a livello internazionale, il 20 giugno scorso Trump ha firmato un ordine esecutivo volto a porre fine alla separazione delle famiglie di migranti sul confine. Stati Uniti. Agente spara e uccide uomo in strada: la folla inferocita ferisce i poliziotti La Stampa, 15 luglio 2018 Una folla inferocita ha invaso le strade di un quartiere del South side di Chicago dopo l’uccisione di un uomo da parte di un agente di polizia. Ci sono stati scontri tra manifestanti e poliziotti: il bilancio è di alcuni agenti feriti e quattro manifestanti arrestati. Poco prima un agente aveva sparato ad un uomo “che mostrava le caratteristiche di una persona armata” e che aveva fatto resistenza durante un controllo. L’uomo, rimasto ferito, è morto poco dopo in ospedale. Dopo l’omicidio la folla ha invaso le strade del quartiere gridando insulti e tirando bottiglie contro gli agenti. Qualcuno è saltato su un’automobile della polizia, altre vetture sono state danneggiate. Al termine dei disordini quattro persone sono state arrestate. Il portavoce della polizia di Chicago, Anthony Guglielmi, ha spiegato che sul posto è stata recuperata un’arma, ma non ha chiarito se l’uomo fosse armato quando gli hanno sparato. Di sicuro -ha aggiunto- la vittima, che aveva una trentina d’anni, non ha aperto il fuoco. Secondo alcuni a sparare è stata un’agente, che ha premuto il grilletto cinque volte, raggiungendo la vittima alla schiena mentre fuggiva. Per questo motivo la poliziotta è stata prontamente allontanata dalla scena, caricata su una volante della polizia, mentre nel punto della tragedia si radunava un centinaio di persone che a quel punto hanno cominciato a inveire e lanciare sassi contro gli agenti. La tensione è salita rapidamente e a quel punto la polizia ha isolato l’aerea. Non è la prima volta che a Chicago gli agenti sparano e uccidono. Nel 2015 l’uccisione di un 17enne afroamericano fece già esplodere violente proteste Etiopia-Eritrea. La strana coppia che ridà speranza al Corno d’Africa di Michele Farina Corriere della Sera, 15 luglio 2018 La storica visita del vecchio dittatore Afewerki ad Addis Abeba suggella la pace tra i due Paesi dopo diciotto anni. Il ruolo cruciale del giovane premier etiope Abiy. Due ex soldati, due atleti del potere che più diversamente non potrebbero correre. Il giovane mago della cyber-war e il vecchio ribelle che si è formato nella Cina di Mao, l’aperturista e il diffidente, il politico nuovo e l’incallito dittatore, lo scattista delle riforme e il maratoneta dello status quo. Forse per questo si capiscono? Ciascuno ha il suo gioco, senza fare ombra all’altro. E così facendo stanno scrivendo la storia. Abiy, il quarantaduenne premier dell’Etiopia, è stato capo della cyber security ma tiene la porta dell’ufficio sempre aperta, senza uno straccio di segreteria a fare da filtro. Invece il settantaduenne Isaias, il primo presidente (e l’unico che l’Eritrea abbia conosciuto in 25 anni di indipendenza), è ossessionato dalla questione sicurezza: teme che gli Usa possano ucciderlo con un missile dentro casa e tanti anni fa accusò l’allora premier etiope Meles Zenawi (suo cugino per parte di madre) di aver provato a ucciderlo con la sua famiglia prestandogli un aereo taroccato. Da quella volta il presidente Isaias, com’è chiamato nel suo Paese, non si fidò più del cugino. Né del suo governo. E due anni dopo, per una questione di confini, tra i due Paesi vicini scoppiò una guerra di trincea che fece la bruttezza di 70 mila morti. Era il 2000. Quel reticolato di inimicizia alto vent’anni si è sbriciolato nel giro di una settimana. Etiopia ed Eritrea fanno la pace. Per la prima volta da due decenni, famiglie separate dal conflitto hanno potuto sentirsi al telefono e non darsi la voce oltre la frontiera. I voli di linea fra Addis Abeba e Asmara riprendono la prossima settimana. Ad aprire il cielo sono stati gli aerei dei rispettivi leader. Ci è voluta la faccia nuova di Ahmed Abiy e il suo disarmante coraggio per stanare Isaias Afewerki dall’antica roccaforte di Asmara, dai meravigliosi palazzi in stile modernista progettati dagli architetti italiani in epoca fascista. Per primo però è stato il vecchio eroe dell’indipendenza eritrea a giocare da padrone di casa, ricevendo il fresco primo ministro etiope nella capitale dell’ex colonia italiana. Sorrisi, abbracci che hanno dato il via libera alla visita di ritorno: ieri il presidente-padrone dell’Eritrea è volato ad Addis Abeba, dove non metteva piede dalla volta in cui fu costretto a un atterraggio di emergenza mentre andava in vacanza in Kenya con l’aereo del cugino. Meles Zenawi nel frattempo è morto e molta acqua è passata sotto