Carceri: presentate le linee programmatiche del Ministero giustizia.it, 12 luglio 2018 Audizione del Ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, sulle linee programmatiche del suo dicastero in Commissione Giustizia del Senato. Quello della detenzione e dell’esecuzione della pena costituisce un settore importante della giustizia sul quale il Dicastero intende impegnarsi a fondo per migliorarne condizioni e funzionamento. Anche in questo ambito specifico ritengo imprescindibile partire da una seria e approfondita interlocuzione con gli operatori direttamente coinvolti, la Magistratura di Sorveglianza e l’Amministrazione Penitenziaria, così come è in corso un costruttivo confronto con l’Autorità garante dei diritti dei detenuti. In tale ambito, obiettivo prioritario sarà realizzare un processo di riqualificazione tale da superare le carenze strutturali del sistema penitenziario in ogni sua sfaccettatura, nella prospettiva di una piena applicazione della funzione rieducativa sancita dell’articolo 27 della nostra Costituzione. L’analisi sullo stato del sistema dell’esecuzione della pena ed in particolare sul sistema detentivo ci induce a ribadire la necessità di profondere il massimo impegno per sanare le debolezze e le deficienze, conseguendo risultati tangibili e misurabili. A cinque anni di distanza dalla sentenza Cedu “Torreggiani c. Italia”, nonostante le soluzioni adottate, nelle carceri vivono ancora 8mila detenuti oltre la capienza regolamentare, la loro condizione della vita di ristretti non è sensibilmente migliorata, anzi non è migliorata affatto, mentre il principio della certezza della pena ha indirettamente subito una continua erosione, generando un senso di insicurezza nella collettività. L’azione legislativa e l’amministrazione della giurisdizione, nell’ottica mia e del Governo di cui faccio parte, devono riuscire a far convivere armoniosamente certezza della pena e finalità rieducativa della pena stessa. Si tratta di due principi che necessariamente e fisiologicamente stanno insieme essendo entrambi funzionali alla costruzione di un sentimento di fiducia che i cittadini hanno o, meglio, che non hanno più nei confronti dello Stato italiano nella sua capacità di fornire una risposta di giustizia effettiva e sostanziale. Funzionalmente interrelato all’assicurazione di un apprezzabile grado di sicurezza e di garanzia di dignitose condizioni di permanenza all’interno degli istituti detentivi risulta essere il tema della dotazione e dell’organizzazione della Polizia Penitenziaria. L’attuale dotazione organica del personale del Corpo è stabilita in 41.202 unità, ma la presenza effettiva è oggi pari a 37.470 unità, con una percentuale di scopertura di circa il 9%: si rileva però come la distribuzione tra le varie strutture faccia sì che tale percentuale si innalzi significativamente in diversi Istituti penitenziari con le immaginabili conseguenze in tema di criticità di gestione. Nonostante non poche situazioni di difficoltà la Polizia Penitenziaria continua ad accompagnare con professionalità l’esigenza della rieducazione e del reinserimento sociale delle persone detenute, affrontando problematiche nuove che costituiscono, ormai, nodi cruciali del mondo carcerario. Io in questo primo mese ho chiamato telefonicamente, personalmente gli agenti di polizia penitenziaria feriti in vari incidenti, chiamiamoli così, all’interno degli Istituti penitenziari per rappresentargli la vicinanza di uno Stato che secondo me fino ad ora gli è stato poco vicino. In questo senso voglio assicurare che questi sono semplicemente primi tratti di questa vicinanza che però poi dovrà estrinsecarsi nei fatti concreti per far sì che questi servitori dello Stato all’interno delle carceri possano operare i piena sicurezza e dignità lavorativa. Riforma delle carceri bocciata in Senato Italia Oggi, 12 luglio 2018 Parere negativo della Commissione giustizia del Senato allo schema di decreto legislativo di riforma del sistema penitenziario approvata dal precedente governo Gentiloni. Il provvedimento di “Riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della delega di cui all’articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere a), b), c), d), e), f), h), i), l), m), o), r), s), t), e u) della legge 23 giugno 2017, n. 103”, questo il titolo per esteso, ha principalmente l’obiettivo di rendere l’ordinamento penitenziario più attuale (la disciplina è del 1975) per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza di Corte costituzionale, Cassazione e Corti europee, e mira, in particolare, a ridurre il ricorso al carcere in favore di soluzioni che riportino al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata dall’art. 27 della Costituzione; razionalizzare le attività degli uffici preposti alla gestione del settore penitenziario; diminuire il sovraffollamento, sia assegnando formalmente la priorità del sistema penitenziario italiano alle misure alternative al carcere, sia potenziando il trattamento del detenuto e il suo reinserimento sociale in modo da arginare il fenomeno della recidiva; valorizzare il ruolo della Polizia penitenziaria, ampliando lo spettro delle sue competenze. A spiegare le ragioni della bocciatura è il relatore del parere Mario Michele Giarrusso, senatore del M5S secondo il quale: “Questa riforma prevedeva l’introduzione di svariate modifiche che, con un pericolosissimo effetto domino successivo, avrebbero portato, tra le varie, alla modifica delle pene relative all’ergastolo inflitto agli appartenenti alla criminalità organizzata e, di conseguenza, anche un aggiramento del famoso articolo 41bis che così tanto fastidio ha arrecato ai detenuti per reati di mafia, ottenendo di fatto, la possibilità di ottenere gli stessi benefici dei detenuti condannati per reati comuni e non di mafia”. Giarrusso, si legge in una nota, “dopo aver evidenziato tutte le criticità che l’approvazione di tale provvedimento avrebbe comportato e i pericoli per la democrazia che da esso sarebbero scaturiti, ha rappresentato che la battaglia per la legalità non può non passare per la intangibilità di alcune norme quali l’ergastolo ostativo e il 41bis, che provengono direttamente dai padri dell’antimafia tra cui Giovanni Falcone”. È incostituzionale negare i benefici, anche per gli ergastoli ostativi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2018 I giudici della Corte costituzionale hanno ritenuto troppo rigido l’automatismo che impedisce al magistrato di valutare il progressivo miglioramento del condannato. La Corte costituzionale, ancora una volta, interviene in maniera decisa sull’ordinamento carcerario. Questa volta ha ritenuto incostituzionale negare qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo. Anche per i reati cosiddetti ostativi contemplati dall’articolo dell’art. 58quater, comma 4 dell’ordinamento penitenziario che prevedono benefici solamente dopo aver scontato almeno 26 anni. L’incostituzionalità è stata affermata dalla Consulta con la sentenza n. 149 depositata ieri. La questione era stata sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, al quale un condannato all’ergastolo per sequestro a scopo di estorsione e omicidio della vittima aveva chiesto di poter accedere al regime di semilibertà avendo trascorso più di 20 anni in carcere, dove si era meritevolmente impegnato in attività lavorative e di studio. I giudici costituzionali hanno ritenuto fondati i dubbi sollevati dal Tribunale di sorveglianza di Venezia per contrasto con gli articoli 3 e 27 della nostra Costituzione. “L’appiattimento all’unica e indifferenziata soglia di ventisei anni per l’accesso a tutti i benefici penitenziari indicati nel primo comma dell’art. 4bis - scrive la Corte - si pone in contrasto con il principio, sotteso all’intera disciplina dell’ordinamento penitenziario in attuazione del canone costituzionale della finalità rieducativa della pena, della progressività trattamentale e flessibilità della pena, ossia del graduale reinserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale durante l’intero arco dell’esecuzione della pena”. I profili di illegittimità costituzionale - si legge ancora nella sentenza - “affliggono, in realtà, tanto la disciplina, in questa sede censurata, applicabile ai condannati all’ergastolo per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione di cui all’art. 630 cod. pen., quanto l’identica disciplina dettata dallo stesso art. 58quater, comma 4, ordinamento penitenziario per i condannati all’ergastolo per il diverso delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione di cui all’art. 289bis cod. pen. Ne deriva gli effetti della presente pronuncia devono essere estesi anche alla parte dell’art. 58quater, comma 4, ordinamento penitenziario. che si riferisce ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 289bis cod. pen. che abbiano cagionato la morte del sequestrato”. In soldoni i giudici costituzionali hanno ritenuto che la norma sovvertisse indebitamente la logica di progressività con cui, secondo il vigente ordinamento penitenziario, il condannato all’ergastolo deve essere aiutato a reinserirsi nella società, attraverso benefici che gradualmente attenuino il regime carcerario, favorendone contatti via via più intensi con l’esterno del carcere. Di regola, infatti, già dopo avere scontato 10 anni di pena, l’ergastolano, se mostra una fattiva partecipazione al programma rieducativo, può beneficiare dei primi permessi premio e può essere autorizzato a uscire dal carcere per il tempo strettamente necessario a svolgere attività lavorativa all’esterno delle mura penitenziarie. In caso di esito positivo di queste prime esperienze, dopo 20 anni l’ergastolano “comune” può essere ammesso al regime di semilibertà, che consente di trascorrere la giornata all’esterno del carcere per rientrarvi nelle ore notturne; e dopo 26 anni, qualora abbia dato prova di sicuro ravvedimento, può finalmente accedere alla liberazione condizionale. La norma ora dichiarata illegittima - con riferimento ai soli condannati all’ergastolo per i reati considerati ostativi - appiattiva invece all’unica e indifferenziata soglia temporale dei 26 anni la possibilità di accedere a tutti questi benefici, impedendo così al giudice di valutare il graduale progresso del condannato nel proprio cammino di reinserimento sociale. La Corte ha censurato il rigido automatismo stabilito dalla norma, che impediva al giudice di valutare i progressi compiuti da ciascun condannato, sacrificando così del tutto la funzione rieducativa della pena sull’altare di altre, pur legittime, funzioni. Benefici funzionali al reinserimento sociale, incostituzionale negarli di Diego Amicucci Agenparl, 12 luglio 2018 È incostituzionale negare qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo per aver causato la morte di una persona sequestrata a scopo di estorsione, terrorismo o eversione, prima che abbiano scontato almeno 26 anni di detenzione. La preclusione assoluta è intrinsecamente irragionevole alla luce del principio stabilito dall’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, secondo il quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 149 depositata oggi (relatore Francesco Viganò), con la quale è stato dichiarato incostituzionale l’articolo 58 quater, comma 4, della legge n. 354/1975 sull’ordinamento penitenziario là dove si applica ai condannati all’ergastolo per i due “reati ostativi” previsti dagli articoli 630 e 289 bis del codice penale. La questione era stata sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, al quale un condannato all’ergastolo per sequestro a scopo di estorsione e omicidio della vittima aveva chiesto di poter accedere al regime di semilibertà avendo trascorso più di 20 anni in carcere, dove si era meritevolmente impegnato in attività lavorative e di studio. In primo luogo, i giudici costituzionali hanno ritenuto che la norma sovvertisse indebitamente la logica di progressività con cui, secondo il vigente ordinamento penitenziario, il condannato all’ergastolo deve essere aiutato a reinserirsi nella società, attraverso benefici che gradualmente attenuino il regime carcerario, favorendone contatti via via più intensi con l’esterno del