Legittima difesa e droga, arriva il decreto sicurezza di Alberto Gentili Il Messaggero, 11 luglio 2018 Salvini: “Entro l’estate un pacchetto di misure per proteggere i cittadini”. Adesso c’è la ruspa e c’è la campagna martellante anti-migranti a far venire la gastrite a Luigi Di Maio. Presto, “mi auguro entro l’estate”, Matteo Salvini farà di meglio. Calerà sul tavolo del governo giallo-verde un’altra carta per equilibrare, da destra, il decreto dignità varato da Di Maio e applaudito dalla Cgil e dalla sinistra sinistra. E, soprattutto, gradito dall’avversario interno al Movimento: il presidente della Camera, Roberto Fico. Non si tratta della flat-tax (per questa si aspetta, se andrà bene, il 2019) né la rivisitazione della legge Fornero sulle pensioni (promessa anche dai 5Stelle). La nuova bandiera di Salvini si chiama “pacchetto sicurezza”: un insieme di misure che andrà a solleticare, e soddisfare, la pancia e gli umori dell’elettorato di centrodestra su cui il vicepremier lumbard ha ormai lanciato un’Opa al momento inarrestabile. Per buona pace di Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni. “Stiamo lavorando su diversi fronti e stiamo lavorando notte e giorno”, spiega il vicepremier e ministro dell’Interno, “il pacchetto conterrà tanti provvedimenti sul fronte della lotta alla mafia, alla droga, al racket. Più nuove misure sui migranti, il diritto d’asilo, la polizia urbana e gli eventi pubblici. Miglioreremo la sicurezza dei cittadini”. Cantiere aperto - Un proposito e tanti titoli, insomma. Al momento Salvini non può dire di più: i tecnici del ministero stanno studiando i vari dossier e non hanno messo nero su bianco le nuove norme. Appare comunque certo che nel decreto con cui verrà battezzato il “pacchetto sicurezza”, finirà un altro cavallo di battaglia lumbard: la legittima difesa. Il punto cardine, in base al disegno di legge presentato dal sottosegretario agli Interni Nicola Molteni, braccio destro di Salvini: ogni cittadino con regolare possesso di armi avrà licenza di sparare a chiunque si introduca in un’abitazione privata, annullando la valutazione oggi prevista dalla legge di proporzionalità fra offesa e difesa. Un provvedimento mai amato dai 5Stelle. In campagna elettorale, Di Maio aveva dichiarato: “Quando saremo al governo faremo in modo che una persona non si debba difendere con un’arma da uno che gli entra in casa”. E ancora, in coro con Alessandro Di Battista: “La detenzione di armi va ridotta drasticamente. Non siamo una società abbastanza serena per prenderci questi rischi. Togliamo le armi dalle case degli italiani”. A Salvini, che ha poco apprezzato i distinguo grillini sulla “sentenza ammazza Lega”, queste titubanze dei Cinque Stelle interessano poco. Il suo obiettivo è, appunto, rispondere da destra al decreto dignità che giudica di troppo sinistra. E poco importa se la linea del governo finirà per apparire schizofrenica, un copione degno del dottor Jekyll e di mister Hyde: a volte di ultradestra, altre volte “vetero comunista”, come dicono in Forza Italia. Ritorno all’antico - In più per il leader leghista è una sorta di déjà-vu. Un ritorno nel solco della tradizione di centrodestra. Nel 2009 fu Berlusconi, con il lumbard Bobo Maroni nel ruolo di ministro dell’Interno, a varare un “pacchetto sicurezza”. Quello che introdusse il reato di immigrazione clandestina e autorizzò le ronde anti criminalità dei cittadini. Una misura acclamata soprattutto nelle valli padane. Salvini già si prepara allo scontro con Di Maio. E già fissa le regole d’ingaggio: “Come io quando varerò le misure sulla sicurezza potrò accettare qualche miglioramento in Parlamento, così Di Maio può accettare qualche ritocco al suo decreto dignità”. Le correzioni? La Lega vuole il ritorno dei voucher per i lavori stagionali in agricoltura, turismo, commercio, servizi. E chiede (senza troppa convinzione) l’abolizione dell’aggravio contributivo dello 0,5% e delle causali per il rinnovo dei contratti a termine. Sempre che il decreto riesca, prima o poi, a ottenere la bollinatura della Ragioneria: attualmente è ancora fermo, per “problemi tecnici”, al ministero del Lavoro. Perché la solidarietà per fini umanitari non può essere un crimine camerepenali.it, 11 luglio 2018 Considerazioni a margine della pronuncia del Consiglio Costituzionale francese nella vicenda di Cédric Herrou, l’agricoltore simbolo degli aiuti ai migranti sul confine tra Francia ed Italia. Con pronuncia resa venerdì scorso, il Consiglio Costituzionale francese ha previsto, evocando per la prima volta nella sua storia “il principio di fratellanza”, il divieto di repressione penale degli atti di aiuto al soggiorno di stranieri irregolari compiuti per scopi umanitari (con eccezione del reato di favoreggiamento all’ingresso). Il Giudice delle Leggi d’oltralpe, nel caso riguardante Cédric Herrou, l’agricoltore divenuto il simbolo degli aiuti ai migranti sul confine tra Francia ed Italia, era stato investito l’11 maggio 2018 dalla Corte di Cassazione di una questione prioritaria di costituzionalità relativa alla valutazione relativa alla compatibilità con la Costituzione degli articoli L. 622-1 e L. 622-4 del Ceseda (Codice dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri e del diritto d’asilo), escludendo l’applicabilità delle richiamate norme nel caso di atti compiuti per fini umanitari e disinteressati. Il Consiglio Costituzionale, pur stabilendo come il principio di fraternità dia origine alla libertà di aiutare gli altri per scopi umanitari, a prescindere dalla regolarità del loro soggiorno sul territorio nazionale, ha, altresì, sottolineato che, secondo la propria giurisprudenza costante, nessun principio o norma di valore costituzionale vale a garantire agli stranieri diritti generali e assoluti di accesso e di soggiorno sul territorio nazionale e che, inoltre, la lotta contro l’immigrazione clandestina rientra nella salvaguardia dell’ordine pubblico che è anch’esso un obiettivo di valore costituzionale. La pronuncia del Consiglio Costituzionale transalpino ci induce alcune riflessioni. In primis, ci ricorda l’importanza centrale delle Corti Costituzionali per assicurare l’equilibrio dei poteri nell’ambito delle democrazie pluralistiche ed il bilanciamento tra i principi portati delle Carte nazionali: esse contribuiscono, infatti, a svolgere, attraverso l’autorità e l’efficacia riconosciute alle loro pronunce, una funzione fondamentale di razionalizzazione e di stabilizzazione degli ordinamenti costituzionali. In secondo luogo, benché i Giudici francesi non ne facciano menzione, ci consente di rilevare come, in materia di immigrazione irregolare e della sua criminalizzazione, l’UE con la Direttiva 2002/90/CE del Consiglio del 28 novembre 2002 - richiamata dalla Direttiva 2002/946/Gai del Consiglio - volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegale abbia espressamente previsto la possibilità per gli Stati membri di non adottare sanzioni, applicando la legislazione e le prassi nazionali, con riferimento alle condotte di chi, intenzionalmente e con lo scopo di prestare assistenza umanitaria, aiuti una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di pertinenza in violazione della normativa interna relativa all’ingresso o al transito degli stranieri; mentre, è, in ogni caso, soggetto ad obbligo di repressione penale il comportamento di chi aiuti a scopo di lucro lo straniero irregolare a soggiornare nel territorio di uno Stato membro. Da ultimo, e ferma restando la differenza ontologica tra le fattispecie di aiuto al soggiorno e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non possiamo non evidenziare - a fronte della tensione che si registra in buona parte dell’opinione pubblica verso la diffusa ed indistinta criminalizzazione preventiva delle attività poste in essere dalle Ong impegnate nel Mediterrraneo - che la solidarietà per fini umanitari è scriminata non solo laddove si esplichi in presenza di un pericolo attuale e non altrimenti evitabile di naufragio, ma anche quando il Governo responsabile per la zona marittima di pertinenza per ricerca e salvataggio non sia in grado di offrire un luogo sicuro dove ospitare le persone soccorse, per tale dovendosi intendere quello in cui non possano essere soggette a pena di morte, tortura, trattamenti inumani e degradanti, o dove la loro vita o la loro libertà siano minacciate per motivi di razza, religione, nazionalità, orientamento sessuale, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per l’orientamento politico. E, alla luce di quanto detto, appare dirimente la circostanza - confermata da fonti governative e non, - che la Libia, allo stato, non è in grado di offrire ai migranti soccorsi un Pos (place of safety) tale da assicurare il rispetto dei loro diritti fondamentali. La Giunta dell’Ucpi La Commissione Ucpi per i rapporti con l’Avvocatura e le Istituzioni Internazionali Elezioni al Csm, affluenza al 90%. Davigo in corsa nella sfida più dura di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 11 luglio 2018 L’ex pm di Mani Pulite ha bisogno di almeno 1.500 voti per ottenere uno dei due posti destinati ai magistrati di legittimità. forse già oggi i risultati. Inizieranno questa mattina in Cassazione le operazioni di scrutinio per l’elezione dei sedici componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. Le schede elettorali sono arrivate ieri pomeriggio a Roma dai ventisei distretti di Corte d’Appello dove erano stati allestiti nel fine settimana i seggi. I magistrati dovevano indicare tre preferenze. Una per i pm, una per i giudici di merito, una per i giudici di legittimità. L’affluenza è stata molto alta. In Cassazione hanno votato 360 magistrati su 397 aventi diritto. Oltre il 90% dunque. Per fare un confronto con le ultime elezioni del 2014, sempre in Cassazione, su 351 aventi diritto i votanti erano stati 294, pari all’ 83%. Il notevole incremento del numero dei votanti si presta a diverse letture. La prima è che nonostante le polemiche cicliche sulle correnti della magistratura, le toghe continuano a riconoscersi nei vari gruppi associativi. Nessuna disaffezione o rigetto come