Beppe Grillo “abolisce” le carceri: tortura senza senso, stop al business di Paola Di Caro Corriere della Sera, 14 luglio 2018 Il fondatore M5S: “Limitare il ricorso alla detenzione e indirizzare il denaro verso lo stato sociale invece che verso lo stato penale”. Il Pd: “Sconfessa il ministro Bonafede, cosa ne pensa Salvini?”. Arriva a sorpresa il post di Beppe Grillo. E sembra rivolto a quella parte del M5S che comincia a provare forte disagio per le posizioni spiccatamente di destra della Lega, sui temi dell’immigrazione e della sicurezza. Quasi tornando alle origini, il fondatore sul suo profilo Facebook scrive infatti che è ora di affrontare il tema delle pene alternative al carcere. Citando il rapporto annuale dell’Associazione Antigone, Grillo sostiene che “il sistema punitivo che stiamo adottando è antico come il mondo, ma soprattutto non funziona”. Soprattutto per quanto riguarda i recidivi “rinchiudere una persona per anni dentro una stanza, oltre ad essere una tortura senza senso, non porta a nulla”. Un messaggio molto forte per un governo che dell’indurimento delle pene e del ricorso al carcere fa comunque una delle sue battaglie. “È chiaro - scrive invece Grillo - che servono mezzi alternativi”, e citando un criminologo norvegese, Nils Christie, aggiunge che le carceri sono “un vero e proprio business”, motivo per cui vanno cercate “misure alternative”. Parole che non vengono - almeno pubblicamente - né accolte né respinte da esponenti del Movimento, chiamato in causa da parecchi nell’opposizione per smentirle o comunque per fare chiarezza. Se infatti a Grillo arriva il plauso della stessa associazione Antigone - “Siamo d’accordo con lui, speriamo che con le sue parole convinca chi oggi al governo evoca certezza della pena e più carceri per tutti”, sia dal Pd che da FI e FdI partono, per motivi diversi, gli attacchi. L’ex Guardasigilli Andrea Orlando si rivolge direttamente al suo successore, il ministro Alfonso Bonafede esponente proprio del M5S: “Ministro, ci sono molti elementi su cui riflettere! Cosa c’entra tutto questo con il parere espresso dal Senato sul decreto carceri?”. Sempre dal Pd, anche David Ermini, capogruppo in commissione Giustizia, incalza: “Il post di Grillo sulle carceri è la prova definitiva che il M5S ha rinunciato alle proprie idee per il potere” visto che è una “sconfessione” della linea Di Maio-Bonafede sulle carceri. Insomma, la contraddizione tra le posizioni politiche di Grillo e le decisioni che il partito è chiamato a sostenere in Parlamento rischiano seriamente di creare nuove tensioni, anche se più volte dai vertici del movimento si è specificato che il fondatore parla “a titolo personale”. Ma già Edmondo Cirielli, di FdI, attacca: “Sono certo che il ministro della Giustizia smentirà le parole di Grillo, ribadendo come la sicurezza dei cittadini e il rispetto della legge siano i punti centrali dell’azione di governo della Lega. E sarebbe interessante anche sapere cosa ne pensa Salvini...”. Stesso sconcerto viene espresso da FI, con Luca Squeri: “Dall’azzeramento del lavoro, con il reddito per nascita, al Senato a sorteggio, fino al sistema giudiziario a “carceri zero”: Beppe Grillo è diventato il trionfo dell’irrealtà più superficiale. Quando i Cinque Stelle prenderanno le distanze dai deliri di un uomo di spettacolo sempre alla ricerca di provocazioni sarà sempre troppo tardi”. Grillo a sorpresa: sogno “un mondo senza carceri”. E cita Nils Christie di Beppe Grillo Il Dubbio, 14 luglio 2018 Il sistema punitivo che stiamo adottando è antico come il mondo, ma soprattutto non funziona. Non funziona e mi pare che sia sotto gli occhi di tutti. Senza fare molta retorica, mi pare che si rubi, si stupri e si uccida ancora. Sono passati millenni, faraoni, re e interi imperi sono scomparsi, eppure in fondo in fondo parliamo sempre delle stesse cose. Diamo qualche numero. L’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone parla chiaro, dalla fine del 2015 ad oggi il numero dei detenuti in Italia è cresciuto davvero tanto, ben 6.098 in più. Il sovraffollamento è pari al 115,2%. Inoltre molte sezioni di molti carceri non vengono utilizzate. Ma il vero problema è un altro, sono i recidivi. Ad oggi sono un numero incredibile. Su circa 58.000 detenuti, solo il 37% non avevano mai commesso altri crimini, per il restante 63% le mura dello Stato erano già note, addirittura il 13% di loro (più di 7000 persone) avevano dalle 5 alle 9 precedenti carcerazioni. Di tutti i detenuti, circa il 35% sono in custodia cautelare. Cioè quasi 20.000 persone. Aumentano anche quelli che vengono arrestati preventivamente ed è ancora in attesa di una sentenza di primo grado. Oggi sono più di 10.000 persone. Sono numeri incredibili, allarmanti. Inoltre rinchiudere una persona per anni dentro una stanza, oltre ad essere una tortura senza senso, non porta a nulla e non capisco quali risultati dovrebbe portare. Oggi è chiaro. Se non fosse chiaro abbiamo i dati a dircelo. È chiaro che servono mezzi alternativi. E non sono l’unico che sta cercando di far capire che il sistema non va così come è costruito. Nils Christie è un criminologo norvegese e ha dedicato gran parte del suo impegno accademico a far emergere le distorsioni del sistema penitenziario. Sono pienamente d’accordo con lui quando dice che le carceri sono una struttura progettata per infliggere legalmente dolore, uno strumento di controllo sociale e un vero e proprio business. Un business fantastico, perché continua a crescere e se si ferma, non c’è che fare una nuova legge e creare altri criminali. Per prima cosa dobbiamo domandarci quale significato ha il crimine, dobbiamo capire che tipo di fenomeno è. Ma la domanda più scomoda è un’altra. Il crimine esiste? Sicuramente esistono degli atti disumani, nessuno lo mette in dubbio, ma se analizziamo bene cosa intendiamo per crimine scopriamo che c’è dell’altro. Per esempio proprio Nils Christie negli anni 50 compie una ricerca sulle guardie dei campi di concentramento norvegesi. Quegli uomini che sotto l’occupazione nazista stavano facendo il loro dovere, qualche giorno dopo diventano dei criminali. Ma come percepivano, quelle guardie, le loro azioni? Come consideravano i propri atti mentre li compivano? Erano crimini, secondo loro? La risposta è no. Il crimine è difficile da definire esattamente. Non è qualcosa che esiste in natura, qualcosa di dato, finito, di certo. È qualcosa che esiste nelle nostre menti e con il tempo cambia assumendo nuove forme e colori. Dobbiamo capire che lo stato delle nostre prigioni non solo è il prodotto del crimine, ma dello stato generale della cultura di un paese. Dobbiamo tendere a un mondo a carceri zero, o almeno, al minimo possibile. Come il Canada che con il welfare ha dimostrato come sia possibile limitare il ricorso alla detenzione e indirizzare il denaro verso lo stato sociale invece che verso lo stato penale. Quindi in questa prospettiva, la soluzione penale diventa una delle possibilità, non più la sola. La punizione diventa una, ma solo una, tra diverse opzioni. La pena non è mai la riposta adeguata al crimine per la sua soluzione; anzi si limita a fabbricarlo. La prigione, il più delle volte, è dannosa per gli individui. La cosa importante nella politica carceraria di un qualsiasi paese civile sarebbe cercare misure alternative al carcere e molto spesso questo significa accompagnarli verso uno standard di vita accettabile: provare a cercare un’abitazione, cercare alternative nei periodi di disoccupazione, rieducare, reintegrare, far si che si possa ricreare una vita. Per davvero. Beppe Grillo esce dal contratto: “il carcere è dannoso e va abolito” di Ruggero Scotti Il Manifesto, 14 luglio 2018 “Dobbiamo tendere a un mondo a carceri zero, o almeno, al minimo possibile”. Beppe Grillo dal suo blog prende le distanze dal suo movimento due giorni dopo il parere negativo espresso dalla commissione giustizia del senato sulla riforma del sistema penitenziario voluta dall’ex ministro Andrea Orlando. Una riforma che secondo la coordinatrice dell’associazione Antigone, Susanna Marietti, “tendeva ad allargare - in modo minimo e controllato - l’area delle misure alternative alla detenzione pur sotto il rigoroso controllo della magistratura e dei servizi sociali”. “Svuota-carceri mascherata da riforma” l’ha invece bollata il senatore 5S Giarrusso uscendo soddisfatto dall’aula. Ma è il contratto di governo Lega-5Stelle a parlare chiaro sul tema carceri. La risposta al sovraffollamento non sta nella ricerca di pene alternative ma nella costruzione di nuove galere. Eppure, di fronte alla deriva securitaria del governo, Grillo cita proprio i rapporti di Antigone sul problema del sovraffollamento nelle prigioni, sulla questione dei recidivi che sono il 63% del numero dei detenuti, mentre il 13% è già stato in carceri per più di cinque volte per poi chiudere: “La prigione è dannosa per gli individui. La cosa importante per qualsiasi paese civile sarebbe cercare misure alternative al carcere e molto spesso significa accompagnarli verso uno standard di vita accettabile: provare a cercare un’abitazione, cercare alternative nei periodi di disoccupazione, rieducare, far sì che si possa ricreare una vita”. Insomma, per il fondatore del M5S bisognerebbe “limitare il ricorso alla detenzione e indirizzare il denaro verso lo stato sociale invece che verso lo stato penale”. E Orlando commenta, rivolgendosi al suo successore: “Ministro Bonafede, ci sono molti elementi su cui riflettere”. Bene Grillo, benvenuto tra noi: ora via libera alla riforma del carcere di Piero Sansonetti Il Dubbio, 14 luglio 2018 Ieri in redazione siamo restati senza parole quando è arrivato il testo pubblicato sul blog di Grillo. Abbiamo controllato cento