carcere. Di regola, infatti, già dopo avere scontato 10 anni di pena, l’ergastolano, se mostra una fattiva partecipazione al programma rieducativo, può beneficiare dei primi permessi premio e può essere autorizzato a uscire dal carcere per il tempo strettamente necessario a svolgere attività lavorativa all’esterno delle mura penitenziarie. In caso di esito positivo di queste prime esperienze, dopo 20 anni l’ergastolano “comune” può essere ammesso al regime di semilibertà, che consente di trascorrere la giornata all’esterno del carcere per rientrarvi nelle ore notturne; e dopo 26 anni, qualora abbia dato prova di sicuro ravvedimento, può finalmente accedere alla liberazione condizionale. La norma ora dichiarata illegittima - con riferimento ai soli condannati all’ergastolo per i reati considerati - appiattiva invece all’unica e indifferenziata soglia temporale dei 26 anni la possibilità di accedere a tutti questi benefici, impedendo così al giudice di valutare il graduale progresso del condannato nel proprio cammino di reinserimento sociale. In secondo luogo, la Corte ha evidenziato come la norma rinviasse irragionevolmente al ventiseiesimo anno di carcere gli sconti di 45 giorni, previsti per ogni semestre di pena espiata, in caso di positiva partecipazione del condannato all’opera di rieducazione. Nei casi di ergastolo “comune”, questi sconti possono invece essere utilizzati per anticipare il momento di accesso ai diversi benefici penitenziari (permessi premio, lavoro all’esterno, semilibertà). La norma ora dichiarata illegittima eliminava ogni pratico incentivo, solo per queste speciali categorie di ergastolani, a impegnarsi sin dall’inizio della pena nel cammino di risocializzazione. Infine, la Corte ha censurato il rigido automatismo stabilito dalla norma, che impediva al giudice di valutare i progressi compiuti da ciascun condannato, sacrificando così del tutto la funzione rieducativa della pena sull’altare di altre, pur legittime, funzioni. La sentenza sottolinea, in particolare, come siano incompatibili con il vigente assetto costituzionale norme “che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalità dei consociati”; ed evidenzia come le conclusioni da essa raggiunte siano coerenti con gli insegnamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui gli Stati hanno l’obbligo “di consentire sempre che il condannato alla pena perpetua possa espiare la propria colpa, reinserendosi nella società dopo aver scontato una parte della propria pena”. “La personalità del condannato - ha concluso la Corte - non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato a intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società”. Illegittime le restrizioni alla semilibertà per i condannati all’ergastolo “ostativo” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 luglio 2018 Corte costituzionale, sentenza 11 luglio n. 149. La Corte costituzionale allarga la platea dei detenuti che hanno accesso ai benefici penitenziari. Per la Consulta, sentenza n. 149 depositata ieri, è incostituzionale negare qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo per aver causato la morte di una persona sequestrata per estorsione, terrorismo o eversione, prima che abbiano scontato almeno 26 anni di detenzione. La preclusione assoluta è irragionevole alla luce del principio stabilito dall’articolo 27, terzo comma, della Costituzione, secondo il quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Principio assai dibattuto mentre la riforma dell’ordinamento penitenziario langue in Parlamento. La questione era stata sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, al quale un condannato all’ergastolo per sequestro a scopo di estorsione e omicidio della vittima aveva chiesto di poter accedere al regime di semilibertà avendo trascorso più di 20 anni in carcere, dove si era impegnato in attività lavorative e di studio. La Corte ricorda che la restrizione finisce per vanificare la finalità della liberazione anticipata, che costituisce però un tassello essenziale del vigente ordinamento penitenziario e della filosofia della risocializzazione che ne sta alla base; filosofia che, a sua volta, costituisce diretta attuazione della norma costituzionale. La Consulta già in passato ricordò l’incostituzionalità dell’esclusione della liberazione anticipata per i condannati all’ergastolo, proprio perché quel meccanismo, fondato sulla verifica in concreto della partecipazione del condannato durante l’intero arco dell’esecuzione della pena, va considerato essenziale perché la pena possa, anche rispetto agli autori dei reati più gravi, esplicare in concreto la propria funzione rieducativa (sentenza n. 204 del 1974). La sentenza ricorda che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva che non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato a intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società”. “Dopo Dell’Utri vanno scarcerati gli altri malati gravi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2018 L’appello di Associazioni, Centri sociali, Movimenti e Partiti della sinistra “radicale”. “L’ordinanza di sospensione della pena e scarcerazione immediata per motivi di salute, emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Roma in favore di Marcello Dell’Utri, è un atto di giustizia e civiltà”. A dirlo non sono i giornali di Berlusconi, oppure i politici di Forza Italia, ma le associazioni, centri sociali, movimenti e partiti della sinistra “radicale”. È l’incipit di un appello sottoscritto da Potere al Popolo, Rifondazione Comunista, l’Associazione Yairaiha Onlus che si occupa delle carcere, Antigone Campania, l’Associazione Nazionale Giuristi democratici, la redazione di Ristretti Orizzonti, Il Cpoa Rialzo, l’ex opg “Je sò pazzo” e altri ancora. Non manca- no adesioni individuali da parte di personalità come Haidi Gaggio Giuliani, Nicoletta Dosio, Ornella Favero presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia, Eleonora Forenza - europarlamentare Prc, Francesco Maisto Presidente Emerito del Tribunale di Sorveglianza di Bologna; già coordinatore del Tavolo sulla sanità degli Stati Generali dell’esecuzione penale, Sandra Berardi - presidente dell’associazione Yairaiha, Viola Carofalo - portavoce di Potere al Popolo. L’appello è per la scarcerazione di tutti i detenuti gravemente malati. La sospensione della pena per Dell’Utri è accolta quindi con favore perché “aiuta gli operatori della giustizia a chiedere con più forza che venga tutelato il diritto alla salute di tutti i detenuti e il rispetto degli artt. 146 e 147 del Codice penale, che già prevedono la possibilità della sospensione della pena per le persone con gravi patologie fisiche”. I sostenitori dell’appello spiegano che, senza nulla togliere a Dell’Utri, hanno avuto modo di vedere verificare e denunciare l’esistenza di casi ben più gravi di quello in oggetto, che, però, non riescono ad avere riconosciuto il diritto alla sospensione della pena o alla detenzione domiciliare, e subiscono così “una carcerazione ben lontana dai principi rieducativi, che spesso diventa afflizione e tortura”. Denunciano che fra gli oltre 58.000 detenuti sono moltissime le persone affette da patologie analoghe a quella di Marcello Dell’Utri e anche più gravi: tumori, patologie psichiatriche, cardiovascolari, respiratorie, disabilità gravi, leucemie, diabete, morbo di Huntington. “Per la maggior parte, - sostengono - gli istituti penitenziari - non sono attrezzati per le cure necessarie ed anche negli istituti dove sono presenti centri clinici le cure sono per lo più inadeguate, e rischiano di determinare l’aggravamento delle patologie”. Viene citato il giuramento di Ippocrate, denunciando però che nel carcere è impossibile rispettarlo, perché “il prigioniero malato gode di poca protezione, spesso non viene creduto e viene additato come simulatore, e quando comunque viene creduto, deve combattere con la lentezza e la scarsa umanità del sistema”. Poi viene sottolineato che purtroppo “il detenuto malato, se non suscita la risonanza mediatica e politica di un nome noto come Dell’Utri, ha scarsissime possibilità di essere seguito e assistito con la tempestività che la malattia impone”. L’appello conclude dicendo che venga riconosciuta la sospensione della pena o la misura domiciliare a tutti i detenuti che presentano patologie analoghe o più gravi di quella riscontrata a Marcello Dell’Utri, che troppo spesso finiscono per morire in carcere perché “non hanno la possibilità economica di sostenere i diversi gradi di ricorsi, come è successo a Dell’Utri o, ancora, vedono le loro istanze valutate da magistrati in qualche modo influenzati da un’opinione pubblica sempre più incattivita. Non serve fare qui l’elenco dei nomi delle persone detenute gravemente malate, dal momento che il Dap, i magistrati di sorveglianza, le direzioni carcerarie e i medici penitenziari conoscono benissimo le condizioni di salute di ogni singola persona detenuta”. Separazione dei poteri, principio da ricordare a Salvini e Toninelli di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 luglio 2018 Prima l’ha detto il ministro dei Trasporti grillino Toninelli, “ci saranno fermi e arresti”, poi il ministro dell’Interno leghista Salvini, con toni più drastici: “Non darò autorizzazione allo sbarco finché non avrò garanzia che i delinquenti finiscano in galera”. La sintesi è che il governo pretende che i migranti sospettati di aver costretto l’equipaggio della nave Von Thalassa a fare rotta verso l’Italia (stando alle comunicazioni ricevute dalla Guardia costiera) vadano dritti in carcere. Ora, che gli slogan e gli annunci a effetto siano una componente essenziale della strategia di chi ha preso in mano le leve del potere si è capito da prima ancora che cominciassero a manovrarle; ma quando si toccano questioni connesse a principi e garanzie costituzionali, questa pratica diventa rischiosa. In Italia per arrestare qualcuno bisogna che un pubblico ministero appartenente all’ordine giudiziario (indipendente dal potere esecutivo) ritenga, sulla base di prove raccolte nel corso di una pur breve indagine, che abbia commesso un reato per il quale è prevista la custodia cautelare, ne faccia richiesta al giudice (anch’esso indipendente) e quello sia d’accordo. Solo allora (a parte i fermi disposti d’urgenza dal pm, su cui comunque deve subito scattare la verifica che ce ne fossero le condizioni), si possono aprire le porte di una cella; da qualunque latitudine provenga l’indagato e qualunque sia il colore della sua pelle. Ciò in virtù della separazione dei poteri e delle norme che uno di essi (il legislativo, a sua volta autonomo dal giudiziario) ha varato. Sarebbe opportuno che i membri del governo ricordassero queste banali ma fondamentali regole, prima di lanciare nuovi annunci, slogan o pretese. Csm. Davigo fa il pieno: è il primo degli eletti. Male le correnti di sinistra di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 luglio 2018 Netto cambio di equilibri rispetto alle elezioni precedenti. Piercamillo Davigo è il vincitore assoluto delle elezioni per il rinnovo della componente togata del Consiglio superiore della magistratura. Su 8010 magistrati votanti, pari a circa il 90% degli aventi diritto, 2522 hanno dato fiducia all’ex pm di Mani pulite e attuale presidente di sezione in Cassazione. Fondatore di Autonomia & Indipendenza, la corrente nata nel 2015 dopo la scissione da Magistratura indipendente, Davigo ha sbaragliato la sua diretta concorrente, Rita Sanlorenzo, toga di Magistratura democratica: circa mille i voti di differenza fra i due. Un successo personale, a cui ha certamente contribuito anche la forte esposizione mediatica, che segna nei fatti l’avvio della “seconda Repubblica” nella magistratura. Gli storici gruppi associativi, Unicost e Magistratura democratica, quest’ultima confluita da qualche anno nel cartello delle toghe progressiste Area, escono fortemente ridimensionati. Unicost, il gruppo centrista, per la prima volta dopo decenni e al pari di Md, non avrà un rappresentante a Palazzo dei Marescialli fra i magistrati di legittimità. A far compagnia a Davigo per l’altro posto spettante ai magistrati di Cassazione, Loredana Micciché, toga