invece è accaduto per i partiti tradizionali. L’appello al noto voto per protesta contro la deriva correntizia della magistratura associata, lanciato nei giorni scorsi da diverse toghe, è sostanzialmente caduto nel vuoto. Anche l’assenza di una seria competizione fra i pm, quattro candidati per quattro posti, uno per ciascuna corrente, è stata metabolizzata dalle toghe senza problemi. In totale i candidati sono ventuno. L’unica vera sfida si giocherà per i due posti destinati al Csm ai magistrati di legittimità. Gli occhi sono tutti puntati su Piercamillo Davigo, attuale presidente di sezione in Cassazione e fondatore di Autonomia& Indipendenza, l’ultima nata nel panorama associativo togato. L’ex pm di Mani pulite ha avuto in queste elezioni un traino mediatico molto forte. Alcuni autorevoli giornali, come il Fatto Quotidiano, hanno apertamente appoggiato la sua candidatura. Per sedersi nella sala Vittorio Bachelet di Palazzo dei Marescialli, Davigo avrà bisogno di almeno 1.500 voti. Difficile fare previsioni. L’elettorato, rispetto al 2014, è completamente diverso. Oltre 1000 i magistrati che votano per la prima volta. E tanti quelli che, per effetto del decreto del Governo Renzi che abbassava da 75 anni a 70 l’età di trattenimento in servizio per le toghe, sono andati in questi mesi in pensione. Nel pensionamento forzato i più penalizzati sono stati i gruppi della magistratura progressista che hanno perso storiche figure di rifermento. Come, ad esempio, l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. Area, il cartello delle toghe progressiste che racchiude Magistratura democratica, ha attualmente il maggior numero di consiglieri al Csm. La loro conferma pare però alquanto difficile. Unicost, il gruppo di centro, punta a fare un buon risultato. Come Magistratura indipendente. Per A& I vale invece l’effetto novità. Sotto l’aspetto prettamente “politico”, poi, è cambiato tutto. Il Pd di Matteo Renzi non è più da tempo il partito di riferimento delle toghe. L’ex segretario dem, alle ultime elezioni, non ha ricandidato le toghe storiche di sinistra, come Anna Finocchiaro o Felice Casson, preferendo puntare su Cosimo Ferri, leader di Magistratura indipendente, un tempo corrente definita di destra. L’unico partito apertamente pro magistrati è rimasto, quindi, il Movimento 5 stelle. Al movimento di Beppe Grillo spetteranno poi tre consiglieri laici al Csm. Uno, quasi certamente, sarà quello che prenderà il posto di Giovanni Legnini. Le Camere in seduta comune inizieranno a votare gli otto componenti laici il prossimo 19 luglio. L’insediamento della nuova consiliatura è previsto per l’ultima settimana di settembre. I risultati definitivi, forse, già domani in serata. Bocciata la misura di prevenzione che vieta la riunione pubblica di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2018 Corte di cassazione, Prima sezione penale, sentenza 10 luglio 2018 n. 31322. Troppo vago il concetto di “pubblica riunione” e troppo ampio il margine di discrezionalità del giudice nel precisarlo. Per questo non può essere punito chi, sotto sorveglianza speciale, non ha rispettato il divieto di partecipazione a un evento pubblico, nel caso una partita di calcio. Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n. 31322 della prima sezione penale con la quale è stata annullata senza rinvio la condanna inflitta dal Gup prima e dalla Corte d’appello poi a una persona soggetta a misura di prevenzione sorpresa ad assistere a una partita di calcio locale. Una nuova picconata al sistema delle misure di prevenzione che la stessa Cassazione pone in sintonia con quanto affermato dalla ormai assai nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo De Tomaso del 23 febbraio 2017. Allora la Corte europea dopo avere sottolineato le ragioni per cui, a suo giudizio, gli obblighi di “vivere onestamente e rispettare le leggi” e di “non dare ragione alcuna ai sospetti” non sono stati circoscritti in maniera puntuale dal legislatore italiano, ha espresso preoccupazione anche sull’assoluto divieto di partecipazione a pubbliche riunioni, sostenendo che “la legge non specifica alcun limite temporale o spaziale di questa libertà fondamentale, a cui restrizione è lasciata interamente alla discrezione del giudice”. La pronuncia di ieri prende le distanze invece dall’orientamento della stessa Cassazione che, pur ammettendo che la nozione di pubblica riunione è soggetta a una pluralità di interpretazioni, tuttavia supera l’ostacolo, mettendo in risalto come ha rilevanza penale ogni situazione in cui può intervenire un numero elevato e indeterminato di persone, tale da rendere più arduo il controllo dei presenti e più agevole la commissione di reati. Soluzione però poco convincente, perché mette nelle mani del giudice il compito di riempire il vuoto di determinatezza della norma. La discrezionalità resta cioè molto ampia, tanto da potere comprendere nel perimetro della norma condotte di partecipazione a eventi e situazioni molto diversi e non sempre in linea con la ratio del divieto ad assistervi. Oltretutto, conclude la Corte, la norma in questione non è neppure in grado di orientare il comportamento sociale richiesto perché l’indeterminatezza dell’oggetto del divieto è tale da impedire la stessa conoscibilità di quanto richiesto. Condannato per omicidio colposo l’automobilista che non si ferma allo stop di Domenico Carola Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2018 Corte di Cassazione - Sezione IV - Sentenza 14 giugno 2018 n. 27395. I giudici della IV sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 27395 del 14 giugno 2018 hanno ritenuto colpevole di omicidio colposo l’automobilista che non rispetta il segnale di stop. Il fatto - Un automobilista, alla guida della propria auto, non rispettava un segnale di stop ed, omettendo di dare precedenza ad altro veicolo, collideva con quest’ultimo. Veniva dichiarato colpevole di omicidio colposo commesso in violazione delle norme del codice della strada. La Corte di appello di Palermo, davanti alla quale era sta appellata la decisione, confermava nel merito la sentenza del primo giudice, ritenendo l’automobilista colpevole di omicidio colposo. Nella ricostruzione operata dai giudici, il conducente deceduto, all’altezza di una intersezione stradale collideva con il veicolo condotto dall’imputato, che si stava immettendo sulla strada senza aver rispettato il segnale di stop ed omettendo di dare la precedenza. Avverso la sentenza proponeva ricorso per cassazione lamentando violazione di legge e vizio di motivazione ritenendo erroneo il giudizio della Corte territoriale secondo cui, se è indubbio che la persona offesa nell’occorso abbia violato più regole cautelari (soggetto privo di patente, affetto da Alzheimer e da schizofrenia, velocità stimata in 90 km/h, superiore al limite di 50 km/h, e con fari spenti nonostante l’orario serale), ciò non escluderebbe la responsabilità dell’imputato per non aver rispettato il segnale di stop. Se da un lato pare indiscutibile l’assoluta interdipendenza tra il sinistro stradale e la condotta posta in essere dall’imputato, dall’altro appare illogica e carente la motivazione in ordine alla ritenuta compatibilità tra l’affermata sussistenza di nesso eziologico in ambedue le condotte dei soggetti in causa e l’acclarata prevedibilità ed evitabilità assolute dell’evento solo con riferimento alla condotta dell’imputato. La decisione - Gli Ermellini ritengono il ricorso infondato e lo rigettano in quanto il mancato rispetto del segnale di stop ha causato il sinistro e ciò a prescindere dalla colpa concorrente della vittima che aveva infatti azionato i freni per cercare di evitare l’impatto, segno evidente di una condotta di guida regolare e non abnorme. La sentenza impugnata ha evidenziato come la condotta, pure colposa, tenuta dalla vittima non sia stata idonea ad interrompere il nesso causale tra la condotta del prevenuto e l’evento, non avendo riscontrato nel comportamento della vittima una condotta eccezionale ed atipica, non prevista né prevedibile, da sola sufficiente a produrre l’incidente stradale. Infatti i giudici di merito, per escludere l’abnormità della condotta della vittima, hanno adeguatamente considerato quanto risultante dai dati probatoriamente emersi, secondo cui il conducente deceduto procedeva con andatura diritta, come risultante dalla traccia della frenata, che si è protratta fino al punto d’urto, ubicato nella sua corsia di marcia, invasa dalla vettura condotta dall’imputato a seguito del mancato rispetto, da parte di quest’ultimo, del segnale di stop. Si tratta di una ponderata valutazione di merito, certamente congrua, razionale e priva di evidenti vizi logico-giuridici, come tale insindacabile nella sede di legittimità. Illegale la scissione con svendita del capitale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 luglio 2018 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 10 luglio 2018 n. 31420. È illegale la scissione societaria parziale, se accompagnata dalla cessione del capitale sociale a prezzo irrisorio e dal trasferimento della rappresentanza legale a un semplice prestanome. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza della Terza sezione penale n. 31420depositata ieri. La Corte ha così confermato la misura del sequestro preventivo disposta, per circa 3 milioni di euro, sui beni personali dell’ex amministratrice di una società accusata di evasione e sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposta. La difesa, tra i motivi di ricorso, aveva valorizzato una recentissima sentenza della stessa cassazione, la n. 10161 del 2018, sostenendo che la mancata presentazione delle dichiarazioni era imputabile solo a titolo di colpa vista l’impossibilità oggettiva di ricostruire le vicende societarie per l’arresto dell’amministratore (per l’accusa un prestanome) e che la scissione era realmente avvenuta e che in assenza di qualsiasi intenzione fraudolenta, perché il programma contrattuale era invece quello di destinare il denaro frutto dell’operazione straordinaria al pagamento dei debiti. Tesi che non è apparsa per nulla convincente alla Cassazione. Che ha invece condiviso la ricostruzione del tribunale del riesame in base alla quale, nel caso esaminato, a differenza del precedente che si intendeva far valere, non è in discussione “solo” la realizzazione di un’operazione straordinaria: alla scissione cioè si è affiancata la cessione del capitale sociale, atti entrambi compiuti, secondo la sequenza cronologica, solo dopo che era sorto il debito tributario della società dalla quale era stato scisso il patrimonio societario con attribuzione a un’altra società. Non regge neppure l’appello al principio per cui in caso di scissione dei debiti tributari rispondono solidalmente tutte le società beneficiarie, visto che la solidarietà è limitata al valore effettivo del patrimonio netto attribuito a ciascuna società beneficiaria Lazio: nelle carceri è emergenza, ma presto in servizio 140 nuovi agenti penitenziari di Antonio De Angelis lecodellitorale.it, 11 luglio 2018 Carceri sovraffollate, personale di Polizia penitenziaria penalizzato, sindacati che continuano a evidenziare condizioni inaccettabili all’interno degli istituti di pena. La situazione nel Lazio è giunta al limite, e anche oltre. Purtroppo all’orizzonte non si intravedono soluzioni capaci di favorire miglioramenti significativi. Per di più il 3 agosto prossimo è il termine ultimo entro il quale il Governo potrà intervenire per approvare la riforma penitenziaria e i giorni a disposizione, come osservano i penalisti, sono ormai davvero pochi. In tutto questo quelle che non mancano ogni giorno sono le notizie di aggressioni e violenze in carcere, tra detenuti e contro gli agenti di Polizia penitenziaria. La cronaca offre un quadro piuttosto preoccupante. Nei giorni scorsi tre agenti penitenziari sono stati aggrediti da un detenuto di origine araba nel carcere romano di Regina Coeli, che, come informa la Fns Cisl Lazio, allo stato attuale risulta occupato da 965 reclusi rispetto ai previsti 619. Non sorprende, quindi, la recente rissa scoppiata al suo interno tra detenuti, costata la frattura di un braccio a un agente e il ferimento di un altro detenuto, finito all’ospedale con un largo taglio alla gola. Nell’istituto penitenziario di Frosinone un detenuto italiano si è barricato nella sua stanza e si è dato fuoco, ma il pronto intervento degli agenti, alcuni dei quali richiamati in servizio dal turno notturno, ha evitato il peggio tagliando la serratura e spegnendo l’incendio causato dallo stesso detenuto, che ha poi aggredito quattro poliziotti mandandoli in ospedale con setto nasale fratturato e contusioni varie. Non sono certo isolati, inoltre, episodi come il sequestro di droga e telefoni cellulari ai reclusi e ai loro familiari, come accaduto il mese scorso presso il primo piano della Terza Sezione della Casa Circondariale di Cassino. Una situazione sempre più tesa e pericolosa, come spiega il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per il quale “ci vorrebbe un’adeguata quantità di personale di Polizia per favorire e promuovere l’osservazione e la rieducazione, garantendo allo stesso tempo l’ordine la sicurezza e la tutela dei poliziotti”. Una delle criticità da risolvere, o quanto meno da affrontare, è proprio questa: “migliorare le condizioni di lavoro del personale, colmando, da un lato, le carenze organiche e dall’altro valorizzando l’operato e la retribuzione economica della polizia penitenziaria”, sottolinea la Fns Cisl Lazio. I 14 Istituti carcerari esistenti nel Lazio (su questo territorio è presente il carcere femminile più grande in Europa) sono insomma al collasso e la situazione è peggiorata durante l’ultimo anno e mezzo. I fattori di crisi sono molti: sovraffollamento; rischio di stress e suicidi; forte presenza di detenuti stranieri; servizio presso le Rems, le Residenze Esecuzione Misure di Sicurezza, cioè quelle strutture ricettive, private, a carattere sanitario, in convenzione con la Regione, che accolgono pazienti con disturbo psichico, autori di reato, ritenuti non dimissibili dagli ospedali psichiatrici giudiziari e che necessitano di cure e di specifici percorsi riabilitativi (esiste un Accordo della Conferenza Unificata del 26 febbraio 2015). Ancora: inadeguatezza delle strutture penitenziarie; mancanza di cancelli automatizzati; assenza di telecamere di sorveglianza per gli spazi comuni; fatiscenza di alcuni edifici. In questo modo viene penalizzata la qualità del lavoro svolto dagli agenti di custodia e la vivibilità complessiva all’interno del carcere, considerando tra l’altro che oltre alla condizione delle strutture l’elemento di criticità al momento più grave e urgente riguarda la gestione delle piante organiche. I numeri chiariscono l’emergenza. Secondo Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, i detenuti continuano a crescere, sono ormai diventati 6.400 e il Lazio è la terza Regione italiana per numero di presenze. “Il tasso di affollamento è del 121%, cinque punti più della media nazionale” precisa e “nonostante i ripetuti sfollamenti Regina Coeli arriva al 155%, ma anche Latina, Civitavecchia, Cassino, Viterbo e Velletri sono in grande sofferenza”. Ma c’è una buona notizia e riguarda proprio la carenza di organico. Il consigliere regionale Pasquale Ciacciarelli (Forza Italia) ha chiesto e ottenuto un incontro nei giorni scorsi con il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Lazio, Abruzzo e Molise, al quale ha rappresentato le problematiche inerenti le carceri del territorio laziale, sottolineando in modo particolare le difficoltà che quotidianamente emergono a causa del ridotto personale attualmente occupato. Il Provveditore, ha riferito Ciacciarelli, “ha preso atto di queste criticità già note agli uffici e ha anticipato l’ingresso di circa 194 unità per le tre Regioni, Lazio, Abruzzo, Molise, di cui 140 circa nel Lazio”. Durante l’incontro si è parlato anche della possibilità di incrementare i posti nelle attuali Rems e “si è pensato di poter creare in un arco di tempo ragionevole delle strutture di medio livello, a metà tra il carcere e le residenze stesse. Sarà il Consiglio regionale ad essere interessato - ha concluso Ciacciarelli - e farò presto una proposta al presidente Zingaretti”. Il consigliere regionale ha infine ricordato che “il 50-60% della popolazione carceraria è straniera, per cui essendo persone senza fissa dimora non si può neanche adottare il discorso degli arresti domiciliari e devono rimanere in carcere. Altro problema da risolvere è la mancanza di disponibilità di braccialetti elettronici”. Nel frattempo i sindacati, riuniti nelle diverse sigle, continuano a manifestare con affollati sit-in nelle varie città che ospitano gli istituti di pena, per denunciare una situazione che si fa ogni giorno più complicata, non più sostenibile. E pericolosa, per l’incolumità degli agenti, che fino ad oggi nel Lazio hanno subito oltre 40 atti di violenza da parte dei detenuti nel corso della vigilanza dinamica. Dalla Regione Lazio, che ha da poco istituito un Osservatorio permanente sulla Sanità Penitenziaria per monitorare la realtà della popolazione carceraria e che nell’ultima legge di Bilancio, su proposta del Movimento 5 Stelle, ha previsto interventi di miglioramento per le carceri per 600mila euro, i rappresentanti sindacali si aspettano molto. E non solo loro. Sardegna: doppi e tripli incarichi ai direttori delle carceri castedduonline.it, 11 luglio 2018 Sdr: “Intervenga il Ministro Bonafede”. “La Sardegna continua a vantare il primato negativo di 4 Direttori penitenziari stabili per 10 Istituti con 2.248 detenuti (757 stranieri) e un numero di Agenti Penitenziari insufficienti. Tutto ciò è scandaloso. Intervenga il Ministro Alfonso Bonafede” a dirlo Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. “La Sardegna continua a vantare il primato negativo di 4 Direttori penitenziari stabili per 10 Istituti. Altri due hanno incarichi temporanei a Tempio Caterina Sergio e a Mamone, Simona Mellozzi, peraltro direttore aggiunto alla Casa Circondariale di Regina Coeli. La situazione, che si protrae da anni, in estate raggiunge un’alta criticità per permettere anche ai Direttori di usufruire delle ferie. Attualmente infatti i ranghi sono ridotti all’osso. In quattro devono gestire dieci Istituti con 2.248 detenuti (757 stranieri) e un numero di Agenti Penitenziari insufficienti. Tutto ciò è scandaloso. Intervenga il Ministro Alfonso Bonafede”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso che in questi giorni hanno iniziato le ferie i direttori di Alghero Elisa Milanesi e di Oristano-Massama Pierluigi Farci. “Il rispetto dei diritti dei lavoratori - sottolinea - non possono ricadere su chi è in servizio. Una mole di lavoro così pesante, con la consapevolezza che prima o poi toccherà a ciascuno, non può non gravare sulla gestione di realtà così complesse come i Penitenziari”. “Quattro anni fa - ricorda - sono stati chiusi gli Istituti gemelli di Macomer e Iglesias con la conseguenza di concentrare i cittadini privati della libertà nei Villaggi Penitenziari di Cagliari-Uta e Sassari-Bancali. La situazione ovviamente è peggiorata perché il Direttore di Cagliari Marco Porcu riveste identico incarico a Lanusei e Isili, quello di Sassari deve occuparsi di Bancali e Badu e Carros. Così 5 Istituti sono sulle spalle di due persone che ovviamente non hanno il dono dell’ubiquità. In questi giorni peraltro era attesa l’assegnazione definitiva degli incarichi invece forse avverrà a settembre. In Sardegna si vuole venire solo per le vacanze ed è lecito pensare che i Direttori con incarichi al Ministero o vice in qualche Istituto capitolino non amino il mare d’inverno”. “È appena il caso di ricordare - precisa ancora la presidente di Sdr - l’importantissimo ruolo del Direttore. Garante delle attività trattamentali e della conoscenza personale dei detenuti. Un lavoro che richiede disponibilità e tempo. Doppi e tripli incarichi rischiano di trasformare il direttore in un burocrate avviluppato nelle carte e nei problemi amministrativi e contabili. In Sardegna questo rischio è reale anche perché mancano i Vice Direttori e il personale penitenziario, compresi gli Educatori, è