volte che fosse un testo autentico, e poi che non fosse uno scherzo. Pare proprio di no: Beppe Grillo - l’uomo che più di tutti negli ultimi dieci anni ha sconvolto la politica italiana e ha modificato i rapporti di forza tra i partiti si è pronunciato in modo netto per l’abolizione del carcere, o quantomeno per un suo fortissimo ridimensionamento. Come potete leggere nel suo intervento, il fondatore del Movimento 5 Stelle propone una critica ferocissima dell’istituzione carcere. Critica il grado di sopraffazione che il carcere esprime, la sua inutilità, la sua caratteristica “criminogena”, e persino mette in discussione il valore assoluto del concetto di “crimine”. Cita uno studioso norvegese, Nils Christie, ed espone tesi libertarie molto simili a quelle di grandi studiosi, come per esempio Michel Foucault. Cosa c’è di strano? Innanzitutto diciamo che non c’è niente di irragionevole in quello che scrive Grillo. Di strano qualcosa c’è. C’è è che Grillo è il fondatore di un movimento, che oggi raccoglie la maggioranza dei consensi elettorali in tutto il paese, il quale si è presentato alle elezioni (e poi al governo) con un programma sulla giustizia che è molto molto lontano dalle posizioni assunte ieri da Grillo. E gran parte dei giornalisti e degli intellettuali che fanno riferimento a quel movimento, ancora in tempi recentissimi, hanno scoccato molte frecce in difesa della tesi opposta, nella convinzione che la pena carceraria sia essenziale, che le misure alternative vadano abolite, che la certezza della condanna sia la chiave del diritto e della moderna convivenza. Personalmente non ho mai capito bene quali fossero le posizioni politiche di Grillo. Non avevo mai avuto l’impressione che potessero avvicinarsi a una posizione liberale e garantista. Tuttavia è indubbio che Grillo sia espressione di una certa idea rivoltosa e anarchica della politica. E probabilmente è proprio in questo filone ribelle del suo pensiero che c’è l’origine della sua improvvisa presa di posizione anti- carcere. In ogni caso la ricerca delle cause del ribellismo-garantista di Grillo non ha molta importanza. Quel che importa davvero sono le cose che ha detto, le esigenze che ha espresso e il vigore con il quale ha messo al centro della discussione il tema della libertà e della necessità di ridimensionare la sopraffazione carceraria. Siccome Grillo è comunque considerato il vero leader del M5S si può immaginare una profonda revisione delle posizioni dei 5 Stelle sui che è molto difficile immaginare di poter affrontare la questione delle carceri, in tempi brevi, senza affrontare alcuni problemi più generali che riguardano la giustizia. Si tratta di vedere, a questo punto, che atteggiamento assumerà la Lega, che comunque (almeno come posizioni di partenza), è sempre stata una forza più liberale, rispetto ai 5 Stelle. Intanto bisognerebbe provare a non fermarsi alle affermazioni generali di principio. Ci sono molte cose concrete da fare. Abbastanza in fretta. La prima, e la più ovvia, è quella di completare la riforma del carcere che il centrosinistra aveva avviato ma non aveva mai trovato il coraggio di concludere. Di quella riforma una parte essenziale sono proprio le misure alternative al carcere delle quali parla Beppe Grillo. Il governo ha la delega per varare quella riforma e deve esercitare questa delega, se non sbaglio, entro agosto. Può farlo. E se vuole può allargare e migliorare quel decreto rendendo ancora più ampie le possibilità di accedere alle misure alternative. Questa è la prima tappa. Subito dopo il discorso si può molto allargare. Tenendo conto anche delle pronunce della Corte costituzionale, che appena 48 ore fa ha messo in discussione, in pratica, l’ergastolo ostativo. Cioè l’impossibilità, per alcuni detenuti, di accedere ai benefici penitenziari previsti dal regolamento e agli sconti di pena. Forse è una circostanza casuale - ma è un’ottima casualità - che la sentenza della Corte coincida con la presa di posizione di Beppe Grillo. Magari questi due episodi potrebbero anche dare un po’ di coraggio ai nostri intellettuali, e ai partiti, tutti da molti anni impauriti dal prevalere di una opinione pubblica piuttosto giustizialista. Prendiamo coraggio, su. E diamo il benvenuto a Beppe Grillo. Rita Bernardini: “Ottima presa di posizione. Ora non cambi idea” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 luglio 2018 Rita Bernardini, membro della Presidenza del Partito Radicale, appena esce dal carcere di Rebibbia, dove teneva il Laboratorio “Spes contra Spem”, viene a sapere del post di Beppe Grillo sulle carceri. Chi meglio di lei, che con migliaia di detenuti in sciopero, ha combattuto per la riforma delle carceri può analizzare l’insolita uscita di Grillo. Secondo Lei cosa lo ha spinto a scrivere questo post? Non posso immaginare quel che frulla nella testa di Grillo che nell’arco degli anni ci ha abituati a dichiarazioni opposte le une alle altre. Comunque, ottima presa di posizione con la quale credo abbia voluto mandare un chiaro segnale ai responsabili del Movimento. Manca nel post di Grillo il richiamo allo stato di diritto e alla legalità costituzionale; nemmeno lo sfiora lontanamente il pensiero che l’esecuzione penale per come viene attuata dallo Stato è fuorilegge, fuori- Costituzione, extra convenzioni e patti solennemente sottoscritti dal nostro Paese. Leggendo quanto scrive è facile subito individuare delle contraddizioni con quanto invece previsto del contratto di Governo stipulato con la Lega. È un modo per rompere con Salvini? Non saprei, certo è che i suoi pupilli sono totalmente schiacciati sul programma giustizialista e manettaro della Lega. Non che a i 5 stelle le manette non piacciano, solo che hanno sempre cercato di mettere l’accento su altro: costi della politica e corruzione (degli altri), no tav, no vax, reddito di cittadinanza. Oggi si trovano a fare i conti con le dichiarazioni di maggiore successo di Salvini che in galera vorrebbe metterci tutti (tranne i suoi sodali). Grillo si focalizza sulle misure alternative che sono il fulcro della riforma dell’ordinamento penitenziario. Secondo Lei potrebbe essere una spinta per l’approvazione? Non credo, anzi sono convinta che oggi la risposta alla barbarie che avanza possa arrivare solo dalle istanze giurisdizionali superiori; in Italia, in particolare, dalla Corte Costituzionale che negli anni recenti e ancor di più oggi con il Presidente Lattanzi, giudicando le leggi italiane, sta emettendo sentenze che si ispirano ai diritti umani universalmente riconosciuti. Vede, l’unico richiamo ideologico del Partito Radicale non è scritto nel suo statuto, ma nel preambolo allo stesso, laddove richiama la difesa attiva di due leggi: la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (auspicando che l’intitolazione venga mutata in “Diritti della Persona”) e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nonché le Costituzioni degli Stati che rispettino i principi contenuti nelle due carte, con il conseguente rifiuto dell’obbedienza e del riconoscimento di legittimità per chiunque le violi, per chiunque non le applichi, per chiunque le riduca a verbose dichiarazioni meramente ordinatorie, cioè a non-leggi. Grillo per rafforzare la sua tesi ha scomodato il criminologo Nils Christie. Ma andando più vicino avrebbe trovato Marco Pannella e il Partito Radicale. Che ne pensa? Le rispondo con un’altra domanda: che tenuta avrà la dichiarazione di Beppe Grillo? Dico questo perché non posso dimenticare che nel 2005 sosteneva con la sua firma la lotta di Marco Pannella per l’amnistia e nel 2013 si scagliava contro Napolitano che con il suo messaggio presidenziale alle Camere proprio all’amnistia si rifaceva per far uscire l’Italia da un’esecuzione penale condannata severamente dalla Cedu. Dichiarazioni strumentali a seconda del bersaglio politico da colpire. Mi auguro però che questa volta si tratti di una presa di posizione sincera e portatrice di conseguenti azioni e lotte, magari perché si è reso conto del baratro in cui possiamo precipitare, avendo lui contribuito ad avvicinarci a quella soglia di pericolo senza ritorno. Antonio Ingroia: “Condivido anch’io, spero sia la svolta per il M5S e il Paese” di Errico Novi Il Dubbio, 14 luglio 2018 Sorpresa doppia. “Saluto positivamente le parole di Grillo. Beppe non finisce mai di sorprendere, ma spero possa indurre una svolta positiva per il Paese nel dibattito sul carcere”. Anche Antonio Ingroia sogna un mondo senza detenuti, o spera quanto meno in un maggiore ricorso alle misure alternative? “Sarà sorpreso lei, io queste cose le penso da sempre”. Mi scusi, avvocato Ingroia, lei ha alle spalle un’attività da pubblico ministero implacabile: è davvero contro la detenzione? In un mondo ideale non dovrebbe esserci il carcere. Non dovrebbero esserci neppure i reati, in realtà. Ma certo quanto dice Grillo a proposito della percentuale di recidiva per chi sconta periodi di reclusione dovrebbe far riflettere: la soluzione afflittiva è fallimentare, si dovrebbe lasciare più spazio alle misure alternative. Soprattutto, ci si dovrebbe ricordare che la stragrande maggioranza di chi commette reati proviene da condizioni di disagio e che la detenzione non è certo la cura di tali marginalità. Le malattie sociali, con la pena detentiva, si incancreniscono e rendono probabile appunto che la persona, in carcere, ci finisca di nuovo. Solo, vorrei ci si ricordasse di una distinzione. Quale sarebbe? Da una parte c’è la tendenza a commettere reati determinata dal disagio, dall’altra non si deve per questo abbassare la guardia e concedere l’impunità né di fronte a quelle parti delle classi dirigenti che si rendono responsabili di comportamenti gravi, né ovviamente dinanzi al fenomeno