Il destino (adesso molto chiaro) del Dlgs Carceri: stop alla riforma Public Policy, 13 luglio 2018 Dopo lo stop del Senato, anche la commissione Giustizia alla Camera dà parere contrario alla riforma delle carceri. Come anticipato ieri da Public Policy, i senatori hanno espresso un parere “secco” senza condizioni dichiarandosi contrari al provvedimento. Stessa cosa è successa oggi in II commissione, in cui è stato approvato il parere negativo presentato dalla relatrice M5s e presidente Giulia Sarti. Nella seduta di martedì mattina, in commissione Giustizia alla Camera, l’esame della riforma delle Carceri era stato congelato in attesa che il Governo e la relatrice Sarti - che è anche presidente di commissione - si riunissero prima della stesura definitiva del parere. Parte del confronto in corso, a quanto si apprende, riguardava il capo III del dlgs che contiene diverse norme sull’eliminazione degli automatismi e le preclusioni nel trattamento penitenziario. Nel dettaglio, i temi in ballo erano i casi di divieto di concessione dei benefici, il lavoro all’esterno, i permessi premio (anche ai recidivi), gli arresti domiciliari, l’affidamento in prova, la semilibertà, la concessione e la revoca delle misure alternative, la libertà condizionata e i controlli. Durante la penultima seduta della commissione, della scorsa settimana, era stato il sottosegretario Vittorio Ferraresi ad entrare nel merito della questione. “La responsabilità di un’eventuale non adozione del decreto in questione e dei provvedimenti correlati, la quale vanificherebbe l’immenso lavoro svolto sia in commissione che in assemblea nonché da parte degli stati generali - ha detto intervenendo in commissione - ricadrebbe inevitabilmente sul Governo precedente, che ha presentato gli atti in questione sostanzialmente a Camere già sciolte”. Secondo l’esponente M5s, infatti, “se l’allora Governo avesse davvero avuto a cuore tale riforma, sarebbe stato più solerte nella sua azione”. Ha poi precisato, però, “che, se l’attuale maggioranza, che ha sempre espresso con grande chiarezza in qualità di opposizione i suoi orientamenti in tema di giustizia, avesse voluto calpestare le prerogative del Parlamento, non avrebbe consentito allo stesso di esprimere il parere parlamentare oltre il termine prescritto, e comunque entro il 15 luglio prossimo”. Al Senato le idee sono state fin da subito un po’ più chiare (o semplicemente i senatori sono stati più decisi): nel pomeriggio di mercoledì i senatori di maggioranza hanno infatti approvato il parere proposto dal relatore Mario Giarrusso (M5S) che dà un giudizio “secco” sul provvedimento a firma del precedente Esecutivo, ovvero “parere contrario”. La motivazione del parere è tutta in questo paragrafo: il precedente Governo - si legge nel parere - “ha ritenuto di non adeguarsi alle numerose e gravi condizioni che erano state poste nel parere della commissione Giustizia di Palazzo Madama, se non per alcuni, limitati e minori profili”. Sul futuro del provvedimento, il Governo - ha spiegato a Public Policy il sottosegretario Ferraresi - “valuterà se esercitare parzialmente la delega o meno”. Tra le ipotesi, infatti, quella di non approvare in via definitiva il Dlgs. Sempre mercoledì, ma in mattinata, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede aveva illustrato al Senato le sue linee programmatiche, parlando anche del Dlgs Carceri: le riforme lasciate in sospeso dal Governo Gentiloni e dall’ex ministro Andrea Orlando, in particolare sulle carceri, sono “interventi pensati da altri, distanti dalle idee che hanno ispirato il programma del Governo del cambiamento, e che tuttavia ho scelto di non respingere pregiudizialmente, preferendo la più faticosa strada di un approccio pragmatico, legato ai temi, cercando di immaginare, dove possibile, soluzioni utili per i cittadini e per la giustizia italiana”. “In questo senso ritengo di aver tracciato una discontinuità nel metodo. E da qui intendo partire, con determinazione, per proporre una altrettanto decisa discontinuità nei contenuti che caratterizzeranno, nell’immediato, i prossimi mesi di attività”. Giarrusso (M5S): cancellata la vergognosa riforma Orlando Askanews, 13 luglio 2018 “La sicurezza dei cittadini è sempre stata la nostra priorità, a questo proposito era per noi fondamentale fermare la riforma dell’ordinamento penitenziario voluto dal precedente governo, approvato oltremodo appena dopo le elezioni a camere sciolte. Tra le macro storture che avrebbe comportato questa riforma, la possibilità per gli ergastolani di uscire dopo 15 anni di detenzione. Ancora più grave, i condannati all’ergastolo per mafia, di poter accedere allo stesso beneficio dopo 20 anni di detenzione. Nulla è valso che la delega malgrado prevedeva l’intangibilità del 41bis, questa riforma intaccava anche le prerogative del regime del carcere duro per i mafiosi. Un vero e proprio sabotaggio del 41bis sventato grazie al parere che abbiamo presentato contro questa riforma”. Lo ha dichiarato il relatore sul parere negativo all’attuazione della riforma approvato dalla commissione Giustizia del Senato, Michele Giarrusso. “Questo - ha sottolineato Giarrusso - era uno svuota carceri mascherato da riforma. La certezza della pena veniva meno per i mafiosi, immaginiamo per gli altri reati cosa sarebbe successo. Finalmente possiamo ora archiviare questa stortura giudiziaria, e procedere con il programma del Movimento 5 Stelle che vuole condizioni migliori dei detenuti che sia tutelata la loro dignità a fronte della certezza della pena e che sia scontata in pieno. I mafiosi detenuti che speravano di avere agevolazioni da questa riforma, possono mettersi l’animo in pace: sconteranno i loro ergastoli in pieno. La sicurezza dei cittadini continuerà ad essere la nostra priorità”. Le detenute sono il 4%, recluse in strutture pensate per gli uomini di Valentina Stella Il Dubbio, 13 luglio 2018 Il Garante Palma: “il nostro modello, così come concepito, contrasta con il femminile”. Si è svolto ieri nella sede del Cnf il convegno “Donne e carcere”. A fare gli onori di casa il Presidente del Cnf, Andrea Mascherin: “Quello delle donne in carcere è un tema di grandissimo interesse in questo particolare contesto storico, in cui è necessario affrontarlo soprattutto dal punto di vista culturale attraverso una profonda riflessione sul senso della pena”. E dando la parola a Mauro Palma, Garante Nazionale dei Detenuti, ha precisato che “solo nell’avvocatura e in una magistratura illuminata il dottor Palma può trovare una sponda per affrontare queste questioni”. Per il Garante, “il modello di detenzione, così come è concepito, contrasta con il femminile, al di là della condizione delle mamme con bambini. Le strutture detentive sono pensate solo per gli uomini, essendo in numero maggiore”. E poi ha evidenziato il problema della questione geografica: “Le detenute sono poche e se recluse nelle carceri femminili sono spesso lontane dalle famiglie, se invece sono nelle sezioni femminili di istituti maschili sono vicine a casa ma in carceri pensati per gli uomini”. In generale, ha concluso Palma, “occorrerebbe un istituto di pensiero su questo tema. Anni fa c’era nel Dap un ufficio legato alla detenzione femminile. Bisognerebbe ricostituirlo”. In Italia esistono solo 5 istituti dedicati esclusivamente alle recluse: Pozzuoli, Trani, Empoli, Rebibbia, Venezia Giudecca. Ha preso poi la parola Carla Marina Lendaro, Presidente dell’Admi - Associazione Donne Magistrato Italiane - che ha illustrato la normativa sul trattamento delle donne detenute, presentando i dati condivisi alla tredicesima conferenza biennale “Women and girls in detention” che si è tenuta a Washington. In Italia - si legge nella sua relazione - al 31 marzo 2016 le donne detenute erano poco più del 4% del totale della popolazione penitenziaria, 2.198 su un totale di 53.495 detenuti. Sono pochissime poi le detenute madri che scelgono di mantenere con loro in carcere i figli fino ai tre anni: solo 38 con 41 figli a seguito. In fase di indagine, se è prevista la custodia cautelare in carcere essa può essere evitata se la donna è incinta o ha un figlio non maggiore di 6 anni, a meno che non ci siano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Invece in caso di condanna definitiva occorre prendere in considerazione l’età e lo stato di salute del figlio. Per una donna incinta o con un figlio di massimo un anno l’esecuzione della pena è rinviata. I figli fino a tre anni possono rimanere in carcere con la madre. Per i figli fino a 10 anni se la pena da scontare è sotto i quattro anni ed è esclusa la pericolosità sociale della donna allora essa può essere scontata fuori dal carcere in strutture ad hoc. La professoressa Daniela Paijardi, dell’Università di Urbino, ha illustrato le tematiche affrontate nel testo di cui è co-autrice, “Donne e Carcere”: “L’urbanistica moderna colloca il carcere, in genere, nelle periferie estreme delle città. Potremmo dire che risponde anche alla sua collocazione negli interessi della società civile: è generalmente tenuto lontano dalle priorità sociali, conosciuto attraverso stereotipi e immagini trasmesse dai mass- media, diventa centrale solo a fronte di emergenze della cronaca in termini, di solito, sanzionatori. Quando il carcere riguarda la donna, poi, questa situazione diventa ancora più evidente”. La vita nelle carceri minorili italiane, in due canzoni rap Internazionale, 13 luglio 2018 In Italia il ricorso al carcere minorile si basa sul “principio della residualità” fissato dalla legge 272 del 1989. La norma prevede che la reclusione sia la soluzione più estrema tra quelle percorribili, ma nonostante questo nei 16 istituti penali per minorenni (Ipm) i detenuti sono 452, di cui 34 sono ragazze e 200 stranieri. La metà di loro è nata e cresciuta in Sicilia e Calabria, e sta scontando la pena in queste due regioni. Il 42 per cento ha meno di diciotto anni, mentre gli altri sono giovani che hanno compiuto un reato da minorenni ma che possono scontare le pene negli Ipm fino a 24 anni. Più della metà è detenuta non perché stia scontando un provvedimento definitivo ma perché si trova in custodia cautelare, e cioè è ancora in attesa di giudizio. Si potrebbe pensare che questi ragazzi e ragazze siano in prigione - anziché nei centri di prima accoglienza, nelle comunità e negli istituti di semilibertà che ospitano altri 22mila minori giudicati colpevoli - perché hanno commesso un delitto particolarmente grave, ma non è così. I numeri forniti dall’associazione Antigone nel rapporto Ragazzi dentro fotografano una realtà più complessa. Sia chi è dentro gli Ipm sia chi è fuori ha compiuto nella maggioranza dei casi reati contro il patrimonio: e cioè furti, rapine, estorsioni, riciclaggio. Il 17 per cento è dentro per reati contro la persona - che vanno dalle lesioni all’omicidio - mentre il 12 per cento perché ha violato la legge sulle droghe. Secondo i curatori del rapporto, le cause che portano i giovani in galera vanno cercate altrove. Non è per la gravità del reato commesso che un ragazzo viene indirizzato verso gli Ipm, ma per la difficoltà a trovargli una collocazione in percorsi diversi dalla detenzione, difficoltà generalmente dovuta al profilo di radicale marginalità e fragilità sociale di chi alla fine arriverà in Ipm. Il problema più grave è quindi fuori dal carcere. C’è una selezione sociale che riempie gli istituti di pena per minorenni. Per interromperla bisognerebbe intervenire sulle marginalità - povertà, abbandoni scolastici, sfruttamento - ma sono risposte complicate da trovare. E dopo che la spinta riformatrice degli stati generali dell’esecuzione penale è stata frenata dagli scontri tra le forze politiche, le soluzioni sembrano ancora più lontane. Intanto, operatori, volontari ed esperti continuano a organizzare laboratori e progetti nelle carceri minorili per dare a ragazze e ragazzi degli strumenti da usare una volta scontata la pena. Uno di questi progetti è stato quello dell’associazione Defence for children Italia. Cominciato nel marzo del 2018, ha coinvolto i giovani negli istituti di Bari e Torino. Aiutati dal rapper e attivista Kento, hanno scritto due canzoni rap, le hanno cantate e registrate. Durante i laboratori, ai ragazzi è stato anche chiesto di confrontarsi su concetti come diritti, libertà, futuro. Le risposte fanno parte del documentario diretto da Michele Imperio che uscirà nelle prossime settimane e possono essere lette insieme alle strofe delle canzoni: aiutano a capire cosa pensano, e come si vedono e raccontano. Uno degli adolescenti che sta scontando la pena a Bari alla domanda su cosa siano per lui i diritti ha risposto: “Ah, i diritti, non lo so, io voglio stare con la mia famiglia, con gli amici miei a divertirmi. È un diritto divertirmi?”