insufficiente”. “C’è poi un altro aspetto da rimarcare che fa dell’isola una cenerentola. Dal 1989, quasi 20 anni, è assente un Provveditore sardo dell’Amministrazione Penitenziaria. L’ultimo, Francesco Massidda, è andato in pensione nel 2010. Assegnare un incarico di Dirigente Generale a un sardo o a una sarda che conosce il territorio, i colleghi, potenzialità e criticità aprirebbe una nuova fase. Su tutto questo - conclude Caligaris - chiedo al Ministro un atto concreto”. Terni: finalmente lo mandano ai domiciliari, ma le sue condizioni sono gravissime di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 luglio 2018 Ha un piede incancrenito a causa del diabete non curato, una cirrosi epatica e, come se non bastasse, ha saputo di avere due noduli alla gola. Ora è ai domiciliari, ma dopo tre anni che non riusciva più ad alzarsi dal letto della sua cella, nel carcere di Terni. La notte fa fatica a respirare, non dorme, e deve necessariamente affacciarsi al balcone di casa per respirare meglio. Un caso segnalato a Rita Bernardini, coordinatrice della Presidenza del Partito Radicale. Tratto agli arresti fin dal 1999, prima al carcere di Secondigliano che - a detta sua - era assistito giornalmente, poi il trasferimento a Terni e lì sarebbe iniziato il suo calvario. Sarebbe stato curato esclusivamente con forti dose di cortisone per alleviare i suoi dolori lombari. Una denuncia forte, che se fosse confermata, mette in luce la criticità dell’assistenza sanitaria in carcere che avrebbe peggiorato le sue condizioni di salute. Dice che stava malissimo e per attirare l’attenzione degli infermieri, si sarebbe provocato dei tagli. Ma non solo, ha anche tentato di impiccarsi per farla finita e mettere fine alla sua sofferenza. Ora il magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi gli ha concesso i domiciliari per incompatibilità con il carcere, anche per permettersi di curarsi. Nonostante ciò, è difficile ugualmente curarsi, perché a causa della perdita di sensibilità della gamba non può sportarsi per recarsi in ospedale. I tempi di attesa, si sa, sono lunghi e la prima visita sarà a settembre. I domiciliari sono stati concessi per sei mesi, rinnovabili nel caso sussistono le gravi condizioni fisiche. È distrutto il detenuto, sa che ora è difficile curarsi visto le patologie che sarebbero state trascurate in carcere. Ma la denuncia si estende anche agli altri. Dice che il suo ex compagno di cella è in altrettanti gravi condizioni di salute: avrebbe dei problemi alle ossa e ha un grande bisogno di curarsi. Anche lui sarebbe tentato di finirla con la vita. La sofferenza è forte. Saranno gli esponenti del Partito Radicale con Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, a visitare sabato prossimo tutto il carcere per verificare - nel dettaglio - anche l’aspetto sanitario. Ed è proprio la sanità in carcere, una delle criticità maggiori riscontrare nelle patrie galere. Basti pensare che proprio l’altro ieri sono stati rinviati a giudizio tre medici del carcere per il decesso di Agostino Taddeo, 59 anni, avvenuta nell’ottobre del 2016. La vittima stava scontando una condanna a tre anni nel carcere di Benevento, diventata definitiva, che gli era stata inflitta per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Accusava dolori nella zona sinistra del torace ed intercostali che aumentavano con il respiro, il 6 ottobre era stato trasportato in ambulanza al Rummo, dove era stato sottoposto ad alcuni accertamenti e gli era stata praticata un’angioplastica coronarica per un infarto del miocardio. Era stato successivamente trasferito nel reparto di rianimazione, dove, a distanza di alcuni giorni, il suo cuore si era fermato per sempre. La salma era stata sequestrata all’epoca su ordine del pm Iolanda Gaudino, titolare di un’indagine inizialmente contro ignoti. Il medico legale, la dottoressa Monica Fonzo, aveva eseguito l’autopsia, ravvisando elementi di presunta responsabilità a carico dei dottori in servizio presso il carcere e non di quelli del Rummo. Di qui il coinvolgimento dei tre medici della struttura detentiva, chiamati in causa per omicidio colposo. Sono i medici che lo avevano visitato dal 3 al 5 ottobre del 2016. In base a una convenzione con l’Asl, operano presso la casa circondariale di contrada Capodimonte, e, sostiene il sostituto procuratore Miriam Lapalorcia, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio, non avrebbero diagnosticato in tempo, né avrebbero ordinato il suo trasferimento d’urgenza in ospedale, il problema che affliggeva il detenuto. Al di là dell’eventuale responsabilità, questo è uno dei tanti casi di malasanità in carcere. Problema che sarebbe stato risolto, almeno in parte, attraverso una profonda riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma è naufragata nel nulla. Milano: addio a don Melesi, il “prete da galera” che tolse le armi alle Br Paolo Ferrario Avvenire, 11 luglio 2018 Aveva 85 anni. Salesiano, per 30 anni era stato cappellano nel carcere di San Vittore. Collaboratore del cardinale Martini, fondò nel 1967 l’Operazione Mato Grosso. Per tutta la vita si è schierato “dalla parte del colpevole”, don Luigi Melesi, il salesiano “prete da galera” morto oggi a 85 anni, all’ospedale di Lecco. Originario di Cortenova, paesino della Valsassina dov’era nato il 4 gennaio 1933, per trent’anni, dal 1978 al 2008, è stato cappellano del carcere milanese di San Vittore, dove “ha ascoltato, consolato e dato fiducia a donne e uomini senza speranza”, come recita la motivazione con cui, l’Università Pontificia Salesiana di Roma, gli conferì nel 2013 la laurea Honoris causa in Scienze della comunicazione sociale. Stretto collaboratore del cardinale Carlo Maria Martini, di cui era consigliere ascoltato, don Luigi convinse i brigatisti rossi a consegnare le armi all’arcivescovo di Milano, sventando così nuovi attentati. La sua esperienza “dietro le sbarre” è stata raccontata da Silvio Valota nel libro “Prete da galera”, in cui don Luigi ricorda i tanti incontri in carcere, da Vallanzasca a Gabriele Cagliari, suicida negli anni di Tangentopoli, ai molti volti sconosciuti, di cui svela l’umanità nascosta dietro vicende drammatiche. “Una persona, per diventare buona, deve sentirsi amata”, ripeteva don Luigi che, nel 1967, insieme a don Ugo De Censi, creò l’Operazione Mato Grosso, movimento impegnato per il Terzo Mondo sulla linea della Populorum progressio. “Non è possibile aiutare una persona a cambiare la sua vita in meglio, se non ci si mette dalla sua parte, se non si prende a carico la sua vita e la sua storia”, era il programma di questo prete degli ultimi. Che in tanti saluteranno per l’ultima volta giovedì mattina nella chiesa di Sant’Agostino, a Milano e poi, nel pomeriggio, a Cortenova. Firenze: Sollicciano, il diritto alla privacy vale anche in carcere di Grazia Zuffa Il Manifesto, 11 luglio 2018 Il 28 giugno scorso, il Tribunale Civile di Roma ha posto fine alla controversia fra l’Amministrazione Penitenziaria e il carcere di Firenze da una parte, e l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali dall’altra, dando ragione a quest’ultima. Materia del contendere era il provvedimento che il Garante, nell’ottobre 2015, ha emesso contro il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e la direzione del carcere, ritenendo che questi avessero violato le norme di tutela dei dati sensibili, a danno delle donne detenute nel carcere di Sollicciano. Ricostruiamo l’episodio nei particolari. Nell’ottobre 2014, a seguito della morte di una detenuta per overdose nell’istituto fiorentino, la direzione decideva di sottoporre tutte le altre detenute all’esame di liquidi biologici per accertare l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti. Scopo dei test di massa era di procedere a sanzioni disciplinari nei confronti di chi fosse risultata positiva. Il che puntualmente avvenne, perché alle “positive” furono inflitti quindici giorni di isolamento e alcune furono trasferite in carceri lontano da Firenze. La prima violazione riguarda il consenso al prelievo, le modalità anomale con cui è stato ottenuto e la non corretta informazione circa la finalità del test. L’articolo13 del Codice in materia di protezione di dati personali prevede infatti l’obbligo di fornire all’interessata un’informativa completa sul prelievo (se obbligatorio o facoltativo) e sulle conseguenze in caso di rifiuto. È risultato che il modulo di consenso era assolutamente inidoneo. Alle donne fu detto che i test sarebbero serviti per le indagini giudiziarie sulla morte della detenuta, non per sottoporle a sanzioni disciplinari. Queste peraltro non sarebbero state comunque legittime, poiché, altra contestazione del Garante, non esiste una norma che permetta il trattamento di dati sensibili a scopo di sanzioni disciplinari. Altra circostanza di rilievo. La vicenda è stata sollevata dal Garante dei diritti dei detenuti della Toscana. Questi, saputo del fatto, mentre si stavano eseguendo gli esami clinici, avvertiva le autorità sanitarie di comunicare al carcere i risultati solo in anonimato, in modo da rispettare la riservatezza di legge. Raccomandazione disattesa, come si è visto: da qui la segnalazione del Garante dei detenuti al Garante della Privacy. Le giustificazioni addotte dal carcere sono assai istruttive. Per la direzione di Sollicciano, la situazione gravissima “poteva essere fronteggiata esclusivamente individuando gli utilizzatori di sostanza stupefacente”. Quanto all’informativa carente, supplirebbe “la consegna all’atto dell’ingresso della legge sull’Ordinamento Penitenziario” e “la pubblicazione sul sito web del Ministero” del Regolamento. Infine, il trattamento di dati sensibili a fini punitivi farebbe parte del trattamento socioriabilitativo del detenuto/a. Tralasciando l’originale (e arrogante) tesi secondo cui i detenuti dovrebbero andare a leggersi le norme che li riguardano su internet (cui non hanno accesso); e lasciando da parte che nessuna delle norme citate dalla direzione, su internet o meno, autorizza ciò che è stato fatto, rimane la questione dell’emergenza per la droga. Ma perché si è preferito sottoporre