mafioso, la forma più pericolosa di criminalità che ci troviamo a dover fronteggiare in Italia. Ma da noi la percentuale di corrotti e di mafiosi, negli istituti di pena, è bassissima... Il carcere è criminogeno? Sì. proprio in virtù di quell’aggravarsi della marginalizzazione di cui ho appena detto. Grillo vuole superare il carcere. Ingroia pure. Non è che l’idea di fermare la riforma Orlando perché l’opinione pubblica l’avrebbe maldigerita è senza fondamento? Che insomma gli italiani vogliono più misure alternative? Difficile dirlo. L’opinione pubblica oscilla, in simili valutazioni, a seconda dell’impatto emotivo suscitato dai fatti d cronaca. Ma è anche vero che un ruolo negativo è spesso svolto dall’informazione, che segnala con eccessiva enfasi i rari casi di persone evase dai domiciliari o dal regimi di semilibertà. Se questi temi venissero affrontati con più serietà anche dai media, l’atteggiamento generale dei cittadini sarebbe più sereno. Ci sarebbero posizioni meno esasperate. Ma da anni nel nostro Paese ogni dibattito è sopra le righe. Grillo farà cambiare idea al M5s sulla riforma, riuscirà a sbloccarla? Va intanto salutata positivamente la sua uscita, che mette in primo piano principi e esigenze a cui si dovrebbe guardare sempre. Certo, un mondo senza carcere è appunto ideale. Ma sugli ideali bisogna sempre tener fisso lo sguardo, in modo che il nostro agire reale possa andare nella giusta direzione. Il carcere è di certo un luogo poco umano. Ripeto: da un messaggio così significativo non si deve trarre la possibilità di un attenuarsi della risposta a condotte criminali per nulla legate al disagio o alla marginalità. Ma io confido che le parole di Beppe Grillo possano stimolare un dibattito positivo, non solo nei Cinque Stelle e nella maggioranza ma in tutto il Paese. Il Ministro Bonafede: “non siamo per le manette, ma per pene certe e rapide” di Andrea Malaguti La Stampa, 14 luglio 2018 “Nessuna ossessione per il giustizialismo, le nostre riforme sono previste dal contratto”. Il professor Enrico Amodio, uno dei più importanti penalisti italiani, su “La Stampa” parla di deriva populista del governo. Avete voglia di manette? “Non c’è nessuna deriva populista e non abbiamo nessuna voglia di manette, chi lo sostiene non conosce i miei valori, quelli del Movimento 5 Stelle e quelli del governo. Di sicuro però rivendichiamo il principio sacrosanto della certezza della pena. Da bilanciare con tutti gli altri principi della nostra civiltà giuridica. A cominciare da quello della funzione rieducativa del carcere”. Non volete l’inasprimento delle pene e il blocco della riforma carceraria? “In questi anni i governi si sono occupati soltanto di svuotare le carceri e non hanno fatto niente per rieducare le persone e per migliorare la qualità della loro vita, che spesso dietro le sbarre è disumana. Vogliamo carceri migliori, ma anche percorsi rieducativi migliori e, lo ripeto, pene certe. Se no la gente non capisce”. Blog di Beppe Grillo: le carceri sono inutili e dannose. “Beppe è un libero pensatore. E fa riferimento a un modello canadese che io per altro condivido. Il presupposto però è un forte investimento nel welfare. Andiamo in quella direzione. Ma intanto dobbiamo dare risposte rapide. Abbiamo molte proposte, a differenza di chi ci accusa di essere manettari”. La prima? “L’anticorruzione. La presenteremo la prossima settimana. Si fonda su due punti chiave. Uno: il Daspo contro i corrotti, Chi ha pagato la mazzetta non potrà mai più stipulare contratti con la pubblica amministrazione. Due: l’uso di agenti sotto copertura. C’è qualcosa di giustizialista in questo?”. Lungo dibattito. Di sicuro c’è un’ossessione giustizialista nelle proposte di legge presentate da M5S, Fratelli d’Italia e Lega in questo primo mese di legislatura: abolizione del reato di tortura, castrazione chimica per i pedofili, mani libere sulla legittima difesa. “Nessuna ossessione. La riforma della legittima difesa è nel contratto. Ed è giusto farla. Non è certamente una licenza di uccidere, non si può scherzare sulla morte di un uomo o affrontare il tema con leggerezza. È però il tentativo di non infliggere i tempi e la pressione di tre gradi di giudizio a persone che si sono trovate un ladro in casa”. Sono giuste anche l’abolizione del reato di tortura e la castrazione chimica? “Tutto ciò che non è nel contratto di governo non è il programma di governo. Castrazione e tortura non ci sono”. Ministro, Cesare Beccaria è ancora un punto di riferimento o è arrivato il tempo della giustizia a furor di popolo? “Cesare Beccaria è la pietra angolare della cultura giuridica italiana. Ma chi paga le tasse vuole delle risposte che per ora non ha. Smettiamo di considerare queste richieste come reazioni di pancia. Perché non solo sono legittime, sono sacrosante”. “Anche dalle toghe un voto di protesta non solo di destra” di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 14 luglio 2018 Parla il magistrato Giovanni Zaccaro, che con 671 preferenze rappresenterà il gruppo progressista Area nel nuovo Csm. Insieme al pm Giuseppe Cascini e ai giudici Alessandra Dal Moro e Mario Suriano, il barese Giovanni “Ciccio” Zaccaro rappresenterà il gruppo progressista Area nel nuovo Csm. Con 671 preferenze è stato il terzo più votato nella quota riservata alle toghe con funzione giudicante, alle spalle del centrista Mancinetti (Unicost) e della conservatrice Braggion (Magistratura indipendente). Dottor Zaccaro, dai 7 eletti nel 2014 siete passati a 4: l’arretramento di Area è evidente... Sapevamo che era una partita difficile, il risultato spiace ma purtroppo non sorprende. Nel contesto politico nazionale le forze democratiche e progressiste sono in arretramento, e la magistratura non fa eccezione. Poi dobbiamo considerare che la legge elettorale del Csm rende possibile una sorta di voto disgiunto, e indubbiamente una parte di magistrati che si considerano progressisti nella quota Cassazione ha scelto Piercamillo Davigo e non la nostra Rita Sanlorenzo, un’ottima collega che ha innalzato molto il livello della discussione: a noi il compito di capire perché. Lei ha un’ipotesi? Il sistema di voto in vigore dal 2002, che a me non piace, è costruito per premiare le personalità, non le idee dei gruppi o i programmi. E questo vale in particolare per il consenso elettorale di un magistrato di Cassazione, che si crea in modo molto diverso da quello di chi lavora in una procura o un tribunale. Davigo ha da quasi 30 anni una notorietà tale che gli ha permesso di conquistare consensi non solo a scapito della nostra candidata, ma anche di quello di Unicost, rimasto anch’egli fuori. Ma c’è anche un altro elemento importante. Quale? Esiste un Davigo che parla di processo penale, di diritti e garanzie in modo “reazionario”, e contemporaneamente esiste un Davigo impegnato sul fronte dell’autogoverno dei magistrati. I colleghi progressisti hanno votato il secondo, non il primo, perché in ballo non c’era una scelta fra garantismo o giustizialismo, ma l’indirizzo del prossimo Csm. Non a caso, nella quota riservata ai pm il candidato della stessa corrente di Davigo, Sebastiano Ardita, è arrivato ultimo. Se fosse vero che c’è stata una generalizzata svolta a destra, una svolta antigarantista, sarebbe stato premiato anche Ardita. Detto questo, non voglio certo sminuire il problema che ha di fronte Area: rimetterci in connessione con quella parte di magistrati che si sentono democratici e progressisti ma decidono di premiare Davigo come voto di protesta verso il passato, affascinati dal suo linguaggio schietto e consolati da risposte semplici ai problemi complessi dell’organizzazione della giustizia. Comunque è una discussione che, come Area, svolgeremo collettivamente nei nostri organismi, ai quali non voglio certo sostituirmi. Come spiega invece il successo della corrente di destra Magistratura indipendente (Mi)? La scissione di Davigo sembra non averle fatto male. Tutti i candidati di Mi hanno fatto una campagna molto intensa sapendo cogliere i bisogni dei singoli magistrati sulle condizioni di lavoro e i carichi eccessivi. Mi è da anni che batte su questo tasto, mentre noi ce ne siamo forse accorti con troppo ritardo. Per questo forse le nostre soluzioni, che ovviamente io ritengo più valide, sono state ritenute meno credibili. La vera sfida ora è offrire soluzioni efficaci al problema dei carichi eccessivi di lavoro che coniughino i diritti dei cittadini e la sostenibilità del lavoro giudiziario. Occuparsi dei carichi di lavoro dei magistrati non può essere considerato “di destra”. Come vede quindi il vostro ruolo nel prossimo Csm? Sarete “all’opposizione”? Questi schemi non valgono a priori. Io spero che il contributo di tutti possa portare il Csm ad esercitare appieno il ruolo previsto dalla Costituzione. Davigo dovrà dimostrare di saper passare dalla protesta all’esercizio delle responsabilità. E voglio avere fiducia e confido che il parlamento sappia eleggere membri laici di altro profilo, con una caratura istituzionale e soprattutto che esercitino il loro mandato dimostrando indipendenza dai partiti che li avranno proposti. “Va abolito il rito abbreviato”. Analisi delle proposte del governo di Bruno Tinti Italia Oggi, 14 luglio 2018 Sarà che sono dei parvenu ma voglia di lavorare ne hanno. In materia di giustizia 10 disegni di legge 10. E, considerata la maggioranza stabile di cui godono, la probabilità che ne nasca qualcosa di concreto è alta. E anche il relativo rischio è alto. Perché ce n’è di buoni e di cattivi. Ne tratterò a rate. Qui comincio con uno buonissimo: l’abolizione del rito abbreviato per i reati di omicidio; che, per capire bene di cosa si tratta, richiede una premessa. Il rito abbreviato è il figlio bastardo