. A un altro è stato chiesto come si immagina nel futuro. “Il futuro, eh, non lo so, non mi chiedere questa cosa”. Secondo gli ultimi dati forniti dal ministero della giustizia, nel 2017 i ragazzi nel carcere minorile di Bari erano 26. La maggior parte era dentro soprattutto per furti e rapine. A Torino, invece, i detenuti erano 34. Uno di loro, all’operatore di Defence for children Italia che gli chiede cosa sia la libertà, risponde: “La libertà è una cosa che fa soffrire”. Racconta di essere stato arrestato per la terza volta, sempre per rapine e furti compiuti per guadagnare dei soldi, visto che i genitori sono disoccupati e poveri. Un altro prova a spiegare cosa significa trovarsi in carcere: “Stare qua dentro per me vuol dire alzarsi la mattina e guardare il sole a scacchi, mandare giù tanti bocconi amari, stare zitto e il più delle volte fare una guerra contro se stessi”. Gabriella Picco, direttrice dell’istituto torinese, sintetizza così il senso dei laboratori come quello fatto da Defence for children Italia: “Dobbiamo capire che più reprimiamo e più chiudiamo le persone al cambiamento. Lo scopo del nostro lavoro è l’esatto opposto: aprirli alla conoscenza della vita, dandogli delle prospettive diverse rispetto a quelle che hanno avuto fino a quel momento”. Legittima difesa e agenti sotto copertura. La riforma giudiziaria in stile giallo-verde di Paolo Colonnello La Stampa, 13 luglio 2018 Disegni di legge pronti: dalle pene più alte per i furti alla cancellazione della riforma sulle carceri. Dalle navi con il divieto di attracco, alle manette per i migranti indagati, dalle leggi sulla legittima difesa a quelle per abolire il reato di tortura, fino alla proposta di prevedere la castrazione chimica per i colpevoli di reati sessuali. I progetti del governo - Tra le “priorità irrinunciabili” annunciate dal Guardasigilli anche la sospensione della prescrizione dopo il primo grado, l’aumento delle pene per i corrotti e i ladri d’appartamento (disegno di legge firmato tra gli altri da Centinaio), l’introduzione dell’agente sotto copertura, abolizione della riforma sulle carceri del precedente governo. A questi si aggiungono circa una decina i disegni di legge presentati finora in materia di giustizia, ordine pubblico, ordinamento carcerario e rideterminazione delle pene da esponenti della maggioranza penta leghista: un giro di vite pesantissimo. Vi si parla di “rapido dilagare della criminalità”, “crescita esponenziale dei reati”, si prefigura una società allo sbando e priva di tutele, nonostante dati inconfutabili che parlano di riduzione generale della criminalità. L’inasprimento delle pene - Non importa: almeno 4 disegni legge sono dedicati alla legittima difesa, uno alla castrazione chimica, uno all’abolizione del reato di tortura appena recepito dalle direttive europee, uno all’inasprimento delle pene per i ladri d’appartamento, uno alla prescrizione, uno all’inapplicabilità del giudizio abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo, uno infine - firmato dai senatori Iannone e La Pietra - per l’allargamento dei presupposti delle misure cautelari “sottratte… alla discrezionalità del magistrato”, con l’introduzione del reato di travisamento durante le manifestazioni, di clandestinità per gli immigrati, di patteggiamento subordinato al consenso della eventuale vittima, dell’abolizione della liberazione anticipata e un innalzamento generale delle pene edittali. Perché le leggi già esistenti, la separazione dei poteri e perfino taluni principi costituzionali sembrano non avere più grande peso ai tempi del governo giallo verde. Il ministro sceriffo Alfiere di questa politica è ovviamente lui, Super Matteo, il ministro sceriffo che persino il suo illustre predecessore Bobo Maroni, aveva avvertito con un’intervista a la Stampa: “Ho detto a Matteo che non può fare il segretario di partito e il Ministro degli Interni: questo è un ministero molto delicato. Quando siedi su quella poltrona ricopri un ruolo importante e assumi dei poteri che non ha nessun altro”. Si sa come è finita: che Matteo ha voluto fare di testa sua indicando ogni giorno un obiettivo e mostrando i muscoli: una volta con le Ong, tacciate di collusione con gli scafisti (anche se una meticolosa inchiesta ha accertato che non è così); un’altra con i migranti in mare per i quali “è finita la pacchia”, un’altra ancora con i nomadi da censire. E poi con i violentatori da castrare (proposta firmata da Molteni, Fedriga e altri) oppure con i detenuti da non fare più uscire. Come se la rideterminazione della pena fosse materia da discutere sui social e non nelle aule di giustizia. Insomma, la pacchia è finita e non solo per i migranti. Per ora siamo ai disegni di legge, ma il Guardasigilli Bonafede ha indicato il termine dell’autunno come periodo in cui far approvare le prime riforme. L’allarme tra giuristi e avvocati è altissimo: perché solleticare il bisogno di vendetta, alimentato ad arte dalla propaganda permanente, è il contrario della giustizia. Amodio: “È questa la deriva populista. Si rinnega il garantismo del nostro sistema” di Paolo Colonnello La Stampa, 13 luglio 2018 Il penalista: qui non è più il magistrato a dettare la pena, ma sono gli istinti della gente. Il professor Ennio Amodio, uno dei più importanti penalisti italiani, emerito di procedura penale a Milano e tra gli estensori del codice processuale del 1989, è preoccupatissimo. Al punto di aver deciso di raccogliere in un libro, di prossima pubblicazione, il compendio del credo giustizialista gialloverde. Che considera una regressione culturale senza precedenti. È una deriva giustizialista, professore? “C’è qualcosa di più. Il coacervo di umori, sentori e pretese di cambiamento che esprimono il credo politico del nuovo governo in tema di giustizia penale è qualcosa di diverso da un’ideologia. È un richiamo a intuizioni e sfoghi che scaturiscono dalla paura della criminalità”. Una giustizia “istintiva”? “In realtà, siamo di fronte a istinti che mirano a dare delle risposte puramente emotive e s’ispirano sostanzialmente alla pratica della vendetta tribale”. La legittima difesa. È davvero una legge prioritaria? “Niente affatto. La legittima difesa è l’emblema della giustizia populista. Si vorrebbe dar vita alla licenza di colpire a morte chiunque osi profanare un domicilio per commettere un furto. Non importa se il ladro stia fuggendo o non abbai armi. È un fai da te punitivo. Tutto ciò non ha evidentemente nulla a che vedere con la giustizia, così come modernamente intesa. La “pena di morte domiciliare” di conio leghista risulta piuttosto apparentata con un altro rimedio punitivo ancestrale: il linciaggio”. E poi c’è questa nuovo disegno di legge per la riscrittura del reato di tortura. “È veramente incredibile: si vuole creare uno spazio di immunità alla polizia che usi metodi vessatori, volendo ratificare modalità di comportamento che secondo tutto il movimento garantista internazionale dovrebbero essere invece decisamente stroncate”. Pene più dure, scarcerazioni ridotte, manette agli immigrati. Ma verso che Stato stiamo andando? “C’è da pensare che proseguendo su questa strada si arrivi a concepire una giustizia privata, affidata alle mani delle vittime e sottratta a qualsiasi controllo delle autorità. Come se si intendesse regredire a una forma di società nella quale contano soltanto le sofferenze delle vittime e queste debbono tradursi immediatamente in pene applicate in modo arbitrario e frettoloso, nei confronti del primo che venga arrestato dalla polizia”. È il sentimento popolare, dicono... “Sì, appunto. Ci si schiera su posizioni che comportano l’erosione dei poteri della magistratura, tanto è il sentimento popolare che detta in che modo deve essere punita una persona. E dunque l’avversione a ogni riduzione delle pene. Deve sempre essere inflitta la massima sofferenza al colpevole e quindi va evitato l’intervento della magistratura. È lo stravolgimento dei principi del nostro sistema. La deriva populista rinnega la cultura del garantismo su cui è edificato il processo penale moderno. Si può chiedere al presidente Conte di alzare la sua bacchetta di giurista sui dioscuri che lo affiancano per invitarli a rileggere Beccaria o, almeno, le norme della nostra Costituzione che precludono ogni sbandamento verso forme di giustizia a furor di popolo?”. I superpoteri del rancore di Francesco Merlo La Repubblica, 13 luglio 2018 Salvini non aveva e non ha il potere di ordinare l’arresto di nessuno, ma l’immagine di uomini neri che scendono da una nave italiana con le catene ai polsi ha una tale forza evocativa, che è come se fosse accaduto; ed è già così, in questa sua realtà virtuale, una violazione dei diritti umani fondamentali. È vero infatti che, grazie al presidente Mattarella, tutto è finito come doveva finire in un Paese che è ancora uno Stato di diritto e di misericordia. Tutto è finito con lo sbarco dei naufraghi e la denunzia di due sole persone su 67, tra i quali tre donne e tre minori, e per un’ipotesi di reato - violenza privata - che non prevede le manette. Ma in questi strani giorni ciascuno l’aveva costruita con la propria immaginazione quell’immagine che a noi pare terribile e all’Italia leghista della tracimazione rancorosa sembra invece magnifica. Ovviamente Salvini sa bene che chiunque, lui compreso, al posto di quei migranti si sarebbe comportato come i due indagati, agitandosi, gridando, e contestando la volontà di riportare i 67 sopravvissuti nell’inferno dal quale erano scappati. Semmai c’è da chiedersi perché non si siano ribellati, e più decisamente, tutti e 67, come vorrebbe il buon senso e anche la letteratura di mare, a partire da Melville, il quale raccontò nel suo Benito Cereno l’ammutinamento antirazzista su un mercantile spagnolo, sovvertendo gli stereotipi dell’epoca che purtroppo somigliano ancora a quelli di oggi. È probabile che alla fine quei 67 infelici avessero capito che gli italiani che avevano preso a bordo i loro corpi umiliati e maltrattati mai li avrebbero riportati e trascinanti di peso davanti alle coste libiche? La nostra impressione, la nostra speranza, è che l’Italia generosa, prima a bordo della Vos Thalassa e poi a bordo della Diciotti, abbia inscenato, come chiamarla?, “l’ammuina antirazzista” contro “l’ammuina razzista” del ministro. E perciò hanno esagerato le minacce, per salvare quei naufraghi dall’Italia di Salvini che è diventata feroce per paura. L’Italia si riconosce irriconoscibile all’Italia: ma davvero siamo noi? Ecco: in questi giorni io ascoltavo Salvini alla radio e già li vedevo scendere i neri incatenati con le camicie aperte sul petto; leggevo le parole del ministro e subito la memoria si metteva in moto legando ricordi: il monumento nel porto di Livorno con i 4 neri soggiogati, Il colore viola di Spielberg, Django Unchained di Tarantino, i ceppi del Tennessee, le navi dei negrieri. Iperboli? Salvini l’ha ripetuto cosi tante volte che non li avrebbe fatti scendere se non in manette che alla fine l’Italia ha creduto che potesse farlo davvero. A lui non importava che le minacce fossero inventate, figuriamoci. Non c’è infatti bisogno che i migranti facciano qualcosa di proibito: scontano semplicemente il fatto di essere dei naufraghi salvati da una nave italiana. Il loro crimine è di essere sopravvissuti. E il razzismo gaglioffo non vede nell’evocazione dell’immagine dei neri in catene gli schiavi da domare, ma l’arresto degli invasori selvaggi e scrocconi. La memoria del razzismo si nutre di angosce che non sono le nostre. La sua immaginazione mette i ceppi ai neri di piazza Vittorio, ai nigeriani di Macerata, ai vucumprà di Rimini, ai lavavetri di Siena e di Pisa, a “la friche” di Gilles Clément: le piante vagabonde, i residui, la proiezione del male, le bisce, i serpenti, gli stranieri. Smettiamola dunque di ridere del “come se” di Salvini e delle sue sbruffonate. È purtroppo serissima la sarabanda delle sue puttanate, compreso il gran finale contro Mattarella e contro il procuratore di Trapani Alfredo Morvillo (“Sono stupito”) che fa pendant con il grande inizio, vale a dire con l’invenzione delle minacce di morte: “O ci sbarcate o vi ammazziamo”, hanno titolato i giornali che lo fiancheggiano nel mettere ogni giorno in scena un’Italia a sua misura, gli stessi che inventano l’attico di Roberto Saviano a Manhattan e l’appartamento a Montecarlo di Gino Strada. E pensate all’abuso delle parole dirottamento e ammutinamento. L’astuto Salvini sapeva che sarebbe stato canzonato e preso in giro come incompetente, che sarebbe stato irriso e trattato come un tontolone che non conosce i codici, cominciando con il confondere i migranti con l’equipaggio. La sua “destra di popolo” è attrezzata contro le ironie e contro i sentimenti e