le donne ai prelievi invece di procedere all’immediata perquisizione delle celle, per scongiurare il pericolo di eventuale altra sostanza pericolosa? Perché, con ogni evidenza, non si voleva tanto prevenire altre overdosi, quanto punire chi aveva consumato. Quanto all’attività socioriabilitativa invocata, siamo sicuri che punizioni irrogate calpestando i diritti delle persone servano a rieducare al rispetto della legge? Traendo una morale da questa importante sentenza: molto c’è da vigilare sui diritti dei detenuti e le autorità garanti svolgono un compito di controllo prezioso. Opera (Mi): detenuti “postini” per accelerare comunicazioni con avvocati e familiari di Francesco Floris Redattore Sociale, 11 luglio 2018 Nel carcere di Opera un detenuto in articolo 21 porta la corrispondenza nell’ufficio messo a disposizione dell’associazione “In Opera” dentro l’Abbazia di Mirasole. Qui scannerizza, stampa e attende le risposte di familiari da portare “dietro le mura” in giornata. Nurzia (Progetto Arca): “Aspettavano anche 22 giorni per le risposte”. Un ufficio, scanner e stampanti e un contratto che prevede il pagamento di 20 centesimi a pagina. È bastato poco, per far partire il 9 luglio le prime “lettere dal carcere” dei detenuti di Opera, che raggiungeranno il mondo esterno in meno di 24 ore: 300 i reclusi di media sicurezza del carcere milanese sono stati coinvolti nel servizio di posta prioritaria - come si sarebbe detto una volta - chiamato “Pre-paid Fast Telegram Servizio Opera e-mail”. Un progetto per i detenuti, pensato dai detenuti. L’idea è nata dai soci dell’associazione “In Opera”, quasi tutti carcerati, che assieme al “Progetto Mirasole Impresa Sociale” hanno messo a disposizione una sorta di ufficio postale dentro l’Abbazia di Mirasole, nelle vicinanze del carcere. Come funziona? “Il detenuto scrive a mano la sua lettere, in qualsiasi lingua o alfabeto, e la imbuca nelle cassette che sono state installate in ogni reparto entro le ore 17”, spiega Giovanna Musco, Presidente dell’Associazione “In Opera”. Al pomeriggio le lettere vengono raccolte dalla polizia penitenziaria e portate all’ufficio interno della struttura “dove due reclusi tengono conto del numero di persone e di pagine” dice Musco. Al mattino successivo sarà compito di “un detenuto in regime articolo 21 - l’articolo dell’ordinamento penitenziario che regola il lavoro all’esterno del carcere - prendere la posta e portarla all’ufficio di Mirasole” dove “scannerrizza le lettere, le manda al destinatario indicato e rimane in attesa di eventuali risposte da riportare indietro in giornata”. È lui il “postino” per tutti i suoi compagni dietro le mura. Il progetto è nato per “accelerare comunicazioni con avvocati e familiari” racconta la Presidente di “In Opera”, un vantaggio di cui potranno usufruire “i detenuti di media sicurezza, a cui verrà controllato l’imballaggio della posta e i destinatari” ma non “gli scritti e il contenuto che come da Costituzione rimangono privati”. Per Laura Nurzia, vicepresidente di Fondazione Progetto Arca, la onlus che si è aggiudicata l’Abbazia di Mirasole tramite bando e ha messo a disposizione dell’impresa sociale la struttura, “i detenuti che mandavano una lettera potevano aspettare anche fino a 22 gironi prima di ricevere la risposta”. Perché loro “scrivono, scrivono tanto e possono esserci fino a 2mila corrispondenze a settimana ma le tempistiche del carcere e delle poste sono state un limite alla velocità di comunicazione”. Secondo la vice presidente di Arca tra le notizie positive del progetto c’è anche la possibilità di “mantenere inalterata al grafia grazie agli scanner” e ricevere non solo “lettere e atti giudiziari che hanno una valenza effettiva nel velocizzare processi per la riabilitazione con avvocati e assistenti sociali” ma anche “foto in entrata: questa sarà per loro una splendida notizia”. “Contro le fake news servono nuove regole e buon giornalismo” di Giulia Merlo Il Dubbio, 11 luglio 2018 La relazione al Parlamento del Garante per la privacy, Antonello Soro. Il web è una risorsa, ma bisogna imparare a difendersi dai suoi pericoli nascosti, considerando che nel solo mese di maggio gli attacchi informatici in Italia hanno toccato la soglia di 140 al giorno. Il Garante della privacy, Antonello Soro, ha lanciato il suo allarme in occasione della presentazione della Relazione dell’attività svolta dalla sua Authority nel 2017: “In un mondo dove tutto di noi sarà sempre più connesso, saremo sempre più vulnerabili, perché ogni oggetto con cui veniamo a contatto può diventare il canale di accesso per un attacco informatico, per una violazione della nostra persona”, e ancora “Le straordinarie potenzialità delle nuove tecnologie esigono uno statuto di regole capace di restituire alla persona quella centralità altrimenti negata dall’economia fondata sullo sfruttamento dei dati: materia prima di un nuovo capitalismo estrattivo alimentato da frammenti, spesso delicatissimi, della nostra vita”. Tra i rischi del web che minano alla vita democratica dei Paesi, il garante ha elencato anche le fake news. “Nella società disintermediata ciascuno diviene al tempo stesso fruitore e produttore di informazione, con un indubbio potenziamento della libertà di espressione ma con il rischio, per converso, di una generale sottovalutazione dell’importanza dell’attendibilità delle notizie diffuse, della loro qualità, esattezza, correttezza”, ha ragionato Soro, evidenziando come a fare le spese di questa informazione distorta “sono spesso i bersagli dell’hate speech o di campagne diffamatorie, scelti generalmente quali capri espiatori in ragione di proprie vulnerabilità”. Per difendersi da questo, le armi sono due: un sistema dei media che sia attento e la protezione dei dati personali. “Il buon giornalismo è la ricetta migliore per contrastare le fake news e il ruolo del giornalista si carica ulteriormente di responsabilità nel fornire un’informazione corretta e rispettosa dei diritti altrui: un faro da seguire per orientarsi tra le post- verità. La protezione dati deve rappresentare, in questo senso, uno dei criteri regolativi essenziali per l’attività giornalistica: il necessario complemento di un’informazione tanto libera e indipendente, quanto rispettosa della dignità della persona”, ha spiegato il Garante. Soro ha poi sottolineato come i governi abbiano troppo a lungo sottovalutato i rischi del web, permettendo di fatto la nascita di oligopoli online: “In un regime privo di regolamentazione, i grandi gestori delle piattaforme del web hanno scritto le regole, promuovendo un processo inarrestabile di acquisizioni e concentrazioni”. Per questo, “l’assunzione da parte dell’Unione europea di un unico quadro normativo in tema di protezione dati è una scelta densa di conseguenze politiche, che proietta l’Unione su una linea di avanguardia. Il nuovo quadro giuridico europeo ha, infatti, il merito di porre al centro dell’agenda politica le implicazioni del digitale sulla libertà, l’autodeterminazione, l’identità: definita, questa, sempre più a partire dalle caratteristiche che altri - nel nome del primato degli algoritmi ci attribuiscono, scrivendo per noi la nostra storia”. Sul fronte italiano, il Garante si è espresso anche sul tema del decreto di riforma delle intercettazioni approvato nella passata legislatura: “Contiene innovazioni importanti, limitando, sotto il controllo del pubblico ministero, l’ingresso nel fascicolo processuale di conversazioni irrilevanti, così rafforzando le garanzie di riservatezza soprattutto dei terzi, nel rispetto del contraddittorio e senza per questo indebolire i poteri investigativi”. Per questo, l’auspicio è che il nuovo governo “non abbandoni i principi fondanti di una riforma che contribuisce a coniugare privacy ed esigenze di giustizia”. La maggioranza degli europei vuole la rimozione delle testate atomiche di Francesco Vignarca Il Manifesto, 11 luglio 2018 Un sondaggio in quattro paesi che ospitano armi degli Usa. In Italia, 31mila cartoline per il disarmo nucleare. Coinvolti anche molti Enti locali. Si apre oggi il vertice Nato che, dopo le pressioni di Trump, andrà probabilmente ad aumentare le spese militari dell’Alleanza, ma che non modificherà il carattere “nucleare” del proprio dispiegamento di forze. Eppure sempre più emerge tra i cittadini europei un netto rifiuto delle armi nucleari, e la richiesta forte di un cambio di rotta (anche in Italia). Lo dimostrano le iniziative per il primo anniversario del Trattato di Proibizione delle armi nucleari (Tpnw): votato all’Onu nel 2017 e che dopo dodici mesi è già ad un livello di ratifiche (11) e firme (59) più alto di norme simili (registrando un forte impatto in particolare con la decisione di banche e fondi sovrani di primo piano di chiudere i propri finanziamenti ai produttori di armi nucleari). Proprio ad un anno dal voto sul Trattato la campagna Senzatomica e la Rete Italiana per il Disarmo (partner nel nostro paese della campagna Ican, Nobel per la Pace nel 2017) hanno portato davanti alle sedi di governo e Parlamento le oltre 31mila cartoline della mobilitazione “Italia, ripensaci” con la richiesta di un’adesione anche da parte del nostro Paese, firmate dai cittadini in poche settimane. “L’esperienza delle cartoline è stata per noi molto interessante: c’è una posizione chiara della popolazione - ha commentato don Albino Bizzotto, Presidente di “Beati i costruttori di pace” associazione che ha coordinato la raccolta -, inoltre le mozioni votate nei Consigli Comunali sono state quasi tutte approvate all’unanimità perché contro le bombe nucleari le nostre comunità sono unite”. Sono ormai almeno 150 gli Enti Locali che hanno approvato documenti a sostegno del Trattato di proibizione delle armi nucleari: tra di essi le città di Torino, Padova, Milano, Ivrea, Bergamo, Cagliari, Cervia, Alba, Faenza e Senigallia oltre al Consiglio Regionale del Piemonte e alla Provincia di Brescia nella quale oltre 40 Comuni hanno promosso iniziative congiunte. Il Trattato Tpnw è nato dal riconoscimento che le armi nucleari rappresentano un rischio umanitario inaccettabile: una detonazione su una