del nuovo codice di procedura penale; nuovo per modo di dire perché ce lo sciroppiamo da 30 anni. È stata la grande ubriacatura della sinistra: un’idiozia storica che ci ha portato a una giustizia penale inesistente. In poche parole. “Prima” il giudice istruttore e il pm indagavano e scrivevano tutto quello che facevano, perizie, interrogatori, rapporti, tutto; poi mandavano il fascicolo in tribunale dove il giudice se lo studiava e capiva bene di cosa si trattava. Poi interrogava gli imputati, i testimoni e i periti, in caso di contrasto con le dichiarazioni precedenti accertava se si trattava di vecchi ricordi poco precisi o di nuove bugie ben congegnate, e poi emetteva la sentenza. “Dopo” il pm indaga e scrive tutto quello che fa; poi chiede al gip di rinviare a giudizio l’indagato (o di archiviare se crede che sia innocente); e, prima del processo, butta dalla finestra tutto quello che ha fatto; ché tanto non vale più niente. Si deve ricominciare tutto daccapo (in genere a distanza di anni dal fatto); il che significa che prima il pm e poi l’avvocato fanno domande su domande davanti al giudice che accumula centinaia di pagine di trascrizione (tutto viene registrato), va avanti per decine di udienze, ognuna a distanza di mesi dall’altra (ottimo sistema per ricordarsi tutto quello che è già avvenuto) e poi, a distanza di anni dall’inizio del processo, emette la sentenza. Tanto vale tirare una moneta. Si capisce bene che, con questo sistema, per fare un processo ci vanno anni. Quanti se ne fanno in un anno è solo una frazione dei tre milioni tre di processi nuovi che si aprono ogni anno. Sicché mandare qualcuno in galera è una pia illusione: quando non si assolve perché con questo sistema provare la colpevolezza è praticamente impossibile, arriva la prescrizione. Da qui il figlio bastardo. Se rinunci al processo e ti fai giudicare in base alle prove raccolte dal pm (quelle che, se no, si butterebbero dalla finestra), in caso di condanna ti diamo la pena che ti toccherebbe diminuita di un terzo. Che, per pene elevate, è un affare: trent’anni diventano 20; e l’ergastolo diventa trenta (come è noto, tutte pene finte, in pratica se ne sconta la metà). Però, certo, la possibilità di farla franca diminuisce alquanto: i giochini processuali con testi smemorati o falsi o che, comunque, ricordano malissimo a distanza di anni, il dibattimento diluito in mesi /anni con connessa difficoltà per i giudici di padroneggiare le prove, tutto questo non ci sarà; contano gli atti scritti dal pm; e, come si dice, carta canta. Così l’abbreviato è molto gettonato. Da chi? Eh, qui sta il problema: dagli incastrati, cioè dai colpevoli, quelli che di speranze di farla franca non ne hanno. Un terzo di pena in meno non è poco; e trent’anni invece dell’ergastolo poi... Gli altri, quelli che contano sul casino, la lunghezza del processo e la prescrizione, non ci pensano nemmeno: a giudizio, a giudizio, innocente sono. Ecco perché abolire l’abbreviato per un reato grave come l’omicidio è cosa buona e giusta. Di prescrizione non se ne parla: il processo si farà in tempi ragionevoli (in genere gli imputati sono detenuti); che motivo c’è di regalare una così grande diminuzione di pena a un assassino (se c’è una pena c’è una condanna dunque una colpevolezza). Non solo: il gioco non vale la candela. Di processi per omicidio ce n’è pochi (nel 2016 ci sono stati 397 omicidi), quindi non c’è la necessità di risparmiare tempo: si facciano come Dio comanda e i colpevoli se ne stiano in prigione per la vita, com’è giusto che sia. Piuttosto, bisogna rilanciare; su due livelli. Il primo. Quando ci sono processi nei quali la prova è evidente e le possibilità di sfangarla sono inesistenti, l’abbreviato è del tutto inutile: il processo sarà facile e rapido, perché favorire il delinquente? Il rito abbreviato ha per obbiettivo avvantaggiare la giustizia, farle risparmiare tempo, non deve essere una scappatoia per i criminali. È per questo motivo che, all’origine, l’abbreviato si poteva fare solo con il consenso del pm (che sapeva bene come stavano le cose); se questo consenso non c’era, giudizio ordinario, niente sconti. E il pm il consenso non lo dava quando gli imputati erano incastrati. Poi si sa come vanno le cose, l’ubriacatura della benevolenza ha prevalso, in questo come in tanti altri settori. Il secondo. Bisogna potenziare il patteggiamento. A differenza dell’abbreviato, il patteggiamento impedisce non solo il processo in tribunale, anche appello e cassazione: si patteggia e si va in galera. Il punto è che la diminuzione di pena con il patteggiamento è uguale a quella che c’è per l’abbreviato: un terzo. Sicché tutti scelgono l’abbreviato, almeno la tirano per le lunghe; e la prescrizione corre... Si patteggiasse la metà della pena con prigione immediata, questo sì che sarebbe un buon affare per la giustizia. Ecco, qui i grilloleghisti stanno lavorando bene; ma non è sempre così: nella prossima puntata parleremo di legittima difesa. Occhipinti e Dell’Utri, se la carcerazione diventa vendetta di Fabio Pinelli Il Mattino di Padova, 14 luglio 2018 Le notizie dell’avvenuta scarcerazione di Occhipinti e Dell’Utri, per ragioni profondamente diverse, hanno suscitato reazioni connotate da un misto di rabbia e sconcerto. Ciò che si percepisce è che i cittadini non ravvisano alcuna ragione per la quale la pena detentiva possa, in tassative ipotesi previste dalla legge, essere contenuta al ribasso rispetto a quella originariamente combinata. Così, la scarcerazione di Marino Occhipinti, condannato all’ergastolo, per effetto della concessione, dopo 24 anni di detenzione, della liberazione condizionale, è stata ritenuta una decisione profondamente ingiusta, offensiva della memoria di tutte le - tante - vittime della Banda della Uno bianca (Occhipinti, peraltro, è stato giudicato estraneo a molti dei fatti criminosi del gruppo, compreso quello più eclatante della strage del Pilastro). E la decisione di sospendere l’esecuzione carceraria nei confronti di Marcello Dell’Utri, condannato per concorso eventuale in associazione mafiosa, è stata ritenuta un segnale di debolezza non tollerabile a fronte di reati commessi in contesto di criminalità organizzata. Un malinteso di fondo sembra annidarsi a monte di questa strana situazione: quello di volere attribuire alla giustizia penale un compito, meglio sarebbe dire una funzione, che in realtà non le appartiene. Di fronte ad una vita spezzata per mano criminale, non compete alla giustizia, che non può fare miracoli, cancellare il torto. La giustizia, a ben vedere, può solo cercare di “riallineare” la situazione di squilibrio inevitabile prodotta dalla commissione di un reato. Ma non può certo risanare quelle ferite che ne sono susseguite e che restano indelebili. Il risanamento autentico, infatti, appartiene ad un’altra dimensione, che è quella della riconciliazione. Dipende, cioè, dalla capacità delle persone saper ricostruire i legami sociali, partendo dalla condivisione di quel complesso di valori etici che aprono al perdono. Rispetto a questo obiettivo, la pena, il carcere, hanno il compito di rimettere le persone che hanno sbagliato nelle condizioni, innanzitutto morali, di partecipare alla “ricostruzione”: e quando tale compito è esaurito, il resto del lavoro di riconciliazione lo devono fare le persone, lo deve fare la società, perché la pena non ha più alcun senso. Solo in questa prospettiva si può comprendere il significato dell’articolo 27 della Costituzione: la pena non può essere disumana e non può andare oltre il compito della rieducazione. Bisogna, dunque, riconoscerlo: perpetuare la carcerazione di una persona che, dopo lunga detenzione, ha maturato le condizioni per poter riprendere delle relazioni sociali ordinate, significa far svolgere alla pena un compito che non le appartiene. E mantenere in prigione una persona gravemente malata, oltre che disumano, non soddisfa alcun bisogno, se non quello più retrivo della vendetta. Cari avvocati, è l’ora di lottare sui principi. Senza mediazioni di Valerio Spigarelli Il Dubbio, 14 luglio 2018 Una premessa è d’obbligo: chi, nel variegato mondo dell’avvocatura, ha responsabilità di rappresentanza politica, istituzionale o associativa, deve fare i conti con il principio di realtà, dunque, in primis, confrontarsi con il governo e le forze politiche che lo sostengono. Questo per dire che gli incontri e la diplomazia istituzionale, da un lato, da un altro la costruzione di un canale di collegamento con la Lega di Salvini o il Movimento 5 stelle, che istituzioni, organismi politici ed associazioni dell’avvocatura stanno ponendo in essere in questo periodo non sono un problema, anzi non sono “il problema”. Il problema è che l’attuale maggioranza di governo esprime un sentimento, peraltro prevalente nella pubblica opinione come dimostrano sia il consenso elettorale che la vulgata popolare, che può portare alla ablazione di diritti e principi, persino di livello costituzionale, che ritenevamo ormai acquisiti e stabilizzati nel nostro ordinamento. Facciamo alcuni esempi. Ciò che sta avvenendo a proposito dei migranti, così come la drammatizzazione della vicenda della legittima difesa, ci dicono che il valore della vita umana, nell’attuale mercato della politica, è ben al di sotto della linea invalicabile che eravamo abituati a considerare patrimonio comune del contratto sociale repubblicano. Questo è il motivo per il quale il diritto d’asilo, espressamente riconosciuto all’articolo 10 della Costituzione, è oggetto di scherno da parte del ministro dell’Interno mentre, nella scala dei beni costituzionali, l’inviolabilità del domicilio balza in avanti rispetto a quella della persona umana. Che poi entrambe le vicende siano espressione