Nelle prigioni italiane ci sono troppi malati di Claudia Osmetti Libero, 10 luglio 2018 Cinquemila detenuti con l’Hiv, 6mila con l’epatite B, 30mila con l’epatite C, addirittura 42mila con disturbi mentali. E gli istituti di vena non sono attrezzati. Non c’è mica solo Marcello Dell’Utri. Per l’ex senatore di Forza Italia le porte del carcere di Rebibbia si sono (finalmente) aperte: 77 anni, una malattia oncologica e una patologia cardiaca gli hanno permesso di accedere ai domiciliari qualche giorno fa. Chiariamo subito: è una bella notizia. Non perché si tratta dello storico braccio destro di Silvio Berlusconi, ma perché si tratta di un essere umano. Malato, per giunta. E quindi “incompatibile con la vita penitenziaria”. Già. Ma quanti Marcello Dell’Utri ci sono nelle galere tricolori? Ogni anno, dietro le sbarre dello Stivale, muoiono più di cento persone. Persone, in questo caso, non delinquenti: a causa di un infarto, di un malanno che non è stato curato troppo bene, di un deperimento fisico che è la direna conseguenza di un male cronico gestito non nel migliore dei modi. Lo mette nero su bianco un report di Ristretti Orizzonti, il sito che da anni monitora quello che avviene dentro le celle italiane. E la fotografia è davvero impietosa: due detenuti su tre dovrebbero trovarsi in ospedale, non in carcere. Molti di loro non sanno nemmeno di essere malati, il 77% della popolazione carceraria attualmente al gabbio potrebbe soffrire di disturbi mentali. Il sovraffollamento non è il solo problema sulla scrivania del neo guardasigilli Alfonso Bonafede (M5S), pure l’aspetto sanitario rischia di tramutarsi in una bella gatta da pelare. Tanto per cominciare ci sono le infezioni: 5mila prigionieri hanno l’Hiv, 6.500 l’epatite B, 30mila (30mila!) l’epatite C. La metà degli stranieri che stanno scontando una pena (e sono il 34% del totale) è alle prese con la tubercolosi. Basterebbe un minimo di umanità. Che non significa necessariamente resettare la fedina penale e perdonare l’imperdonabile. Ma non chiudere gli occhi di fronte alla sofferenza altrui, anche a quella di un “delinquente”. Dell’Utri è solo il caso più eclatante, la punta di un iceberg sommerso che non ha la fortuna di finire sui giornali e nei tg nazionali. Cancro, leucemia, diabete, epilessia. Per un Dell’Utri che ce l’ha fatta (ribadiamo: per fortuna) c’è un Daniele Zoppi che nel 2014 è morto nella casa circondariale di Montacuto (Alessandria) con una cartella clinica che avrebbe dovuto mandarlo dritto dritto in ambulatorio. Altroché. Tre ernie al disco, una stenosi lombare, disturbi vari legati all’obesità non gli hanno garantito il trasferimento in una struttura sanitaria. Ed è morto circondato dai secondini. Loro, intendiamoci, fanno quel che possono: è il sistema che lascia impietriti. Lo certificano, tra l’altro, pure la Simspe (la Società italiana di medicina penitenziaria) e la Sip (la Società italiana di psichiatria). A sentire Francesco Ceraudo, presidente dell’Associazione medici penitenziari recentemente chiamato in causa dal quotidiano Il Tempo, c’è davvero da mettersi le mani nei capelli: “Con i tagli alle risorse e la diminuzione del personale che è già insufficiente di suo”, spiega il professore, “non è più possibile garantire al detenuto quel diritto alla salute sancito dalla Costituzione”. Non è un vanto di un Paese civile. Il 17% dei detenuti in Italia combatte contro una malattia osteoarticolare, il 16% una cardiovascolare, l’11% ha problemi metabolici, il 10% dermatologici. Lo stato corporativo e la politica evanescente di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 10 luglio 2018 Il “governo del cambiamento” è un governo della continuità e le ideologie dominanti stanno esasperando certi tratti della nostra tradizione. Le poche settimane di vita del governo 5 Stelle/Lega bastano a confermare che nelle società complesse l’alternativa alla democrazia rappresentativa non è la democrazia diretta. L’alternativa (però instabile, come si dirà poi) è invece lo Stato corporativo, lo Stato dominato da alcune (poche) potenti corporazioni. Nulla di nuovo, in realtà. Lo Stato corporativo appartiene alla nostra storia. La sua forza e la sua presenza sono maggiori in certe fasi e minori in altre. Si manifesta con la maggiore intensità quando le classi politiche parlamentari, fulcro e baricentro della democrazia rappresentativa, sono, per qualsivoglia ragione, deboli, fragili, delegittimate. Da questo punto di vista, l’attuale “governo del cambiamento” è un governo della continuità. Solo che la perdurante debolezza della classe politica parlamentare, unita alle ideologie dominanti fra coloro che nominalmente controllano l’esecutivo, sta esasperando certi tratti della nostra tradizione. Non c’è novità, per esempio, nel fatto che, come già mostrano le prime mosse del governo, la scuola continui (è sempre stato così), ad essere “appaltata” ai sindacati. Così come non è novità il fatto che il ministero della Giustizia sia sotto il controllo della magistratura ordinaria (un controllo che, di sicuro, non può essere scalfito dalle contingenti polemiche di un sottosegretario leghista). È stato così anche in altre fasi. Però l’ideologia giudiziaria dei governanti (i 5 Stelle ma anche i leghisti quando non sono sotto inchiesta) ci mette sopra un carico da novanta, ne incoraggia le tendenze più integraliste, le meno sensibili di tutte alla questione dei diritti individuali di libertà. Ancora: bisognerà aspettare che giunga a termine l’iter del nostro spoil system, che il ciclo di nomine governative nei vari rami si esaurisca per farsene un’idea definitiva, ma già ora si può dire che il “potere di governo” dell’alta burocrazia e delle magistrature amministrative non sarà minimamente intaccato. Una certa novità arriva con il “decreto Dignità”. Esso è frutto di una visione anti-impresa e ostile al libero mercato che accomuna buona parte del governo e della maggioranza alle correnti dominanti (è lecito definirle veterocomuniste?) della Cgil. L’ottimo ministro dell’economia Giovanni Tria serve al Paese. Ha il compito di rassicurare (per quel che è possibile) sulla tenuta dei nostri conti, soprattutto bloccando le pensate più pazze (“basta con l’euro” e simili). Ma, a quanto pare, è l’alleanza governo/Cgil (a meno che in Parlamento non si verifichino clamorosi, ma improbabili, voltafaccia) a dominare