di Magistratura indipendente. Per lei i voti sono stati 1761. Un tempo definita la corrente di “destra”, Mi si è ricollocata su posizioni moderate riuscendo ad intercettare il consenso dei tanti magistrati che svolgono il proprio lavoro senza condizionamenti ideologici. Definitivamente archiviati i tempi della contrapposizione fra toghe e politica, uscito di scena Silvio Berlusconi e le sue leggi ad personam, i magistrati hanno votato chi prometteva migliori condizioni di lavoro, carichi esigibili, tutele personali. Un approccio di tipo “sindacale” che fotografa lo stato attuale della magistratura italiana. Tanti sono stati i segnali nei mesi scorsi di questo cambio di rotta. Solo per fare un esempio, la scarsa adesione fra le toghe all’appello lanciato all’epoca per l’approvazione dello Ius soli. Ma questi risultati elettorali sono anche l’immagine plastica del ricambio generazionale in magistratura. Specchio di una società fluida in cui i vecchi schemi sono saltati. I magistrati del Sessantotto, quelli cresciuti con l’idea che il diritto dovesse essere interpretato e non applicato, sono andati tutti in pensione. Ad accelerarne l’uscita, la riforma del Governo Renzi che abbassò da 75 anni a 70 l’età massima per il loro trattenimento in servizio. Chi entra ora in magistratura lo fa dopo un lungo e faticoso percorso di studi, dopo aver svolto altre professioni, e ad una età nettamente superiore rispetto ad un tempo. Solo chi ha i mezzi e le risorse economiche può permettersi di affrontare il concorso in magistratura. Una volta entrato in servizio, il neo magistrato ha un rapporto con la professione di tipo “burocratico”, attento cioè alla corretta gestione dei fascicoli. In questi anni, il Csm ha tollerato di tutto da parte dei magistrati: esternazioni, conflitti d’interesse non dichiarati, abusi ed errori di ogni tipo. Solo su un aspetto è stato inflessibile: nel sanzionare il ritardo nel deposito nelle sentenze. Il voto, infine, è anche una critica al modo in cui Unicost e Area hanno gestito il ricambio ai vertici degli uffici giudiziari. Troppe le polemiche sulle nomine, con un Csm accusato di eccessiva discrezionalità. E questo il magistrato, soprattutto quello progressista, non lo ha perdonato. Oggi si proseguirà in Cassazione con lo spoglio per i giudici di merito e dei pm. Venerdì pomeriggio i risultati definitivi. Il 19 luglio le Camere in seduta comune inizieranno le votazioni per i componenti laici. Il nuovo Csm partirà l’ultima settimana di settembre. Con un dubbio interpretativo. Come farà Davigo, che fra poco più di due anni dovrà andare in pensione, a rimanere a Palazzo dei Marescialli fino al 2022, quando cioè scadrà la futura consiliatura? Magistrati, il Csm va a destra. Vola Davigo, la star populista di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 12 luglio 2018 Consiglio superiore della magistratura. Ieri lo spoglio dell’elezione dei togati svoltasi domenica e lunedì: la sinistra perde. Nuovo giudice di Cassazione, il leader della corrente “grillina” Autonomia e indipendenza. Vince la destra, perde la sinistra. È facile, purtroppo, sintetizzare il risultato delle elezioni della componente togata del Consiglio superiore della magistratura svoltesi domenica e lunedì. Lo spoglio avvenuto ieri ha dato un responso inappellabile innanzitutto nella sfida più attesa, quella per i due posti fra i giudici della Cassazione: primo con 2522 voti la star del populismo mediatico-giudiziario Piercamillo Davigo, leader della nuova corrente “grillina” di Autonomia e indipendenza (Ai), seconda a quota 1761 Loredana Micciché dello storico gruppo conservatore di Magistratura Indipendente (Mi). Quello di cui lo stesso Davigo era membro fino alla clamorosa scissione da lui promossa nel 2015 in polemica con l’eterodirezione della corrente da parte di Cosimo Ferri, divenuto nel frattempo sottosegretario alla giustizia. Il dato è davvero eclatante: rispetto alle precedenti elezioni, il ribaltamento è totale. Restano fuori Carmelo Celentano della centrista Unicost (1714 voti) e Rita Sanlorenzo della progressista Area, in ultima posizione con 1528 preferenze, cioè gli esponenti di quelle correnti che nel 2014 avevano ottenuto, rispettivamente, la prima (con 2491 voti) e la seconda posizione (con 2184). Colpisce in particolare l’esclusione di Celentano, perché i centristi da sempre mietono i consensi maggiori: ancora due anni fa, nelle urne per gli organi dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), furono primi con oltre 2500 voti alla loro lista. Più difficile era l’impresa di Sanlorenzo: il trend di Area era in discesa, ma i pronostici la davano in partita per il secondo posto. E invece le sono mancate addirittura 350 preferenze rispetto al bacino di partenza rappresentato dai partecipanti alle primarie del suo gruppo: segno che c’è stato un problema di “tenuta” di Area, compagine frutto dell’intesa fra due correnti progressiste, Magistratura democratica e Movimento per la giustizia. Con quei voti, Sanlorenzo sarebbe stata eletta. Per ora nessun commento ufficiale da parte dei dirigenti di Area: “Aspettiamo il quadro completo dei risultati”. Lo si avrà oggi, quando terminerà lo scrutinio. Fra i giudici di merito (cioè primo grado e appello) lo spoglio si è interrotto a metà, e la tendenza sembra confermare l’ottimo risultato di Mi e l’arretramento di Area, mentre i davighiani festeggerebbero l’en plein: pur senza ripetere l’exploit del leader in cifre assolute, piazzerebbero entrambi i candidati. Ma può ancora cambiare tutto, fanno sapere gli addetti ai lavori: gli scarti sono minimi. Ultimo dato sarà quello dei pm: quattro in lizza per quattro posti, quindi nessuna suspense sugli eletti ma occhi puntati sui rapporti di forza in termini di cifre assolute. Gli equilibri del nuovo Csm comunque già si profilano: primo gruppo dovrebbe essere la destra di Mi con 5 consiglieri, poi gli altri tre gruppi. Per i progressisti è comunque un crollo: nella migliore delle ipotesi è a -3 rispetto al 2014. Le due destre potrebbero fare invece +5 a confronto con il dato della sola Mi di quattro anni fa. Non servono arti divinatorie per immaginare che fra le “toghe rosse” da oggi si aprirà la proverbiale “discussione franca” per capire gli errori commessi. Forse ha pesato l’identificazione fra Area e Partito democratico che, a torto o ragione, una parte dei magistrati ha sicuramente fatto. È stato l’ex premier Matteo Renzi (quello del “brr, che paura!” rivolto all’Anm) a volere, nella passata legislatura, misure vissute da molti giudici e pm come punitive, dalla responsabilità civile al taglio delle ferie. Davigo ha saputo cavalcare il malcontento, ergendosi a paladino del “magistrato semplice” contro le “vecchie” correnti ritenute incapaci di difendere l’onore della professione dagli attacchi della politica (di centrosinistra). Il suo messaggio corporativo e anti-casta ha fatto breccia. Intercettazioni, stop alla riforma. Il ministro Bonafede: “è dannosa, priorità è legittima difesa” Corriere della Sera, 12 luglio 2018 Il guardasigilli in commissione al Senato: “L’archivio elettronico di tutte le telefonate non è ancora in grado di funzionare, sarebbe un passo indietro”. Sarà fermata l’entrata in vigore, che è imminente, della riforma delle intercettazioni perché le modifiche introdotte, “appaiono come un dannoso passo indietro sulla strada della qualità ed efficacia delle indagini”. Lo ha ribadito il ministro della giustizia Alfonso Bonafede illustrando le sue linee programmatiche davanti alla Commissione Giustizia del Senato. In particolare il previsto archivio elettronico in cui saranno conservati integralmente i verbali e le registrazioni delle conversazioni “non appare ancora in grado di funzionare correttamente e pienamente”. “Serve più tempo” - L’attività di adeguamento e di collaudo dei sistemi presso gli uffici delle singole procure della Repubblica, ha spiegato il ministro, richiede di “posticipare la piena efficacia della disciplina” anche per “non comprometterne l’operatività funzionale”. Serve dunque “ulteriore tempo considerate le esigenze organizzative e di dotazione infrastrutturale che la normativa introdotta richiede, individuando nei primi mesi del prossimo anno il periodo più opportuno per l’entrata in vigore delle disposizioni”. “Parallelamente - ha detto ancora Bonafede - si è scelto di avviare sin da subito dopo l’insediamento del nuovo governo una capillare fase di ascolto e confronto, partendo dalle concrete esperienze vissute dalle procure e dagli avvocati, in modo da giungere alla definizione di una base di lavoro condivisa che possa fungere da piattaforma su cui innestare la riscrittura delle disciplina delle intercettazioni”. Legittima difesa e prescrizione - Il ministro ha invece detto che la priorità del suo dicastero è accelerare la riforma della legittima difesa: “Eliminare le zone d’ombra che rendono difficile e complicato dimostrare che si è agito per legittima difesa”, così si è espresso Bonafede davanti ai senatori. Un tema “che non riguarda solo la giustizia ma anche la sicurezza: il cittadino costretto a difendersi deve sentire che lo Stato è al suo fianco”. Un altro punto toccato dal ministro della giustizia è la riforma della prescrizione: “Una riforma seria ed equilibrata della prescrizione è una priorità irrinunciabile per incrementare il grado di fiducia con cui i cittadini si rivolgono all’istituzione giudiziaria” ha detto, spiegando che tra le opzioni d’intervento allo studio c’è quella di sospendere la prescrizione “dopo che sia stata emessa una sentenza di primo grado”. Successo grillino a costo zero - Annunciato più volte dallo stesso ministro Bonafede all’indomani del suo insediamento, il blocco della riforma delle intercettazioni varata dalla maggioranza di centro-sinistra nella scorsa legislatura è un successo a costo zero del neo-Guardasigilli grillino. Perché blocca una norma che non piace né ai magistrati né agli avvocati (i quali ne avevano chiesto all’unisono la moratoria, con una inedita unità d’intenti) ed è il primo passo nella realizzazione di un programma di governo (il contratto) che in tema di giustizia consiste soprattutto nel demolire le modifiche approvate in passato. Il problema verrà quando al blocco dovrà seguire il testo di una nuova riforma, e allora forse emergeranno le differenze tra leghisti e Cinque stelle che in passato - quando il partito di Salvini era parte integrante della coalizione di centro-destra - sono emerse in più di un’occasione. Ma questo riguarda il futuro, di cui nessuno è certo è dunque vale quel che vale. Per adesso il ministro può dire di aver fatto ciò che aveva promesso, e nella stagione della politica fatta di annunci tanto gli basta. Bonafede fa saltare sulla sedia i garantisti: bloccate prescrizioni e riforma delle intercettazioni di Alessandro Di Matteo La Stampa, 12 luglio 2018 Alfonso Bonafede per un giorno ruba la scena a Matteo Salvini, il ministro della Giustizia parla in commissione alla Camera e annuncia le linee guida del governo sulla materia, promettendo “discontinuità” rispetto agli esecutivi Renzi-Gentiloni. Di fatto, il ministro M5s presenta un piano d’azione che fa saltare sulla sedia i garantisti e che scatena la reazione di Pd e Forza Italia: la riforma delle intercettazioni varata solo lo scorso gennaio da Andrea Orlando va rivista, i termini per la prescrizione potrebbero essere bloccati dopo il primo grado di giudizio, le carceri andranno riorganizzate in modo da tenere insieme “rieducazione e certezza della pena”, bisogna dare maggiore sostegno alla figura dell’ “agente provocatore” e insistere sulle misure di interdizione per i corrotti e i corruttori. Mano tesa alla Lega, invece, sulla legittima difesa: “Bisogna eliminare le zone d’ombra che rendono difficile e complicato dimostrare che si è agito per legittima difesa”. Decreto sugli ascolti per luglio - Bonafede spiega che il governo “interverrà nell’immediatezza” e mette nel mirino soprattutto le norme sulle intercettazioni appena approvate che limitano la possibilità di pubblicazione: vanno riscritte, spiega Bonafede, perché rappresentano un “dannoso passo indietro”. Per Bonafede ci vorrà “un decreto entro luglio per