prima di tutto della strumentalizzazione propagandistica di temi securitari, che non trovano riscontro nei dati della realtà, è un problema diverso. Quello che voglio segnalare è l’approccio culturale-giuridico a queste problematiche. Per quanto ogni tanto, ipocritamente, evocato dal ministro di Giustizia, l’articolo 27 della Costituzione, tra appelli all’irrigidimento del regime del “carcere duro” (così testualmente nel contratto di governo), mantra sulla “certezza della pena” e concreto sabotaggio delle riforme dell’ordinamento penitenziario, rischierebbe di essere abrogato in un amen se messo a referendum tra i popoli della Lega e dei grillini, prima ancora che misconosciuto dalla vertiginosa ignoranza che la classe dirigente di quei movimenti dimostra ogni volta che a tale tema si accosta. I diritti acquisti, vedi la vicenda dei vitalizi, vengono trattati come il simbolo del privilegio e dunque pubblicamente ghigliottinati nel tripudio delle gazzette e dei programmi televisivi tricoteuse che fanno la fortuna dei populisti qui da noi come in Europa e al di là dell’Atlantico. Ma anche quelli, discutibili e inguardabili quanto si vuole, stanno dentro al tema del diritto e dei diritti, e guarda tu anche a quello della certezza dei rapporti giuridici. Passando al processo, i nuovi si propongono di abrogare con un tratto di penna il divieto di reformatio in peius, in nome di un disegno che si fonda sulla deterrenza delle impugnazioni il quale, come ricordava anni fa Giorgio Spangher, non venne in mente neppure al ministro fascista Rocco. Senza dimenticare le grida governative sulla necessità di ulteriore rafforzamento delle intercettazioni e del Trojan, le quali dimostrano, oltre alla consueta ed imbarazzante incompetenza, visto che tali strumenti sono di larghissima applicazione dopo la legge Orlando, anche una visione del diritto alla riservatezza delle comunicazioni che fa a pugni con l’articolo 15 della Costituzione e sta tutta dentro una tradizione di assoluto, e autoritario, disprezzo di una concezione autenticamente liberale dei rapporti tra i cittadini e lo Stato. Quella partita con lo slogan “ intercettateci tutti” e finita (per ora) con le app Big Brother style del sindaco di Roma con la quali si vogliono trasformare i romani del 2018 in tanti piccoli capo caseggiato come ai tempi della buonanima. Fermiamoci qui, benché potremmo andare avanti. Il problema, politico, è che questa impressionante involuzione gode del consenso maggioritario degli italiani, ciò deve essere riconosciuto, tanto che alcune delle cose indicate fin qui trovano favore bipartisan anche nel popolo del campo avverso e, a stare ai risultati delle elezioni del Csm, pure in una parte ormai significativa della magistratura. Ma allora, oltre a tentare di limitare i danni proprio attraverso quella dialettica istituzionale/ associativa di cui si diceva in premessa, quale dovrebbe essere il compito di chi ha nel proprio patrimonio genetico una certa idea del diritto e dei diritti? La risposta è semplice: non concedere nulla, mai, a questa orgia retorica ed autoritaria. Per prima cosa denunciare, ogni giorno, con durezza e determinazione, il disegno complessivo, incalzando il governo, le forze politiche che lo sostengono ed anche quelle, diversificate, di opposizione che certe volte lo avversano con argomenti che concedono troppo al timore di essere impopolari, o, peggio, affondano le loro ragioni nel medesimo humus. Ma farlo seriamente significa, o perlomeno dovrebbe, parlare la lingua chiara della difesa dei diritti dei cittadini, senza aver timore della impopolarità. Inutile girarci attorno: noi, quelli che del diritto hanno una certa idea, oggi siamo all’opposizione dappertutto, nelle assemblee legislative, nei giornali, in televisione, persino a cena con gli amici. Siamo una parte ultra-minoritaria nella società ma questo non deve trasformare “il principio di realtà” di cui sopra in minuetto istituzionale o in birignao associativo. Quando si bussa alla porta della politica per portare a casa qualcosa - magari una riformicchia che restituisce tribunali o ne fa riaprire di pericolanti - va bene, per buona educazione, ringraziare in caso di successo, ma sempre chiarendo che su alcune cose non c’è possibilità di mediazione. È bene che si dica, anzi che dicano quelli che possono parlare a nome dell’avvocatura italiana, che se abrogano il divieto di reformatio in peius, i tribunali glieli facciamo chiudere per sciopero, e per un bel pezzo, come avvenne nel 1992 quando si scippò agli italiani il Giusto Processo. In questo momento c’è bisogno di coerenza e risolutezza, in difesa della idea moderna e liberale del diritto, il tempo delle diplomazie non è questo. Quando i sovranisti irridono la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, come ha fatto Salvini, l’avvocatura deve rispondere a palle incatenate, tanto per capirci, non intingendo la penna nell’inchiostro simpatico dei comunicati stampa, che dopo un giorno è bello che dissolto. Quando faranno (ad agosto ci scommetto, come facevano quelli di prima, per la verità...) l’ennesimo “decreto sicurezza” pieno di marchette giudiziarie a favore di questa o quella Procura, di questa o quella agenzia investigativa, di questo o quel foglio manettaro, quelli che da venticinque anni e più si battono per una certa idea della Giustizia scendano in campo, subito, senza aspettare la fine delle ferie. Lo facciano gli organismi che operano in nome della rappresentanza dell’avvocatura, CNF prima di tutto, altrimenti meglio cambiare mestiere. E se per farlo dobbiamo epater le burgeois bestemmiando nella chiesa dei luoghi comuni, diciamo, per esempio, che la battaglia radicale di Marco Pannella per l’amnistia va dissotterrata e ripresa, così dimostriamo che gli avvocati non guardano ai loro portafogli quando si occupano del bene comune. Un estate di molti anni fa, quando un governo pieno di “garantisti” coprì le malefatte di chi aveva torturato alla scuola Bolzaneto, i penalisti italiani si divisero, inizialmente, sull’interrogativo se fosse o meno compito della loro associazione prendere posizione. Fu un dibattito vero, duro, e alla fine la scelta fu quella di gridare alla società italiana che gli avvocati erano sempre dalla parte dei diritti inviolabili dei cittadini, che il corpo di chi è nelle mani dello Stato è sacro. Senza tatticismi o diplomazie. Avrei voluto vedere e sentire qualcosa di simile anche a proposito dei balletti sul sangue dei migranti e se qualcuno ci avesse chiesto perché ci stavamo impicciando di questo tema avrei risposto che dove ci sono diritti inviolabili ci sono gli avvocati. O forse, tanto per usare modi e lessico comprensibile ai nuovi barbari, dopo uno stentoreo “vaffa” avrei semplicemente chiarito: “siamo avvocati, mica lacché”. Abruzzo: reinserimento detenuti, firmato protocollo per le 8 carceri abruzzesi di Maria Trozzi report-age.com, 14 luglio 2018 “Rappresenta il primo passo verso la realizzazione di qualificati interventi di formazione professionale e introduzione al lavoro da realizzarsi negli 8 istituti penitenziari abruzzesi” così la Regione annuncia l’adesione formale del direttore generale della Regione, Vincenzo Rivera e del provveditore dell’amministrazione penitenziaria per Lazio, Abruzzo e Molise, Cinzia Calandrino, al protocollo d’Intesa per l’attuazione del Por fse Abruzzo 2014/2020 in tema di reinserimento dei detenuti. “L’azione mira a ridurre il fenomeno della recidiva in modo da garantire alla popolazione locale più alti standard di sicurezza sociale e, contemporaneamente, a migliorare il clima delle strutture detentive per un maggior benessere non solo dei detenuti, ma anche del personale dell’amministrazione penitenziaria - è scritto nella nota della Regione. Il protocollo prevede la costituzione di una cabina di regia interistituzionale in cui sarà coinvolta anche la direzione generale per il coordinamento delle politiche di coesione del ministero della Giustizia, al fine di assicurare la coerenza degli interventi con le progettualità del Pon inclusione”. Bologna: tensioni in carcere, l’assessore “problemi organizzativi oggi non risolvibili” di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 14 luglio 2018 L’assessore alle pari opportunità ha riferito in Consiglio comunale su aggressioni e le tensioni. L’impegno per migliorare la condizione dei detenuti e degli agenti di Polizia Penitenziaria. “Un problema purtroppo noto che si ripresenta ciclicamente ogni anno con l’aumento delle temperature e per il quale il Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna si è già da tempo attivato”. Così ha riferito ieri in Consiglio comunale l’assessore alle pari opportunità Susanna Zaccheria, rispondendo ai consiglieri Mirha Cocconcelli, Lega Nord, e Marco Piazza, M5S, che hanno sollevato il problema delle tensioni e del caldo all’interno del carcere della Dozza, già trattato diffusamente da Bologna Today. Alcuni mesi fa una nota congiunta sottoscritta dai Garanti nominati nell’ambito territoriale della Regione Emilia-Romagna (Garante regionale, Garante del Comune di Ferrara, Garante del Comune di Parma, Garante del Comune di Rimini e Garante del Comune di Bologna) insieme al Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria “segnalava chiaramente un problema (il caldo - ndr) che si sarebbe proposto, suggerendo una serie di accorgimenti da parte dell’Amministrazione Penitenziaria al fine di mitigare per tempo le condizioni di disagio dovute al clima” ha detto l’assessore “si sollecitavano interventi quali una diversa modulazione degli orari di permanenza all’aria aperta per le persone detenute, evitando le ore più calde (la permanenza all’aria aperta nell’orario pomeridiano è prevista in