l’agenda economica. Le corporazioni usano il linguaggio del “bene comune”: la tutela dei lavoratori, la dignità della scuola, la difesa della legalità, la buona amministrazione. Ma è la loro volontà di potenza a prevalere. Quando le classi politiche parlamentari sono forti (ossia, quando la democrazia rappresentativa gode di buona salute), esse riescono a tenere a bada le suddette corporazioni. Ciò che viene ingenuamente chiamato “perseguimento del bene comune” altro non è che l’attività di mediazione fra interessi (e fra sensibilità ideologiche) differenti, e della loro aggregazione in una qualche sintesi più o meno unitaria, svolta da una classe politica espressa da elettorati eterogenei e compositi. È questa attività di mediazione e di sintesi - possibile solo in presenza di classi politiche forti e legittimate - che permette di mantenere un qualche equilibrio fra gli interessi delle corporazioni più potenti e gli interessi degli altri gruppi. Essa può, ad esempio, assicurare che nei processi educativi le esigenze degli insegnanti, rappresentati dai sindacati, non prevalgano sulle esigenze degli utenti del servizio. O, ancora, che il legittimo interesse pubblico al perseguimento dei reati sia bilanciato dall’uguale interesse pubblico alla tutela delle garanzie personali, delle libertà individuali. O che l’interesse all’auto-riproduzione dell’alta burocrazia non entri in conflitto con la necessaria efficienza amministrativa. O che ci sia equilibrio fra le richieste sindacali e le esigenze delle imprese. Non è questo il caso italiano. Lo Stato corporativo è un composto instabile. Nel nostro tempo, esso non può sbarazzarsi del tutto della democrazia rappresentativa. La sostanza è corporativa ma il guscio è democratico. Alle corporazioni farebbe comodo una divisione del lavoro in base alla quale la “polpa” (degli interessi) spetti alle corporazioni medesime mentre i “ragazzi”, i politici rappresentativi, si baloccano con i simboli. Ma la cosa non funziona così. Per varie ragioni. In primo luogo perché i simboli non sono inoffensivi: la politica simbolica incide sulla realtà e provoca reazioni. Ad esempio, il (debole) politico rappresentativo può dire no alle grandi infrastrutture oppure ai vaccini obbligatori perché si tratta di mosse ad alto contenuto simbolico, mosse che mandano in brodo di giuggiole certi segmenti del suo elettorato. Ma non può pretendere che ciò non susciti le reazioni rabbiose dei tanti che si sanno colpiti e danneggiati. In secondo luogo, perché, mancando una regia unica, non c’è verso di bloccare la naturale, endemica, conflittualità che oppone i vari protagonisti: lo Stato democratico-corporativo assomiglia al saloon di un vecchio western ove, periodicamente, scoppiano risse furibonde (come ora quella fra certi settori della magistratura e il ministro Matteo Salvini). In terzo luogo, e soprattutto, perché lo Stato corporativo, per la formazione culturale e gli interessi dei suoi protagonisti, può gestire, accompagnare e favorire il declino economico di un Paese ma non può rilanciarne lo sviluppo. C’è incompatibilità fra lo Stato corporativo e la parte economicamente più dinamica d’Italia. Non possono non entrare in rotta di collisione. Estrarre a sorte i nomi dei senatori come propone Beppe Grillo? Uno vale uno? Le corporazioni che più ci guadagnano quando la politica è evanescente, applaudono di sicuro. Csm, boom di affluenza: circa il 90%: tre napoletani in corsa per il plenum di Gigi Di Fiore Il Mattino, 10 luglio 2018 C’è stato un record di affluenza. I magistrati italiani sono corsi in massa a votare i propri rappresentanti al Csm che dovrà restare in carica fino al 2022. Erano 9500 gli aventi diritto al voto, in quasi tutti i distretti di corte d’appello sono andati alle urne il 90 per cento. A Napoli, ad esempio, hanno votato 520 su 579 magistrati, a Roma 837 su 936, a Milano 433 su 505, a Firenze 159 su 177. Quattro anni fa, andò alle urne l’85 per cento. Terminate le votazioni, che si sono tenute tra domenica e ieri, in settimana si conosceranno i 16 eletti tra i 21 candidati. Nel riassestamento tra le correnti, da Napoli i candidati sono stati tre. Per Unicost, la corrente di centro, il candidato è Michele Ciambellini, giudice al tribunale di Napoli. Vomerese, componente del comitato direttivo dell’Anm, faceva parte della squadra di pallavolo Fides allenata da Giancarlo Siani. E nei suoi interventi ha più volte ricordato il giornalista del Mattino ucciso dalla camorra, suo allenatore fino al 1984. Altro giudice in servizio al tribunale di Napoli è Mario Suriano, candidato di Area, la corrente unita di sinistra, già nel comitato direttivo nazionale dell’Anm e proveniente dal Movimento per la giustizia. Chiude la terna Ilaria Pepe, consigliere alla corte d’appello di Napoli, candidata di Autonomia e indipendenza, corrente nata da una scissione a destra di Magistratura indipendente. Anche Ilaria Pepe ha fatto parte del direttivo dell’Anm ed è confluita nella corrente fondata da Piercamillo Davigo, che a sua volta si candida al Csm per un posto riservato ai giudici di Cassazione. Con Ilaria Pepe, sono in tutto sei le donne candidate. Tra i nomi di spicco in queste elezioni, oltre a Davigo che è stato componente del pool Mani pulite oltre che presidente dell’Anm ed ha fatto l’en plein nelle primarie, c’è anche Giuseppe Cascini, procuratore aggiunto a Roma e già segretario dell’Anni, candidato di Area. Cascini è stato uno dei titolari dell’inchiesta Mafia capitale. Altro procuratore aggiunto, ma a Catania, a candidarsi è Sebastiano Ardita ritenuto il numero due di Autonomia e indipendenza. Queste elezioni si sono tenute con il sistema elettorale di quattro anni fa. La riforma proposta dall’ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, non è mai arrivata all’approvazione. E, a urne chiuse, quasi cento magistrati hanno firmato un appello “per la liberazione del Csm dalle correnti”, chiedendo il sorteggio per selezionare i candidati alle elezioni dei 16 togati e l’abolizione dell’immunità per i consiglieri. L’iniziativa è partita dal giudice Andrea Mirenda, che aveva parlato, in un libro-intervista, di “metodi mafiosi” seguiti dal Csm. A firmare l’appello anche Carla Raineri, giudice alla corte d’appello di Milano e per un mese capo di gabinetto a Roma del sindaco Virginia Raggi. Eco-reati, un’emergenza che richiede una svolta