i ponti e nelle dighe costruite dagli italiani nella sfregiata Oromia, la terra da cui proviene Ahmed. Da otto anni in politica, il primo oromo ad arrivare alla guida del governo non si è mosso con circospezione. E nel giro di due mesi ha cambiato il volto del suo Paese: ha liberato i prigionieri politici, sciolto lo stato di emergenza, liberalizzato l’economia, licenziato controversi (e finora intoccabili) capi dell’esercito e dei servizi di sicurezza. Nel suo discorso di insediamento, per la prima volta un premier etiope ha parlato di donne, attraverso il riferimento a sua moglie e sua madre. E per la prima volta ha detto di voler far la pace con il piccolo Paese vicino, riconoscendo la sentenza di arbitrato di un tribunale Onu che ha assegnato all’Eritrea le terre contese nella guerra del 2000. Ahmed ha fatto un gesto importante, che gli ha inimicato parte della potente minoranza tigrina (il 6% della popolazione) che ha sempre tenuto in mano le redini del potere ad Addis Abeba. Quel pezzo di terra brulla e contesa è proprio nella regione del Tigré, dove l’annuncio del disgelo è stato salutato con proteste di piazza. Forse questo spiega anche la granata che dieci giorni fa è esplosa a un comizio del premier nella capitale, uccidendo due persone tra la folla. Quello che è già stato ribattezzato il Mandela dell’Etiopia non si è scomposto: “Chi uccide perde in partenza”, ha detto. Afewerki ha accolto l’apertura dapprima con cautela. E poi ha capito che non poteva non accettare di fare la sua parte nella danza del disgelo (forse osservando le mosse di successo di Kim in Nord Corea). Il presidente paria dell’Africa esce dall’isolamento. Sulle strade di Addis bandiere eritree e folla festante al suo passaggio. Isaias incassa. E adesso viene il più difficile. Sarà tentato di aprire qualche varco nel monolite del regime? Oppure ritiene la pace una sorta di assicurazione interna, per continuare a usare il Paese come una grande prigione? Accanto al dittatore, il giovane Ahmed sorride. Anche lui deve guardarsi alle spalle. Come sempre, i pericoli più grandi per gli atleti del potere arrivano da vicino. Colombia: l’ex capo delle Farc a processo “chiedo scusa alle vittime” di Emiliano Guanella La Stampa, 15 luglio 2018 È iniziato in Colombia il primo processo contro la cupola delle Farc nell’ambito della “giustizia speciale”, creata con l’accordo di pace siglato due anni fa fra il governo e il gruppo guerrigliero. La prima causa riguarda i sequestri commessi dall’organizzazione tra il 1993 e il 2015 e vede come imputati i principali comandanti e leader regionali delle guerriglia oggi smilitarizzata. La “commissione della verità” - Il processo non porterà a delle condanne da scontare in carcere ma servirà per far luce sui crimini commessi; una sorte di “commissione della verità” per un Paese segnato da mezzo secolo di conflitto. Il primo a parlare davanti alla corte è stato il leader delle Farc Rodrigo Londoño, meglio conosciuto come Timochenko. Blazer scuro e camicia azzurra, è entrato in aula con il pugno chiuso alzato. “Chiediamo perdono a tutte le vittime. Faremo tutto il possibile per stabilire la verità su quello che è successo, assumendo la nostra responsabilità per i fatti commessi. Lo facciamo nell’ambito degli accordi di pace firmati all’Avana, che stiamo rispettando alla lettera, punto per punto. Faremo inoltre tutto ciò che sarà nelle nostre possibilità per evitare che fatti del genere possano ripetersi nel nostro Paese”. Assieme a lui c’erano altri due leader delle Farc, Carlos Antonio Lozada e Pablo Catatumbo, mentre una trentina di ex comandanti e ufficiali hanno disertato l’aula in protesta contro l’arresto del loro compagno Jesus Santrich, in carcere con l’accusa di narcotraffico internazionale, un reato non compreso tra quelli condonati dall’accordo di pace. Le critiche alla “giustizia speciale” - Questo primo processo potrebbe portare ad almeno 300 condanne per altrettanti casi di sequestro di persone perpetrati dalle Farc; tra le vittime ci sono militari, politici e imprenditori, alcuni dei quali sono stati prigionieri nella selva per diversi anni. La “giustizia speciale” concessa alle Farc è stata criticata fortemente dai settori più conservatori della politica colombiana, guidati dall’ex presidente Alvaro Uribe, da sempre acerrimo nemico del gruppo guerrigliero. Il presidente eletto Ivan Duque, considerato un delfino politico di Uribe, ha detto che alcuni meccanismi dell’accordo di pace dovranno essere rivisti. Duque, che entrerà in funzione in agosto, non ha però chiarito se intenderà proporre al Congresso delle modifiche sostanziali all’intesa oggi in vigore.