via ordinaria tendenzialmente fra le 13 e le 15), quindi questo può essere un problema; la previsione di menù giornalieri che contemplino alimenti consigliati durante la stagione estiva; l’agevolazione dell’utilizzo dei frigoriferi nei reparti detentivi; l’apertura del blindo delle celle durante l’orario notturno per far circolare l’aria; e l’acquisto di ventilatori, è chiaro che sappiamo benissimo quali sono le competenze, e questa azione congiunta voleva essere di sollecito a chi ha le competenze, e noi speriamo che tutti questi provvedimenti vengano effettivamente messi in atto”. Nella stessa missiva si parlava anche degli interventi organizzativi delle sezioni più critiche dell’istituto bolognese, come l’infermeria, dove si sono verificati diversi disordini: “La sezione infermeria in particolare è certamente una criticità per la nostra struttura detentiva perché presenta problemi di sovraffollamento transitorio - sottolinea Zaccaria - che si verifica spesso, in particolare quando ospita le persone in ingresso, in attesa di essere collocate nelle altre sezioni dopo aver effettuato gli screening sanitari, possono rimanere lì diversi giorni. Ma ospita anche oltre alle persone ricoverate per ragioni di natura sanitaria, anche persone che hanno problemi di natura psichiatrica, e detenuti che sono collocati per ragioni di opportunità, ad esempio per problemi di adattamento nella vita di comunità nelle sezioni ordinarie. Sempre nella stessa sezione sono anche collocati i detenuti sottoposti a regime di grande sorveglianza, sotto il controllo visivo degli operatori, in ragione di valutazione relativa al rischio suicidario e le celle di isolamento, anche per motivi sanitari”. Quindi convivono “categorie non omogenee di detenuti che non possono stare insieme e per questo vige un regime di chiusura delle celle 20h su 24h, non potendo essere operativo il regime cosiddetto a celle aperte”. Non va meglio nella sezione femminile: “Il nostro carcere ospita l’articolazione per la tutela della salute mentale dove vengono ospitate donne con patologie psichiatriche che possono necessitare di osservazione o che manifestano l’insorgenza di questi problemi durante la detenzione. È vero che quest’area ospita solo 4 donne ed è gestita dal Servizio Sanitario, essendo anche presente all’interno della stessa un presidio fisso infermieristico, seppur all’interno di un contesto totalmente detentivo (le pazienti sono ospitate all’interno di vere e proprie celle)”, e proprio in questa sezione due agenti sono state aggredite qualche giorno fa. Per Zaccaria quindi si tratta di “un inasprimento della condizione delle persone che ci sono che, unita a condizioni particolari come quella del caldo di cui abbiamo parlato, che già esasperano le condizioni personali di tutti, possono in parte contribuire al verificarsi di eventi critici in persone che sono già in una situazione di difficoltà. Il Garante mi segnala che questi problemi che io vi ho descritto sono problemi organizzativi che purtroppo ad oggi non sono risolvibili a causa della struttura fisica del carcere e dell’obbligo a far convivere diverse categorie di detenuti insieme, cosa che può comportare delle criticità - e sottolinea - non sono delle novità e che quindi vanno seguiti e bisogna provare a risolverli”. E la Polizia Penitenziaria? “I sindacati si attiveranno con tutti gli strumenti che hanno a disposizione perché è una categoria sottoposta a situazioni di lavoro già di per sé gravose in cui le carceri hanno delle difficoltà ancora di più, ed è una categoria particolarmente a rischio rispetto all’incolumità personale come ben sappiamo proprio per gli episodi che sono citati. Mi limito a questo nel senso che anche tutte queste accortezze organizzative sono all’attenzione del nostro Garante e di conseguenza l’attenzione della Giunta, e si cercherà sicuramente di utilizzare tutto ciò che è a nostra disposizione per migliorare la condizione sia delle detenute e dei detenuti, che degli agenti di Polizia Penitenziaria”. Monza: in carcere apre lo Sportello del Garante dei detenuti mbnews.it, 14 luglio 2018 Arriva anche nel carcere di Monza lo “Sportello del Garante”. L’inaugurazione ufficiale si terrà martedì 17 luglio, ore 10, presso la casa circondariale di via S. Quirico, 6 alla presenza del di Carlo Lio, Difensore regionale di Regione Lombardia (che esercita per legge anche le funzioni di Garante dei detenuti) e la direttrice del carcere, Maria Pitaniello. Sono stati invitati anche i vertici istituzionali di Regione, associazioni, ATS, sistema formativo e Tribunali. Lo Sportello presso la casa circondariale sarà a disposizione dei detenuti che avranno la possibilità di presentare richieste o istanze rivolgendosi a una figura istituzionale di garanzia. Questo il senso dell’iniziativa, particolarmente innovativa, voluta dal Difensore regionale della Lombardia e dal Provveditorato all’Amministrazione penitenziaria, che su questo hanno stipulato un accordo. “Obbiettivo di questo progetto è avvicinare i detenuti all’istituzione che li tutela - ha spiegato Carlo Lio -, aprendo sportelli direttamente accessibili all’interno del carcere. È un segnale di vicinanza e di attenzione da parte della Regione. Il mio intento è portare il lavoro che inizia oggi in tutte le carceri della Lombardia, avviando collaborazioni con gli uffici dei Garanti dei cittadini nei Comuni sedi di case di reclusione”. Bergamo: incontri bimbi-genitori detenuti, servono 1.400 euro per continuare il progetto di Luca Samotti bergamonews.it, 14 luglio 2018 Lo “Spazio Giallo” della casa circondariale di via Gleno è un luogo protetto in cui i figli di genitori detenuti possono riabbracciare mamma o papà: un’iniziativa di Bambinisenzasbarre che ogni anno permette l’ingresso in carcere di circa 300 minori. Sono 100mila i bambini che ogni anno entrano nelle carceri italiane per visitare la mamma o il papà detenuti: 300 di questi, in media, varcano la soglia della casa circondariale di Bergamo in via Gleno, all’interno del cosiddetto “Spazio Giallo”. Lo Spazio Giallo è un modello di accoglienza che permette ai figli dei detenuti di giocare, disegnare, chiacchierare, leggere, passare il tempo ma soprattutto tessere relazioni: un progetto ideato da Bambinisenzasbarre, associazione che da 14 anni lavora per tutelari i bisogni dei più piccoli tramite una rete strutturata che collega i penitenziari di tutta Italia. Tra le attività condotte dall’Associazione all’interno della Casa Circondariale di Bergamo ci sono anche il supporto alla genitorialità, attraverso percorsi di sostegno condivisi e sostenuti dall’equipe pedagogica del carcere e il confronto e collaborazione con le realtà del territorio bergamasco che lavorano all’interno del carcere e con gli operatori dello stesso istituto. Le visite all’interno del carcere sono gli unici momenti a disposizione dei bambini per ristabilire un contatto vero con i genitori, all’interno di un luogo protetto fatto di attenzione e ascolto dove possono prepararsi alle emozioni del prima e dopo incontro con la mamma o il papà detenuti. Qualora nessun adulto possa accompagnare il minore nell’incontro con il genitore detenuto sono gli stessi operatori dello Spazio Giallo ad affiancarlo in modo da garantire loro il diritto di vedere la mamma o il papà. Nello Spazio Giallo del carcere di Bergamo gli operatori specializzati di Bambinisenzasbarre, quattro educatrici e una figura di coordinamento, curano le relazioni familiari, intercettano i bisogni dei bambini e delle famiglie che li accompagnano, e avviano un delicato lavoro di sostegno relazionale dei bambini, degli adulti, ma anche del personale penitenziario che li accoglie. Lo Spazio Giallo nel carcere di Bergamo, attivo da ormai 5 anni, ha accolto e dato sostegno a oltre 200 famiglie. Ciò che viene prodotto dai bambini nello Spazio Giallo, specialmente disegni, può essere eccezionalmente introdotto all’interno del carcere in deroga al regolamento che prevede che nulla possa filtrare dal mondo esterno. “Ogni sabato ci prepariamo ad accogliere i figli dei detenuti - spiega Maddalena Sala, responsabile dell’attività di Bambinisenzasbarre sul territorio di Bergamo - Durante l’anno vengono poi organizzate tre giornate di festa all’interno del carcere alle quali partecipiamo anche noi: la castagnata a ottobre, il primo sabato dopo le feste natalizie e il primo dopo la chiusura delle scuole. Qualsiasi attività fatta in presenza di minori ci vede protagonisti: negli anni abbiamo notato una maggiore fiducia da parte delle famiglie che si rivolgono a noi per consulenze o per un semplice sostegno. Siamo lì per provare a ridurre l’impatto che una struttura come il penitenziario può avere sui bambini”. La Fondazione di Comunità Bergamasca sostiene il progetto sin dal suo inizio e per poter dar continuità all’iniziativa ha bisogno anche del sostegno dei cittadini: al momento mancano ancora 1.400 euro da raccogliere entro il 30 settembre. Oristano: sei detenuti si diplomano al carcere di Massama di Valeria Pinna L’Unione Sarda, 14 luglio 2018 A Oristano tra i neodiplomati ci sono anche sei detenuti al carcere di Massama. I sei giorni scorsi hanno sostenuto l’esame di maturità e si sono diplomati in amministrazione finanza e marketing, un corso attivato dall’istituto tecnico Mossa nella Casa circondariale. Il progetto è nato quattro anni fa grazie alla collaborazione dell’istituto penitenziario con la scuola. I docenti, coordinati dalla professoressa Maria Antonietta Pau e dalla dirigente scolastica Marilina Meloni, hanno portato libri, lavagne e quaderni tra le celle. E un’intera classe di detenuti ha seguito le lezioni del corso di istruzione superiore di secondo livello in amministrazione, finanza e