politica di Stefano Ciafani* Il Manifesto, 10 luglio 2018 Un problema diventa emergenza se lo confermano i numeri. È questo il discrimine tra il reale e il percepito. I numeri del Rapporto Ecomafia ci dicono che la lotta all’illegalità ambientale deve diventare priorità della politica nazionale. Non è così per il fenomeno delle migrazioni che riguardano il nostro paese perché i numeri dicono l’esatto opposto. Con buona pace di chi da mesi lancia proclami e mette in campo politiche disumane su questo fronte, facendolo sembrare l’unica priorità per l’Italia. La fotografia scattata quest’anno col nostro Rapporto annuale sulla criminalità ambientale si presta a due chiavi di lettura. Da una parte abbiamo la consacrazione definitiva della legge 68 sugli eco-reati che dal maggio 2015 ha finalmente introdotto i delitti ambientali nel Codice penale, dopo 21 anni di lavoro della nostra associazione. Dall’altra emerge con altrettanta chiarezza che serve completare la rivoluzione messa in campo tre anni fa con la legge sugli eco-reati, prevedendo altri delitti da aggiungere a quelli di inquinamento, disastro ambientale e omessa bonifica, lavorare anche per contrastare il fenomeno dilagante e indisturbato dell’abusivismo edilizio. Grazie alla legge sugli eco-reati nel 2017 c’è stato il record di arresti per crimini contro l’ambiente e il numero di indagini sui traffici illegali di rifiuti messi in campo da organizzazioni criminali ha subito un’impennata clamorosa. La legge 68 del 2015 sta funzionando, e anche molto bene, e questo va sottolineato visto che abbiamo dovuto difenderla in più occasioni, addirittura ancor prima della sua approvazione definitiva. Insomma avevamo ragione noi quando sostenevamo che con questa norma sarebbe finita la pacchia per gli inquinatori seriali. I numeri delle forze di polizia, del ministero della Giustizia sulle attività di procure e tribunali e quelli del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente ce lo confermano. Ora è arrivato il momento di approvare leggi contro i ladri di futuro. Serve formare tutti i magistrati e le forze di polizia sulla legge sugli eco-reati ma servono anche alcuni aggiustamenti, come la rimozione della clausola di invarianza per la spesa pubblica (ridurre l’illegalità ambientale fa diminuire i costi della bonifiche e le spese sanitarie) o l’emanazione dei decreti attuativi della legge sulle Agenzie regionali protezione ambiente. È fondamentale approvare i delitti contro fauna e flora protette, le agro-mafie e i trafficanti di beni culturali e reperti archeologici. Serve una svolta nella lotta all’abusivismo edilizio, tema orfano in politica, con una centralizzazione delle competenze allo Stato che attraverso le Prefetture dovrebbe fare le demolizioni che oggi pochi sindaci fanno, liberando dal ricatto elettorale. Vanno infine istituite al più presto la Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e quella sull’uccisione della giornalista Ilaria Alpi e del cineoperatore Miran Hrovatin. Sappiamo di poter contare sulla competenza del ministro dell’ambiente Sergio Costa e lavoreremo per la costruzione di maggioranze trasversali per approvare altre leggi ambientali di iniziativa parlamentare come è avvenuto nella scorsa legislatura. La rivoluzione è iniziata ma va completata, per tutelare definitivamente l’ambiente, la salute delle persone e l’attività di tante aziende rispettose della legge. Noi anche stavolta non faremo mancare il nostro contributo in tal senso. *L’autore è il Presidente nazionale di Legambiente Misure di prevenzione a perimetro temporale certo di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2018 Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, sentenza 30974/18 del 9 luglio 2018. Le misure di prevenzione patrimoniale legate alla “pericolosità generica” possono essere applicate solo nello “spazio temporale” delimitato dal giudice e adeguatamente motivato, In sostanza, nei periodi in cui non è provato il ricorso a “espedienti” per sbarcare il lunario da parte del proposto alla misura, il giudice non potrà invertire l’onere della prova scaricandolo sul soggetto raggiunto dal sequestro. La Seconda penale della Cassazione (sentenza 30974/18) torna sulle misure del Codice antimafia (Dlgs 159/2011) per sottolineare la differenza di trattamento tra pericolosità generica (che richiede una più incisiva perimetrazione della prova) e pericolosità “qualificata” che consente un’applicazione più estesa delle misure antimafia. Anche per quest’ultima, tuttavia, il provvedimento ablativo dovrà dimostrare con chiarezza se la pericolosità caratterizza “l’intero percorso esistenziale” del candidato o solo una parte più o meno prolungata della sua “carriera”. Ma quanto alla prima (la “generica”) il criterio, scrive la Seconda penale, deve essere rigoroso e rigorosamente delimitato nel tempo. Per questo motivo la Corte ha respinto il ricorso del Pg contro la revoca del sequestro di prevenzione applicato a un soggetto che per una dozzina d’anni aveva interrotto la sua vita sul filo della legalità- e spesso oltre. La Cassazione nella sentenza ripercorre tutti i passaggi di sdoganamento giurisprudenziale della normativa di prevenzione (dalla Corte Costituzionale alla Cedu, passando anche per il caso Grande Stevens), rimarcando anche i limiti dell’accertamento di specie. Dato per assodato che qui non si tratta di punire fatti illeciti (che integrerebbero reati) ma solo di prevedere ragionevolmente uno stile di vita non adeguato ai canoni comuni (a cominciare dall’assenza di reddito) il giudice potrà utilizzare anche indizi penali, con il solo limite della intervenuta negazione dell’esistenza del fatto proprio in sede penale. La prova del tributario non vale automaticamente nel penale di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2018 Corte di Cassazione, Terza Sezione penale, sentenza 30874/18 del 9 luglio 2018. Per la dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti occorre dimostrare la consapevolezza del contribuente alla partecipazione della frode del fornitore. A tal fine, però, le risultanze tributarie sono mere prove valutabili dal giudice penale. A precisarlo è la Corte di cassazione con la sentenza n. 30874 depositata ieri. Il rappresentante di una società veniva condannato nei gradi di merito per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. L’imputato