città causerebbe una devastazione ben oltre la nostra capacità di far fronte agli impatti sui civili. Alla mobilitazione per il suo ottenimento hanno dunque partecipato anche entità umanitarie come la Croce Rossa e Mezzaluna Rossa internazionale. “Questo è il motivo per cui non ci fermeremo finché il mondo non sarà privo di armi nucleari” sottolinea Beatrice Fihn, direttrice esecutiva di Ican. Una posizione maggioritaria come dimostrano i risultati di un sondaggio di opinione in quattro Paesi Ue che ospitano armi nucleari Usa: Belgio, Olanda, Germania e Italia. Per ognuno di essi la grande maggioranza degli intervistati si è detta favorevole alla rimozione delle testate nucleari dal proprio territorio (almeno il doppio di chi le vuole) e d’accordo con l’ipotesi che il proprio Stato firmi il Trattato che le vieta completamente (circa quattro volte in più rispetto a chi pensa non si debba firmare). In Italia, ben il 72% si è detto favorevole all’adesione al Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari con un sostegno molto alto nei partiti della coalizione di Governo (75% degli elettori M5S, 70% di quelli della Lega) ed altissimo tra i partiti di centro-sinistra (82% nel Pd, 87% in LeU), ma robusto anche nell’elettorato di centro-destra (63% in Forza Italia e 64% in Fratelli d’Italia). All’eliminazione dal nostro territorio delle circa 50 testate nucleari presenti a Ghedi ed Aviano dicono “sì” il 65% degli italiani, con un forte consenso trasversale a tutte le fasce d’età e molto alto tra gli elettori M5S (75%) e LeU (77%) e un comunque alto sostegno anche nell’elettorato del Pd (60%) e della Lega (62%). Per il 78% alle istituzioni finanziarie italiane dovrebbe essere impedito di investire in società coinvolte nella produzione delle armi nucleari e per un significativo 59% i cacciabombardieri attualmente in acquisizione (i famosi F-35) non dovrebbero essere dotati della “doppia capacità” anche nucleare. Nei giorni scorsi Rete Disarmo e Senzatomica hanno inviato una formale richiesta di incontro al Presidente del Consiglio Conte e al Ministro degli Esteri Moavero Milanesi per discutere del Trattato di messa al bando delle armi nucleari da parte del nostro Paese, senza purtroppo ricevere ancora risposta. Che però ora dovrebbero dare alla maggioranza degli italiani. Migranti. Ong preoccupate da circolare di Salvini: “la protezione umanitaria è un diritto” La Repubblica, 11 luglio 2018 Una lettera-appello contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini e la sua politica di chiusura dei porti ai migranti. L’hanno scritta le principali ong e associazioni umanitarie, preoccupate dalla circolare del vicepremier indirizzata ai prefetti in cui impone una stretta sul diritto d’asilo e sulla protezione umanitaria. E così le organizzazioni A Buon Diritto, Acli, Action Aid, Amnesty International, Arci, Asgi, Casa dei Diritti Sociali, Caritas Italiana, Centro Astalli, Cnca, Emergency, Federazione Chiese Evangeliche Italiane, Médecins du Monde Missione Italia, Medici per i Diritti Umani, Medici Senza Frontiere, Oxfam Italia e Senza Confine del Tavolo Asilo hanno preso carta e penna per esprimere la propria apprensione. “La protezione umanitaria, prima ancora di costituire forma residuale di tutela rispetto alla protezione internazionale - ricordano le associazioni in una lunga lettera - è un istituto giuridico a sé, in cui è la stessa legge che prevede il suo riconoscimento in presenza di seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. È un diritto, pertanto”. In un altro passaggio le organizzazioni ricordano che “attualmente la protezione umanitaria viene anche accordata a un numero crescente di persone che hanno subito violenze e torture in Libia e per questo si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità fisica e mentale. Nonostante le sorprendenti dichiarazioni di alcuni giorni fa a opera dello stesso Ministro dell’Interno, la situazione in Libia resta gravissima ed è confermata da UNHCR, che sta infatti portando avanti con difficoltà un piano di evacuazione di rifugiati vulnerabili detenuti in Libia da un tempo indefinito, in condizioni deplorevoli, vittime di sistematiche violazioni dei diritti umani”. Infine le ong ricordano che “la protezione umanitaria ha consentito di affermare in maniera chiara che vi sono diritti che l’Italia riconosce a tutte le persone, indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla lingua, dalla religione, dal credo politico. Diritti che valgono sempre e comunque e che trovano la loro fonte nella Costituzione italiana e nelle norme internazionali. Non si può infine ignorare che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, bel lungi dal creare insicurezza e mancata integrazione, contribuisce in misura sostanziale a rendere possibili percorsi di legalità e di inclusione, unica vera garanzia per la sicurezza delle comunità”. Salvini chiude i porti, Toninelli li apre. Sui migranti nuovo scontro Lega-M5s di Leo Lancari Il Manifesto, 11 luglio 2018 Sbarcheranno in Italia i 66 migrati salvati dalla Vos Thalassa. “Motivi di ordine pubblico”. I migranti si erano ribellati per paura di tornare in Libia. A salvare la situazione la Guardia costiera. ISalvini nega l’approdo ad una nave italiana e per la prima volta Toninelli decide di aprire i porti nonostante la decisione contraria del collega di governo. Sui migranti è di nuovo crisi tra Lega e M5S. Questa volta ad accendere lo scontro sono i 66 migranti tratti in salvo domenica dal rimorchiatore italiano Vos Thalassa e che avevano tentato un presunto ammutinamento alla vista di una motovedetta libica che si stava avvicinando alla nave. La situazione si è risolta solo quando, dopo aver ricevuto la richiesta di aiuto da parte del comandante del rimorchiatore, la nave Diciotti della Guardia costiera italiana si è avvicinata e ha preso a bordo i migranti. Superata positivamente e senza danni per nessuno l’emergenza in mare, si è però aperto lo scontro politico. Toninelli - dal quale la Guardia costiera dipende - decide di far sbarcare i migranti in modo anche di permettere l’apertura di un’inchiesta su quanto avvenuto a bordo del rimorchiatore. Dal Viminale però, che lunedì sera aveva annunciato di non voler far approdare la Vos Thalassa, per tutto il giorno non arriva nessuna indicazione sul porto prescelto nonostante la cosa riguardi ormai la Diciotti e non più il rimorchiatore. E niente arriva fino a ieri sera, quando la Diciotti si trovava ornai a poche miglia dalle coste italiane. Per ore tra Toninelli e Salvini va avanti uno scontro silenzioso ma palpabile, che si materializza nella riunione convocato dal premier Conte a palazzo Chigi per discutere del vertice dei ministri degli Interni che si apre domani a Innsbrick ma dalla quale, guarda caso, manca proprio il titolare del Viminale. “Ci siamo chiariti”, prova a gettare acqua sul fuoco Toninelli all’uscita da Palazzo Chigi. “Salvini pensava che fossimo di fronte all’ennesimo salvataggio, io gli ho spiegato che era un intervento di ordine pubblico perché c’erano state delle minaccia di morte all’equipaggio” della nave battente il tricolore. Chiarimento o no, la situazione non cambia. Non è la prima volta che il rimorchiatore Vos Thalassa - che presta servizio alla piattaforme petrolifere che si trovano ai limiti delle acque internazionali, interviene in soccorso di barconi in difficoltà, ma in passato tutto è sempre filato liscio anche perché nel Mediterraneo non c’erano ancora le motovedette di Tripoli e perché nessuno minacciava di chiudere i porti alle navi che prestavano soccorso ai migranti come avviene oggi. Domenica scorsa il Von Thalassa ha avvistato un barchino in procinto di affondare in acque internazionali. A comporre il gruppo di 66 migranti tra i quali anche tre donne e sei bambini. A determinare l’ammunitamento è stata molto probabilmente la paura di essere riportati dalla Guardia costiera libica nei campi di detenzione del Paese nordafricano, paura che ha portato il gruppo di migranti a minacciare l’equipaggio della Vos Thalassa. In serata un ghanese e un sudanese sono stati individuati come due tra gli autori della rivolta.”In quali di questi paesi c’è guerra?”, ha chiesto ieri Salvini polemizzando sulla nazionalità delle persone tratte in salvo. Migranti. Minacce a bordo, sos, mail: così i ministri si dividono sul ruolo delle motovedette di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 11 luglio 2018 Sono le comunicazioni “bordo-terra” tra la nave Vos Thalassa e la Guardia costiera italiana a raccontare che cosa è accaduto marcando la distanza tra il ministro dell’Interno Matteo Salvini e quello delle Infrastrutture Danilo Toninelli su come intervenire per i 67 migranti recuperati al largo della Libia che viaggiano adesso verso le nostre coste. Una traversata che fino alla tarda serata di ieri aveva ancora una meta ignota visto che il Viminale non ha comunicato il porto di sbarco. Il salvataggio notturno - A mezzanotte di lunedì i migranti sono a bordo del rimorchiatore che li ha soccorsi nelle acque antistanti la Libia. Dal centro di Roma viene intimato di portarli verso Tripoli dove saranno recuperati da una motovedetta della guardia costiera locale. Dalla Vos Thalassa arriva il primo messaggio per chiedere aiuto. “Alle 22 la nave è partita per il punto di incontro con la motovedetta libica. Alle 23 circa qualcuno dei migranti in possesso di telefoni e Gps ha accertato che la nave dirigeva verso sud. I migranti in gran numero dirigevano verso il marinaio di guardia chiedendo spiegazioni in modo molto agitato e chiedendo di poter parlare con il comandante. Lo stesso, impaurito e accerchiato, contattava il ponte via Vhf. I migranti hanno accerchiato a questo punto l’ufficiale chiedendo spiegazioni e manifestando un forte disappunto, spintonando lo stesso e minacciandolo. In questa situazione di pericolo il primo ufficiale cercava di calmare le persone dicendogli che a breve saremmo tornati indietro... Una volta informato il comandante e l’ufficio la nave ha invertito la rotta. Il primo ufficiale tornava in coperta per rassicurare i migranti che nuovamente lo