le magliette rosse: i suoi nemici sono tutti liquidati come radical chic che non vogliono ospitare i neri dentro le loro case, sono i buonisti ipocriti, i pietisti comunisti. Anche Mattarella è un radical chic? Corbellerie, è vero. Ma la parola dirottamento rimanda al terrorismo e la parola ammutinamento rimanda al Bounty di Marlon Brando al Caine di Humphrey Bogart, all’autorità che sulle navi deve essere rispettata anche quando è senza cuore, alle vittime che diventano carnefici, al conflitto fra le regole e la libertà. Salvini sa che l’ammutinamento è un reato militare e che due migranti arrabbiati non sono né un equipaggio né un carcere in rivolta. Ma non si cura né della verità né dei codici. E anzi si nutre dei motteggi dei professori e degli scienziati del diritto, che sarebbero l’élite mentre lui sarebbe il popolo. Sapeva che sarebbe toccato al giudice indagare e che lui non ha né competenze né poteri, non essendo né procuratore né ministro dei trasporti. Ma è lì, nel porto di Trapani, che questa sua pantomima ha raggiunto il punto di massima chiarezza. E speriamo che tutti l’abbiano capito. Matteo Salvini finge di disporre di superpoteri e dunque, ogni volta affacciandosi al virile balcone del suo Twitter, esibisce il “ghe pensi mi” dell’uomo forte pur sapendo di non avere la forza che ostenta. Certo, è facile ridere del capitano (così lo chiamano i suoi) che un giorno spezza le reni alla Germania della Merkel e il giorno dopo rimbrotta il francese Macron come un plutocrate. I razzisti sono una banalità di cui è purtroppo pieno il mondo, ma Salvini, benché sia ridicolo, è più pericoloso perché arricchisce la vecchia pulsione della destra italiana per “il qui ci vuole un uomo” con una passione sincera e un delirio creativo contro i poveri, i naufraghi, i neri, gli islamici, i gay, i clochard, i Rom... A tutti vuole mettere le manette. La fine di una stagione, la magistratura svolta a destra di Livio Pepino Il Manifesto, 13 luglio 2018 Elezioni Csm. Nelle elezioni per i due consiglieri di cassazione, hanno vinto i gruppi di Autonomia e Indipendenza insieme a Magistratura Indipendente. C’è in Italia una “questione giustizia” e una “questione magistratura”. La prima è evidente. Di tempi e di contenuti. Basta guardare la durata dei processi, e la composizione del carcere, dimostrazione scolastica di una giustizia forte con i deboli e debole con i forti. Al suo interno c’è una “questione magistratura”. Altrettanto evidente. L’inefficienza del servizio giustizia ha determinato un netto calo di fiducia nei confronti di giudici e pubblici ministeri. Ma non c’è solo questo. C’è anche una perdita di ruolo, che affonda le radici in atteggiamenti sia della politica e che della magistratura. La politica mal sopporta l’indipendenza dei magistrati, che vorrebbe acquiescenti alle sue esigenze e richieste. Così il metro di valutazione dell’intervento giudiziario si è spostato dal rispetto delle regole all’”utilità” contingente. Al punto che un sottosegretario alla giustizia affermare che certe sue bizzarre proposte sul futuro della magistratura sono dettate dal fatto che “il suo partito ha una questione aperta con i giudici”. Parallelamente la magistratura si è chiusa in una logica corporativa, interessata alla proprie dinamiche interne assai più che alle grandi questioni della giustizia. Con gli effetti tipici del corporativismo. Da un lato l’insofferenza per ogni tipo di critica, considerata sempre un atto di lesa maestà, anche quando argomentata e sacrosanta. Dall’altro l’allineamento di fatto, nonostante truculente dichiarazioni in contrario, ai desiderata della politica e del governo: basti pensare alla prevalente giurisprudenza del lavoro, a numerosi interventi in tema di immigrazione (a cominciare dalla criminalizzazione delle Ong) o alla repressione indiscriminata dei movimenti di dissenso radicale (a cominciare dai No Tav in Val Susa, per i quali si è giunti finanche a evocare il terrorismo). Il tutto in un quadro di diffusa insofferenza per le regole che devono presiedere all’agire giudiziario, nei processi e nelle dichiarazioni che li accompagnano. Ci sono, ovviamente, delle eccezioni, importanti e di grande rilievo. Ma il trend è questo. E mancano, all’interno della corporazione, segnali di attenzione e di autocritica. È in questo contesto che si colloca il rinnovo dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. È stato un vero e proprio terremoto, la fine di una stagione. Hanno vinto le due destre: quella di Autonomia e indipendenza e, soprattutto, quella di Magistratura indipendente (che ha avuto una crescita omogenea, a differenza della consorella, premiata in grande misura dal traino del suo candidato di punta, Piercamillo Davigo). Il voto politicamente più significativo, quello per i consiglieri di Cassazione, ha visto eletti i loro candidati e le due componenti, insieme, hanno ottenuto il 57 per cento dei voti validi (4.283 su 7.525). Hanno perso Unità per la Costituzione (la balena bianca della corporazione, da sempre collettore della maggioranza dei consensi) e, in misura più consistente, Area (la componente “progressista”, nata qualche anno fa da una confusa e traballante fusione tra Magistratura democratica e Movimento per la giustizia) che perde ben 3 dei 7 seggi che aveva. Le due destre, oggi divise, erano fino al 2015 un gruppo unico, portatore di posizioni corporative e conservatrici (quando non apertamente reazionarie). Di quel gruppo conserva il nome e l’impostazione Magistratura indipendente, il cui leader è tutt’ora Cosimo Ferri, fustigatore della politicizzazione di giudici e pubblici ministeri, attualmente in aspettativa perché deputato del Pd, dopo essere stato sottosegretario alla giustizia in quota Forza Italia. In polemica con questa contraddittoria gestione, ma non con l’impostazione ideale del gruppo, è nata Autonomia e indipendenza, espressione di una magistratura garante dello status quo (pur emendato dalle volgarità corruttive), dotata di un’autostima a prova di ogni critica (con atteggiamenti sprezzanti e talora sopra le righe verso il “resto del mondo”), arroccata nella propria cittadella. La loro vittoria congiunta è un segnale univoco: per i cittadini, per i magistrati e per un Consiglio superiore in attesa della nomina dei componenti laici e di un vicepresidente che ambirà ad essere, ancora una volta, la “voce del padrone”. Ed è un chiaro segnale per la politica: la prova che il vento di destra è diventato egemone nella giurisdizione e che la magistratura non ha bisogno di essere normalizzata, avendoci già provveduto da sola. Non finiranno i contrasti tra politica e magistratura, ma saranno sempre più contrapposizioni di potere e non conflitti per la tutela dei cittadini e, in particolare, dei meno tutelati. E la magistratura progressista? Esiste ancora, qua e là, ma non in forma organizzata. La cosa era già evidente con la costituzione di Area, sommatoria senz’anima di storie e movimenti eterogenei, interessata solo all’autogoverno (presto naufragata in pratiche clientelari e uffici ministeriali e rappresentata da capi di uffici assai poco presentabili) e divisa al proprio interno (al punto da far mancare alla candidata per la Cassazione, proveniente da Magistratura democratica, una parte dei propri voti e da essere ormai sostenuta pressoché solo da accordi locali). Storia già vista nella politica tout court, di cui da sempre la magistratura ripercorre le tappe con qualche anno di ritardo. Oggi, quando più ce ne sarebbe bisogno, la magistratura progressista non ha più riferimenti. La speranza è che sappia prenderne atto e ricominci percorrendo altre strade e prefigurando altre idee di giustizia e di magistratura. Anm. Davighiani in frenata, elette quattro donne di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 luglio 2018 Colpo di scena dopo lo spoglio per le elezioni dei togati del Csm. A& I, che nella categoria dei giudici di legittimità aveva fatto man bassa con Piercamillo Davigo (2.522 preferenze su 8.010) nella categoria dei giudici di merito si ferma a soli 975 voti, non eleggendo nessuno dei suoi due candidati. Una debacle inaspettata per il gruppo della magistratura associata fondato proprio da Davigo nel 2015 e che tutti i commentatori davano per vincente, sulla scia anche del successo del M5S, stante le comuni vedute in tema di giustizia. Fra i punti di contatto, la riforma della prescrizione, l’introduzione dell’agente sotto copertura per i reati contro la Pa, l’inasprimento generale delle pene per i “colletti bianchi”, la bocciatura della riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’ex ministro giustizia Andrea Orlando (Pd). Neppure Sebastiano Ardita, aggiunto alla Procura di Catania e candidato per i pm, è riuscito ad eguagliare il successo di Davigo, fermandosi a circa 1300 voti. Un’affermazione, quella di Davigo, che pare essere il frutto della sua notevole sovraesposizione “mediatica”, come si legge nei commenti di Magistratura indipendente, la corrente a cui era inizialmente iscritto l’ex pm di Mani pulite, e di Area. Ospite fisso dei talk show televisivi, Davigo, che è stato anche presidente dell’Anm prima della rottura della Giunta unitaria due anni fa, ha avuto dalla sua parte in questi mesi il favore della grande stampa. Molti importanti giornali, come il Fatto Quotidiano, hanno appoggiato apertamente la sua candidatura vedendo in lui il magistrato che poteva salvare il Csm dalla “degenerazione correntizia” e dalla lottizzazione delle nomine. “La grande differenza tra i voti presi da Davigo e i voti presi nella categoria dei giudici di merito dai rappresentanti di A& I è significativa del carattere personale del risultato del collega”, si legge nel comunicato di Mi. Al termine delle votazioni dei 16 componenti togati, 5 ciascuno ad Unicost e Magistratura indipendente, 4 ad Area, il cartello delle toghe progressiste, 2 ad A& I. Il Consiglio uscente era così composto: Unicost 6 rappresentati, Mi 3, Area 7 ed A& I uno soltanto. Quadruplica, quindi, la presenza femminile. Paola Maria Braggion e Loredana Micciché (Mi), Alessandra Dal Moro (Area), Concetta Grillo (Unicost), le toghe rosa che siederanno a Palazzo dei Marescialli. Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, può essere considerata la vincitrice di queste elezioni. I suoi dirigenti parlano di “un risultato storico per il gruppo che vede quasi raddoppiare il numero dei componenti e che vede dopo oltre 20 anni il ritorno all’interno del Consiglio di un giudice di legittimità di Mi”. “Non ha vinto né la destra né la sinistra della magistratura, categorie che, già in crisi nel mondo della politica, mal si attagliano al mondo delle toghe, nonostante il reiterato e tenace tentativo di alcuni organi di stampa nel voler classificare i magistrati, anche in maniera strumentale”, prosegue la nota di Mi, corrente spesso accusata di guardare a destra. “Ha vinto un gruppo di magistrati che ha una gloriosa tradizione e valori e principi sempre attuali, abituati a lavorare in silenzio, ma fermi difensori della dignità del loro ruolo e del loro lavoro”, conclude la nota di Mi. Per Cristina Ornano, segretaria generale di Area, “il contesto politico del Paese ha sicuramente influenzato queste elezioni”. Nonostante ciò, Area “continua ad essere il punto di riferimento della magistratura progressista con 2200 voti per il collegio dei magistrati giudicanti”, ha aggiunto Ornano. Grande soddisfazione è stat espressa per il risultato da parte del gruppo di A& I. Per i requirenti forte affermazione del pm della Procura di Paola Antonio Lepre (Mi), che con i suoi 2000 voti, dopo Davigo, è stato il magistrato più votato. Grande successo anche per Giuseppe Cascini, già segretario dell’Anm e attuale aggiunto alla Procura di Roma, candidato per Area con 1928 voti. 1770 i voti per il candidato di Unicost Luigi Spina. Molte, tornado ai pm, le schede bianche e nulle, circa 1000, segno che tanti magistrati non hanno apprezzato la scelta dei 4 candidati per 4 posti. Aggravante odio razziale per chi dice “andate via” agli extracomunitari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2018 Corte di cassazione - Sentenza 12 luglio 2018 n. 32028. Anche un’espressione “generica”, nello specifico: “che venite a fare qua … dovete andare via”, può far scattare l’aggravante dell’odio razziale nella commissione di un reato a danno di cittadini extracomunitari. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 32028 del 12 luglio 2018, respingendo il ricorso di un uomo condannato per concorso in lesioni in danno di due cittadini stranieri. Per i giudici di legittimità dunque per fa scattare l’aggravante non è necessario un esplicito richiamo alla superiorità della razza. Nel ricorso l’imputato aveva messo in discussione proprio il “significato discriminatorio” delle frasi riportate, rilevandone la “genericità” e “l’assenza di riferimenti ad una presunta superiorità razziale”. Per la Cassazione, tuttavia, “la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso (prevista dall’articolo 3 del Dl 26 aprile 1993 n. 122, convertito dalla legge 25 giugno 1993 n. 205), è configurabile in linea generale in espressioni che rivelino la volontà di discriminare la vittima in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa”. “Tanto - prosegue la decisione - non ricorre solo allorché l’espressione riconduca alla manifestazione di un pregiudizio nel senso dell’inferiorità di una determinata razza, ma anche quando la condotta, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio etnico, e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori”. “Questo secondo aspetto, per il quale è irrilevante l’esplicita manifestazione di superiorità razziale - argomenta la Cassazione - è senz’altro ravvisabile nella condotta ricostruita nella sentenza impugnata”. Per quanto riguarda le “connotazioni intrinseche” delle frasi pronunciate, infatti, queste ultime sono state ritenute “chiaramente espressive della volontà che le persone offese, e gli altri cittadini extracomunitari presenti ai fatti, lasciassero il territorio italiano a cagione della loro identità razziale”. Quanto invece al “contesto della condotta”, la Corte territoriale ha ritenuto “determinante” il riferimento alle dichiarazioni del coimputato che ha riferito di essere stato convocato presso un circolo dove usualmente si ritrovavano gli extracomunitari. “Circostanza, questa - conclude la Corte -, che unitamente al contenuto delle espressioni pronunciate nel corso dell’aggressione” è stata valutata come idonea “a manifestare pubblicamente e a diffondere, con un gesto fortemente significativo in tal senso, odio verso la presenza nel Paese di soggetti appartenenti ad altra etnia, e a porre in essere il pericolo analoghi ed ulteriori comportamenti discriminatori”. Sicilia: strutture carenti per la salute mentale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 luglio 2018 Gravi criticità per quanto riguarda la salute mentale in Sicilia orientale. Il Garante nazione delle persone private delle libertà anticipa alcune valutazioni a proposito della recente visita regionale nella Sicilia orientale. Gravi ritardi nella messa a punto operativa delle articolazioni di salute mentale nelle carceri della Sicilia: mai aperta quella del Pagliarelli di Palermo e priva di un protocollo con l’Azienda sanitaria competente quella del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto. Riguardo alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) solo due sulle tre previste sono funzionanti (quelle di Naso e Caltagirone). Difficili anche le condizioni operative del Reparto di medicina protetta presso l’Ospedale Papardo-Piemonte di Messina, con quattro stanze detentive dove i pazienti restano chiusi ventiquattro ore al giorno. Necessario un netto salto di qualità anche per il Sai, il Centro clinico della Casa circondariale “Gazzi” di Messina. Il Garante nazionale, nella stessa occasione, ha visitato anche quattro Istituti penitenziari, un Istituto penale minorile, un Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura (Spdc), tre strutture per l’accoglienza dei migranti e diverse celle di sicurezza dei Carabinieri e della Polizia di Stato nelle province di Messina, Catania e Siracusa. Ma la missione, la cui prima parte si era conclusa alla fine di giugno, è stata anche l’occasione per ampliare la conoscenza diretta della rete di strutture per persone anziane e con disabilità. Infatti, nella relazione presenta al parlamento, si è tenuto a precisare che l’ufficio del Garante è un’Authority che non si occupa solo dei detenuti, ma di tutte le persone che sono, di fatto, private delle libertà. “L’attesa del mondo della disabilità è stata centrata nella fiducia in una Istituzione nuova, il Garante Nazionale, che ha assunto l’impegno di monitorare il variegato mondo delle strutture per persone vulnerabili e di indirizzare un occhio esterno verso luoghi capillarmente sparsi nel territorio del Paese a volte poco trasparenti. Sono luoghi in cui accudimento e controllo si confondono frequentemente. Luoghi certamente noti alla rete degli affetti di chi vi è ospitato e al variegato mondo del volontariato; ma molto meno alle Istituzioni, forse proprio per la supposta residualità del ruolo sociale delle persone che vi risiedono; le quali vi entrano spesso volontariamente, ma nel tempo rischiano, per una serie di imprevedibili fattori, di divenire di fatto private della libertà”, così spiegò Mauro Palma durante la presentazione della relazione al Parlamento. Un documento che secondo Vincenzo Falabella, presidente nazionale della Fish (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), aveva riconosciuto come “fondate e legittime le istanze e gli approfondimenti riproposti con insistenza negli ultimi anni dalla nostra Federazione, in materia di segregazione delle persone con disabilità”, facendo finalmente sperare “nell’avvio di un reale contrasto a questo fenomeno e di garanzia vita indipendente delle persone con disabilità”. Detto, fatto. l’Ufficio del Garante ha recentemente visitato la Sicilia, ed esattamente nel territorio di Catania, dedicandosi appunto anche al monitoraggio delle strutture residenziali per persone anziane o con disabilità, oltre che a quello tradizionale degli istituti di detenzione e degli altri luoghi in cui la limitazione della libertà è determinata da un atto dell’autorità pubblica. Guidata da Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante, e integrata della partecipazione di Ciro Tarantino, docente all’Università della Calabria e direttore scientifico del del CeRC (Centre for Governmentality and Disability Studies “Robert Castel”) dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in adempimento del mandato proveniente al Garante dalla Convenzione Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità, la delegazione ha visitato a Catania e dintorni la Residenza Sanitaria Arka Srl, la Casa di Riposo della Cooperativa Sociale Padre Pio, l’Istituto Medico Psicopedagogico Lucia Mangano, il Centro Assistenziale per Anziani Maria Regina e il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura dell’Ospedale Cannizzaro. Il Garante nazionale ha anche visitato la residenza per anziani e quella per persone con disabilità della “Fondazione S. Angela Merici” di Siracusa nonché la “Casa dell’anziano” di Augusta. Soprattutto nelle residenze con un numero elevato di ospiti il Garante ritiene che si possa presentare il rischio di porre in essere forme di privazione della libertà. Puglia: detenuti psichiatrici, Asl pronte a bandire ore di ambulatorio in carcere noinotizie.it, 13 luglio 2018 “I direttori generali delle Asl sono disponibili a indire dei bandi, in ogni provincia della Puglia, per aumentare le ore di specialistica ambulatoriale, psicologica e psichiatrica, di servizio in carcere. Un primo, significativo, passo verso il miglioramento delle condizioni dei detenuti”. È quanto emerso dalle audizioni in Terza commissione Sanità sul sistema sanitario penitenziario, in merito alla proposta avanzata ai Dg Asl da Francesca Franzoso, consigliere regionale di Forza Italia. “Una risposta - prosegue Franzoso - che risolve sia pur parzialmente, l’emergenza della sanità carceraria, connessa in particolar modo all’assistenza dei detenuti interessati da patologia psichiatrica. Dalle audizioni è arrivata la conferma dello stato di emergenza in cui versano gli istituti penitenziari pugliesi, che ho avuto modo di denunciare dopo l’ultima ispezione effettuata nel carcere di Taranto, con una delegazione dei Radicali. Emergenza legata, oltre che alla situazione ormai cronica di sovraffollamento, soprattutto alla scarsità di personale sanitario specializzato”. “Apprezzo la volontà espressa dal presidente di commissione, Pino Romano, di far confluire l’esito dei lavori in un relazione finale della commissione. Dopo aver acceso i riflettori sul tema della sanità carceraria è bene tradurre gli atti in fatti, per avviare un percorso operativo di soluzione dei problemi che preveda, per cominciare, l’esportazione del modello di sanità nell’istituto penitenziario di Lecce - con l’istituzione del reparto psichiatrico da venti posti letto, di cui dieci ancora da attivare, anche negli altri penitenziari pugliesi”. Firenze: ventilatori contro il caldo torrido, un aiuto concreto a chi vive in carcere di don Vincenzo Russo* toscanaoggi.it, 13 luglio 2018 Il cappellano di Sollicciano, don Vincenzo Russo, racconta il progetto partito nel 2015 per cercare di risolvere uno dei disagi maggiori per i carcerati: il caldo che nelle celle raggiunge temperature difficili da sopportare. Solo oggi però l’impresa è diventata possibile, grazie all’impegno economico di Madonnina del Grappa, Caritas diocesana e Federazione regionale delle Misericordie. Sono ormai molti gli anni del mio servizio nel Carcere di Sollicciano. La mia quotidiana attività e attenzione qui si rivolge sia a coloro che ci vivono che a chi vi lavora. In comunione con gli uni e con gli altri mi impegno così, ogni giorno, per far sì che tutti possano mantenere la propria dignità di esseri umani e figli di Dio. Come si vive in carcere? È un ambiente di per sé duro che, se lasciato a sé stesso, può diventare talmente disumano da limitare i diritti più elementari di chi vi è ristretto o vi presta la propria opera di lavoratore o volontario. Tra essi, a titolo di esempio, il diritto alla salute, alla riabilitazione, a vivere e lavorare in ambienti decorosi e non malsani, al rispetto della dignità della persona umana, a non essere costretti a diventare complici di sistematiche violazioni delle leggi e, ancor peggio, del tradimento degli insegnamenti di Cristo. Per contrastare tutto questo, i Cappellani non possono limitarsi solo ad amministrare i sacramenti, ma devono offrire ascolto, diventare fratelli degli ultimi e di chi con loro lavora e, laddove possibile, fornire un concreto aiuto per superare i tanti problemi contro cui si infrange la Speranza e il desiderio di ricostruire una vita dopo gli errori commessi. I problemi che affliggono chi vive ristretto o lavora in carcere sono tanti e complessi. Quelli che parrebbero “semplici”, come reperire ventilatori per contrastare il caldo soffocante nelle celle, nei bracci e nelle stanze degli agenti di polizia penitenziaria, le peculiarità del carcere li rendono enormi. Era l’anno 2015 quando, per la prima volta, insieme ai radicali fiorentini, denunciai, grazie alla tribuna offertami da Radio Radicale e da qualche giornale locale, il fatto che a Sollicciano la temperatura d’estate superasse i 40°C. La Regione, allora, grazie all’assessore Stefania Saccardi, inviò qualche decina di ventilatori, altri li portai io stesso, ma fu impossibile metterli in funzione, data la vetustà dell’impianto elettrico. Solo oggi, nel 2018, l’impresa è diventata possibile, grazie all’impegno economico di Madonnina del Grappa, Caritas diocesana e Federazione regionale delle Misericordie e dopo tante manifestazioni di denuncia, ripetuti rapporti inviati al Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria dai radicali e dai Garanti, e l’arrivo di un nuovo Direttore. Rompere il muro di isolamento che avvolge il mondo carcerario oscurandone la drammatica condizione alla coscienza di chi sta fuori è sempre più difficile, ma imprescindibile. Per riuscirci non c’è una soluzione preconfezionata ma occorre spostare un mattone ogni giorno, portare la vita del carcere fuori dalle sue mura, disporsi a collaborare con quanti operano in questa direzione anche favorendo l’aggregazione degli sforzi e delle competenze che ciascuno mette in campo nel proprio ambito. È in questo contesto che, già nel lontano 2008, la Madonnina del Grappa ha voluto aiutarmi a istituire “Casa Caciolle”, una struttura che offre sostegno concreto a coloro che dal carcere escono e tentano di tornare a vivere nella società, mettendosi a loro volta a disposizione di chi si trova nelle stesse condizioni. Una bella realtà che dalla sua nascita è impegnata a costruire una rete di relazioni con tutti gli operatori del settore, per offrire da una parte possibilità di riscatto attraverso il lavoro e la cura degli altri, dall’altra occasioni d’incontro per sensibilizzare sui problemi del carcere e sulle marginalità da cui provengono gran parte delle persone detenute e che delinquono oggi nel nostro Paese. Sono ormai molti gli anni di collaborazione con le realtà esterne al carcere sui diritti delle persone recluse. Con tali realtà e con tutti quelli che condividono l’obiettivo di salvaguardare