ricorreva così in Cassazione. Tra i diversi motivi, la difesa evidenziava l’assenza di dolo poiché trattandosi di fatture soggettivamente inesistenti, l’operazione era realmente avvenuta e pertanto mancava la consapevolezza di partecipare ad una frode. La Suprema corte sul punto ha ricordato che ai fini della sussistenza del reato assume rilievo anche l’inesistenza soggettiva delle operazioni che si ha quando la prestazione c’è stata, ma tra soggetti diversi rispetto a quelli indicati nelle fatture. Secondo la giurisprudenza di legittimità (Cassazione 19012/2015) per le operazioni soggettivamente inesistenti, il dolo è ravvisabile nella consapevolezza del contribuente (ossia l’utilizzatore del documento) che chi ha emesso la fattura non ha effettivamente eseguito la prestazione. Si tratta infatti di un soggetto che si è limitato a fatturare il corrispettivo per trarne un illegittimo vantaggio fiscale, non versando alcuna somma a titolo di imposte. La Cassazione in proposito ha precisato che il principio di diritto tributario, per il quale incombe sull’erario l’onere di provare che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento della detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore, non può trasfondersi automaticamente in sede penale, poiché si tratta di procedimenti autonomi. È infatti il giudice penale che, in base agli elementi di fatto oggetto di libera valutazione ai fini probatori, deve accertare la configurabilità di eventuali illeciti. Nella specie, la consapevolezza dell’imputato era stata ravvisata in molteplici documenti dai quali emergeva l’esistenza di accordi privi di valide ragioni economiche e più verosimilmente compatibili con la compartecipazione alla frode. Per tali ragioni, quindi, il giudice di merito aveva confermato la condanna dell’imputato, non ritenendo sussistesse la non coscienza invocata dalla difesa. La decisione appare importante poiché evidenzia che per la responsabilità penale del contribuente che ha ricevuto fatture soggettivamente inesistenti è necessaria la prova, non presuntiva, della sua consapevole partecipazione all’illecito. Milano: Ipm Beccaria, l’allarme di don Rigoldi “rischia di scapparci il morto” di Zita Dazzi La Repubblica, 10 luglio 2018 Dopo l’incendio appiccato dai detenuti del carcere minorile milanese: “Situazione esplosiva, intervenga il ministero”. “Sono molto preoccupato, molto. La situazione al Beccaria è al limiti e nessuno fa niente. Non so se bisogna aspettare che ci scappi il morto, perché il ministero si muova “. Don Gino Rigoldi, da 40 anni cappellano al carcere minorile Beccaria, non è uno che parla a vanvera e se usa queste parole, non lo fa certo a caso. Era all’istituto di prevenzione e pena di via dei Calchi Taeggi sabato, prima che i ragazzi dessero fuoco a coperte e materassi. L’ennesima rivolta, l’ultimo episodio di protesta per le condizioni in cui versa la struttura, che da 15 anni è senza un direttore e da otto in mezzo è un cantiere con gli spazi ridotti, le transenne, i lavori che sembrano non finire mai e quest’impressione di precarietà perenne. “Lì dentro c’è il caos - dice il sacerdote. Eppure le guardie sono brave, giovani, motivate. Fanno il possibile per far funzionare tutto, così come gli educatori e i volontari. C’è un lavoro di squadra ma tutto è vanificato da questa sensazione di abbandono da parte dello Stato e del governo”. Lui li conosce bene due dei ragazzi che l’altra sera si sono fatti prendere dalla rabbia e hanno dato il via alla rivolta, con l’incendio appiccato nelle celle al secondo piano. Cinque detenuti e tre agenti sono finiti in ospedale e il giorno dopo la tensione è ancora alta. “Non rimarrà un fatto isolato, un’esplosione di rabbia una tantum: lì dentro c’è un malcontento grave che affligge tutti gli ospiti. I posti sono solo 25, mentre in passato erano sempre tra i 60 e i 100, un fabbisogno minimo per una città come questa”. Per ogni nuovo ingresso di giovani imputati, quelli più “anziani” tremano, perché potrebbero dover lasciare il letto ai nuovi arrivati e finire in qualche carcere del sud Italia. “Questo rischio di essere spostati come se fossero figli di nessuno li fa sentire ancora più abbandonati, a rischio di perdere ogni legame. È per questo che sono così arrabbiati e che basta un niente per farli scattare. Io spero che il ministero faccia qualcosa prima che ci scappi davvero il morto”. Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, sindacato della polizia penitenziaria, conferma la “gravissima emergenza” e racconta che sabato pomeriggio c’è stato il panico perché c’erano sei intossicati da portare in ospedale ma mancavano gli agenti di scorta per i soliti problemi di organico, tanto che sono stati chiamati rinforzi da San Vittore. “Il clima nel carcere minorile resta tesissimo - continua Beneduci. Gli organici di polizia penitenziaria sono in perenne carenza”. Gli ultimi scontri risalgono al febbraio scorso, quando un agente rimase ferito in una due giorni di proteste e tafferugli. Incendi di coperte e materassi ci sono stati anche in ottobre e nel luglio dell’anno scorso, e prima ancora a gennaio 2017. Uno stillicidio di proteste sempre più violente e disperate. “ Lo ripeto e spero di non essere profeta di sventura - dice don Gino al termine di una lunghissima giornata -. Basta promesse non mantenute. Se non si vuole alimentare questo clima di delusione e di rabbia, serve un intervento urgente sulla struttura e la nomina di un direttore motivato e presente. Prima che succeda una tragedia”. Parma: Garante dei detenuti, pubblicato l’avviso pubblico per presentare le candidature di Cristiano Antonino rossoparma.com, 10 luglio 2018 Il Comune di Parma cerca un nuovo Garante dei detenuti. Il ruolo, di recente istituzione su tutto il suolo nazionale, è stato ricoperto in una prima fase da Roberto Cavalieri, e ora deve passare di mano. Il punto oggetto di riflessione ha riguardato essenzialmente una funzione simile ricoperta dallo stesso Cavalieri, che è anche coordinatore dello Sportello informativo e di mediazione linguistico-culturale all’interno degli Istituti Penitenziari di via Burla. Lo Sportello offre “informazioni alla popolazione detenuta rispetto a realtà sociali, economiche, lavorative, scolastiche, formative presenti sul territorio”, “ai detenuti stranieri una risposta adeguata alle molteplici difficoltà