accerchiavano e lo spintonavano. Le loro richieste risultano chiare ad un possibile intervento libico ci sarebbe stata una reazione non certo pacifica. Per tranquillizzare la situazione abbiamo dovuto affermare che verrà una motovedetta italiana”. La nave libica - Dalle Infrastrutture viene avvisato il Viminale, Salvini fa sapere che non autorizzerà lo sbarco della Vos Thalassa “perché ha anticipato l’intervento dei libici che erano già stati allertati”. Alle 14.41 di lunedì arriva una nuova richiesta di aiuto: “La situazione sta degenerando a bordo. Le persone danno segni di agitazione chiedendo insistentemente quando verranno recuperati. Da parte nostra richiediamo una tempestiva soluzione a questa situazione che potrebbe degenerare ancora”. Non accade nulla, tre ore dopo c’è un nuovo sos di un manager della società che scrive alla Guardia costiera: “Siamo seriamente preoccupati per l’incolumità del nostro equipaggio e della nostra nave. Il Vos Thalassa ha salvato la vita di 66 persone (anche se la versione ufficiale parla di 67, ndr) circa 24 ore fa e non ha ancora ricevuto alcuna assistenza. Pochi minuti fa è arrivata una motovedetta libica incaricata di riportare i migranti in Libia. È evidente che appena i migranti se ne renderanno conto reagiranno in malo modo. La Diciotti è a 45 miglia nautiche. Vi chiediamo di coordinarvi con la Guardia costiera libica e ritardare il trasferimento per consentire alla Diciotti di arrivare in modo che le operazioni di trasbordo potranno avvenire in sicurezza. Non possiamo permetterci di mettere a repentaglio la vita del nostro equipaggio che ha il diritto sacrosanto di tornare a casa dalle proprie famiglie”. Le versioni dei ministri - Toninelli autorizza la Diciotti, nave della Guardia costiera, a prendere i migranti a bordo “per motivi di ordine pubblico”. Salvini è contrario, ribadisce a Toninelli che “la Guardia costiera italiana non può sostituirsi a quella libica”. Informa il premier Giuseppe Conte e l’altro vice Luigi Di Maio. “I responsabili delle minacce di morte all’equipaggio dell’imbarcazione Vos Thalassa saranno fermati e arrestati”, chiarisce Toninelli. Intanto la Diciotti affianca la Vos Thalassa, viene effettuato il trasbordo. Alle 16 di ieri il Viminale rende nota la nazionalità dei 66 migranti. Sono Pakistan, Marocco, Algeria, Bangladesh, Ciad, Egitto, Ghana, Libia, Nepal, Palestina, Sudan e Yemen. “In quale di questi Paesi c’è la guerra?”, chiede Salvini con un tweet. Nella stessa nota si specifica che “i due accusati di essere facinorosi, sono un ghanese e un sudanese”, per sottolineare che non esisteva un reale pericolo. “Digiuno di giustizia” in marcia a Roma. “Disobbedienza civile, basta tacere” di Luca Kocci Il Manifesto, 11 luglio 2018 Solidarietà con i migranti da San Pietro a Montecitorio. In piazza con Alex Zanotelli, mons. Nogaro, don Santoro, suor Rita Giaretta, Giorgio Ghezzi. “Non possiamo accettare in silenzio queste politiche contro i migranti che sono un insulto alla civiltà e all’umanità. Ecco perché siamo qui”. Così il missionario comboniano Alex Zanotelli spiega il senso del “Digiuno di giustizia in solidarietà con i migranti”, promosso insieme all’ex vescovo di Caserta Raffaele Nogaro, a don Alessandro Santoro della Comunità delle Piagge di Firenze, a suor Rita Giaretta delle orsoline di Casa Ruth di Caserta (che lavorano con le donne vittime di tratta e di sfruttamento sessuale) e al sacramentino Giorgio Ghezzi di Castel Volturno. Alle sue spalle c’è il cupolone e piazza San Pietro, attraversata dai turisti incuriositi da quello che sta succedendo. Una cinquantina di persone fra cui diversi religiose e religiosi - non tantissime, ma non erano attesi i grandi numeri - in cerchio oltre le transenne che delimitano il colonnato del Bernini (ordine della polizia) attorno ad una lampada accesa inviata dai francescani di Assisi, assenti ma aderenti all’iniziativa. Arrivano gli scout di Caserta che aprono lo striscione (“Digiuno di giustizia”). “Digiuniamo perché il digiuno è uno degli strumenti della resistenza nonviolenta”, aggiunge Zanotelli, “contestiamo gli slogan “America first” o “Prima gli italiani”, c’è spazio per tutti”. “È un tentativo di risvegliare le coscienze dei cristiani, e non solo”, spiega Santoro, “c’è un silenzio che spaventa, invece ci vorrebbe un tuono che lo spezzi e denunci queste politiche”. Il piccolo corteo si muove lungo via della Conciliazione, “scortato” da qualche agente in borghese: non si sa mai ci sia qualche pericoloso sovversivo infiltrato! Ci sono diverse suore (comboniane, orsoline, di santa Giovanna Antida Thouret), alcuni religiosi, aderenti alla Comunità di base di San Paolo (che in questi giorni ricorda Giovanni Franzoni ad un anno dalla morte) e alla Rete Radié Resch, c’è Vauro. “Nel Mediterraneo e nel Sahara si sta consumando un olocausto, fra l’indifferenza, la complicità e a volte anche il consenso di molti - ci dice Vauro - un crimine contro l’umanità che bisogna denunciare e combattere, cattolici e uomini e donne di sinistra insieme, mettendo da parte differenze e distinzioni”. Si supera il Tevere, si cammina - sul marciapiede - lungo corso Vittorio Emanuele, fino a piazza Navona. Di fronte a Palazzo Madama gli scout provano ad aprire lo striscione, subito fermati dai solerti rappresentanti delle forze dell’ordine: “Non si può, è vietato!”. Si arriva a piazza Montecitorio dove si forma il piccolo presidio, questo autorizzato. Don Santoro legge l’appello: “Sono oltre 34mila le vittime accertate perite nel Mediterraneo per le politiche restrittive della Fortezza Europa”, “è il naufragio dei migranti, dei poveri, dei disperati, ma è anche il naufragio dell’Europa che rifiuta chi bussa alla sua porta” e dell’Italia che “decide di non accogliere, di chiudere i porti”, “è il sangue degli impoveriti, degli ultimi che interpella tutti noi, in particolare noi cristiani che saremo giudicati su: ero straniero e non mi avete accolto”. Suor Gabiella Bottani, comboniana, coordinatrice della rete mondiale delle religiose contro la tratta: “La chiusura delle frontiere è motivata con l’obiettivo di combattere la tratta. Invece la alimenta, perché lasciando donne e uomini nell’irregolarità si favoriscono le organizzazioni criminali che li sfruttano”. Il presidente di Pax Christi, monsignor Giovanni Ricchiuti, telefona e comunica l’adesione di Pax Christi. Uno dei promotori, monsignor Nogaro (assente per ragioni di salute) spiega al manifesto: “Abbandonare i migranti in mare è un abuso di umanità che questo governo sta compiendo, bisogna organizzare una disobbedienza civile, non si può più tacere”. In serata il presidio si scioglie. Oggi si riprende con il digiuno a staffetta, a cui hanno aderito in molti. “I rappresentanti del governo - dice Santoro - hanno giurato sulla Costituzione della Repubblica ma il giorno dopo, con i respingimenti, hanno violato quel giuramento. Sarebbe bello se il ministro Salvini venisse qui in piazza a confrontarsi con noi”. Salvini, però, non si è fatto vedere. Siria. A migliaia di famiglie la notizia dei parenti deceduti in carcere Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2018 Tutti morti per un improvviso arresto cardiaco. Migliaia di famiglie siriane, secondo i media locali all’opposizione, stanno ricevendo in queste ore, da parte delle autorità di Damasco, la notizia del decesso dei propri familiari detenuti nelle carceri governative. Ai parenti sarebbe stato chiesto, semplicemente, di registrare il decesso all’anagrafe, ma non sarebbe stato fornito loro alcun rapporto medico legale o certificato di morte ufficiale. Secondo le organizzazioni per i diritti dei prigionieri, si tratterebbe di una scusa adottata dal regime per coprire le torture micidiali che sta perpetuando nei confronti dei detenuti. Le vittime, secondo queste fonti, sarebbero tra le 200mila e le 300mila. Tra loro anche migliaia di donne e bambini di cui si sono perse le tracce. Sui loro corpi, secondo le denunce di ex detenuti, sarebbero state inferte violenze brutali, che ovviamente il regime di Bashar Assad ha negato. Continua invece l’esodo di migliaia di civili nella regione di Qunaytra a ridosso delle Alture del Golan controllate da Israele. La migrazione ha coinvolto circa 10mila civili siriani che si sono visti costretti ad abbondare le proprie case al confine con la Giordania e intraprendere l’esodo da sud verso nord. Gli sfollati, tra cui numerose donne e bambini, si aggiungono alle decine di migliaia di civili siriani fuggiti da metà giugno durante l’offensiva governativa nella vicina regione di Daraa, stretta nelle ultime ore nella morsa dell’offensiva governativa e russa contro miliziani anti-regime. Cina. Liu Xia libera, un successo per Merkel nella difesa dei diritti umani di Paolo Valentino Corriere della Sera, 11 luglio 2018 Era da un anno, dopo la morte per un tumore di Liu Xiaobo nel luglio 2017, che la cancelliera conduceva l’azione diplomatica per far liberare la vedova, con quel misto di discrezione e insistenza che sono la sua cifra. Nostra Signora del Mondo Libero è ancora in grado di fare la differenza. Abbiamo visto Angela Merkel uscire provata dallo scontro interno con i suoi alleati bavaresi sui respingimenti dei rifugiati. La cancelliera ha evitato di misura la crisi di governo, ma solo grazie a un accordo fragile e ambiguo, rattoppo destinato a lacerarsi alla prima occasione. Di più, l’Europa è dovuta intervenire in suo soccorso, sia pure tra molte reticenze e qualche defezione. Perfino l’eliminazione ai Mondiali di Russia della nazionale di calcio tedesca, pilastro portante della narrazione merkeliana, ha rafforzato la percezione di una cancelliera indebolita e in declino. Eppure, è un successo suo e della diplomazia berlinese la liberazione di Liu Xia, poetessa e vedova del dissidente cinese e premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo, che dopo otto anni di arresti domiciliari ha potuto lasciare la Cina alla volta di Berlino, dov’è atterrata ieri sera. “Grazie Germania, grazie cancelliera Merkel”, sono state le prime parole di Liu Xia al suo arrivo nella capitale tedesca. Era da un anno, dopo la