l’umanità nei luoghi di detenzione, ho collaborato e continuerò a farlo per contrastare le potenti spinte dell’odio e della noncuranza. Sentimenti sempre più diffusi questi, alimentati dalle crescenti difficoltà e da quanti, spesso strumentalmente, incitano a eliminare il fratello che sbaglia o ad abbandonarlo in un luogo dimenticato dagli uomini, cancellando dal proprio e altrui cuore il messaggio evangelico del Perdono e la tenerezza della Misericordia di Dio. Non è un caso che anche Papa Francesco decise di telefonare a Marco Pannella, in sciopero della sete proprio per sensibilizzare politica e opinione pubblica sullo stato disastroso delle carceri italiane, dicendogli: “Ma sia coraggioso, eh!!! Anche io l’aiuterò, contro questa ingiustizia... Io ne parlerò di questo problema, ne parlerò dei carcerati”. La collaborazione con i Radicali prosegue da allora, soprattutto in occasione delle loro visite ispettive in carcere, autorizzate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Ognuna di esse è strumento per depositare un piccolo mattone per la costruzione di un ‘pontè tra la città e il carcere, un’opera nella cui realizzazione, come Cappellano, sono impegnato da tempo. Grazie a queste occasioni sono stati portati a visitare ogni singola cella vari esponenti della società civile, come l’attore Paolo Hendel, o rappresentanti delle associazioni, come la Camera Penale di Firenze, esponenti della Fondazione Don Milani, studenti o Consiglieri Comunali. Con alcuni Consiglieri del Comune Firenze e l’associazione radicale “Andrea Tamburi” è nata l’iniziativa di sensibilizzare il Consiglio Comunale chiedendone lo svolgimento di una seduta, per una volta, dentro il carcere di Sollicciano. Una bella proposta, a cui le Istituzioni hanno risposto offrendo ascolto e promesse d’impegno, concretizzatesi recentemente in una delibera votata pressoché all’unanimità, che impegna il Comune a trovare soluzioni per permettere alle famiglie dei detenuti di arrivare a Sollicciano con i mezzi pubblici, a destinare un’immobile ai detenuti che potrebbero accedere alla semilibertà, a incentivarne le possibilità formative e di lavoro e altro ancora. Perseverare nell’aprire piccoli squarci di luce che illuminino le coscienze significa anche promuovere incontri, come quello organizzato con la Camera Penale di Firenze poche settimane fa. Una circostanza a cui hanno preso parte i cittadini di Firenze riuniti a Casa Caciolle con dirigenti nazionali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria come Pietro Buffa, con il responsabile del Provveditorato Regionale della stessa Amministrazione, Antonio Fullone, con il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Marcello Bortolato, con direttori ed educatori penitenziari quali Margherita Michelini e Paolo Bellotti, con avvocati penalisti quali Eriberto Rosso e Luca Maggiora, con delegati alle attività sociali di Confindustria come Simone Campinoti ed, infine, con detenuti ed ex detenuti. Un incontro di dialogo e confronto in cui ognuno ha potuto raccontare la propria esperienza e arricchirsi di quella degli altri, facendosene portatore più consapevole. Concludo qui questa piccola carrellata, che per forza di cose copre solo alcune delle cose che, come Cappellano, faccio e continuerò a fare. Non ho accennato, perché già le conoscete, alle tante e proficue collaborazioni con le associazioni di volontariato, cattoliche o laiche, che operano nel mondo carcerario. Anche a loro va la mia fraterna gratitudine come a voi, del resto, per quel tanto che ciascuno fa in favore di quel mondo, persino per i confronti, a volte accesi, ma sempre volti a costruire strumenti per servire la Carità e la Misericordia. *Cappellano di Sollicciano Roma: i detenuti si prendono cura del verde “ci rendiamo utili” Askanews, 13 luglio 2018 Il progetto di reinserimento socio-lavorativo. É mattina presto quando vengono prelevati davanti al carcere romano di Rebibbia da un pulmino che li porta al lavoro. Diventano giardinieri per un giorno, il loro compito è occuparsi della manutenzione delle aree verdi capitoline. Il progetto, partito lo scorso marzo dopo un accordo tra Roma Capitale e ministero della Giustizia, punta a favorire il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti e dura sei mesi sotto la supervisione della polizia penitenziaria. Ne sono stati coinvolti un centinaio, volontari, esclusi quelli in carcere per mafia o i condannati all’ergastolo, sono in servizio dalle 9 alle 15, cinque giorni a settimana, e anche la città di Roma, con i molti giardini e le aree verdi lasciate incolte e in disordine, ne giova. Claudio Iacobelli, supervisore del progetto: “La mattina si fanno trovare già pronti alle 7.30, pronti per uscire, non solo si sentono utili al progetto, ma più trascorrono tempo fuori, meno ne passano in carcere”. Dopo un percorso di formazione preventivo organizzato dal Servizio Giardini di Roma, gli viene rilasciato un attestato che in futuro può essere utile per il reintegro nel mondo del lavoro. Umberto, uno di loro: “Chi lo sa, magari domani qualcuno farà proprio questo per vivere e per restare fuori piuttosto che tornare dentro”. Il progetto è partito in via sperimentale al carcere di Rebibbia ma coinvolgerà successivamente anche altri istituti penitenziari. Trapani: Area marina protetta Egadi, detenuti impiegati in interventi di manutenzione ilgazzettinodisicilia.it, 13 luglio 2018 Saranno un centinaio i detenuti che verranno impiegati in interventi di manutenzione nell’Area marina protetta delle isole Egadi. Il progetto, voluto dal direttore generale dei detenuti e del Dipartimento del Dap, Roberto Piscitello, vedrà impiegate persone ritenute idonee a svolgere attività lavorative fuori dal carcere, e passerà attraverso la creazione di un’apposita area all’interno dell’istituto circondariale di Favignana destinata ai detenuti in prossimità dell’espiazione della pena selezionati per lavorare all’esterno dell’istituto. Il progetto ha come scopo quello di dare un contributo allo sviluppo del territorio ed è stato avviato un anno fa con il presidente dell’Area marina protetta. Piscitello ha anche visitato il carcere di Favignana per verificare gli attuali standard di sicurezza. Lo scorso anno dallo stesso carcere sono evasi tre detenuti: da allora sono state riattivate le telecamere esterne, oltre che potenziato il sistema anti-scavalcamento con delle reti. Milano: nel carcere di Bollate il riscatto parte dai diplomi di Roberta Rampini Il Giorno, 13 luglio 2018 “Credo che lo studio e la cultura siano fondamentali per il nostro reinserimento nella società, ci rendono consapevoli di ciò che siamo e aiutano e diventare delle persone migliori”. Emmanuel, 27 anni, sudamericano è uno dei detenuti del carcere di Bollate che ha conseguito 100/100 alla fine della classe quarta dell’istituto tecnico Primo Levi (con sede distaccata nell’istituto di pena) e il diploma di tecnico d’impresa. Ora dovrà fare l’anno integrativo (la quinta) e poi potrà realizzare il suo sogno, cioè quello di iscriversi alla facoltà di chimica e biologia. Sono 113 i detenuti del carcere alle porte di Milano che studiano nelle sezioni distaccate aperte dietro le sbarre dall’Itc Levi di Bollate e dall’istituto alberghiero Frisi di Milano. Ieri consegna dei diplomi per chi ha concluso la classe terza, quarta e quinta. Tra loro anche Valerio, ucraino, 34 anni, che ha conseguito 100/100 alla fine della classe terza, “ho incontrato qualche difficoltà nello studio dell’inglese, ma nelle altre materie non ho avuto problemi, ho già una laurea in economia che ho preso nel mio paese”. Scuole superiori, ma non solo. Altri 35 detenuti frequentano invece l’università, dalla facoltà di giurisprudenza a quella di scienze politiche, da agraria a scienze delle comunicazioni. “Abbiamo sempre cercato di agevolare l’iscrizione dei detenuti ai percorsi formativi e scolastici - dichiara Cosima Buccoliero, direttore aggiunto della casa di reclusione Milano-Bollate - è un opportunità per emanciparsi e per reinserirsi nella società”. Per chi è iscritto all’università c’è anche il progetto “Adotta un detenuto” che affianca ai carcerati un tutor-universitario e un arzillo volontario 90enne, ex professore di matematica, che settimanalmente si reca in carcere per aiutare nella preparazione degli esami. Ci sono infine i corsi di alfabetizzazione al quale sono iscritti 43 detenuti e sezioni distaccate delle scuole medie frequentate da 39 detenuti. Ieri pomeriggio è stato consegnato l’attestato a dodici detenuti che hanno partecipato alla staffetta letteraria promossa dal Bimed, la Biennale del Mediterraneo. La classe terza del Levi ha vinto l’edizione 2018 scrivendo un capitolo del racconto, “Il mistero della casa di via Bixio”, basato su un incipit scritto da Anselmo Roveda, giornalista e scrittore. “Il racconto e il lavoro partecipato dagli studenti del carcere di Bollate ci ha permesso di provare ancora una volta quanto attraverso le parole possa essere possibile superare gli steccati che non ci permettono di determinare la comunanza di cui abbiamo bisogno tutti - dichiara il direttore del Bimed, Andrea Iovino - al di là dell’idea di dentro e di fuori che dobbiamo assolutamente superare”. Trento: quattro giorni di libertà sul cammino della misericordia di Carlo Antonio Franch vitatrentina.it, 13 luglio 2018 Alcuni detenuti della Casa Circondariale di Spini di Gardolo hanno percorso il Cammino Jacopeo d’Anaunia. Ripetendo l’esperienza dello scorso anno con l’ottimo risultato ottenuto in fatto di condivisione e crescita reciproca, alcuni detenuti della Casa Circondariale di Spini di Gardolo, accompagnati dal cappellano don Mauro Angeli e dal presidente dell’Associazione Anaune Amici del Cammino di Santiago, Remo Bonadiman, con tre studenti universitari, hanno percorso il Cammino Jacopeo d’Anaunia breve, usufruendo di quattro giorni di libertà. Ripetendo l’esperienza dello scorso anno che aveva dato un ottimo risultato nella condivisione e nello scambio reciproco, alcuni detenuti della Casa Circondariale di Spini di Gardolo hanno percorso il Cammino Jacopeo d’Anaunia breve, usufruendo di quattro giorni di libertà. Erano accompagnati dal cappellano don Mauro Angeli (lo scorso anno c’era padre Stefano Zuin) e dal presidente dell’Associazione anaune “Amici del Cammino di Santiago”, Remo Bonadiman; insieme a loro tre studenti universitari che da tempo come volontari partecipano a progetti di animazione all’interno del carcere. “Nonostante il grande impegno richiesto, abbiamo voluto ripetere quest’iniziativa sul nostro percorso Jacopeo - spiega Remo Bonadiman - chiamandola ‘Cammino della misericordià. In un primo tempo sembrava che potessero partecipare sei detenuti, ma poi, a causa di problemi legati al percorso di riabilitazione, i magistrati hanno ritirato il permesso a tre di loro”. Il Cammino è iniziato a Sanzeno, dove padre Giorgio Silvestri ha illustrato le bellezze artistiche della basilica e il percorso di fede compiuto dai tre Santi Martiri. La prima tappa si è svolta da Sanzeno, passando per Salter e Romeno, a Fondo, dove si è conclusa con la visita del Museo dell’Acqua. “Approfitto per ringraziare don Carlo Crepaz che ci ha permesso di utilizzare l’oratorio di Romeno come punto logistico per tutti i quattro giorni - continua Remo Bonadiman - e i soci che hanno collaborato all’iniziativa”. Il secondo giorno è iniziato con la visita al Canyon Rio Sass ed è proseguito verso la Madonna di Senale. Il terzo giorno, con partenza dalla Madonna di Senale, attraverso la montagna, sono arrivati a Rumo dove Pio Fanti ha curato per loro la visita guidata, raccontando la storia e spiegando l’iconografia della chiesa di sant’Udalrico, recentemente restaurata, con gli affreschi che sono tornati all’antico splendore. Hanno visitato il laboratorio dei fratelli Carrara, costruttori e restauratori di organi e clavicembali, che hanno messo a nuovo diversi organi delle chiese in Val di Non di grande valore storico. A conclusione della giornata don Mauro ha celebrato la Messa nella chiesa di Marcena di Rumo, alla presenza di diverse persone della zona. Il quarto giorno, da Rumo, con sosta per il pranzo all’Eremo di San Biagio ospitati dalla famiglia Facinelli, hanno proseguito fino a San Romedio, dove padre Giorgio Silvestri ha curato la vista guidata del santuario. In una saletta appartata tutti hanno espresso le loro riflessioni su questo cammino. I quattro giorni di libertà totale sono stati molto apprezzati dai detenuti che uscivano per la prima volta dopo tre anni di reclusione totale. Spiega soddisfatto don Mauro Angeli: “È sicuramente un’iniziativa da ripetere se la struttura carceraria lo permetterà; è una linea guida su cui investire. È servita ai detenuti per riprendere contatti