marketing. Alunni-modello, cinque provengono da diverse regioni d’Italia uno invece è straniero, hanno un’età compresa tra i quaranta e i sessant’anni e alle spalle numerosi anni di carcere. Per alcuni tra qualche anno le porte della casa circondariale di riapriranno e avranno modo di utilizzare il diploma, mentre per altri che scontano il cosiddetto “ergastolo ostativo” (che non prevede la possibilità di nessun beneficio o sconto di pena) la fine pena potrebbe non arrivare mai. Eppure anche loro si sono impegnati, perché per gli studenti-detenuti la scuola rappresenta l’occasione unica di “evasione” e di dignità umana. A settembre suonerà di nuovo la campanella anche nel carcere di Massama e nuove cinque classi di studenti-detenuti sono pronti per riprendere gli studi. Belluno: l’artista Dunio Piccolin sui muri della Casa circondariale di Baldenich radiopiu.net, 14 luglio 2018 Giovedì 19 luglio, alle ore 10.30, si scoprono i veli alla nuova opera dell’artista Dunio Piccolin all’interno della Casa Circondariale di Baldenich a Belluno su una parete del cortile d’accesso alle strutture di detenzione; un progetto promosso dal direttore Tiziana Paolini, dal comandante della polizia penitenziaria Domenico Panatta e condiviso dal personale operante all’interno della struttura. Così è nato il progetto di dare l’incarico all’artista falcadino affinché lasciasse con la sua arte, in un murales di circa 10 metri quadrati, un messaggio “dipinto” che fosse in linea con lo spirito e i valori che caratterizzano, con il loro operato, coloro che vivono e lavorano giornalmente all’interno del carcere. Fin dall’ideazione del bozzetto, la tematica proposta, creata anche con la gentile collaborazione di don Davide Fiocco postulatore della causa di beatificazione di Albino Luciani e di Loris Serafini direttore della Fondazione Papa Luciani, è stata quella che fosse gradita a tutto il personale e ai detenuti della casa circondariale con la primaria intenzione di infondere positività e fiducia oltre alla visione di una nota vivace di colore. Il soggetto dello spazio dipinto più grande riprende a sinistra la raffigurazione di San Basilide martire che è la figura storico-religiosa che maggiormente caratterizza il patronato del corpo di polizia penitenziaria, degli agenti di custodia e dei carcerati stessi, avendo lo stesso santo ricoperto ambedue i ruoli di guardia e di detenuto; in variazione alla sua classica figura, il santo, tiene in mano una chiave, simbolo di libertà spirituale, che porge simbolicamente alla guardia. Al centro della scena vi è la raffigurazione, con la classica divisa, di una guardia, con le mani consorte dietro la schiena, in segno di rispetto e fiducia, che accompagna al cancello un giovane detenuto padre di famiglia. A destra della composizione la moglie e il figlio del detenuto, che dopo un lungo tempo di “esilio” del marito-padre, sono pronti ad accoglierlo; il bimbo tiene in mano il “libro dei ricordi” con alcuni episodi della sua vita al quale il padre non ha potuto “assistere”. Al primo piano in basso vi è il profilo della struttura della casa circondariale, volutamente ridimensionata nelle proporzioni, come a suggerire che le barriere dell’anima e dello spirito non siano condizionate da “barriere architettoniche”; sullo sfondo del gruppetto di destra una panoramica della città di Belluno. Il piccolo spazio sopra la porta è un omaggio a don Albino Luciani, papa Giovani Paolo I, che proprio all’interno della casa circondariale, ai tempi del suo soggiorno al seminario di Belluno, officiò 13 omelie, come risulta dalle indagini in archivio di don Davide Fiocco, e occupano uno spazio temporale che va dal 16 settembre 1945 fino al 24 luglio 1954. Il ritratto del papa, interpretato pittoricamente da Dunio, riprende una delle sue classiche immagini e sovrasta una dicitura a lettere cubitali un pensiero a lui attribuito e che è anche un monito in sintonia con lo spirito dell’operato di quel luogo: “la collaborazione volenterosa di tutti ci renderà più leggero il peso quotidiano del dovere”. Il segreto è parlare “a titolo personale” di Michele Partipilo Gazzetta del Mezzogiorno, 14 luglio 2018 C’erano una volta i politici che parlavano e i giornalisti che raccontavano. Capitava però che i primi si lasciassero scappare qualche parola fuori posto, un giudizio avventato, un aggettivo inopportuno, talvolta anche un’idiozia bella e buona. Il tutto finiva in pasto al pubblico. Come rimediare? Con un’altra dichiarazione, un’intervista o un comunicato in cui si diceva che il giornalista in questione non aveva capito, aveva frainteso, aveva perso l’ascolto di una parola che mutava il senso delle affermazioni. Insomma, colpa del giornalista. Al tempo di Internet non è più possibile attuare questo stratagemma: ci sono filmati, registrazioni e sempre più spesso mini-dirette. Non si può dire “il giornalista non ha capito”, se poi circolano filmati che documentano il contrario. E più si prova a smentirne i contenuti, più quelle immagini girano. Che fare? Il genio italico ha escogitato una brillante soluzione che ha il pregio di risolvere la situazione e di non mettersi contro i giornalisti in un braccio di ferro l’ha-detto-non-l’ha-detto. Per sistemare le cose è sufficiente pronunciare o anche lasciar dire da altri la frase magica “Parlava a titolo personale”. Chi parla a titolo personale ha licenza di dire sciocchezze, di venir meno ai suoi obblighi istituzionali, di raccontar balle. È la rivincita del privato sul pubblico. E così non si contano più le pile di dichiarazioni a titolo personale. Il presidente della Camera, Fico, dice che non vanno chiusi i porti ai migranti; Di Maio pronto replica: parla a titolo personale. Altrimenti entra in crisi il rapporto con Salvini. Il sottosegretario alle Pari opportunità, Vincenzo Spadafora dei 5Stelle, partecipa al Gay Pride di Pompei e dice: “Sono qui per testimoniare il mio sostegno e quello del governo”. Ma il suo ministro, quello della Famiglia, Lorenzo Fontana chiarisce di persona: “Spadafora parla a titolo personale e non a nome del governo, né tantomeno della Lega”. Il sottosegretario leghista alla Giustizia, Marrone, dice che bisogna abolire le correnti nella magistratura e in particolare quelle di sinistra. II ministro Bonafede interviene e lo zittisce: parla a titolo personale. L’espressione a titolo personale esclude possano esserci conseguenze di qualsiasi tipo. Insomma chi parla in questa veste gode di una sorta di esimente, di una impunità come se avesse un vizio di mente o fosse un bambino di pochi anni. Per cui non può essere punito, redarguito o cacciato. Non si tratta solo di una deriva italica. Durante il recente vertice del G7 a Charlevoix, Donald Trump ha spiegato ai leader europei che erano con lui che la Crimea è effettivamente russa e che dunque a Mosca non si può contestare alcuna annessione. Agli interlocutori allibiti ha però precisato: “Secondo me”. Cioè l’equivalente a stelle e strisce del “a titolo personale”. Più che altro sembra una prerogativa di chi è al potere. Così scriveva Curzio Maltese su Repubblica del 2 luglio 2001: “Se Rocco Buttiglione annuncia di voler modificare la legge sull’aborto lo fa “a titolo personale e senza che questo implichi un coinvolgimento del governo”. Se Domenico Contestabile, senatore di Forza Italia e avvocato di Berlusconi, chiede un’amnistia per cancellare tutti i reati di corruzione da tangentopoli, parla sempre “a titolo personale”. Parlare a titolo personale è dunque una libertà insopprimibile di ogni soggetto presente sulla scena pubblica. Cristallizza la possibilità di dissentire senza subirne le conseguenze. Al soggetto è riconosciuto il diritto di sdoppiarsi: la figura istituzionale - presidente, ministro, sottosegretario, sindaco, leader di partito - che si attiene alle regole e al bon ton; la figura “personale” che può esprimersi a ruota libera, anche in senso opposto al suo ruolo o alla sua militanza partitica. È la sublimazione del concetto di democrazia. O, se si vuole, la conferma che ci avviamo verso una irrilevanza della parola in una realtà dominata dall’immagine. Per la vicenda dei migranti arrivati a Trapani, il ministro Salvini ha rischiato l’incidente diplomatico con la magistratura e con il Quirinale pur di vedere e far vedere due migranti che sbarcavano ammanettati. Sarebbe stata un’icona che nessuna parola avrebbe potuto contrastare. In tempi grigi e ligi ai propri doveri parlare a titolo personale non era concesso. Vigeva l’etica della responsabilità per cui si diceva ciò che si pensava ma a patto che si pensasse ciò che si diceva. Oggi si può parlare a titolo personale ed è una bella presa per il c. Migranti. Il richiamo di Mattarella al premier: “adesso basta conflitti fra poteri” di Amedeo La Mattina e Ugo Magri La Stampa, 14 luglio 2018 La vera storia della telefonata fra il Capo dello Stato e il presidente del Consiglio dopo il primo stop alla nave Diciotti: Salvini aveva già deciso di concedere l’attracco, ma al Viminale hanno preferito che la responsabilità ricadesse sul Colle. Il governo ha fretta di voltare pagina. Pur di chiudere il “caso Diciotti”, Di Maio e Salvini sono pronti a riconoscere che l’intervento di Mattarella è stato di aiuto, ha consentito di sbloccare una situazione da cui gli stessi protagonisti non sapevano come uscire. La versione che 24 ore dopo si raccoglie dalle parti del Viminale è quasi spiazzante. Pare infatti che il ministro dell’Interno, nelle stesse ore in cui Mattarella chiamava il premier per sollecitare una soluzione, avesse già deciso di dare il via libera allo sbarco dei 67 migranti. Si era reso conto di combattere da solo contro i mulini a vento rappresentati, ai propri occhi, dai colleghi della Difesa e delle