quotidianamente incontrate nella comprensione della lingua e della cultura italiana attraverso la mediazione linguistico-culturale e la traduzione di documenti di rilievo per la vita detentiva” e altro. Il Garante, invece, “ è un organo di garanzia che, in ambito penitenziario, svolge funzioni di tutela delle persone private o limitate della libertà personale, raccoglie e valuta le possibili segnalazioni sottoposte alla sua attenzione relative a violazioni di diritti delle persone private della libertà. Esso si attiva, pertanto, quando viene segnalata una situazione che comporti la compressione di un diritto o il suo mancato esercizio, intervenendo presso le istituzioni competenti al fine di sollecitare ogni utile intervento”. Va da sé che, in via del tutto teorica, una persona detenuta potrebbe sentire violato un proprio diritto anche rispetto all’attenzione ricevuta dallo Sportello, e che quindi sia incongruo che i due ruoli siano ricoperti dalla stessa persona. È uno scenario ipotetico, ma non per questo indegno di attenzione. Oltre a ciò ci sono anche altre motivazioni di carattere tecnico. Così ecco che il Comune di Parma, terminato il “rodaggio” dell’innovazione, ha pubblicato con la determina dirigenziale 1703 (integrata dalla 1705 “per mero errore materiale”), a firma Giovanna Marelli l’avviso pubblico per la presentazione delle candidature “per la nomina a garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Parma”. La carica dura, da Regolamento, 5 anni e prevede una sola rielezione. Le candidature devono pervenire all’Ufficio Protocollo del Duc entro le ore 12 del 27 luglio 2018, dopodiché verranno vagliate dai Consiglieri comunali in Commissione Welfare e messe al voto in Consiglio comunale. Se foste interessati è bene sapere che “eventuali informazioni relative all’avviso e al fac-simile di domanda possono essere richieste alla Responsabile del procedimento Dott.ssa Maria Giovanna Marelli, Dirigente del Settore Sociale, email: g.marelli@comune.parma.it”, come recita l’allegato all’atto dirigenziale. Bologna: alla Dozza il caldo è infernale, neanche un ventilatore per i detenuti di Noemi di Leonardo bolognatoday.it, 10 luglio 2018 Usano secchi pieni di acqua per immergere i piedi o si bagnano con pezze umide, gli agenti hanno solo un ventilatore. Anche una bimba di 3 anni reclusa con la madre. Il Sinappe: “situazione inumana”. “Nulla è cambiato rispetto all’anno scorso” né per i detenuti né per gli agenti del carcere della Dozza. A denunciarlo Nicola D’Amore del sindacato dei penitenziari Sinappe che si associa a quanto segnalato dal Garante dei detenuti del Comune di Bologna, Antonio Ianniello. “La struttura carceraria è in cemento e la sera nelle celle chiuse si vede la sofferenza - continua il delegato Sinappe, interpellato da Bologna Today - i detenuti utilizzano recipienti pieni di acqua per immergere i piedi o si bagnano la fronte con pezze umide. Era stata fatta richiesta di ventilatori a batteria, ma senza esito. Per gli agenti non va meglio, almeno noi un ventilatore l’abbiamo, anche se era stato chiesto un condizionatore per l’ufficio, l’amministrazione carceraria ci ha risposto che tutto è allo studio, uno studio mai terminato a quanto pare”. “Diverse modulazioni degli orari di permanenza all’aria aperta per le persone detenute, evitando le ore più calde; previsione di menù giornalieri che contemplino alimenti consigliati durante la stagione estiva; agevolazione dell’utilizzo di frigoriferi nei reparti detentivi; apertura della porta blindata delle celle durante l’orario notturno per far circolare l’aria; previsione dell’acquisto di ventilatori a pile che, pare possano offrire refrigerio durante il caldo più feroce”, questi gli interventi suggeriti dal Garante che spera nell’amministrazione penitenziaria perché “possa riuscire a organizzare per tempo interventi al fine di mitigare le condizioni di disagio dovute alle ondate di calore”, si legge in una nota.? In carcere anche una bimba di tre anni - È reclusa con la madre all’interno di una sezione detentiva: “Speriamo che il direttore preveda un’apertura, più ore d’aria con la madre e uno spazio differente, perché così la situazione è inumana” conclude D’Amore. Benevento: morte detenuto, chiesto il processo per 3 medici del carcere ottopagine.it, 10 luglio 2018 Le indagini sul decesso di Agostino Taddeo, 59 anni, avvenuta nell’ottobre del 2016. Sono i medici che lo avevano visitato dal 3 al 5 ottobre del 2016. In base a una convenzione con l’Asl, operano presso la casa circondariale di contrada Capodimonte, e, sostiene il sostituto procuratore Miriam Lapalorcia, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio, non avrebbero diagnosticato in tempo, né avrebbero ordinato il suo trasferimento d’urgenza in ospedale, il problema che affliggeva il detenuto: Agostino Taddeo, 59 anni, già noto alle forze dell’ordine, morto il 13 ottobre del 2016 al Rummo. È l’accusa dalla quale i tre professionisti dovranno difendersi il prossimo 26 settembre, quando compariranno dinanzi al gup Flavio Cusani, che dovrà decidere se spedirli o meno a processo. La vittima stava scontando una condanna a tre anni, diventata definitiva, che gli era stata inflitta per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Accusava dolori nella zona sinistra del torace ed intercostali che aumentavano con il respiro, il 6 ottobre era stato trasportato in ambulanza al Rummo, dove era stato sottoposto ad alcuni accertamenti e gli era stata praticata un’angioplastica coronarica per un infarto del miocardio. Era stato successivamente trasferito nel reparto di rianimazione, dove, a distanza di alcuni giorni, il suo cuore si era fermato per sempre. La salma era stata sequestrata all’epoca su ordine del pm Iolanda Gaudino, titolare di un’indagine inizialmente contro ignoti. Il medico legale, la dottoressa Monica Fonzo, aveva eseguito l’autopsia, ravvisando elementi di presunta responsabilità a carico dei dottori in servizio presso il carcere e non di quelli del Rummo. Di qui il coinvolgimento dei tre medici della struttura detentiva - sono difesi dagli avvocati Angelo Leone, Nino De Piero e Benedetto Di Maio, chiamati in causa per omicidio colposo. I familiari di Taddeo sono rappresentati dagli avvocati Vincenzo Sguera e Luca Russo. Ivrea (To): per Rahhal, suicida nel carcere della nostra città di Armando