con la natura e rimettersi in armonia con l’ambiente: hanno gioito nel sentire il profumo di un bosco, della possibilità di rivedere gli scaffali di un supermercato. La condivisione della loro esperienza è stata utile per noi e per loro”. Ben riuscita la serata di mercoledì scorso nel teatro di Romeno dove i camminatori si sono incontrati con la popolazione locale, che li ha ascoltati in attento silenzio. Don Mauro aggiunge che l’itinerario li ha portati a “ripercorrere il salmo 35 che recita: “La tua giustizia è come le più alte montagne, il tuo giudizio come l’abisso profondo…”. Abbiamo fatto un percorso, siamo scesi negli abissi del canyon, che può rappresentare l’abisso interiore, per poi risalire sulle montagne più alte della Valle”. La guida Remo Bonadiman, presidente soddisfatto di quest’opportunità apprezzata, conclude: “Durante queste tappe abbiamo visto tre volti sereni, disponibili al dialogo e alla condivisione, rapporti che si sono sciolti e diventati amichevoli. Resta per noi un’esperienza che va preparata con cura ma che possiamo ripetere, se ci viene data la possibilità”. Treviso: “Vacanze dell’anima” varca il confine del carcere trevisotoday.it, 13 luglio 2018 A Santa Bona un appuntamento fuori programma. Arte come strumento di relazione tra le persone e il territorio. “Vacanze dell’anima” entra nel carcere di Treviso, il 1 agosto, per un concerto riservato ai detenuti. Un appuntamento fuori programma, non inserito in cartellone, a cui gli organizzatori stanno lavorando da tempo, che si realizza grazie alla collaborazione attivata con la direzione e il personale della struttura. Sarà un collettivo costituito ad hoc a suonare a Santa Bona, 5 giovani musicisti - due chitarre, basso, batteria e voce - coinvolti nel festival Gioie Musicali, che ha condiviso la progettazione dell’evento: 15 brani pop e rock, dai classici Blues Brothers con Everybody needs somebody a Il più grande spettacolo dopo il Big Bang di Jovanotti. “Usciamo dal contesto delle sale da concerto, dei teatri, dei luoghi “adatti”, lasciamo a casa la musica “esatta”, quella classica, e usiamo l’arte “nuda” per quello che è: uno strumento di ascolto, di contatto, di relazione - racconta la direttrice d’orchestra Elisabetta Maschio - con umiltà di azione, per costruire un ponte tra noi e l’altro, per conoscere e comprendere”. Le attività di socializzazione, di ricostruzione di legame e confidenza con l’esterno sono parte del percorso di rieducazione che avviene mentre si sconta la pena: momenti di spettacolo, di lettura, di condivisione proposti da volontari, insieme a attività lavorative e formative sono opportunità che la casa circondariale di Treviso utilizza da tempo per allentare il distacco e ispessire la relazione con il mondo esterno, favorire un percorso di reinserimento. La novità è l’entrata di un festival in carcere: l’inserimento di un appuntamento “chiuso” in un programma pubblico, la scelta di richiamare l’attenzione di molti in un luogo di confine sociale e morale. “Non sempre chi sbaglia ha tutti i torti: il carcere è lo spazio in cui si riconosce l’errore umano e la possibilità di riparare, per ritrovare equilibrio, come individui e come collettività - dichiara il direttore artistico di Vacanze dell’anima Loris De Martin. Questa esperienza tra persone, vissuta anche come testimonianza, scosta il velo della ribalta, degli eventi luccicanti, entra in una dimensione fragile, per chi sta dentro e chi sta fuori. Il festival gioca il suo ruolo e si spinge ancora un po’ oltre il confine delle convenzioni, proponendo arte e cultura come occasioni di relazione e di cambiamento. Sulla scia di un titolo che è prima di tutto un invito, una ispirazione - Giocare con i confini - il programma della nona edizione si compone di piccole e grandi esperienze sul crinale. È la musica il filo rosso che lega tutti gli appuntamenti, grazie alla collaborazione tra il festival Vacanze dell’anima, ideato da De Martin, e Gioie musicali, diretto dalla Maschio, che insieme guardano alla dimensione sociale e educativa dell’arte, capace di coinvolgere appieno chi la propone e chi la fruisce. Quest’anno, la presenza di un capofila come la Cooperativa Ca Corniani, impegnata a sostegno della disabilità, ha favorito ancor di più questo percorso. Nel carcere di Santa Bona si terrà il terzo dei Concerti sul confine che propongono la musica come occasione di esplorazione e di esperienza. Con una Passeggiata sonora in programma il 20 luglio (ore 16.30), il pubblico potrà sperimentare il potere della musica come strumento di conoscenza di sé e dell’altro, una immersione in natura per ascoltare, cantare e ballare. Mentre, lunedì 23 luglio (ore 16.30), un altro luogo spesso ai margini della nostra società sarà la cornice inconsueta di Note in dono, un concerto aperto al pubblico nella casa di riposto Prealpina di Cavaso, per cercare assonanze nuove. Vacanze dell’anima si apre con una giornata dedicata alle Sfide d’impresa, il 19 luglio. Alla Fornace di Asolo, un workshop pomeridiano e un incontro serale (ore 20.30) con Stefano Schiavo, per approfondire come le aziende oggi possono mettersi in gioco, tra innovazione, mercati, nuove tecnologie e passaggio di testimone tra generazioni. Le storie di contadini, agricoltori e trasformatori artigiani veneti, accanto a quelle dei loro prodotti, sono al centro dell’appuntamento Il senso della lumaca e altre storie, domenica 22 luglio a Monfumo (ore 15). Una giornata dedicata ai sapori e al valore “inimitabile” del territorio, con la collaborazione di Slow Food. Il doppio evento a Cima Tomba è rito collettivo per proporre insieme un messaggio di grande attualità sull’inutilità del conflitto. Marco Paolini e Simone Cristicchi celebrano i cento anni dalla fine della Grande Guerra e cantano, insieme al pubblico, una invocazione alla pace. Il programma si chiude con un dialogo delicato e ardito insieme: sabato 4 agosto alle ore 10, (con)fine vita, nella biblioteca comunale di Montebelluna. Il Festival guarda in faccia un tema tabù, oggetto di conflitti, fraintendimenti, silenzi o semplificazioni, in un dialogo che affronta aspetti legali, psicologici e pratici, fino alla dimensione filosofica e spirituale. L’effetto Lucifero che brucia il senso comune di Mauro Magatti Corriere della Sera, 13 luglio 2018 Sotto l’influenza dei nuovi discorsi politici ci abituiamo a pensare che non tutti gli uomini siano uguali e che alcune vite valgano più di altre. Il 1989 era stato salutato come l’anno della fine delle ideologie. L’anno, cioè, in cui finalmente avevamo imparato a guardare in faccia la realtà, risolvendo pragmaticamente i problemi sociali senza gli occhiali distorti di un pensiero astratto e pregiudiziale. Ma, a 30 anni di distanza, non sembra proprio che quell’aspirazione si sia realizzata. Semplicemente perché, come disse il presidente americano Franklin Roosevelt, “gli uomini non sono prigionieri del destino ma di quello che c’è nelle loro menti”. Guardiamo dapprima i decenni alle nostre spalle: non è forse stata ideologica la visione di una globalizzazione progressiva e uniforme, capace di renderci tutti liberi individui fluttuanti in un mondo a possibilità crescenti, garantito dalla liberalizzazione finanziaria? E non è forse per la pervicacia di tale ideologia che le politiche adottate nel post 2008 sono state così poco incisive? In fondo, gli ultimi dieci anni sono stati spesi nel tentativo di riparare i guasti della crisi immettendo enormi quantità finanziarie per non far crollare la fiducia dei mercati. Obiettivo meritorio, ma che ha tralasciato di affrontare i nodi di fondo: le regole della finanza, che rimane in larga parte dominata dalla speculazione, e il tarlo della disuguaglianza. Forse oggi, guardando retrospettivamente, è più facile riconoscere che abbiano vissuto quasi trent’anni sotto l’influenza di un potente “effetto Prometeo”: l’hybris di quegli anni è stata l’ illusione di aver trovato una sorta di “moderna pietra filosofale” (la finanza appunto) che ci avrebbe risolto tutti i problemi di scarsità. La storia, però, non perdona le distorsioni che ogni ideologia porta con sé. E così da qualche anno, ormai in tutto il mondo, sta montando una reazione. Un fenomeno che non sappiamo ancora fin dove arriverà. Anche se nulla sarà più come prima. Ci sorprende che i fatti contino fino ad un certo punto. In queste settimane l’Europa si sta dilaniando sui migranti quando sappiamo che i flussi sono sostanzialmente diminuiti. Ma è chiaro che non sono gli ultimi mesi a poter cambiare la percezione. Sono gli anni alle spalle e soprattutto le previsioni future ad agitare le menti. Allo stesso modo, il senso di insicurezza sale mentre diminuiscono i crimini. Ma forse ciò stupisce chi vive nei pochi quartieri benestanti. Moltissime delle nostre periferie e semiperiferie sono luoghi anonimi dove una popolazione fragile e sola è costretta a fare i conti con una micro-violenza quotidiana che destabilizza la vita di chi si sente abbandonato dalla istituzioni. Infine, anche se la situazione economica - pur se non brillante - è oggi lontana dagli anni più bui, rimane prevalente il senso di insicurezza. Oltre che anemica, la ripresa crea lavoro instabile e poco pagato. Quanti sono quelli che dispongono di una condizione economica ragionevolmente stabile e prospera? In questo clima controverso a crescere è una nuova ideologia - cioè una diversa interpretazione del mondo - che, invertendo la direzione di marcia degli ultimi decenni, mette l’accento su termini come sicurezza, identità, confine. Operazione non facile che, per essere realizzata, ha bisogno di una leva. Che è poi un nemico da combattere. “Costruzione” che ormai avviene ogni giorno, creando un nuovo senso comune, dove le élites cosmopolitiche (da Soros in giù), le banche e le burocrazie europee, la concorrenza di altri Paesi, gli immigrati delinquenti sono indicati come “il problema” da risolvere. Per il futuro, la via a cui si pensa è quella di un “capitalismo autocratico” - che sta già diventando norma in tutto il mondo - in un nuovo intreccio tra economia, politica e religione. Dove porta questo nuovo vento della storia? Difficile dirlo. Ogni epoca storica ha il suo demone criptato dalla ideologia che la governa. Diversi segnali fanno pensare che la direzione sia quella che Zimbardo - uno psicologo di Yale - ha chiamato “effetto Lucifero”. Secondo lo studioso americano, in determinate condizioni si registra una radicale trasformazione - fino ad arrivare alla perdita - della coscienza morale collettiva. Le violenze verbali quotidiane; le decisioni politiche esplicitamente incuranti delle loro conseguenze sul destino di un particolare gruppo di esseri umani; la divisone della popolazione tra cittadini di serie A e (non) cittadini di serie B, sono tutti fattori che spingono in questa direzione. Sotto l’influenza dei nuovi discorsi politici, ci stiamo abituando a pensare che non tutti gli uomini sono uguali, che alcune vite valgono più di altre, che la dignità di ogni esistenza non costituisce il vincolo a cui la comunità politica deve cercare di attenersi. Come tensione e come sfida. La perdita del senso di comune umanità che ciò causa apre la strada a sviluppi imprevedibili. Al di là delle intenzioni degli attuali governanti, occorre rendersi conto della energia che si sta sprigionando dal profondo delle nostre società per effetto del riallineamento in corso. Guai a pensare di cavalcare la tigre. In un momento storico come quello che stiamo vivendo si rischia di finire dove nessuno vorrebbe arrivare. L’evoluzione della criminalità transnazionale di Franco Roberti Corriere del Mezzogiorno, 13 luglio 2018 Nel confronto polarizzato sul presente e sul futuro dell’Ue, sarebbe importante tenere in vista, accanto ai temi economici e dell’immigrazione, quelli, altrettanto fondamentali ma sempre trascurati nel dibattito politico, della giustizia e della cooperazione giudiziaria internazionale nel contrasto alla criminalità transnazionale, al terrorismo e - appunto - alla gestione illegale dell’immigrazione. Per esempio, si sottolinea, giustamente, come sarebbe decisivo per arginare quest’ultimo fenomeno contrastare efficacemente i trafficanti di esseri umani, ma non si dice quasi mai che, per conseguire tale obiettivo, sarebbe indispensabile una stretta cooperazione investigativa e giudiziaria tra tutti i Paesi interessati, in Europa e in Africa. Una cooperazione che, nonostante il grande impegno italiano, è ancora largamente carente. Appare infatti ancora sottovalutata - perché spesso neppure percepita - la minaccia che la criminalità organizzata transnazionale, in tutte le sue manifestazioni, sta portando da molti anni alla comunità internazionale, anche grazie ai suoi intrecci con la criminalità