morte per un tumore di Liu Xiaobo nel luglio 2017, che Merkel conduceva l’azione diplomatica per far liberare la vedova, con quel misto di discrezione e insistenza che sono la sua cifra. A più riprese, nelle visite in Cina o nei vertici internazionali, Merkel ha sollevato il caso di Liu Xia sia con il leader Xi Jinping che con il suo primo ministro, Li Keqiang. Il colloquio decisivo è stato con quest’ultimo, lunedì 9 luglio a Berlino, in occasione delle consultazioni bilaterali sino-tedesche. Nell’Occidente in cerca d’autore, orfano della leadership americana, Angela Merkel si assume il ruolo di “defensor fidei”, nel senso dei valori di libertà, democrazia e diritti fondamentali che ne sono il nocciolo. Molto più di Emmanuel Macron e della sua bulimia retorica, la cancelliera difende il patrimonio del mondo libero con sobrietà ed efficacia. Sarà anche sul viale del tramonto, ma è il meglio su cui possiamo contare. Venezuela. Rivolta detenuti carcere Helicoide, chiedono incontro con procuratore generale Nova, 11 luglio 2018 Un gruppo di circa un centinaio di prigionieri del carcere Helicoide di Caracas (Venezuela) ha preso possesso dell’edificio per chiedere alle autorità il rispetto delle garanzie processuali e delle tutele personali. L’Helicoide, sede del Servizio bolivariano dell’intelligence nazionale (Sebin), era stato già occupato dai carcerati nel mese di maggio. Come in quell’occasione, gli ammutinati denunciano condizioni indegne di detenzione e, in molti casi, il fatto che cittadini si trovino dietro le sbarre nonostante sia stato emanato da tempo un ordine di scarcerazione a loro favore. In uno dei video più ritrasmessi sui media e sui social network, l’ex agente di polizia Fred Mavares, denuncia condizioni inumane di detenzione, torture reiterate ai danni di diversi carcerati ed esibisce l’ordine di scarcerazione firmato dalla giustizia quasi due anni fa. Secondo alcuni deputati, ci sono detenuti che attendono da quasi due mesi di poter comunicare con i propri familiari o i legali. Gli ammutinati chiedono di poter parlare direttamente col procuratore generale, unica istanza da loro riconosciuta per poter ottenere i diritti che ritengono garantiti dalla Costituzione. Un’analoga insurrezione si era prodotta a metà maggio. Per tre giorni i detenuti avevano sollevato le stesse rimostranze ottenendo l’apertura di una trattativa che avrebbe riportato la situazione alla “normalità”, spiegava il procuratore generale Tarek William Saab. Il magistrato ha anche assicurato che nell’Helicoide non ci sono minori di età e che non si stavano consumando violazioni ai diritti umani. La rivolta nel carcere della capitale, diffusa attraverso una serie di video comparsi sui social network, aveva per principali protagonisti gli esponenti politici in condizioni di arresto. La situazione, spiegava Saab, è stata affrontata con l’apertura di un “tavolo di lavoro inter istituzionale” tra il pubblico ministero e le autorità del sistema penitenziario, con l’appoggio del Tribunale superiore di giustizia (Tsj). Si è deciso così il trasferimento di 72 “detenuti comuni” in altre carceri del paese, condizione - aveva fatto sapere l’organizzazione non governativa Foro penal venezuelano - che era parte del negoziato in atto tra i detenuti e le autorità. Nicaragua. Paramilitari picchiano in chiesa il cardinale Brenes, il nunzio e un vescovo di Salvatore Cernuzio La Stampa, 11 luglio 2018 Strattonati, picchiati, feriti, minacciati di morte. Insultati con parole come “vermi” e “traditori”. È quanto è capitato nel primo pomeriggio di ieri, in Nicaragua, al cardinale Leopoldo Brenes, arcivescovo di Managua, al suo ausiliare, monsignor José Silvio Báez, e al nunzio apostolico Waldemar Stanislaw Sommertag, nella basilica di San Sebastián, a Diriamba, città a 41 km a ovest della capitale (nel dipartimento di Carazo), oggetto di forti scontri negli ultimi due giorni. Un episodio gravissimo che rende evidente l’acuirsi di una crisi che attanaglia il Paese centroamericano dallo scorso 19 aprile e che fino ad oggi ha provocato 309 morti in seguito alla repressione violenta delle forze filo-governative contro le manifestazioni dei civili (i dati sono dell’Associazione del Nicaragua per i diritti umani). A denunciare l’accaduto è stato lo stesso monsignor Báez sul suo account Twitter dove ha pubblicato una foto del taglio sul braccio destro insieme al post: “Assediati da una folla che voleva entrare nella basilica di San Sebastián a Diriamba, sono stato ferito, picchiato nello stomaco, mi hanno strappato le insegne episcopali e aggredito verbalmente. Sto bene, grazie a Dio. La basilica è stata liberata e anche coloro che erano lì”. Brenes e i due prelati, accompagnati da altri sacerdoti e da un gruppo di giornalisti, si erano recati a Diriamba con un pullmino - come già avevano fatto qualche settimana fa alla città di Masay - per portare aiuto e conforto alla popolazione che da due giorni e due notti vive nel terrore per gli scontri e le violenze. In tanti si erano rifugiati nella chiesa di san Bartolomeo, assediata da giorni. Lì erano diretti il cardinale e i due vescovi prima di essere bloccati a San Sebastián, dove si era rifugiato un gruppo di francescani “accusati” di aver cercato di curare dei feriti. La polizia e i gruppi paramilitari (le cosiddette “Turbas” che si presentano come neo rivoluzionari) hanno circondato la basilica, poco dopo - ha riferito chi era presente - un gruppo di uomini con il volto coperto da una maschera nera ha fatto irruzione nella chiesa iniziando a picchiare chiunque si trovasse davanti. Inclusi i tre prelati, strattonati e aggrediti fisicamente e verbalmente con epiteti come: “Vermi al servizio dell’imperialismo”, “agenti di Trump”, “traditori della patria”. A molti giornalisti sono state distrutte fotocamere, smartphone e telecamere, ad un prete è stato anche rubato il cellulare. La basilica è stata in gran parte devastata. “Un attacco ripudiabile e codardo” lo ha definito il cardinale Brenes, anche presidente della Conferenza episcopale, che, tornato a Managua dopo l’assalto, ancora ferito e sconvolto, si è recato insieme a Báez in cattedrale per raccogliersi in preghiera. Il porporato si è detto in ogni caso “contento degli insulti, delle mie debolezze, di quanto ho sofferto, delle persecuzioni subite, perché sono quelle sofferte da Cristo”. Il 30 giugno scorso il cardinale e il vescovo erano venuti a Roma, in occasione del Concistoro, e avevano incontrato privatamente Papa Francesco a Santa Marta per aggiornarlo sul dramma socio-politico che vive da mesi la nazione e che lo stesso Brenes ha definito “peggiore” di quella vissuta nelle due guerre avvenute in passato. “Allora morirono più di 50 mila persone per mano di persone armate. Un gruppo armato contro un altro gruppo armato. In questo caso, no”, è stata uccisa “gente che camminava per strada senza una pistola o qualcuno dietro una barricata, magari con un mortaio”, ha denunciato il cardinale. La situazione è precipitata nell’ultimo weekend dopo che la Conferenza episcopale del Nicaragua, il 7 giugno, aveva consegnato personalmente al presidente Daniel Ortega una lettera per proporgli l’anticipo delle elezioni al prossimo marzo. Da ricordare che gli stessi vescovi nicaraguensi hanno assunto, per volere delle parti, il ruolo di mediatori nel “Tavolo per il dialogo” fra governo sandinista di ispirazione marxista e società civile che chiede le dimissioni del capo di Stato (al potere già da dodici anni, dopo aver cambiato la costituzione per abolire il limite dei due mandati) a causa della riforma delle pensioni che prevedeva l’aumento dei contributi e assegni pensionistici molto più ridotti rispetto al passato. A seguito dell’escalation di violenze le sedute del tavolo negoziale sono state, tuttavia, sospese ufficialmente, come riferito dai media locali. La risposta del presidente comandante alla proposta dei vescovi è stato un “no” sprezzante perché - ha detto - chiedere elezioni anticipate è “golpismo”, e ha fatto seguire a questa sua dichiarazione una serie di insulti contro i pastori ripresi da quasi tutti i media ufficiali e sui social dove i rappresentanti ecclesiastici vengono definiti ormai dei “terroristi”. Da quell’episodio in poi si sono verificati episodi di violenza contro oppositori e dimostranti. Quasi “una caccia”, come scrive il quotidiano Avvenire, che si è concentrata in particolare nelle città di Diriamba, Dolores e Jinotepe nella regione del Carazo, dove - ed è sempre l’Associazione nicaraguense dei diritti umani a denunciarlo - oltre ai 14 morti registrati, sembra che ci siano state anche delle esecuzioni extragiudiziali. Non vanno dimenticate poi le decine di dimostranti arrestati e trasferiti nel carcere bunker di El Chipote a Managua, e tutti coloro che risultano desaparecidos. Inoltre, poco dopo l’aggressione contro il cardinal Brenes e monsignor Baez, un’altra chiesa è stata attaccata e saccheggiata da militanti pro-governativi a Jinotepe Papa Francesco - aveva confermato il cardinale Brenes dopo la visita di fine giugno - segue il “caso” Nicaragua con attenzione e preoccupazione. Già a inizio maggio, alle prime avvisaglie della crisi, Bergoglio aveva preso carta e penna per scrivere a Ortega e incitarlo a scegliere la via della pace, affermando che: “Non è mai troppo tardi per il perdono e la riconciliazione”. Poi nell’Angelus di due domeniche fa, mentre nella piazza centrale della capitale Managua, Plaza de las Victorias, sfilavano migliaia di persone per la cosiddetta “Marcia dei Fiori” in memoria dei venti bambini e adolescenti rimasti uccisi durante le proteste, il Papa era tornato a lanciare un appello per “l’amato popolo del Nicaragua” assicurando di unirsi “agli sforzi dei vescovi e all’impegno di quanti esercitano un ruolo di mediazione e testimonianza nel processo di riconciliazione nazionale”. Ancor prima, il 3 giugno, sempre durante un Angelus, Francesco, in riferimento al Nicaragua, affermava che: “La Chiesa è sempre per il dialogo”; esso, però, “richiede l’impegno fattivo a rispettare la libertà e prima di tutto la vita”. Un impegno che, attualmente, sembra mancare.