Michelizza* Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2018 Era la notte del 16 giugno, quando Rahhal, marocchino di 43, decide in solitudine di togliersi la vita impiccandosi con un lenzuolo alle grate della sua cella al primo piano della Casa circondariale di Ivrea. Non avevo incontrato Rahhal, prima che sabato 16 giugno decidesse di farla finita. Non aveva chiesto di incontrarmi; per tutti coloro che ho sentito dopo, è stato un dramma inatteso e senza sintomi che potessero far pensare a quello che stava maturando nella sua solitudine. Uno tranquillo. Apparentemente senza particolari sofferenze. Ma forse questo dovrebbe essere un segnale. Paradossalmente uno tranquillo dovrebbe destare sospetti, in carcere. In carcere è davvero strano che una persona sia tranquilla. Comprensibilmente ci si preoccupa di chi mette in atto azioni di autolesionismo tagliandosi, ingoiando pile o altri oggetti, cucendosi la bocca, inalando gas dalle bombolette, impiccandosi. Molto spesso sono azioni che hanno lo scopo di farsi ascoltare, di ottenere una risposta alla richiesta di trasferimento o altro. Il giorno prima che Rahhal decidesse di lasciarci abbiamo passato tanto tempo (comandante, due agenti, la dottoressa medica presente, il sottoscritto) a ragionare e capire cosa si poteva fare per dissuadere un’altra persona detenuta che aveva “fatto la corda” (tentato di appendersi) più volte nei giorni precedenti. Chi vuole davvero finirla riesce sempre: non c’è controllo di sorta che possa impedirglielo. Il problema non è impedirglielo: bisognerebbe, con lui, cercare motivi e risorse per creder nella vita. E in diversi casi dovrebbe essere fuori dal carcere, perché, come mi faceva amaramente osservare lo psicoterapeuta: “ti sembra che qui sia possibile fare una terapia?” Sì, nemmeno un aumento della presenza del personale per le terapie psichiatriche, che pur è indispensabile, non sarebbe sufficiente per praticare adeguate terapie. Una terapia ha bisogno non solo della professionalità (indispensabile ma non sufficiente), ma anche di altre risorse, ambientali, organizzative, comunitarie… E così, spesso, l’unica “terapia” è quella che nel linguaggio del carcere si conosce come “la terapia”, ovvero farmaci. E così la vera “pratica anti-suicidaria” rischia di essere il controllo visivo ogni cinque minuti per impedire il suicidio. Pratica che forse aumenta il disagio dell’osservato già carico di problemi e sofferenza. Dopo la morte di Rahhal la locale comunità islamica si è messa in contatto con quel che restava della sua famiglia nell’astigiano. Alcuni compagni di detenzione dello stesso piano hanno protestato vivacemente per diverse ore e, lo dico volentieri, la protesta è stata gestita con intelligenza dal personale di custodia e dalla dirigenza del carcere. È abbastanza insolita una protesta nell’immediatezza di un suicidio, di solito prevale la commozione, anche la rabbia ma in silenzio. Difficile capire, ma accanto ai tanti problemi “strutturali” del carcere (non solo di Ivrea, ma di quasi la totalità del sistema penale), accanto agli aspetti “stagionali” dell’estate che è calda e con meno presenze di attività scolastiche e di volontari in vacanza fuori sede, un fisiologico rallentamento delle già lente risposte… c’è altro. C’è che dallo scorso autunno si era diffusa una speranza, anche esagerata, di grandi novità per le persone detenute. Radio carcere arrivava a ipotizzare persino un impossibile indulto, o almeno una riduzione delle pene. In realtà si era messo in moto il percorso dei decreti delegati, delegati dal Parlamento a giugno 2017 e che in questi giorni il nuovo Parlamento affosserà definitivamente; buttando nel cestino il lavoro di decine, centinaia di persone che nel percorso di 18 mesi degli “Stati generali dell’esecuzione penale” aveva prodotto. Paradossalmente i titoli allarmistici dei quotidiani forcaioli “Svuotano le carceri! Migliaia di delinquenti liberi!” ecc. avevano fatto immaginare chissà quali aperture. Ora la doccia è fredda e c’è da temere che vi siano ricadute in depressione e malcontento e proteste. *Garante comunale dei diritti dei detenuti Avellino: gli infermieri del carcere “in sei a gestire le emergenze e senza farmaci” irpinianews.it, 10 luglio 2018 Nel sistema penitenziario irpino, come evidenziato oggi durante il sit-in di protesta organizzato unitariamente dai sindacati a Bellizzi, sono molteplici le difficoltà con le quali convivono gli agenti della Polizia Penitenziaria e gli infermieri. Le loro condizioni di lavoro sono assolutamente precarie ma, da quando, nel 2007, è avvenuto il passaggio dal Ministero della Giustizia alla Asl, secondo il racconto degli infermieri, la situazione è peggiorata. Questi professionisti oltre a rispondere alle difficoltà legate alla carenza d’organico devono fare i conti anche con la riduzione dell’orario di lavoro e il dramma infinito delle partite Iva che rendono da sempre precario il loro lavoro. Cosa ancor più grave e che oltre ad essere rimasti in sei (prima erano dodici tra infermieri e medici) ad offrire assistenza sanitaria ai detenuti del carcere di Bellizzi non avrebbero a disposizione nemmeno farmaci e, tutta questa situazione, rischia di precipitare nel vuoto. La protesta concretizza il grido d’allarme lanciato dai dipendenti. “Il Direttore dell’Istituto penitenziario conosce sicuramente le problematiche per le quali stiamo protestando per questo motivo gridiamo a gran voce che siamo stanchi. Vogliamo più tutele per noi e soprattutto per i detenuti che hanno il diritto di essere curati e di avere un’assistenza sanitaria completa”. A parlare è la dott.ssa Silvia Bianco che con rabbia evidenza come “da ben 17 anni ha lavorato sempre con dignità e scrupolo all’interno del carcere”. Eppure sono tante le difficoltà. Ricordiamo che tutte e sei i professionisti sono a partita Iva. “L’entrata in Asl - ha precisato Silvia - è stato un disastro. Ci sentiamo abbandonati ed isolati. Bisognerebbe rafforzare anzitutto i turni di lavoro, così come ci era stato promesso, effettuare tre turni di lavoro (tre lavoratori di mattina, tre il pomeriggio e due di notte) ma fino ad oggi solo parole. Intanto le difficoltà aumentano di giorno in giorno. È giunto il momento di rispondere all’emergenza”. Al fianco di Silvia c’è Antonio Siniscalchi, un fisioterapista che lavora da oltre 29 anni all’interno dell’Istituto