terroristica. L’evoluzione della criminalità transnazionale ha sfruttato le opportunità offerte: 1) dalle debolezze del sistema economico-finanziario internazionale; 2) dall’incrocio tra domanda e offerta di un’ampia gamma di beni di natura illecita (droga, armi, false fatture, beni contraffatti, cybercrime) e servizi (sicurezza, tratta di esseri umani, traffici di rifiuti), che consente alle organizzazioni criminali di operare a livello imprenditoriale in un contesto diverso da quello del loro iniziale radicamento territoriale; 3) dalla vulnerabilità delle istituzioni pubbliche, esposte alle infiltrazioni criminali attraverso i meccanismi corruttivi e collusivi tipici dell’agire mafioso; 4) dallo sviluppo tecnologico e dalla globalizzazione dei mercati; 5) dalle asimmetrie regolative e dalla mancata armonizzazione tra gli ordinamenti giuridici, per lo meno a livello europeo, che costituiscono il principale freno ad una azione unitaria e coordinata di contrasto. Si tratta di organizzazioni sempre più in movimento, dal Sud al Nord d’Italia, da uno Stato all’altro, in UE ed a livello globale. A ben riflettere, ciò è avvenuto per le stesse ragioni che stanno alla base del dinamismo delle imprese multinazionali legali: la insufficienza dei mercati interni, la forte concorrenza con altri soggetti, la necessità di conseguire economie di scala, la ricerca di nuovi fonti di approvvigionamento di beni illeciti, l’allocazione degli enormi proventi di reato. Ne deriva una costante sfida allo stato di diritto, il quale non ammette poteri al di fuori o al di sopra della legge. Una sfida la cui portata non è stata ancora pienamente compresa in molti, troppi Paesi. Anche il fenomeno del terrorismo internazionale, nelle sue forme attuali, non conosce confini di Stati e di regioni, in uno scenario sempre più accentuato di globalizzazione e di interdipendenza tra Stati e organismi internazionali. Il concetto di interdipendenza strategica tra i vari soggetti, che condividono la stessa minaccia, postula che le scelte di ognuno di essi in ordine alle tipologie di intervento siano influenzate dalle decisioni degli altri e che, quindi, ciascuno debba prevedere tali decisioni. Per essere assolutamente efficace, il contrasto al terrorismo internazionale dovrebbe essere condotto in connessione con la lotta alle altre forme di criminalità organizzata e con spirito unitario tra tutte le istituzioni coinvolte, pur nel rigoroso rispetto dei ruoli. Per rispondere alle sfide della criminalità organizzata e del terrorismo internazionale, che sfruttano la globalizzazione dello spazio del mondo, occorrerebbe forse guardare al mondo con categorie diverse da quelle con cui abbiamo cercato di capirlo e di governarlo fino ad oggi. E ciò vale anzitutto per gli ordinamenti giuridici, sui quali dovrebbe fondarsi il nuovo ordine globale. Purtroppo non si vedono ancora i segni di questo nuovo ordine. Al contrario, sembrano prendere il sopravvento forze disgregatrici dei già fragili equilibri esistenti: masse di disperati premono ai confini di società che non possono o non vogliono accoglierli; crescono le povertà e le disuguaglianze sociali, mentre spinte centrifughe attraversano l’Europa e l’Occidente. La tendenza degli Stati a guardare dentro se stessi e le chiusure sovraniste ostacolano la cooperazione giudiziaria internazionale e, in tal modo, favoriscono la diffusione della criminalità transnazionale e del terrorismo. Noi italiani crediamo nella cooperazione internazionale, nello scambio e nella condivisione delle informazioni come premessa necessaria per un efficace contrasto ai fenomeni criminali. Crediamo che il Diritto sia un ponte che avvicina culture, tradizioni e ordinamenti diversi. Mentre altri Paesi, anche europei, pensano ad alzare muri, materiali e ideologici, noi italiani abbiamo finora cercato di aprire nuove opportunità di dialogo e di condivisione, nuove strade da percorrere insieme verso un mondo libero dalla paura e dalla oppressione, più giusto, più solidale e più rispettoso della dignità umana. Un ruolo che riflette la parte migliore di noi ed al quale non rinunceremo. Migranti. Interviene il Colle: da Conte ok allo sbarco dalla nave Diciotti di Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2018 “Sta per iniziare lo sbarco dei migranti che sono a bordo della nave Diciotti. Sono state completate le procedure di identificazione delle persone che erano a bordo, con particolare riguardo a quelle a cui risulterebbero imputabili le condotte che configurano ipotesi di reato. Nei prossimi giorni proseguiranno gli accertamenti, a cura della Polizia di Stato, con assunzione delle informazioni testimoniali di tutte le persone che sono state trasportate”. Lo ha annunciato in una nota il premier Giuseppe Conte. La nave Diciotti della Guardia Costiera con a bordo 67 migranti soccorsi 4 giorni fa dal mercantile Vos Thalassa è entrata nel porto di Trapani intorno alle 15. Ma è rimasta per ore in porto senza far scendere nessuno. È stato l’intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a sbloccare la situazione. E il Viminale ha espresso “stupore” per l’intervento del Colle e “rammarico” per la scelta della procura che al momento non starebbe valutando la possibilità di disporre provvedimenti cautelari nei confronti dei due migranti indagati per violenza privata continuata e aggravata nei confronti del comandante e dell’equipaggio della Vos Thalassa. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini dal vertice Ue di Insbruck aveva insistito: “Io non voglio farmi prendere in giro. Finché non c’è chiarezza su quanto accaduto io non autorizzo nessuno a scendere dalla Diciotti: se qualcuno lo fa al mio posto se ne assumerà la responsabilità”. E aveva aggiunto: “o hanno mentito gli armatori e i marinai denunciando aggressioni che non ci sono state e allora devono pagare o l’aggressione c’è stata e allora i responsabili devono andare in galera”. Lo scontro nel governo sulla linea da tenere - Sulla vicenda si è alzata la tensione nel Governo. Già ieri, mentre dal ministero dei Trasporti, guidato da Danilo Toninelli (M5s) si faceva sapere che la Diciotti era diretta verso Trapani, Salvini metteva paletti: “Prima di concedere qualsiasi autorizzazione, attendo di sapere nomi, cognomi e nazionalità dei violenti dirottatori che dovranno scendere dalla nave in manette”. E poliziotti sono saliti sulla Diciotti per acquisire elementi su quanto accaduto, mentre altri agenti si sono recati sulla Vos Thalassa per avere testimonianze di prima mano sui presunti autori delle minacce. Vertice in Procura a Trapani - Tutto materiale girato alla procura di Trapani dove si è svolto un vertice tra i magistrati per decidere quali provvedimenti adottare. Sul tavolo del procuratore Alfredo Morvillo c’è la relazione della squadra mobile della Questura e dello Sco della polizia di Roma sugli eventi accaduti sull’imbarcazione e la denuncia di due dei 67 migranti. L’indagine in corso - Nell’indagine effettuata dalla polizia nelle ultime 24 ore in mare ci sono due denunciati: un cittadino ghanese e di quello sudanese che devono rispondere di violenza, minacce e dirottamento. I reati sarebbero stati commessi nei confronti del comandante e dell’equipaggio della Vos Thalassa dopo che i migranti avevano scoperto che la nave stava dirigendosi verso la Libia.”Non abbiamo chiesto di entrare in porti italiani, non siamo trafficanti e abbiamo virato a nord dopo che l’equipaggio ha subito minacce dai migranti” ha affermato, in una intervista al Secolo XIX Christopher Savoye, responsabile Affari legali del gruppo olandese Vroon Offshore, proprietaria della Vos Thalassa, nave con bandiera italiana che ha uffici anche a Genova. La vicenda - La Vos Thalassa gestisce la sorveglianza di una piattaforma della compagnia petrolifera francese Total. Indagini sono in corso anche per identificare eventuali scafisti a bordo dell’imbarcazione sulla quale si trovavano i 67 migranti soccorsi la sera del 9 luglio scorso dalla Vos Thalassa. Successivamente la Guardia costiera è intervenuta perché il comandante del mercantile ha segnalato una situazione di “grave pericolo” per l’equipaggio, tutto composto da italiani, minacciato da alcuni migranti soccorsi all’arrivo in zona di una motovedetta libica che li avrebbe riportati sulle coste africane. E per questo sono stati fatti trasbordare sulla nave Diciotti della Guardia costiera italiana. Stati Uniti. La polizia americana macchina da guerra: 700 morti in sei mesi di Paolo Delgado Il Dubbio, 13 luglio 2018 Le statistiche sugli “omicidi legali” negli Stati Uniti. Come d’abitudine l’associazione del partito radicale “Nessuno tocchi Caino” ha diffuso ieri i dati sulle uccisioni a opera della polizia negli Usa. Sono dati utili in un momento in cui la richiesta di politiche securitarie, pur non giustificata dai dati sulla criminalità che indicano tutti i reati principali in netto calo, torna a essere massiccia. Dall’inizio dell’anno al 30 giugno le forze dell’ordine negli stati Uniti hanno già ucciso 617 persone secondo alcuni siti di ricerca, 698 secondo altri. I decessi salgono però a 806 se si tiene conto dei casi di suicidio: di solito persone che, circondate dalla polizia o dopo aver preso ostaggi, spesso a seguito di liti domestiche, si tolgono la vita. Alcune morti sembrano causate da incidenti, in particolare stradali. La quasi totalità dei casi però riguarda persone uccise a seguito dell’uso volontario di armi da fuoco da parte di agenti di polizia. Dei 698 morti, 587 vengono indicati come “uccisi da arma da fuoco”, 85 travolti da un veicolo della polizia, 17 morti sono stati causati dall’uso del cosiddetto Taser, la pistola elettrica la cui sperimentazione sta per essere avviata anche in Italia. In 240 casi su 298 non viene precisata la “razza” delle vittime, dal momento che la stampa negli Usa spesso ritiene discriminatorio indicare l’appartenenza razziale o etnica. Sono comunque accertate 239 morti di soggetti bianchi, 127 neri, 74 ispanici, 10 “nativi”, intendendo con questo termine pellerossa o alascani, 7 asiatici, un mediorientale. Tra le vittime si contano 65 donne. L’età media degli uccisi dalla polizia nei primi mesi del 2018 è di 37 anni. I minori di 12 anni uccisi sono stati 8, tra cui 4 bambini vittime di un uomo che li aveva presi in ostaggio dopo essere stato circondato dalla polizia e altri 3 uccisi da poliziotti per motivi personali e non di servizio. Altre 17 vittime avevano meno di 18 anni. Nelle statistiche Usa, le persone uccise dalla polizia vengono definite “omicidi giustificati”. Con tale definizione si intendono anche i casi di “legittima difesa”. In media per ogni 4 cittadini uccisi legalmente dalla polizia, ce ne sono altri 3 vengono uccisi legalmente da privati cittadini. Le statistiche citate non tengono conto delle vittime di civili, ma basandosi sui dati pubblicati ogni anno dal Federal Bureau of Investigation (Fbi), nei primi 6 mesi di quest’anno i civili dovrebbero aver ucciso “legalmente” circa 490 persone. Nello stesso arco di tempo, negli Usa sono state compiute 12 esecuzioni. Significa che per 12 persone uccise rispettando le garanzie processuali circa 650 “criminali” o sospetti tali sono stati uccisi al momento dell’arresto, e 490 addirittura al momento di commettere il reato. Il clamoroso squilibrio giustifica la polemica in corso sugli altissimi costi economici di un sistema penale capitale visto che poi, nella realtà, un “criminale” ha 95 volte più probabilità di venir ucciso al momento di commettere un reato o in quello dell’arresto che non dopo una serie di regolari processi. Uno studio del 2015 condotto congiuntamente dal Washington Post e dalla Bowling Green State University aveva calcolato che negli ultimi 10 anni solo 54 agenti di polizia erano stati formalmente accusati di omicidio. Dei 54 poliziotti, 23 erano poi stati assolti, 12 condannati, e per 19 il procedimento era ancora aperto. Nei casi di condanna, la pena media è stata 4 anni. Stati Uniti. “Ritiro e consegna” dei bimbi migranti a rilento di Marina Catucci Il Manifesto, 13 luglio 2018 Per i genitori braccialetti elettronici. Sono iniziate le riunificazioni delle famiglie dei migranti separate al confine tra Stati uniti e Messico. Ma il processo di ricongiungimento sembra essere molto più complicato di quello di separazione. Stando a quanto avevano dichiarato già nei giorni scorsi diversi funzionari governativi addetti a questo compito, non sembrava probabile che si riuscissero a rispettare le scadenze imposte dal tribunale federale di San Diego, in California. Secondo la corte i bambini sotto i 5 anni sarebbero dovuti tornare con i genitori entro il 10 luglio e i minori dai 5 anni in su entro 30 giorni, vale a dire entro la fine di questo mese. E così è stato: solo un piccolo numero di bambini è riuscito a tornare dai genitori. Dal canto suo il presidente Trump aveva avvertito che non sarebbe stato possibile operare tutti i ricongiungimenti previsti, ma solo 38 di questi, a causa di “problemi logistici”. La dichiarazione di Trump ha sbigottito e fatto infuriare il giudice californiano Sabraw che ha emesso la sentenza di ricongiungimento e in una dichiarazione pubblica ha evidenziato la natura inderogabile del termine fissato, affermando: “Tale termine non è assolutamente un’enunciazione programmatica”. L’American Civil Liberties Union (Aclu), che si occupa di difendere i diritti civili, ha accusato il governo americano di perdere tempo in un processo “insensato”. “Questi bimbi hanno già sofferto abbastanza - ha detto al Guardian l’avvocato Lee Gelernt - e ogni giorno in più che passa aggiunge soltanto altro dolore”. I funzionari dell’amministrazione Trump intanto hanno dichiarato di aver smesso di arrestare gli adulti migranti che entrano negli Stati uniti insieme ai figli: “I genitori con figli di età inferiore ai 5 anni si stanno già ricongiungendo ai bambini, verranno poi rilasciati ed entreranno in un programma di detenzione alternativo”, ha detto ai giornalisti Matthew Albence, direttore esecutivo dell’Immigration and Customs Enforcement. Ciò a cui si riferisce Albence sono dei braccialetti elettronici messi alla caviglia che i migranti dovranno indossare prima di essere liberati: si parla di centinaia di famiglie che verranno rilasciate, tornando in pratica all’approccio dell’amministrazione Obama chiamato catch and release, cattura e rilascia, che Trump vedeva come fumo negli occhi e che aveva promesso di eliminare. Al momento i pochi ricongiungimenti si sono svolti con prassi caotiche: i genitori sono stati avvertiti che i tempi di ciò che viene definito “ritiro e consegna” dei figli possono cambiare durante l’arco del giorno, avendo a che fare con la burocrazia e con bambini piccoli spesso talmente traumatizzati da non riconoscere i propri genitori. Sembra ovvio a tutti che i tempi saranno lunghi: l’agenzia federale che sovrintende all’assistenza dei bambini migranti, il Dipartimento della salute e dei servizi umani, martedì mattina quando sono cominciati i ricongiungimenti, stavano ancora conducendo i controlli sui genitori. Yemen. Sparizioni e torture nei centri di detenzione La Repubblica, 13 luglio 2018 La denuncia di Amnesty: “Crimini di guerra”. Il nuovo rapporto, intitolato “Se è ancora vivo lo sa solo Dio”, denuncia che decine di uomini sono stati arrestati dalle forze degli Emirati Arabi Uniti e forze locali che agiscono fuori dal controllo del governo yemenita. Molti sono stati torturati e si teme che alcuni degli arrestati siano morti durante la detenzione. A un anno di distanza dal primo rapporto sulle prigioni segrete situate nello Yemen meridionale, Amnesty International è tornata a denunciare quel sistema, tuttora impunito, di sparizioni forzate e torture, che costituiscono crimini di guerra. Il nuovo rapporto, intitolato “Se è ancora vivo lo sa solo Dio”, denuncia che decine di uomini sono stati arrestati dalle forze degli Emirati Arabi Uniti e forze locali che agiscono fuori dal controllo del governo yemenita. Molti sono stati torturati e si teme che alcuni degli arrestati siano morti durante la detenzione. “Le famiglie dei detenuti vivono un incubo senza fine. Alle loro richieste di sapere dove i loro parenti siano detenuti o se siano ancora vivi, la risposta è il silenzio o l’intimidazione”, ha dichiarato Tirana Hassan, direttrice di Amnesty International per la risposta alle crisi. Due anni di silenzio. “Nelle ultime settimane sono stati rilasciati decine di detenuti, compresi alcuni dati per scomparsi. Ma ciò è avvenuto al termine di lunghi periodi di carcere, senza alcuna accusa, durati fino a due anni. Ciò rende ancora più necessario chiamare i responsabili a rispondere del loro operato e risarcire le vittime”, ha aggiunto Hassan. Da quando, nel marzo 2015, hanno aderito alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita, gli Emirati hanno creato, addestrato, equipaggiato e finanziato varie forze di sicurezza locali, tra cui la Cintura di sicurezza e la Forza di élite, e costruito alleanze con singoli responsabili della sicurezza yemeniti, aggirando il governo locale. Le vane ricerche delle famiglie degli scomparsi. Amnesty International ha svolto ricerche su 51 uomini arrestati da tali forze tra marzo 2016 e maggio 2018 nelle provincie di Aden, Lahj, Abyan, Hadramawt e Shabwa. Molti di essi hanno trascorso periodi di sparizione forzata e 19 di essi risultano tuttora scomparsi. Per la stesura del suo rapporto, l’organizzazione per i diritti umani ha intervistato 75 persone, tra le quali ex detenuti, parenti di persone scomparse, attivisti e rappresentanti del governo. I familiari dei detenuti hanno raccontato ad Amnesty International le disperate e vane ricerche d’informazioni. Madri, mogli e sorelle degli scomparsi svolgono regolari proteste da quasi due anni lungo il percorso tra gli uffici governativi e della procura, le sedi dei servizi di sicurezza, le prigioni, le basi della coalizione a guida saudita e vari altri luoghi per presentare denunce relative ai loro cari. Testimoni. “Non abbiamo la minima idea di dove sia, se è ancora vivo lo sa solo Dio. Nostro padre è morto d’infarto un mese fa, senza sapere dove fosse suo figlio. Vogliamo solo sapere che fine ha fatto nostro fratello, sentire la sua voce, sapere dove di trova. Se ha fatto qualcosa, non c’è un tribunale per processarlo? Almeno lo portassero a processo, almeno ce lo facessero visitare. Che senso hanno i tribunali allora? Perché li fanno sparire in questo modo?”, sono le parole della sorella di un uomo di 44 anni arrestato ad Aden alla fine del 2016. Alcune famiglie hanno riferito di essere state avvicinate da persone che le hanno avvisate della morte in carcere di un loro parente ma quando sono andate a chiedere conferma alle forze yemenite sostenute dagli Emirati queste hanno negato tutto. “Se solo ci confermassero che mio fratello è ancora vivo, se solo ce lo facessero vedere… è tutto quello che vogliamo. Ma non riusciamo a trovare nessuno che ci dia una conferma. Mia madre è come se morisse un centinaio di volte al giorno. Non si rendono conto di cosa stiamo provando”, ha detto la sorella di un detenuto scomparso dopo l’arresto, avvenuto nel settembre 2016, e sul cui decesso in carcere circolano numerose voci. La responsabilità degli Emirati. Il rapporto di Amnesty International denuncia il massiccio uso dei maltrattamenti e della tortura nei centri di detenzione gestiti dalle forze emiratine e yemenite. Detenuti ed ex detenuti hanno riferito di scariche elettriche, pestaggi e violenze sessuali. Uno di loro ha visto un compagno di prigionia venir portato via in un sacco da cadavere dopo essere stato ripetutamente torturato. “Non voglio mai più vedere quello che ho visto. In quel posto, non vedi neanche la luce del sole. Mi accusavano di qualsiasi cosa e mi picchiavano. Poi, una notte, mi hanno rilasciato dicendo che mi avevano confuso con un’altra persona. “Ci siamo sbagliati, scusa!”, come se non mi avessero fatto soffrire, come se non mi avessero sottoposto alla corrente elettrica”, ha raccontato un ex detenuto di Waddah Hall, un famigerato centro informale di detenzione di Aden gestito da un’unità antiterrorismo locale. Un altro ex detenuto ha raccontato che i soldati degli Emirati di stanza nella base di Aden gli hanno inserito più volte un oggetto nell’ano, fino a farlo sanguinare e lo hanno tenuto in una buca nel terreno con la sola testa fuori dalla superficie, lasciandolo defecare e urinare in quel modo. “Sentivamo parlare della tortura e dicevamo ‘figuriamoci se accadono queste cosè fino a quando non l’ho provata sulla mia pelle”, ha detto l’ex detenuto. “La mancanza di un sistema cui rendere conto rende ancora più difficile alle famiglie contestare la legalità della detenzione dei loro congiunti. Anche quando alcuni magistrati yemeniti hanno cercato di prendere il controllo su alcune prigioni, i loro tentativi sono stati del tutto ignorati dalle forze degli Emirati e in diverse occasioni i loro provvedimenti di rilascio di detenuti sono stati ritardati”, ha aggiunto Hassan. Lotta agli oppositori. Gli Emirati sono un alleato chiave della coalizione guidata dall’Arabia Saudita che dal marzo 2015 prende parte al conflitto armato dello Yemen. Il loro ruolo nella creazione della Cintura di sicurezza e delle Forze di élite ha ufficialmente l’obiettivo di combattere il terrorismo, dando la caccia ai membri di al-Qaeda nella Penisola araba e del gruppo denominatosi Stato islamico. Tuttavia, molti degli arresti paiono basati su sospetti infondati o dovuti a vendette private. Tra le persone prese di mira figurano infatti coloro che hanno espresso critiche nei confronti della coalizione a guida saudita e dell’operato delle forze di sicurezza appoggiate dagli Emirati, nonché leader locali, attivisti, giornalisti e simpatizzanti e militanti del partito al-Islah, sezione yemenita della Fratellanza musulmana. Le autorità sono persino ricorse a intimidazioni e aggressioni nei confronti delle parenti dei detenuti e degli scomparsi che negli ultimi due anni hanno preso parte alle manifestazioni ad Aden e al-Mukalla. Fare finta di niente. Gli Emirati negano costantemente di essere coinvolti in pratiche detentive illegali, nonostante ogni prova dimostri il contrario. Il governo yemenita ha dichiarato a un panel di esperti delle Nazioni Unite di non avere il controllo sulle forze di sicurezza addestrate e sostenute dagli Emirati. “Queste violazioni, che si verificano nel contesto del conflitto armato dello Yemen, dovrebbero essere indagate come crimini di guerra. Sia il governo dello Yemen che quello degli Emirati dovrebbero prendere misure immediate per porvi fine e per dare risposte alle famiglie degli scomparsi”, ha sottolineato Hassan. “I partner degli Emirati nella lotta al terrorismo, tra cui gli Usa, dovrebbero prendere una chiara posizione sulle denunce di tortura, indagando anche sul ruolo del personale statunitense nelle violazioni che hanno luogo nei centri di detenzione yemeniti e rifiutando di utilizzare informazioni estorte con ogni probabilità mediante maltrattamenti e torture”, ha concluso Hassan. Egitto. 13 condanne a morte per evasione dal carcere di Ismailia nel 2016 Nova, 13 luglio 2018 Un tribunale egiziano della provincia di Ismailia, circa 100 chilometri a nord-est del Cairo, ha condannato a morte oggi 13 imputati, tra cui alcuni estremisti islamici, per l’evasione dal carcere di Mustakbal avvenuta nell’ottobre del 2016. Lo ha annunciato oggi il quotidiano statale “Al Ahram”. Sette imputati sono stati condannati in contumacia. Si tratta per lo più di “militati takfiri” (eretici in arabo) dell’ex gruppo terroristico Ansar Beit el Maqdis, poi divenuto Stato del Sinai, “provincia” del sedicente Stato islamico in Egitto. Secondo la ricostruzione dei giudici, un membro del personale del carcere fornì armi di nascosto agli imputati per aiutarli a scatenare una rivolta e darsi poi alla fuga. Iran. 80 frustate per aver bevuto alcol quando era minorenne di Riccardo Noury Corriere della Sera, 13 luglio 2018 Negli ultimi giorni sulla stampa iraniana è circolata la fotografia di un uomo, menzionato con le iniziali M.R., che il 10 luglio è stato legato a un albero e frustato 80 volte sulla schiena da un uomo mascherato in una piazza di Kashmar, nella provincia di Razavi Khorasan. Oltre 10 anni prima, quando aveva 14 o 15 anni, M.R. aveva bevuto alcol durante una festa di matrimonio nel corso della quale era scoppiata una rissa culminata nella morte di un invitato 17enne. La procura di Kashmar ha chiarito che M.R. non fu coinvolto nell’omicidio e che le frustate gli sono state inflitte solo per aver bevuto alcol. I fatti risalgono al periodo compreso tra marzo 2006 e marzo 2007 (corrispondente, secondo il calendario iraniano, all’anno 1385). Poiché M.R. è nato nell’anno 1370, ossia tra marzo 1991 e marzo 1992, ne consegue che all’epoca del “reato” aveva 14 o 15 anni. La sentenza è stata emessa nell’anno 1386, dunque tra marzo 2007 e marzo 2008. Non è chiaro perché sia stata eseguita con così tanto ritardo. L’articolo 265 del codice penale islamico iraniano prevede che un musulmano che consuma alcol sia punito con 80 frustate. La pena della fustigazione è prevista per oltre 100 reati, tra cui furto, aggressione, atti vandalici, diffamazione e frode, così come per atti che non dovrebbero essere inclusi nel codice penale, come l’adulterio, le relazioni sessuali extramatrimoniali, le relazioni sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso e le “violazioni della morale pubblica”.