Infrastrutture, per non parlare dei pm di Trapani. Se nessuno fosse sceso dalla nave con le manette ai polsi, l’effetto propaganda sarebbe stato pari a zero, anzi mediaticamente un boomerang. Per fortuna, dicono nel giro leghista, il Quirinale ha imposto la sua visione umanitaria, togliendo Salvini dall’imbarazzo di una retromarcia. Addirittura il ministro si è consentito il lusso di criticare Mattarella (“stupore” per il suo intervento), salvo poi ridimensionare tutto in attesa del prossimo barcone. Rispetto dei ruoli - Di questi giochi tattici sul Colle nessuno si scandalizza. Lassù hanno imparato a convivere con la doppia natura del vice-premier. In privato, Jekyll-Salvini è gentile, amichevole, confidenziale al punto che nell’ultimo pranzo di governo al Quirinale (racconta con il sorriso sulle labbra un ministro di peso) Matteo ha passato tutto il tempo a chattare sul telefonino, incurante della conversazione, un po’ come usava un altro Matteo prima di lui. Salvo trasformarsi pubblicamente in un Mr.Hyde che tenta di far indossare al Presidente la maglietta rossa dell’accoglienza ai migranti, presentandolo come un capofila. Nella realtà, tiene a sottolineare chi lo conosce, Mattarella ha posto una questione istituzionale che va molto oltre l’accoglienza delle donne e dei bambini trattenuti a bordo. Nella telefonata al premier, intorno alle 18 di mercoledì, il Presidente ha chiesto come fosse possibile che a una nave militare italiana venisse impedito di attraccare in un porto nazionale, in base a quali norme e su disposizione di chi. Senza chiamare in causa Salvini, Mattarella ha preteso rispetto per la Procura di Trapani e, in futuro, per tutte le Procure cui spetterà di decidere su eventuali arresti. Ha sollecitato un po’ d’ordine tra i poteri coinvolti nella vicenda, in quanto ognuno deve stare al proprio posto senza invasioni di campo. E soprattutto, Mattarella ha esortato Conte a esercitare senza indugio la leadership connaturata al ruolo, lasciando all’interlocutore la sensazione che, in caso contrario, il Colle avrebbe pubblicamente manifestato un vivo disappunto. Un’ora più tardi, stando ad autorevoli ricostruzioni, Conte si è rifatto vivo per assicurare che i migranti sarebbero sbarcati di lì a poco, la controversia si era risolta con sua personale soddisfazione mista a sollievo. Lo scambio di telefonate doveva restare segreto perché rientra nella cosiddetta “moral suasion” presidenziale, che tanto più risulta efficace quanto meno filtra all’esterno. Tuttavia qualcuno ha ritenuto che convenisse scaricare sul Colle la responsabilità dello sbarco, in modo da creare un alibi ai campioni della fermezza. Cosicché il segreto è durato al massimo un paio d’ore. Su chi possa essere la “talpa”, sul Colle si sono fatti un’idea. Però non lo diranno mai. Migranti. La battaglia sulla Diciotti e le regole della Costituzione di Carlo Fusi Il Dubbio, 14 luglio 2018 La vicenda della nave della Guardia Costiera Diciotti, con lo sbarco a Messina di 67 migranti e il rimpallo di interventi al più alto livello istituzionale per arrivare alla soluzione, si presta a varie considerazioni. Le più immediate, ma forse anche più banali, rimandano ad un braccio di ferro tra Matteo Salvini, il premier Conte e il Quirinale, con quest’ultimo nelle vesti del vincitore finale e con il titolare dell’Interno in quelle dello sconfitto. Lettura tutta nella chiave dei rapporti di forza politici: veritiera ma, presumibilmente, superficiale. Ce ne sono altre, altrettanto legittime e magari più penetranti. Non c’è dubbio che al centro della vicenda ci sia il Quirinale e le prerogative del suo inquilino. E neanche c’è dubbio sul fatto che sia stata la seconda volta dall’inizio della legislatura nella quale si è avviato uno scontro istituzionale sulla base della divisione dei ruoli e dei poteri così come disegnati dalla Costituzione. Il primo caso si verificò allorché il presidente Mattarella si oppose alla nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia con la conseguente, provvisoria, rinuncia all’incarico da parte di Giuseppe Conte. In quel passaggio Luigi Di Maio evocó l’articolo 90 della Carta per avviare la messa in stato di accusa del capo dello Stato. Mossa sommamente im- provvida, che infatti fu rinfoderata nel giro di poche ore. Ma che tuttavia resta agli atti di una concezione diciamo “utilitaristica” delle norme costituzionali che invece, com’è ovvio, hanno valenza erga omnes. Stavolta è stato il titolare del Viminale a ingaggiare un duello con il Colle e più ancora - senza ventilare messe in stato d’accusa, è vero, ma anche senza derubricare la gravità degli atteggiamenti - a sgranare i confini tra poteri dello Stato, ognuno dei quali obbligato ad agire nell’alveo stabilito dalla norme della Costituzione. Il primo fu il caso di un’avventatezza politica segno di una scarsa conoscenza delle regole. Il secondo minaccia di essere più nocivo perché chiama in causa un principio basilare sotteso ai sistemi democratici: la separazione dei poteri e i compiti e i limiti di ciascuno. Quando infatti Salvini si oppone allo sbarco dei migranti della Diciotti chiedendo preliminarmente “le manette” per presunti ammutinati, non solo invade il campo della magistratura a cui unicamente spetta di perseguire chi contravviene alle leggi, ma mischia e confonde ciò che gli appartiene, ossia la tutela della sicurezza, con ciò che gli è estraneo, la divisione delle responsabilità che le stesse leggi, ordinarie e appunto costituzionali, stabiliscono. Quando poi esprime “sorpresa” per l’intervento risolutivo di Mattarella, invade direttamente terreni che gli sono preclusi, negando inoltre elementi basilari del sistema, come il fatto che si tratti di una nave militare, che il presidente della Repubblica è capo delle Forze Armate, che l’ultima parola - salvo appunto interventi di più alto livello istituzionale - spetta al presidente del Consiglio. L’irruenza caratteriale di Salvini è nota; come pure è sotto gli occhi di tutti che l’esibita intransigenza - ai limiti del “cattivismo” politico, da più parti celebrato come una dote che ristabilisce equilibrio rispetto al “buonismo” del passato - nei riguardi del fenomeno migratorio nel suo complesso, è benaccetto agli occhi dell’opinione pubblica. Il balzo della Lega nei sondaggi è lì a dimostrarlo. Ciò tuttavia non mitiga il rilievo e l’importanza della vicenda, il cui significato profondo è questo: sono arrivate alla guida del governo forze politiche che nei valori stabiliti dalla Costituzione del 1948 si riconoscono poco o nulla. Non è questione di populismo o demagogia, termini abusati ancorché significativi. La spinta dei Cinquestelle a superare la democrazia delegata a favore di meccanismi di democrazia diretta cozza in maniera fortissima con i valori e gli ideali della Carta così com’è stata concepita e applicata dal dopoguerra a oggi. Allo stesso modo l’urto di Salvini a svellere presidi di democrazia nella divisione dei ruoli a favore dell’affermazione di una leadership detentrice di un potere unico e onnicomprensivo fa a cazzotti con i vincoli - da molti ritenuti vetusti ma non per questo da ignorare - posti dai padri costituenti a tutela di invasioni di campo tra poteri dello Stato. È un tema che forse non appassiona i cittadini. Eppure è fondamentale. La democrazia è fatta di regole e si nutre del loro rispetto: se lo Stato di diritto viene messo in discussione, l’intera impalcatura collassa. Le regole, come le Costituzioni, si possono cambiare e, per quel che riguarda la situazione italiana, non c’è dubbio che siamo in grandissimo ritardo. Ma finché ci sono, vanno rispettate: tutte indistintamente, senza se e senza ma. Peraltro gli italiani hanno votato il 4 dicembre 2016 affinché l’impianto costituzionale restasse intatto: e Lega e M5S, se non ricordiamo male, erano di quell’avviso. Iran. 80 frustate per aver bevuto alcol a una festa di matrimonio di giordano stabile La Stampa, 14 luglio 2018 Un giovane legato a un albero e punito con 80 frustate per aver bevuto alcol a una festa di matrimonio. Sono le immagini diffuse da media locali iraniani che hanno suscitato un’andata di indignazione fra le Ong che difendo i diritti umani. Il ragazzo è stato punito in base a un articolo del codice penale islamico iraniano, che punisce il consumo di alcol. Ma aveva soltanto fra i 14 e i 15 anni quando sono accaduti i fatti. La festa è poi degenerata in una rissa con la morte di una persona. Ma il ragazzo è stato condannato solo per aver bevuto. “Siamo di fronte a un sistema che legalizza la brutalità. Questo è un caso assolutamente sconvolgente - ha commentato Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa dal Nord di Amnesty International. Il diffuso ricorso alle pene corporali, anche nei confronti di rei minorenni, dimostra il profondo disprezzo delle autorità iraniane verso i principi elementari di umanità. Vanno subito cancellate dalle leggi le amputazioni, gli accecamenti e le frustate”. Secondo la procura di Kashmar, il giovane, indicato con le iniziali M.R., i fatti risalgono al periodo compreso tra marzo 2006 e marzo 2007 (corrispondente, secondo il calendario iraniano, all’anno 1385). M.R. è nato nell’anno 1370, ossia tra marzo 1991 e marzo 1992, ne consegue che all’epoca del “reato” aveva 14 o 15 anni. La sentenza è stata emessa nell’anno 1386, dunque tra marzo 2007 e marzo 2008. In Iran la pena della fustigazione è prevista per oltre 100 reati, tra cui furto, aggressione, atti vandalici, diffamazione e frode, così come per atti che non dovrebbero essere inclusi nel codice penale, come l’adulterio, le relazioni sessuali extramatrimoniali, le relazioni sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso e le “violazioni della morale pubblica”.