penitenziario. “Da quando nel 2007 siamo transitati in Asl, con grosse difficoltà, rispondo ad una popolazione di circa 550 detenuti e, da due anni, lavoro senza avere al mio fianco un ortopedico. Cosa che ho più volte segnalato. Faccio fronte anche ai detenuti delle altre carceri irpine che, da Ariano, Sant’Angelo dei Lombardi e Lauro, raggiungono Bellizzi per il ciclo di fisioterapia. Purtroppo stiamo tornando indietro, la situazione ormai è critica. Serve giustizia per rispetto del nostro lavoro e per la salute dei detenuti”. A fare eco alle parole dei lavoratori anche Franco Fiordellisi, segretario Cgil Avellino: “Denunceremo in tutte le sedi opportune questa situazione insostenibile. La vicenda del personale sanitario, dislocato nelle carceri tramite l’Asl, si intreccia e si confonde con le problematiche degli agenti della Polizia Penitenziaria”. Benevento: l’esistenza e la detenzione, dal carcere a Oscar Wilde di Emanuela Micucci Italia Oggi, 10 luglio 2018 Il progetto del liceo scientifico “Rummo” “Ci chiamate carcerati, ma vi siete mai chiesti se siamo innocenti?”. È un fulmine che colpisce mente e cuore degli studenti della V E dello scientifico Rummo di Benevento la domanda rivolta loro dai detenuti della Casa circondariale Capodimonte della città, con cui hanno condiviso il progetto “Dentro”. Ad idearlo la docente di inglese, Sonia Caputo, con una precedente esperienza di docenza nella scuola in carcere di quell’istituto penitenziario. Un percorso educativo per gli studenti e per i detenuti sulla condizione esistenziale oltre le sbarre. A fare da guida la lettura di passi del De profundis e de La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde, in inglese per i 19 liceali e in italiano per i due gruppi di 6 donne e 6 uomini ospiti del carcere, che separatamente hanno seguito nella Casa circondariale il laboratorio della professoressa del Rummo. Un progetto di lettura introspettiva delle due opere di Wilde, quindi, svolto parallelamente tra i banchi di scuola e presso la struttura carceraria e che si è concluso, a giugno, con un meeting tra i due gruppi che si sono posti reciproche domande. “Quando si pensa ai problemi che affliggono i reclusi si pensa immediatamente al sovraffollamento, alle strutture fatiscenti, al personale numericamente insufficiente a gestirne la conduzione”, spiega la docente. “Ma a quanti la condizione carceraria evoca la devastazione dell’anima che consegue alla carcerazione?”. Il progetto di multi-reading ha, infatti, portato alunni e detenuti a interrogarsi su reciproche questioni in un processo di meta-riflessione, promosso dalla lettura guidata e dall’approfondimento dei temi della detenzione. I ragazzi hanno chiesto se in carcere si esiste davvero o se si perde il contatto con la propria identità, se si cerca di dare un senso alla propria condanna. E poi, la possibilità di ricostruirsi una nuova vita dimenticando quella dentro le sbarre o accettandola, senza vergogna, come primo passo verso la libertà. Infine, la società, con i suoi pregiudizi, in cui, scontata la pena, potersi reinserire, senza dover essere giudicati. Tra le metodologie didattiche applicate cooperative learning, peer education e l’innovativo service learning. Il progetto, che si inserisce nella linea educative del Miur sul Piano per la legalità, sull’educazione al rispetto e alla cittadinanza attiva, sarà replicato il prossimo anno scolastico con il coinvolgimento della storia dell’arte e la realizzazione finale di un murales sulla “rivoluzione interiore che causa la detenzione”. Trieste: consegnati gli attestati dei scolastici organizzati dal Cpia1 di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2018 Il 5 luglio 2018 si è tenuta - presso la Casa Circondariale di Trieste - la cerimonia di consegna dei certificati di livello di italiano L2, inglese e cultura generale rilasciati al numeroso gruppo di persone private della libertà che hanno frequentato i due moduli scolastici organizzati dal Cpia1 Trieste. Alla cerimonia di consegna, proprio per sottolineare l’importanza della cultura e della conoscenza delle lingue, quella italiana in particolare per il legame territoriale, veicoli indispensabili per comunicare e comprendere diritti e doveri, vi era la presenza del Direttore della Casa Circondariale Ottavio Casarano, l’Assessore Angela Brandi con deleghe di funzione su educazione, scuola, università e ricerca, il preside del Cpia1 Trieste Susanna Tessaro, il personale amministrativo dell’Area giuridico pedagogico, il Garante comunale dei diritti dei detenuti Elisabetta Burla, una rappresentante del volontariato e naturalmente gli insegnanti Domenico Argenzio, Emilia Colella e Tiziana Trebian. La presenza di una così ampia rappresentanza di ruoli Istituzionali testimonia l’importanza di questo percorso scolastico e ha voluto riconoscere l’ottimo lavoro svolto dal Cpia1 Trieste che ha saputo coinvolgere e determinare - con il lavoro paziente delle insegnanti - le numerose persone appartenenti a molteplici nazionalità. Nel corso dell’anno scolastico sono stati affrontati anche argomenti di attualità e di educazione civica in materia di diritti e di doveri evidenziando l’importanza dell’apprendimento della lingua dello Stato ospitante, strumento indispensabile e imprescindibile per realizzare una vera integrazione. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Potenza: “Mi metto in gioco”, nel carcere il cantiere-scuola di Efmea e Legambiente sassilive.it, 10 luglio 2018 L’Efmea di Potenza (ente formazione delle maestranze edili del comparto Ance), dopo la prima esperienza del Cantiere Scuola, svolto in collaborazione con Legambiente Potenza, dà ufficialmente il via alla seconda edizione di Cantiere Scuola “Mi metto in gioco” nella Casa Circondariale di Potenza, con l’obiettivo è di realizzare un campo di calcetto e un’area verde per i detenuti attraverso il loro lavoro. Il progetto promosso dalla Casa Circondariale di Potenza e finanziato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con i fondi della Cassa Ammende, vede la collaborazione dell’Efmea che curerà la riqualificazione e messa in sicurezza di aree interne dell’Istituto Penitenziario: la realizzazione di un campo di calcio a cinque e l’allestimento di un’area verde dedicata ai detenuti con figli minori. L’iniziativa - dichiara il Presidente di Efmea Potenza, Vito Arcasensa - è