poter riscrivere la norma quasi integralmente, poiché secondo noi l’entrata in vigore di quella norma sarebbe gravissima per la lotta alla corruzione”. Allo stesso modo, il ministro assicura che si sta valutando uno stop ai termini della prescrizione dopo la sentenza di primo grado: “Una riforma seria ed equilibrata della prescrizione è una priorità irrinunciabile”. “Prassi spregiudicata” - Il ministro va all’attacco anche sul Csm, contestando la “prassi spregiudicata” di portare ai vertici dell’organo di autocontrollo della magistratura un esponente del governo, come ha fatto Matteo Renzi con Giovanni Legnini, attuale vice-presidente: “Il mio - precisa Bonafede - non è stato un attacco personale a Legnini, che ha lavorato benissimo. Mi sono limitato a sottolineare la prassi inaugurata dal governo precedente di portare all’interno del Csm un membro in carica. Sono stati fortunati perché Legnini è una persona seria, ma si tratta di una prassi spregiudicata per chi vuole tutelare il confine tra i diversi poteri dello Stato”. Il ministro ottiene gli applausi dell’Anm, attraverso il presidente Francesco Minisci: “Ci sono dei segnali positivi che vanno nella direzione che avevamo auspicato”. Forza Italia apprezza la parte sulla legittima difesa, ma con Mariastella Gelmini definisce una “aberrazione” l’ipotesi di bloccare la prescrizione dopo il primo grado, mentre Francesco Sisto definisce il ministro “populista e giustizialista”. E il Pd Franco Vazio parla di “demagogia e brutte idee”. Legittima difesa, la sfida di Bonafede a Salvini: è mio campo di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 luglio 2018 Il Guardasigilli presenta le sue linee guida programmatiche alla Camera. Sulla “legittima difesa” si consuma l’ultima sfida tra gli alleati del governo giallo-verde. La competizione, sempre accesa, tra M5S e Lega evidentemente non può giocarsi solo su terreni diversi e alternativi. E così, mentre da un lato il ministro dell’Interno Matteo Salvini accelera sulla messa a punto del “pacchetto sicurezza” che potrebbe essere pronto entro l’estate e potrebbe inglobare i punti cardine del progetto di legge sulla “legittima difesa” depositato il 23 marzo scorso dal suo braccio destro Nicola Molteni, dall’altro il Guardasigilli Alfonso Bonafede coglie l’occasione dell’audizione alla Camera sulle linee programmatiche del suo dicastero per scendere nell’arena pistolera e definire “una priorità” le modifiche del codice penale finalizzate ad agevolare l’uso di armi contro i malintenzionati che si intrufolano in casa o nel posto di lavoro. “Per me la legittima difesa è un tema che riguarda la giustizia, non la sicurezza - ha affermato il ministro pentastellato davanti ai deputati della Commissione giustizia - Lo Stato ha fallito se il cittadino si trova da solo a doversi difendere di fronte ai criminali in casa; il cittadino deve almeno sentire di non essere abbandonato nel momento in cui deve dimostrare la propria innocenza nell’aula giudiziaria”. E per andare in questa direzione, spiega Bonafede, “bisogna eliminare le zone d’ombra che rendono difficile e complicato dimostrare che si è agito per legittima difesa”. La questione però, sia nella visione leghista che grillina, è sempre la stessa: ribaltare la proporzionalità tra offesa e difesa e invertire l’onere della prova in favore di chi si “difende” con le armi. Un punto, questo, sul quale dissente invece l’Associazione nazionale magistrati: “Non si può prescindere dal principio di proporzionalità tra offesa e difesa - afferma il presidente dei giudici Francesco Minisci - altrimenti si giustificherebbe la commissione di reati attraverso l’eliminazione di questo fondamentale principio. Così come non si può prescindere dalla valutazione del giudice sul singolo fatto, dal suo libero convincimento”. Per l’Anm inoltre “occorre evitare automatismi anche nella possibilità di accesso alle armi, con una valutazione rigorosa dei requisiti soggettivi di chi compra un’arma, altrimenti il rischio è l’uso indiscriminato delle armi da parte di tutti”. Un’altra priorità del ministro di Giustizia, da inserire nel pacchetto di provvedimenti “pronto entro l’autunno”, è la riforma della prescrizione che, nella visione condivisa nel governo giallo-verde, dovrebbe azzerarsi automaticamente una volta emessa la sentenza di primo grado. Tralasciando il diritto di ogni cittadino ad un giusto processo in tempi ragionevoli e all’oblio in caso contrario, Bonafede ribalta invece il paradigma partendo da quel dato - l’9,4% dei procedimenti “finiti nel nulla” nel 2017, contro l’8,7% del 2016 - che descrive a suo dire “l’abnorme quantitativo di procedimenti falcidiati dalla scure dell’intervenuta prescrizione”. Un’interpretazione che trova totale disaccordo nell’Associazione nazionale forense che spiega: “L’inefficienza del sistema giustizia non può ricadere solo sull’imputato”. Gli avvocati italiani, contrari anche a qualsiasi “norma che faccia scattare una sorta di far west”, plaudono invece all’annunciato stop alla riforma delle intercettazioni. Bonafede infatti ha rimarcato ieri ancora una volta che a suo modo di vedere “le modifiche introdotte” dal precedente governo sulle modalità di utilizzo delle intercettazioni “appaiono come un dannoso passo indietro sulla strada della qualità ed efficacia delle indagini e rispetto alla corretta distribuzione dei compiti funzionali tra i diversi soggetti coinvolti”. D’accordo anche l’Anm che chiede di riscrivere completamente il provvedimento, eliminando quelle parti che finirebbero per procurare danni alle indagini, come ad esempio l’archivio riservato alle conversazioni giudicate irrilevanti dalla polizia giudiziaria. Rapporto Zoomafia 2018, allarme crimini sugli animali: una denuncia ogni 55 minuti La Stampa, 12 luglio 2018 L’anno scorso in Italia ogni 55 minuti è stato aperto un nuovo fascicolo per reati contro gli animali, ogni 90 minuti è stata indagata una persona: complessivamente le denunce sono aumentate del 3,74%. Sono alcuni dei dati - desunti dai report dell’82% delle procure - contenuti nella 19esima edizione del Rapporto Zoomafia “Crimini e animali” curato dall’Osservatorio Zoomafia della Lav con il patrocinio del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri e della Fondazione Antonino Caponnetto. Dall’analisi dei crimini consumati si evince che il reato più contestato resta quello di maltrattamento di animali, pari al 31,19% del totale dei procedimenti. Seguono “uccisione di animali” (30,9%), “reati venatori” (17,1%), “abbandono e detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura” (14,6%), “uccisione di animali altrui” (4,8%), “traffico di cuccioli” (0,6%), “organizzazione di combattimenti tra animali e competizioni non autorizzate” (0,3%). “spettacoli e manifestazioni vietati” (0,2%). La procura di Brescia si conferma nel 2017 quella con più procedimenti iscritti per reati contro gli animali (527, il 52 riguardanti reati venatori). Seguono Vicenza (256 procedimenti), Udine (213), Verona (212), Napoli (194), Roma (180), Milano (152), Bergamo (142), Torino (139) e Palermo (137). La procura con meno procedimenti per reati contro gli animali è quella di Savona con 3, davanti a Nocera Inferiore (6), Vasto (8), Lagonegro (10), Locri (13), Pisa (15), Lanciano (17), Pistoia (17) e Gela (20). Sos combattimenti - Quello dei combattimenti è un vero affare per la criminalità, grande e piccola, con migliaia di animali vittime ogni anno. “Si tratta di un fenomeno complesso - spiegano gli autori del Rapporto - che coinvolge soggetti diversi: i casi più diffusi fanno capo a delinquenti locali, teppisti di periferia, sbandati, allevatori abusivi e trafficanti di cani cosiddetti `da presa´. Non mancano però casi riconducibili alla criminalità organizzata: esiti giudiziari hanno accertato il coinvolgimento di elementi appartenenti alla camorra, alla sacra corona unita, al clan Giostra di Messina e ad alcune ‘ndrine. Ritrovamenti di cani con ferite da morsi o morti con cicatrici riconducibili alle lotte, furti e rapimenti di cani di grossa taglia o di razze abitualmente usate nei combattimenti, sequestri di allevamenti di pit bull, pagine Internet o profili Facebook che esaltano i cani da lotta, segnalazioni: questi i segnali che indicano una recrudescenza del fenomeno. Corse clandestine di cavalli - La presenza della criminalità nel mondo dei cavalli, delle corse e degli ippodromi è sempre stata forte. La conferma arriva da recenti inchieste che hanno rivelato l’interesse di alcuni gruppi mafiosi per le corse illegali di cavalli. I numeri relativi alle corse clandestine e alle illegalità nell’ippica parlano da soli: nel 2017 sono stati 15 gli interventi delle forze dell’ordine, 6 le corse clandestine bloccate, 61 le persone arrestate e 20 i cavalli sequestrati. Ben 66 cavalli che l’anno scorso hanno partecipato a gare ufficiali sono risultati positivi a qualche sostanza vietata.: Altrenogest, Benzoilecgonina (metabolita della cocaina), Caffeina, Capsaicina, Desametasone, Diossido di Carbonio (TCO2), Ecgonina Metilestere, Fenilbutazone, Procaina, Stanozololo, Teofillina, Testosterone. Il traffico di cani - Il business legato alla gestione di canili “illegali”, così come il business sui randagi, denuncia Zoomafia 2018, “mantiene intatto il suo potenziale criminale che garantisce agli sfruttatori introiti sicuri e cospicui, grazie a convenzioni con le amministrazioni locali per la gestione dei canili. Il business randagismo è una vera manna per trafficoni, imbroglioni e affini che mirano alle convenzioni con gli enti locali”. Anche la situazione del randagismo in alcune aree della penisola continua ad essere una vera emergenza, con conseguente allarme sociale e preoccupazioni vere o presunte per la sicurezza pubblica. Cani tenuti in pessime condizioni igieniche, ammalati e non curati, tenuti in strutture fatiscenti, sporche e precarie, animali ammassati in spazi angusti, denutriti: questi alcuni dei casi accertati. Anche la tratta dei cuccioli dai Paesi dell’Est si conferma uno dei business più redditizi che coinvolge migliaia di animali ogni anno e che vede attive vere e proprie organizzazioni transazionali: tra i denunciati, oltre naturalmente ad italiani, russi, ungheresi, bulgari, serbi, moldavi, ucraini, slovacchi, romeni. Allarme bracconaggio - Nel contrasto al traffico internazionale di fauna nel 2017 sono stati sequestrati 8.868 specimen (animali vivi, morti o parti derivate), contestati 124 illeciti penali e 82 illeciti amministrativi per un ammontare di oltre 529.600 euro di sanzioni. Il valore di quanto sottoposto a sequestro è pari a 1.139.623 euro. Anche il bracconaggio continua a manifestare la sua pericolosità: secondo gli autori del rapporto, “i sequestri di armi clandestine testimoniano il forte interesse della criminalità organizzata per alcune attività illegali contro la fauna selvatica. Recenti inchieste hanno accertato gli interessi di alcune `ndrine´ per la caccia di frodo e la vendita di fauna selvatica. Note le infiltrazioni, soprattutto a sud, di personaggi malavitosi nella cattura e vendita di cardellini e altri piccoli uccelli. In alcuni territori l’uccellagione e i traffici connessi o il bracconaggio organizzato sono sotto il controllo dei clan dominanti”. Sequestrati armi clandestine, trappole esplosive, munizioni, esplosivi, visori notturni e puntatori a intensificazione di luminosità, fucili illegali. La “cupola del bestiame” - La penetrazione della criminalità organizzata nel mondo degli allevamenti, della macellazione e della distribuzione della carne “trova un’evidente conferma dai provvedimenti adottati dalla magistratura e dai sequestri della polizia giudiziaria: terreni, allevamenti di bovini e ovini, aziende zootecniche. Ogni anno scompaiono nel nulla circa 150.000 animali”. Abigeato, falso materiale, falso ideologico, percezione illecita di fondi pubblici, traffico di farmaci vietati, associazione per delinquere, traffico di sostanze dopanti, maltrattamento di animali, macellazione clandestina, pascolo abusivo, ricettazione, intestazione fittizia di beni, introduzione di animali in fondo altrui, truffa aggravata, uccisione di animali, commercio alimenti nocivi: sono solo alcuni dei reati accertati nel corso del 2017 tra le illegalità negli allevamenti e nel commercio di alimenti di origine animale. Diverse le forme di macellazione clandestina, che vanno da quella domestica, o per uso proprio, a quella organizzata, riconducibile a traffici criminali, da quella collegata alla caccia di frodo a quella etnica. “Malandrinaggio” di mare - Nel business del pesce non manca l’infiltrazione della mafia o della camorra che, come diverse inchieste hanno accertato, sono infiltrate in società operanti nel settore ittico. “In Calabria - spiega il Rapporto - la cosca Muto è riuscita a influenzare l’economia locale, monopolizzando, con modalità mafiose, l’offerta di pescato, principale fonte di finanziamento della struttura criminale. In Sicilia ci sarebbe un vero e proprio `patto mafioso sul commercio di pesce´ tra famiglie mafiose per dividersi i proventi derivanti dalla commercializzazione dei prodotti ittici. Artefice di questo patto sarebbe il clan Rinzivillo infiltrato nel mercato del settore tramite imprese controllate”. Uso di animali a scopo intimidatorio - L’uso di animali come arma o come “oggetti” per intimidire è molto diffuso nella cultura mafiosa e rappresenta un fenomeno che non si può facilmente prevenire. Il recapitare parti di animali rappresenta l’1,65% delle modalità di intimidazione e minacce: teste mozzate di cinghiali e capretti, gatti morti, uccelli decapitati. A volte “la minaccia si trasforma in uccisione degli animali domestici: un modo non solo per intimorire, ma per colpire negli affetti più cari”. In forte aumento anche il furto di cani: rubati il più delle volte per il loro valore economico, finiscono poi al mercato nero o usati come riproduttori. I più a rischio sono i cani di razza con pedigree importanti, campioni di bellezza, o campioni di caccia: non mancano i rapimenti con annesse richieste di riscatto. Caso Cucchi, fotosegnalamento dell’arresto “cancellato” con il bianchetto La Repubblica, 12 luglio 2018 Il nome del geometra fu eliminato dal registro. Una pratica “irregolare” spiega uno dei carabinieri ascoltati oggi in aula nell’udienza che vede imputati 5 militari. Mancano tracce scritte del passaggio di Stefano Cucchi dalla compagnia Casilina per gli accertamenti fotosegnaletici e dattiloscopici durante l’arresto: dal registro delle persone sottoposte a fotosegnalamento fu cancellato con il bianchetto il nome di Stefano Cucchi. “Una pratica non regolare”, lo hanno ribadito alcuni militari dell’Arma in servizio il 15 ottobre 2009, data dell’arresto di Cucchi, ascoltati oggi alla Prima Corte d’Assise di Roma nell’udienza del processo che vede imputati cinque carabinieri per la vicenda del geometra romano. Sul registro dei fotosegnalamenti, una riga è cancellata con il bianchetto: sotto alla casella con il nome di Misic Zoran si intravede, eliminato successivamente, quello di Stefano Cucchi. “Non è una pratica normale, può capitare che il fotosegnalamento non avvenga per problemi ai sistemi informatici, ma in genere si cancella il nome con una riga orizzontale, non con il bianchetto”, ha spiegato uno dei carabinieri ascoltati. Una tesi confermata anche da un altro suo collega ascoltato in udienza. Nel registro ci sarebbero comunque altri nomi cancellati parzialmente con bianchetto ma il pm Giovanni Musarò ha fatto notare che quello di Cucchi è interamente cancellato Sempre nell’udienza di oggi è emerso che Raffaele D’Alessandro, uno dei carabiniere accusati del pestaggio ai danni del geometra, fu spostato di mansione e destinato ad un incarico in ufficio dopo una segnalazione della ex moglie, preoccupata perché potesse compiere con la pistola gesti estremi verso sé stesso o la famiglia. In particolare, la ex moglie dell’imputato avrebbe riferito a un superiore di D’Alessandro un episodio durante la loro fase di separazione in cui l’uomo avrebbe minacciato il suicidio con la pistola. Lettera di un ergastolano a Alfonso Bonafede, nuovo Ministro della Giustizia di Carmelo Musumeci agoravox.it, 12 luglio 2018 Dopo più di un quarto di secolo di carcere duro, sono ormai 20 mesi che sono sottoposto al regime di semilibertà, anche se il mio fine pena rimane, come per tutti gli ergastolani, il 31 dicembre 9.999. Da un anno e otto mesi passo le notti in carcere e tutte le mattine esco per recarmi in una struttura della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da Don Oreste Benzi, dove presto servizio volontario. In questo modo sono felice perché la mia pena ha finalmente iniziato ad avere un senso e fa bene a me stesso e alla società. Continuo comunque a lottare contro la pena dell’ergastolo, perché io sono l’eccezione che conferma la regola e, purtroppo, stando così le cose, molti miei compagni usciranno solo cadaveri dalle loro celle. Signor Ministro, che ne pensa della pena dell’ergastolo? Non crede che pretendere di migliorare una persona per poi farla marcire dentro sia una pura cattiveria? Anche perché in carcere se uno rimane cattivo soffre di meno. Signor Ministro, credo che una persona in carcere dovrebbe perdere solo la libertà e non la dignità, la speranza, la salute, l’amore e, a volte, anche la vita. Diciamolo chiaramente: quasi sempre si finisce in questi posti per avere commesso dei reati, ma poi nella maggioranza dei casi si va, di fatto, in un luogo che nega la legalità e dove la legge infrange la sua stessa legge. In carcere in Italia sembra di stare in un cimitero, con molti detenuti nelle brande sotto le coperte a guardare i soffitti, imbottiti di psicofarmaci. Il problema è che molti di noi non sono ancora morti, anche se a volte ci comportiamo come se lo fossimo. Il carcere ti lascia la vita, ma ti divora la mente, il cuore, l’anima e gli affetti che fuori ti sono rimasti. E quelli che riescono a sopravvivere, una volta fuori, saranno peggio di quando sono entrati. La società vorrebbe chiudere i criminali e buttare via le chiavi, ma bisogna rendersi conto che prima o poi alcuni di questi usciranno. E molti saranno più cattivi di quando sono entrati. È difficile migliorare le persone con la sofferenza e l’odio. Signor Ministro, il carcere in Italia non è la medicina ma è, invece, la malattia, che fa aumentare la criminalità e la recidiva. E che molto spesso aiuta a formare cultura criminale e mafiosa, la galera è spesso una macelleria che non ha nessuna funzione rieducativa o deterrente, come dimostra il fatto che la maggioranza dei detenuti ritorna a delinquere in continuazione. Come si può pensare di garantire la sicurezza sociale tenendo in carcere tossicodipendenti, che hanno bisogno solo di cure e che se curati non diventerebbero mai spacciatori? Come si fa a tenere un uomo dentro per sempre, con l’ergastolo ostativo, molto spesso “colpevole” di avere rispettato le leggi della terra e della cultura dove è nato e cresciuto, senza dargli la speranza di poter diventare una persona migliore? Perché queste persone dovrebbero smettere di essere mafiose se non hanno la speranza di un futuro diverso? Cosa c’entra la sicurezza sociale con tutte le privazioni previste dal regime di tortura del 41 bis? Il carcere in Italia, oltre a non funzionare, crea delle persone vendicative perché alla lunga trasforma il colpevole in una vittima: quando si riceve del male tutti i giorni si dimentica di averne fatto. E che dire dei numerosi suicidi di questi mesi? Io penso che molti detenuti che si tolgono la vita forse scelgono di morire perché si sentono ancora vivi. E forse, invece, alcuni rimangono vivi perché si sentono già morti o hanno già smesso di vivere. Altri forse lo fanno per ritornare a essere uomini liberi. E molti si tolgono la vita perché non hanno altri modi per dimostrare la loro umanità. Signor Ministro, mi permetto di ricordare ad alcuni politici, che fanno certe dichiarazioni per avere consensi elettorali, che il carcere, così com’è oggi in Italia, non rieduca nessuno, anzi ti fa diventare una brutta persona. E se fai il “bravo” è solo perché sei diventato più cinico di quando sei entrato. Credo che “maggiore sicurezza” dovrebbe significare più carceri vuoti, perché fin quando ci saranno carceri pieni vuol dire che i nostri politici hanno sbagliato mestiere. La nostra Costituzione stabilisce che la condanna deve avere esclusivamente una funzione rieducativa, e non certo vendicativa. E la pena non deve essere certa, ma ci dev’essere la certezza del recupero, per cui in carcere un condannato dovrebbe stare né un giorno in più, né uno in meno di quanto serva. Io aggiungo che ci dovrebbe stare il meno possibile, per non rischiare di farlo uscire peggiore di quando è entrato. Signor Ministro, in tanti anni di carcere ho capito che la mafia che comanda si sconfigge dando speranza e affetto sociale ai suoi gregari, facendoli così cambiare culturalmente e uscire dalle organizzazioni criminali. Sì, è vero, molti ergastolani non sono dei santi e se stanno dentro è perché hanno commesso gravi reati. Questo lo sanno anche loro, ma non sono più gli uomini del reato di 20 o 30 anni prima, non sono più i giovani di allora. Ormai sono uomini adulti, o anziani, che non hanno alcuna prospettiva reale di uscire dal carcere, se non da morti. Molti di loro sono stati condannati alla pena dell’ergastolo per reati commessi a 18/20anni, appena maggiorenni, e, per quante ne possano aver fatte, non potevano certo essere i boss della mafia che ha distrutto l’Italia. Sono stati, al massimo, manovalanza a servizio della mafia. Ora sono persone che sanno di aver fatto errori, anche grossi, che stanno pagando e l’unica cosa che chiedono è una data certa del loro fine pena. In carcere quello che manca più di tutto è proprio la speranza di riavere affetto sociale. Solo questo può sconfiggere la mafia e creare sicurezza. I padri della nostra Costituzione lo sapevano bene -forse perché alcuni di loro in carcere hanno trascorso tanti anni- se hanno stabilito che la pena deve avere solo una funzione rieducativa. Signor Ministro, vivere in carcere senza avere la speranza di uscire è aberrante. La pena dell’ergastolo è un insulto alla ragione, al diritto, alla giustizia e, penso, anche a Dio. A me sembra che finora le politiche, ultraventennali, del carcere duro e del fine pena anno 9.999 abbiano portato più vantaggi alle mafie (almeno a quelle politiche e finanziarie) che svantaggi, dato che anche gli addetti ai lavori affermano che l’élite mafiosa è più potente adesso di prima. A questo punto, io penso che se è solo una questione di sicurezza, e non di vendetta sociale, sia più sicura per la collettività la pena di morte che la pena dell’ergastolo o il regime di tortura del 41bis. Qualcuno sostiene che il carcere duro, almeno all’inizio, sia stato utile, ma questo a che prezzo? Io credo che alla lunga il regime di tortura del 41bis, e una pena realmente senza fine come l’ergastolo ostativo, abbiano rafforzato la cultura mafiosa, perché hanno innescato odio e rancore verso le Istituzioni anche nei familiari dei detenuti. Penso che sia davvero difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami, neppure in quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni i tuoi stessi familiari incominciano a vedere lo Stato come un nemico da odiare e c’è il rischio che i tuoi figli, che si potrebbero invece salvare, diventino loro stessi dei mafiosi. Signor Ministro, sono rimasto perplesso di fronte al programma di costruire nuovi istituti penitenziari, perché nei Paesi in cui ci sono pochi carceri ci sono anche meno delinquenti. Non citerò i dati sulla recidiva, ma per esperienza personale penso che il carcere in Italia non fermi né la piccola né la grande criminalità, piuttosto la produca. E questo probabilmente perché quando vivi intorno al male non puoi che farne parte. Penso che spesso non siano i reati commessi a far diventare una persona criminale, bensì i luoghi in cui è detenuta e gli anni di carcere che vengono inflitti. Si vuole assumere nuovo personale di Polizia, ma siamo il paese nel mondo che, in rapporto al numero di detenuti, ha più agenti penitenziari. Non pensa che sarebbe meglio se in carcere ci fossero più educatori, psicologhi, psichiatri, insegnanti o altre figure di sostegno? Signor Ministro, credo che sia sbagliato cedere parte della nostra umanità per vivere in una società più sicura. Sigmund Freud affermava che l’umanità ha sempre barattato un po’ di felicità per un po’ di sicurezza. Io posso dire che per me è molto più “doloroso” e rieducativo adesso fare il volontario fuori che non gli anni passati murato vivo in isolamento totale durante il regime di tortura del 41bis. Trattato in quel modo dalle Istituzioni, mi sentivo innocente del male fatto; ora, invece, che sono trattato con umanità, mi sento più colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto nella mia vita. E penso che questo potrebbe accadere anche alla maggioranza dei prigionieri che sono ancora detenuti in quel girone infernale. Sono convinto che anche il peggiore criminale, mafioso o terrorista, potrebbe cambiare con una pena più umana e con un fine pena certo. Ci sono persone che hanno passato più anni della loro vita dentro che fuori. Persone che sono cambiate, o potrebbero cambiare, ma che non potranno mai dimostrarlo perché nel certificato di detenzione c’è scritto che la loro pena finirà nel 9.999. In tutti i casi, il rischio zero non esiste per nessuna persona, perché siamo umani. In noi c’è il bene e il male e, a volte, spetta anche alla società rischiare, pur di trarre fuori il bene. È vero che una società ha diritto di difendersi dai membri che non rispettano la legge, ma è altrettanto ragionevole che essa non lo debba fare dimostrando di essere peggiore di loro. Purtroppo, a volte, questo accade. Penso che il regime di tortura del 41bis, insieme alle pene che non finiscono mai, non diano risposte costruttive, né tanto meno rieducative. Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni, senza dirle quando finirà la sua pena, soprattutto nel caso, non raro, che essa non abbia ulteriori probabilità di reiterare i reati. Lasciandola in quella situazione di sospensione e d’inerzia la si distrugge e, dopo un simile trattamento, anche il peggiore assassino si sentirà “innocente”. Signor Ministro, non voglio convincerla, desidero solo farle venire qualche dubbio. Non posso fare altro. Campania: il Garante dei detenuti Ciambriello “servono più risorse per la formazione” irpinianews.it, 12 luglio 2018 “Un appello alla Giunta e al Consiglio Regionale della Campania affinché vengano destinate più risorse alle attività formative per i detenuti”. A rivolgerlo è il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, intervistato dalla giornalista Gabriella Peluso, per la testata giornalistica on line “Crc Tv” dell’Assemblea legislativa regionale. “Sono importanti le iniziative messe in campo dalla Giunta regionale e dall’assessore Marciani, di aver attivato, tra l’altro, Garanzia Giovani per i detenuti dai 16 ai 29 anni, ma occorre fare di più perché, ad oggi, le risorse disponibili sono appena di due milioni per i corsi di formazione per i detenuti minorenni e di due milioni per i 7.400 detenuti presenti nelle carceri della Campania - ha sottolineato Ciambriello - ed chiaro che, con questa disponibilità, sarà possibile fare al massimo 20,22 corsi, mentre è necessario moltiplicarli per incrementare le opportunità formative e creare le condizioni affinché, una volta chiuso il conto con la giustizia, i detenuti possano essere reinseriti nella società attraverso il lavoro e affinché la condanna che hanno subito non sia un fine pena mai”. Nel corso dell’intervista, Ciambriello ha anche sottolineato che “occorre aprire le porte delle carceri ad un maggior numero di figure sociali, sociologi, psicologi, volontari, educatori, e seguire particolarmente chi esce dal carcere nel suo percorso successivo, nonché rafforzare le attività dei centri per l’impiego affinché si occupino del loro inserimento lavorativo, così come è necessario assumere almeno altre cinquecento unità di agenti di polizia penitenziaria, che svolgono un ruolo nelle carceri di primaria importanza”. Monza: Mimmo detenuto di fiducia “io, tuttofare del tribunale” di Federico Berni Corriere di Milano, 12 luglio 2018 Recluso a Monza ogni giorno presta servizio a palazzo di giustizia. Strano immaginarlo come uno degli uomini più ricercati del Palazzo di giustizia. Con quel fisico massiccio, le braccia coperte di tatuaggi e soprattutto quell’espressione oggi serena, ma che negli occhi non nasconde del tutto quelli che lui definisce i “trascorsi movimentati”. Ma di Domenico, 47 anni e un ricco curriculum di precedenti penali alle spalle, oggi, negli uffici giudiziari di Monza, si fidano tutti. Sarà perché da oltre un anno e mezzo a questa parte, ogni mattina lascia il carcere di via Sanquirico (dove ormai è prossimo al fine pena), si presenta puntuale in tribunale e lavora fino al pomeriggio. Instancabile. È lui l’uomo che ha imbiancato tutte le stanze del palazzo. Lui quello che ha scartavetrato e ridipinto le persiane di legno, prossime a marcire, dell’ex pretura di via Vittorio Emanuele e, in qualche caso, pericolosamente vicine al crollo sulla strada. Serio, educato, oggi se lo contendono magistrati, dirigenti e personale amministrativo, visto che i vecchi edifici che ospitano le varie sedi giudiziarie brianzole (che attendono lo sblocco dei fondi per le opere di ristrutturazione dell’ala lasciata vuota, dopo il trasloco della procura in via Solera), hanno bisogno pressoché quotidiano di interventi di manutenzione. Lui ci ride, ma ricorda bene la diffidenza che aveva accompagnato il suo arrivo: “All’inizio, quando entravo negli uffici, vedevo le persone che nascondevano le borse e i portafogli, per via del mio passato. La più bella soddisfazione, personalmente, è stato guadagnare la loro fiducia, e il loro rispetto”. Una reputazione, la sua, che è andata crescendo nel tempo. Il suo percorso rieducativo rappresenta motivo di orgoglio. A partire da Luigi Polito, funzionario, responsabile dell’ufficio economato, e tutor del lavoratore: “La sua storia è una vicenda che dà soddisfazione sul piano umano, prima di tutto, ma mi sia concesso anche ricordare come, grazie al suo lavoro, l’amministrazione ha risparmiato poco meno di 24mila euro, i soldi che avrebbe chiesto un’impresa privata per le stesse opere”. Si uniscono al plauso la presidente del tribunale Laura Cosentini, secondo cui “il lavoro rappresenta la strada maestra per la rieducazione e il reinserimento sociale”, mentre l’assessore ai Servizi sociali del Comune di Monza, Desirè Merlini, ha parlato di “percorso virtuoso”. La direttrice del carcere Maria Pitaniello, oltre ad aver ricordato come il percorso di Domenico sia cominciato “da lontano, seguendo i corsi di formazione per detenuti”, ha richiamato anche l’importanza del protocollo d’intesa sul lavoro (il primo di questo genere), firmato nel mese di maggio tra la casa circondariale e mondo imprenditoriale. Confartigianato, Assolombarda, Camera di Commercio, l’Ordine dei commercialisti. In tutto 23 soggetti. Una rete che avvicina il carcere al mondo del lavoro, con l’obiettivo dichiarato di favorire la formazione e il reinserimento sociale dei detenuti attraverso l’assunzione o la proroga di un contratto di lavoro presso imprese, enti pubblici o privati, e associazioni. Donne e uomini come Domenico, a cui oggi non risparmiano nemmeno le battute: “Sei un uomo da sposare, sei il marito del tribunale”. Lui non si scompone più di tanto, e pensa già al suo prossimo compito, sistemare piante ed erbacce che assediano il palazzo. “So fare un po’ di tutto e poi in carcere hai tempo per pensare, e per imparare”. Enna: la riabilitazione dei detenuti minorenni e passa dallo sport vivienna.it, 12 luglio 2018 La riabilitazione dei detenuti minorenni e l’inserimento dei minori stranieri non accompagnati, passa dallo sport. Il progetto, promosso dal C.p.i.a., Centro provinciale di istruzione per adulti, di Caltanissetta-Enna, dal titolo “Fischio d’inizio”, sarà presentato il prossimo giovedì 13 luglio alle ore 10 all’Istituto Penale per Minorenni (I.P.M.) di Caltanissetta. Tra i partner dell’iniziativa, che ha come obiettivo la creazione di processi di inclusione sociale ed interculturale, attraverso la pratica dello sport, l’Istituto Penale Minorile, il Tribunale per i minorenni, la Procura della Repubblica per Minori, il Tribunale di Sorveglianza tutti di Caltanissetta. Ai 45 giovani, per il territorio di Caltanissetta, e 30, per il territorio di Enna, giovani detenuti e minori stranieri ospiti dei centri di accoglienza di Enna e Caltanissetta, sarà destinato un percorso di preparazione al calcio ed alla pallacanestro, con corsi di formazione di base per arbitro, preparazione atletica e preparazione tecnica. “Lo sport è veicolo di trasmissione di valori e occasione per l’acquisizione di competenze necessarie per il re-inserimento nella vita sociale e lavorativa, anche attraverso la revisione critica del proprio vissuto - dice il direttore del C.p.i.a, Giovanni Bevilacqua - l’attività fisica, inoltre, diventa uno strumento che insegna ad aver cura della propria persona e del proprio operato, per conoscere e applicare i regolamenti al fine di saper farli rispettare, acquisendo così una maggior autodisciplina”. Coinvolti nel progetto oltre il - C.p.i.a. di Caltanissetta ed Enna., l’istituto per minori di Caltanissetta, l’ufficio Servizio Sociali Minorenni e il Centro Diurno di Caltanissetta ed Enna, l’ Associazione Italiana Arbitri, la Federazione Italiana Giuoco Calcio, la Federazione Italiana Pallacanestro, il Liceo Classico, Linguistico e Coreutico “Ruggero Settimo” di Caltanissetta, il Liceo Scientifico “A. Volta” di Caltanissetta e l’Istituto d’Istruzione Superiore “A. Lincoln” di Enna. Trani (Bat): un “germoglio di speranza” per i detenuti di Vittorio Cassinesi traninews.it, 12 luglio 2018 Da qualche giorno sono state avviate le attività laboratoriali del pregevole percorso formativo “Operatore per la realizzazione e manutenzione dei giardini”, che - dal mese di marzo - la Società Cooperativa Sociale Irsea di Bisceglie sta realizzando nella Casa Circondariale Maschile di Trani. L’intervento progettuale, previsto dalla Regione Puglia in condivisione con il Ministero della Giustizia, rappresenta un’efficace azione di prevenzione, contrasto e rivisitazione critica delle condotte criminali o devianti, in quanto finalizzato a potenziare le competenze professionali del detenuto, indispensabili per ridurre le condizioni discriminatorie nel mercato del lavoro. Nello specifico, durante le attività laboratoriali, i beneficiari - seguiti dagli esperti di Floralia, azienda specializzata nella realizzazione, ripristino e manutenzione del verde pubblico e privato, partner dell’Irsea - mettono in pratica le conoscenze teoriche acquisite per creare e rendere produttivo e rigoglioso l’orto/giardino botanico nelle aree verdi della struttura penitenziaria tranese. Al termine del percorso, l’Irsea realizzerà - in condivisione con la Casa Circondariale di Trani - l’evento conclusivo di diffusione dei risultati, che si terrà nel mese di dicembre 2018, con lo scopo di: rendere visibili all’esterno i risultati del progetto conseguiti, valorizzandoli attraverso l’ampio coinvolgimento dei mezzi di informazione (Tv, stampa, social network, etc.) e dei referenti istituzionali (Regione Puglia, Comune, Tribunale, etc.); costruire forme stabili di collaborazione tra i soggetti che hanno contribuito a realizzare l’intervento con il fine di coinvolgere un numero sempre più ampio di attori. Lecco: “Quando lavorare è bello. Lettere dal carcere”, venerdì la presentazione del libro resegoneonline.it, 12 luglio 2018 L’incontro si terrà venerdì sera alle 21 nella sala riunioni dell’oratorio di Pescarenico di via Guado, Trova spazio all’interno della 34esima edizione della Sagra di Pescarenico la presentazione del libro “Quando lavorare è bello. Lettere dal carcere” di Giovanna Rotondo. L’incontro si terrà venerdì sera alle 21 nella sala riunioni dell’oratorio di Pescarenico di via Guado, 10 a Lecco e sarà un’occasione per dibattere sulle attività di reinserimento e socializzazione dei detenuti della casa circondariale di Pescarenico, anche a partire dagli interventi dei referenti del servizio famiglia e territorio del Comune di Lecco Luca Longoni, dello Spazio Giglio Beatrice Civillini e del progetto Porte Aperte 2.0 Marco Bottaro. Alla serata, moderata da don Mario Proserpio, interverranno il sindaco di Lecco Virginio Brivio e Monsignor Franco Cecchin, già prevosto di Lecco, insieme naturalmente all’autrice del libro, Giovanna Rotondo, al direttore della Casa Circondariale di Lecco Antonina D’Onofrio e al direttore generale per l’esecuzione penale esterna del Ministero Giustizia Lucia Castellano. “La serata, programmata nell’ambito di una festa che sempre di più si è aperta a esperienze di vita del rione, grazie alle collaborazioni con il centro comunale Il Giglio, le connessioni con il circolo Il Campaniletto e il coinvolgimento delle guide manzoniane, aggiunge un ulteriore tassello a questa sinergia, rivolgendo la sua attenzione proprio alla Casa circondariale di Pescarenico, che non può essere vissuta come un semplice corpo estraneo, ma piuttosto come un organo funzionante del quartiere - spiega il Sindaco di Lecco Virginio Brivio. L’obiettivo della discussione che seguirà la presentazione del libro “Quando lavorare è bello. Lettere dal carcere” sarà quello spostare l’attenzione proprio sulle attività di reinserimento e socializzazione dei detenuti, a fronte anche del racconto delle esperienze concrete di riscatto dei carcerati, contenute nel volume di Giovanna Rotondo”. Che vuol dire “umanitario” di Melania Mazzucco La Repubblica, 12 luglio 2018 L’aggettivo “umanitario” ricorre sulle labbra di i tutti, dopo la diffusione della circolare del ministro dell’Interno, che mira alla limitazione della concessione dei permessi di soggiorno per motivi, appunto, “umanitari”. I numeri di questi permessi sono saliti costantemente negli ultimi anni, fino a raggiungere percentuali non irrilevanti: è stato calcolato che nel 2016 nella Ue ne hanno beneficiato 48 mila persone (dati Eurostat). La formula della protezione umanitaria di cui si discute è stata commentata, spiegata e ora è in qualche modo nota: ma si pensa poco al significato letterale del termine. Il cui ambito è più filosofico, etico e sociale che giuridico. Dunque a me pare più utile provare a capovolgere il discorso. Più che discutere se abbia diritto a questo tipo di protezione minore e residuale chi ha subìto vessazioni nella propria infanzia diseredata in un Paese africano o asiatico, chi è stato torturato in Libia, chi è malato o semplicemente giovane, chi fugge da Stati instabili, dove la violenza è endemica, i diritti nulli, le prospettive di lavoro scarsissime, la precarietà dell’esistenza un dato di fatto, e nemmeno se l’aver iniziato un percorso di integrazione in Italia debba essere premiato, come è stato finora, oppure d’ora in avanti punito per scoraggiare imitazioni, vorrei provare a capire cosa significa per uno Stato - e dunque per noi - concedere oppure offrire protezione umanitaria. E se lo facciamo realmente. “Umanitario” - recitano i dizionari - significa animato da sentimenti di solidarietà umana; che pensa o opera secondo principi di generosità, carità, amore verso il prossimo, eccetera; che si adopera per promuovere il benessere dell’umanità e si prefigge il miglioramento delle condizioni morali e materiali dell’uomo. Ora, uno Stato che negli ultimi anni ha lodevolmente concesso migliaia di permessi di soggiorno per motivi umanitari dovrebbe poi attuarne le premesse. Cioè premurarsi di essere in grado di realizzare quei miglioramenti delle condizioni morali e materiali degli uomini e delle donne che ha accolto. Quindi, prima di creare una gerarchia delle disgrazie e delle malattie e relativi premi, dovrebbe chiedere a se stesso ciò che chiede al richiedente protezione internazionale. Applicare insomma il principio di reciprocità e condivisione, che è alla base del patto fra loro: il dovere di accertare la veridicità del racconto spetta all’esaminatore come al richiedente. La valutazione di ogni richiesta di asilo si basa, infatti, su alcuni principi generali, accettati da tutti, per quanto essi possano essere discutibili (e dovrebbero forse esserlo). E cioè: il soggetto deve fare dichiarazioni coerenti, presentare elementi plausibili a supporto delle sue motivazioni ed essere nel complesso credibile. Altrettanto dovrebbe fare lo Stato, che poi siamo noi. Essere coerente, plausibile e credibile. Nella realtà, invece, è incoerente, poco plausibile e spesso non credibile. A volte delega a operatori non competenti, quando non speculatori, l’assistenza che promette, non applica gli stessi criteri di giudizio, non garantisce le stesse possibilità. Decine di migliaia di persone che hanno ottenuto il permesso di soggiorno biennale per motivi umanitari non entrano nel circuito di accoglienza o ne escono prima di aver trovato un lavoro, un alloggio, una stabilità fisica e psichica di qualunque tipo, finendo abbandonate a se stesse e alimentando negli italiani, testimoni della loro deriva, l’impressione catastrofica di un destino di marginalità sociale e permanente bisogno su cui è facile speculare. Piuttosto che auspicare restringimenti che la legge italiana stessa, come dimostrano innumerevoli sentenze dei tribunali di tutta Italia, renderebbe poi inattuabili, bisognerebbe perciò lavorare per costruire reali percorsi di recupero e inserimento di persone oggettivamente fragili, traumatizzate e danneggiate. I fondi dell’Ue già alimentano progetti di questo tipo - destinati a vittime della tratta, di schiavitù, tortura, o in stato di disagio psichico - che stanno dando risultati positivi, benché di essi, per ipocrisia e convenienza, poco o per nulla si parli. Solo così la protezione umanitaria - di cui una parte consistente degli italiani si vanta, come fosse nostra specificità, conseguenza dei valori di attenzione verso gli ultimi che la cultura cristiana, quella progressista e comunista ci hanno tramandato - avrà davvero un significato e non sarà, come in fondo è stato finora, un grimaldello giuridico per sopperire all’impossibilità di immigrare legalmente, né la scappatoia dei cuori di fronte all’incontenibile disumanità della storia. Migranti. Le condizioni di Salvini per lo sbarco: “i dirottatori scendano in manette” di Carlo Bertini La Stampa, 12 luglio 2018 Polizia sulla nave Diciotti verso Trapani. Frizioni nel governo. Di Maio: no a porti chiusi per le barche italiane. Il tentativo di smorzare i toni subito dopo aver messo i puntini sulle “i”, o di blindare la tenuta del governo negando che vi siano due linee, non attenua le uscite del ministro della Difesa Trenta sui migranti. Che fanno capire come tra gli alleati di governo non vi sia precisamente identità di vedute. Salvini non ha certo gradito la decisione del ministro dei Trasporti Toninelli di far attraccare la nave a Trapani e fa di tutto per tenere il punto sulla linea della fermezza. “Il porto per la nave Diciotti sarà assegnato solo dopo che saranno fatti i nomi dei finti profughi, che invece che in un albergo, finiranno in prigione per le loro azioni a bordo della Vos Thalassa”. Il vicepremier leghista frena: “Prima di concedere qualsiasi autorizzazione attendo di sapere nomi, cognomi e nazionalità dei violenti dirottatori che devono scendere in manette”. E infatti uomini della Polizia di Stato sono saliti a bordo della Diciotti - che procedendo con i motori al minimo dovrebbe attraccare stamane a Trapani - per accertare i fatti avvenuti sulla Vos Thalassa. I migranti temevano di essere riportati indietro e dopo momenti di tensione, la nave ha cambiato rotta, dirigendosi verso nord, fino al trasbordo dei profughi sulla Diciotti della Guardia costiera. Il ministro dell’Interno detta la regola d’ingaggio e poi si chiude a Palazzo Chigi con il premier Conte per ribadire la posizione italiana da portare nei consessi europei. “Con Conte c’è una linea comune: rafforzare la sicurezza dei cittadini italiani, ponendo al centro del dibattito europeo il fatto che non possiamo essere lasciati soli”. Di Maio invece non vuole rimarcare il punto strappato da Toninelli rivendicando la giurisdizione sui porti. E lascia piantare a Salvini tutti i suoi paletti e le sue condizioni. Ma si capisce pure tutto il malcontento interno con cui deve barcamenarsi il capo grillino, costretto a tirare un colpo al cerchio e uno alla botte. “Non vorrei un altro titolo contro il ministro dell’interno. Se si tratta di una nave italiana intervenuta in una situazione che dovremo chiarire, bisogna farla sbarcare. Non è immaginabile che noi chiudiamo i porti ad una nave italiana, ma condivido tutte le perplessità di quanto accade nel Mediterraneo”. Ma i due partiti alleati fanno di tutto per sopire le tensioni, come si vede dall’ok di Salvini al taglio dei vitalizi e dalla mano tesa di Di Maio sui voucher. Lo strappo poi rientrato - La giornata comincia con l’eco delle parole della titolare della Difesa su Avvenire, il giornale dei vescovi. “Il Mediterraneo è sempre stato un mare aperto e continuerà ad esserlo. L’apertura è la sua ricchezza. La strada è regolamentare, non chiudere. La parola accoglienza è bella, la parola respingimenti è brutta”, dice la Trenta. E ancora: “L’Italia non si gira dall’altra parte. Non l’ha fatto e non lo farà. C’è il diritto di assicurare un asilo a chi fugge dalla guerra. E il diritto di arrivare e trovare un lavoro. Ho guardato cento volte le foto di migranti e ho pensato sempre una cosa: una famiglia che mette un figlio su un barcone sperando di regalargli la vita va solo aiutata”. Ecco, lo strappo è compiuto, pure se la ministra liquida “il tentativo di metterci l’uno contro l’altro. Mi dispiace deludervi: non ci riuscirete! All’interno di questo governo, come è naturale che sia, possono esserci sensibilità diverse, ma remiamo tutti nella stessa direzione”. Ma la stessa giornata si conclude con la rivendicazione di Salvini dei risultati ottenuti nel bilaterale con il collega tedesco. “Abbiamo chiesto e ottenuto supporto per intervenire su frontiere esterne, supporto e soldi per Africa. Interverremo per suddividere i migranti che sbarcano in Italia”. Migranti. L’autogol di Matteo Salvini sui Paesi in guerra di Luca Bottura La Repubblica, 12 luglio 2018 Quanti dei 67 migranti imbarcati sulla Diciotti e bloccati a lungo in mare da Matteo Salvini provengono da territori di guerra? Messa così, sembra una domanda neutra. Al netto del fatto che chi scappa da dittature o carestie debba essere considerato profugo di serie B. Chissà perché. Ma se la questione viene posta dal Ministro della Paura in persona, sul proprio account Facebook, in un profluvio di punti interrogativi (tre di fila) ecco che diventa un quesito retorico di cui i fan del Capitano conoscono già la risposta: nessuno. Ecco, no. Prendendo per buone, e ci vuole un po’ di impegno, le nazionalità che lo stesso Salvini comunica ai suoi follower, quasi tutti scappano da conflitti e/o persecuzioni. I 23 pakistani sono potenziale carne da cannone di due guerre civili, di Al Qaeda, dell’Isis e di altre 24 gruppi terroristici. Idem l’Algeria, il cui meridione è tuttora nelle mire di quel che resta di Daesh. Così la Libia, con la sua tremula democrazia. Il Ciad se la vede con Boko Haram. In Sudan c’è appena stato un genocidio. L’Egitto è quel bel posto in cui il governo fa sparire gli oppositori in carcere o peggio. Anche italiani. La Palestina è in guerra permanente che fa da detonatore a tutte le altre. E via dicendo. In un elenco da cui restano fuori solo un paio di Paesi su tredici rappresentati. Quindi, la risposta corretta alla domanda di Salvini è “quasi tutti”. Ma questo non conta nulla. La sua raffinatissima strategia mediatica, che disintermedia l’informazione e la trasforma sempre e comunque in propaganda social, è un muro di gomma che rimbalza ogni ragionamento. Parla ai convertiti. Solidifica i loro pregiudizi. Scarica coscienze. Così come a suo tempo è stata creata un’emergenza migranti inesistente, il dato oggettivo che i profughi siano realmente profughi è destinato a non fare breccia. Aggredirebbe un caposaldo dell’altra balla salviniana, quella con cui i cattivisti si lavano le coscienze: noi non siamo razzisti, noi accogliamo a braccia aperte solo chi vive una reale emergenza. Bugie. Cui il residuo di forze progressiste, quando si sarà rialzato dal lettino dello psicanalista, e avrà smesso di delegare l’opposizione ai benemeriti che si incatenano davanti ai Ministeri, dovrebbe opporre una campagna di realtà. Ho anche il titolo: “La scomparsa dei fatti”. Non è inedito. Ma immagino che l’inventore non si adonterà del prestito: è per una causa di verità. Stati Uniti. Pena di morte: primo giustiziato con il Fentanyl di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 luglio 2018 È una sostanza talmente letale che molte vittime di overdose sono state ritrovate senza vita con l’ago ancora piantato nelle braccia. Oltre 20mila morti negli stati Uniti solo lo scorso anno, un’emergenza nazionale per una droga cento volte più potente della morfina e dell’eroina con cui viene mescolata e definita dagli esperti “un’arma di distruzione di massa”. Il Fentanyl, sviluppato verso la fine degli anni 50 è un oppiaceo sintetico, impiegato originariamente come antidolorifico in piccolissime quantità, oggi viene prodotto dalla Cardinal Health in forma industriale e smericato in concentrazioni molto più elevate dai cartelli della droga messicani. Un’arma che può far comodo anche alla macchina della giustizia Usa, ma non alla luce del sole, visto che le industrie chimiche e farmaceutiche sono sempre più restìe nel far associare il loro nome alle esecuzioni. Da ieri il Nevada, che non metteva al lavoro il boia da 12 anni, è il primo Stato americano a eseguire una condanna a morte tramite il micidiale Fentanyl. A venire giustiziato il 48enne Scott Dozier, responsabile di un duplice omicidio commesso nel 2002. Il cocktail che lo ha stroncato aveva anche una componente di Midazolam, un sedativo conosciuto per aver causare dolorose convulsioni nei condannati. Come spiega Maya Foa, direttrice del gruppo abolizionista Reprieve “ogni singola volta che è il Midalozam è stato impiegato ha avuto effetti disastrosi”. L’Unione americana per le libertà civili (Aclu) accusa il Nevada di aver infranto la legge, ovvero di aver nascosto ai produttori di Fentanyl l’effettivo utilizzo della sostanza. Le autorità del Nevada si sono rifiutate di rendere pubblico il modo in cui hanno ottenuto il Fentanyl, ma la scorsa settimana un tribunale ha dato ragione all’Aclu costringendole a rendere pubbliche le fatture. Da queste emerge che il Dipartimento di giustizia dello Stato ha richiesto alla Cardinal Health (il principale distributore negli Usa della molecola del Fentanyl) piccole ordinazioni, a volte distanziate di un solo giorno l’una dall’altra, un sistema per non attirare troppo l’attenzione. “È davvero incredibile che venga utilizzato un farmaco noto per aver ucciso decine di migliaia di persone mai testato prima, per di più associato al terribile Midalozam, si tratta di un protocollo completamente inusuale”. La legge americana permette infatti solo a medici e istituzioni sanitarie di ottenere una licenza dalla Food and Drug administration per somministrare farmaci programmati, non di certo ai dipartimenti di giustizia dei singoli Stati. L’esecuzione avrebbe potuto essere sospesa se il condannato avesse chiesto un controllo legale sul cocktail di sostanze cosa che era in suo diritto, ma Dozier, affetto da una fortissima depressione non ha voluto ascoltare i suoi avvocati, affermando di voler “morire il prima possibile”. E così è stato. Stati Uniti. La sentenza che legalizza le armi create con la stampante 3D di Enrico Forzinetti Corriere della Sera, 12 luglio 2018 Un giudice ha dato ragione a Cody Wilson che da anni si batteva per il diritto di condividere online i modelli di pistole e fucili, utilizzabili da chiunque per realizzare un’arma “fai da te” con una stampante 3D. Dopo anni di battaglia legale, un giudice ha dato ragione a Cody Wilson: il produttore di armi di ispirazione libertaria ha il diritto di condividere online dei modelli tridimensionali di armi che chiunque può scaricare e utilizzare per realizzare pistole e fucili attraverso la stampa 3D. Wired ha raccontato il maniera approfondita la vicenda che apre le porte alle cosiddette “armi fai da te”. La storia ha inizio nel 2013 quando l’allora 25enne Wilson realizzò la prima pistola con una stampante 3D, caricandone poi i modelli sul proprio sito Defcad.org che ospitava anche le sue idee legate alla libertà di possesso di armi. Ma pochi giorni dopo le autorità americane lo intimavano di chiudere il sito e rimuovere i file online perché stava violando la norme che regolano il commercio di armi: in sostanza è come se Wilson le stesse vendendo senza avere una licenza per farlo. Wilson però non si è perso d’animo e nel 2015 ha fatto causa al governo americano per aver violato il diritto alla libertà di espressione sancito dal Primo emendamento, impedendogli di condividere online informazioni utili su come realizzare un’arma “stampabile”. Come fa notare Techcrunch, in questo particolare caso giudiziario la richiesta di un maggior controllo sulle armi coincideva con una limitazione della libertà di espressione. Il nuovo business delle armi - Per questa motivo il giudice ha dato ragione a Wilson, sancendo così la possibilità di condividere i suoi modelli, scaricarli e poi produrre l’arma. Confermando però il divieto di vendita. Questa decisione ha dato di nuovo vigore all’azienda di Wilson, la Defense Distributed, nel rilanciare il sito Defcad.org con l’obiettivo di trasformarlo in un enorme database di modelli di armi scaricabili e stampabili da chiunque possieda una stampante in 3D. Ma il business della Defense Distributed non si limita, per modo di dire, alla realizzazione di modelli tridimensionali di armi. Quello a cui stanno lavorando gli ingegneri impiegati nella società è lo sviluppo di un macchinario controllato dal computer, chiamato Ghost Gunner, in grado di dare vita ad armi in alluminio in maniera molto più precisa di una stampante a tre dimensioni. Al momento ne sono già stati venduti 6mila per una cifra sopra i 1.600 dollari l’uno. I dubbi - La decisione dei giudici di fatto legittima chiunque altro lo voglia a condividere online modelli di armi, cosa che stanno già facendo altri siti specializzati come GrabCad and FossCad. Ma al di là del principio di libertà che è stato sancito, a preoccupare sono gli effetti pratici che potrebbe avere questo caso giudiziario. Il proliferare di “armi fai da te” negli Usa potrebbe facilitare ancora di più il possesso di fucili o pistole da parte di squilibrati o malintenzionati, andando ad aumentare il numero di sparatorie e stragi che negli ultimi anni hanno già provocato numerosi morti nel paese. Bosnia. Srebrenica, 23 anni fa il genocidio più veloce della storia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 luglio 2018 In quel decennio orribile che furono gli anni Novanta (iniziati con l’invasione del Kuwait e la successiva guerra all’Iraq e terminati con la guerra del Kossovo), nel 1994 ci fu quello che venne registrato come il genocidio più veloce della storia: all’incirca un milione di morti, in Ruanda, in nemmeno 100 giorni. Quel vergognoso primato durò poco più di un anno, poiché nell’estate del 1995, nel cuore dell’Europa, si consumò il nuovo genocidio più veloce della storia: oltre 10.000 musulmani di Bosnia sterminati dalle forze serbo-bosniache nella città di Srebrenica, in meno di una settimana a partire dall’11 luglio. Per il numero delle vittime, il paragone col Ruanda non regge. Per l’intenzione sì, confermata da sentenze internazionali del Tribunale penale per l’ex Jugoslavia e dalla Corte internazionale di giustizia, il cui rispetto imporrebbe di riconoscere ciò che accadde 23 anni fa e di chiamarlo col suo nome: genocidio, né strage né massacro. Srebrenica era un’anomalia: un’enclave a maggioranza musulmana in quella parte di Bosnia ormai del tutto “serbizzata”. Per far aderire sul campo i confini della “nuova” Bosnia, che sarebbero stati sanciti negli accordi spartitori di Dayton, occorreva mettere fine a quell’anomalia. Tutti erano d’accordo che Srebrenica dovesse essere sacrificata, la Storia (non la giustizia, purtroppo) ci dirà se i leader internazionali dell’epoca erano consapevoli dell’intenzione genocida: quella che portò al deliberato sterminio di oltre 10.000 uomini (ragazzi inclusi) in età da combattimento. A distanza di 23 anni, le donne di Srebrenica continuano a piangere i loro morti. Alcuni resti non si troveranno mai più. Le autorità della Bosnia post-Dayton hanno lasciate sole le donne vittime del conflitto. A Sarajevo, i governi di Turchia e Arabia Saudita cercano di fare proselitismo con l’intenzione di radicalizzare un Islam storicamente del tutto pacifico e tollerante. La giustizia internazionale ha chiuso i suoi lavori, l’Europa tace e il fronte filo-serbo fa opera di negazionismo. Chi volesse sapere di più sul genocidio di Srebrenica, potrà leggere i numerosi libri scritti da Luca Leone. Afghanistan. Il dramma delle donne che subiscono violenze e le giustificano di Linda Laura Sabbadini La Stampa, 12 luglio 2018 Nella terza giornata dei Dialoghi di Spoleto Alka Sadat, produttrice cinematografica afghana, racconta la condizione femminile nel suo Paese. Terzo incontro dei Dialoghi di Spoleto coordinati da Paola Severini Melograni. Al centro della giornata la condizione delle donne afghane e il ruolo delle donne nel cinema afghano. Presente Alka Sadat produttrice cinematografica afgana e Irene Bignardi, che tutti conosciamo, raffinata critica cinematografica. Un pubblico molto interessato si ferma anche alla proiezione sottotitolata in inglese dell’ultimo film di Roya Sadat, sua sorella, la prima regista donna in Afghanistan. Il film si chiama Letter to the President. La Sadat racconta come sia stato difficile produrlo, i produttori accettavano e poi si tiravano indietro. Hanno iniziato a lavorare per questo film dal 2006, ci sono voluti 12 anni per riuscire a farlo uscire. Una determinazione encomiabile. Irene Bignardi esprime la sua sorpresa, ritiene il film di alta qualità, bellissima e bravissima la protagonista, i colori delicati, un po’ come usano anche nel cinema iraniano. Il film secondo lei è molto duro, ma non fa propaganda, è asciutto, severo. Un bellissimo film, sottolinea Irene Bignardi, aggiungendo che è veramente straordinario che, nonostante tutti i problemi incontrati dalle due sorelle, nonostante il tema, siano riuscite a produrre un film così rilevante. Le Sadat sono abituate alle difficoltà, sono cinque sorelle, la mamma sotto i Talebani non le mandava a scuola, le istruiva lei stessa. Il film è stato proiettato a Kabul, ma poche persone sono andate a vederlo. Tanta strada si deve ancora fare culturalmente. Ricordo nel mio intervento di contesto e sui numeri una frase di Nadine Labaki, regista libanese: il cinema è un’arma non violenta potente per provocare cambiamenti nella società”. Le narrazioni entrano nel profondo, più donne si affermano nel cinema, più avanza il punto di vista femminile e più facilmente si combattono gli stereotipi. Il Movimento #Metoo ha dato un grande scossone al mondo profondamente maschilista del cinema in tutto il mondo. Ma in Afghanistan ovviamente la situazione è molto indietro. Il Paese è al 169 posto nella graduatoria del Gender Inequality Index calcolato da Undp. La speranza di vita delle donne afgane è 62 anni, bassissima. Gli analfabeti sono più di 10 milioni, il 60% sono donne. Addirittura tra le giovani le analfabete sono il 70% Pochissime donne lavorano, il 13% tra le giovani. Estromesse dal lavoro escluse dall’istruzione le donne afgane fanno fatica a trovare il loro percorso di liberazione. Subiscono violenza ma in molti casi la giustificano. Il 46% ritiene giustificato che il marito la picchi se si rifiuta di avere rapporti sessuali, e il 78% se esce di casa senza dirlo al marito. Le donne sono anonime, vengono chiamate con il nome del marito. Anche quando muoiono al momento della sepoltura sono anonime. Thamina Arian attivista dei diritti umani delle donne del Women Committee ha lanciato l’ashtag molto ripreso “where is my name” Roya e Alka Sadat danno voce alle donne afgane e alle violenze che subiscono. Il loro lavoro è encomiabile e simbolico. Di tante donne come loro, indipendenti, determinate, competenti, coraggiose hanno bisogno le donne afgane. Sono un simbolo, un esempio per migliorare la qualità della vita di tutte.