un caposaldo del nostro programma di formazione e addestramento tutta centrata su un’azione “on the Job”, in quanto siamo convinti che sia un utile strumento per dare ai partecipanti la possibilità di reinserirsi nella società e, soprattutto, nel mercato del lavoro riducendo al minimo il rischio di reiterare il reato, in tal senso abbiano sottoscritto con la Direzione della Casa Circondariale di Potenza una convenzione. La cultura al lavoro continua il vice - presidente Michela La Torre- quale elemento del trattamento penitenziario è la condizione insostituibile per la riabilitazione di persone detenute, e va sostenuta con iniziative a diversi livelli. Per questo, come dirigenti della scuola edile di Potenza, nella calendarizzazione della formazione, abbiamo previsto questo tipo di attività grati alla Direzione della Casa Circondariale per aver chiesto la nostra collaborazione. La realizzazione di questo particolare Cantiere Scuola, fanno sapere gli organizzatori, è stato creato ad hoc, con il necessario coinvolgimento armonico degli attori coinvolti, nel rispetto delle procedure burocratiche e delle regole che ogni servizio si è dato. Accompagnare un detenuto al lavoro non significa trovare un posto di lavoro quale esso sia, significa valutare le sue potenzialità, le offerte del mercato del lavoro, il bagaglio di formazione scolastica e professionale, il curriculum professionale e lavorativo ed infine i suoi desideri e la sua voglia di mettersi in gioco. Avezzano (Aq): nel carcere incontri didattici sull’archeologia locale Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2018 Svolti dal personale dell’Aia dei Musei in ambito intramurale. Prosegue per i detenuti della Casa Circondariale a Custodia Attenuata di Avezzano la conoscenza archeologica e storica del territorio della Marsica, già avviata con visite al Museo dell’Aia nel febbraio 2018. In data 20 giugno 2018 la responsabile dell’Aia dei Musei, Dr.ssa Flavia De Sanctis ha introdotto, per l’Istituto Penitenziario, un percorso trattamentale in favore della popolazione detenuta, finalizzato alla conoscenza storico/ambientale del territorio Marsicano, in particolare rispetto alla bellezza ed unicità di questo territorio prima e dopo il prosciugamento del lago del Fucino. Tale percorso proseguirà con altri incontri didattici interni alla sede e si completerà con uscite esterne che permetteranno di visitare i luoghi della Marsica simbolicamente più rappresentativi delle origini storiche di questo popolo. Interessante notare, da un punto di vista trattamentale, l’alta partecipazione a tale iniziativa anche delle persone straniere detenute che, prima dell’ingresso in Istituto Penitenziario, per la maggior parte, erano impiegate come manodopera agricola nel bacino del Fucino. Tali persone mostrano vivo interesse per la conoscenza approfondita di questo territorio, quasi nel tentativo di ricercare un piacere e di costruire/vivere/sentire un legame con nuove possibilità di appartenenza territoriale e culturale. La Direzione di questo Istituto Penitenziario promuove e valorizza tutte le iniziative trattamentali che possono servire all’integrazione multietnica e multiculturale, con la consapevolezza che le differenze culturali possano rappresentare degli immensi serbatoi di forze e potenzialità creative e costruttive se adeguatamente sostenute e resi i vari soggetti protagonisti attivi di una compartecipazione ad un progetto vitale che pone al centro i valori di solidarietà reciproca e rispetto di Sé e del prossimo. Mostra fotografica “Luci ed ombre” - 3 luglio 2018 - Corte di Cassazione - Roma Analogamente a quanto già accaduto in Avezzano in data 9 giugno 2018, è stata inaugurata a Roma presso il Palazzo della Cassazione, la mostra fotografica “Luci e Ombre” realizzata da allievi detenuti della Casa circondariale di Avezzano e allievi esterni al termine del progetto fotografico realizzato dall’Associazione” Inforidea - Idee in Movimento - di Roma. I lavori degli allievi esterni hanno affrontato temi di primo piano come l’immigrazione, l’Uva di Taranto, il mondo giovanile, la Costituzione, il degrado delle periferie mentre i lavori dei detenuti, accompagnati da scritti, hanno toccato temi più intimi mettendosi in gioco loro stessi in prima persona. Alla mostra è seguita una tavola rotonda cui hanno partecipato esponenti del giornalismo, dell’arte e dell’ avvocatura nonché dal direttore della casa Circondariale di Avezzano e della responsabile dell’Associazione Inforidea. Tra i presenti del numeroso pubblico vi erano due allievi detenuti in regime di permesso premio. Tutto lo staff della C.C. a Custodia Attenuata di Avezzano. Napoli: poeti da Secondigliano, antologia dal “mondo di dentro” caserta24ore.org, 10 luglio 2018 Pubblicata la silloge di opere di 25 detenuti del penitenziario partenopeo coinvolti nel progetto “Napoli Dentro e Fuori” Il volume sarà presentato nel penitenziario di Secondigliano martedì 10 luglio - ore 10 Domenico Ciruzzi, presidente della Fondazione Premio Napoli: “La madre, l’amore, la detenzione, la notizia della morte del proprio genitore durante la reclusione, la tristezza del detenuto che può diventare un elisir universale per imparare a godere delle bellezze naturali del mondo sono i temi ricorrenti di un incantevole lavoro di ricerca progressivo e complesso”. Perché chi è “dentro” non sia escluso. Animata da questa convinzione la Fondazione Premio Napoli, in collaborazione con il portale Napoli Click, ha avviato nel 2016 un laboratorio di poesia e scrittura creativa, che ha coinvolto 25 detenuti del penitenziario di Secondigliano. Impegnati in un lungo lavoro sulla lingua e sull’interpretazione e in un serrato confronto con i classici, da Palazzeschi a Sanguineti, da Dante a Dylan Thomas, si sono infine misurati con la stesura dei versi. Versi come riscatto, libertà. Versi come sfogo dell’anima, segnale di esistenza dal “mondo di dentro”. Versi raccolti nella nuova silloge “Poeti da Secondigliano”, appena pubblicata per i tipi di “Ad Est dell’Equatore” e realizzata dalla Fondazione Premio Napoli al fine di incoraggiare la produzione culturale e favorire la lettura, il dibattito e la scrittura nel centro penitenziario partenopeo. Il volume sarà presentato martedì 10 luglio alle ore 10 nel penitenziario di Secondigliano. I “Poeti da Secondigliano” sono Antonio Acunzo (che firma “Se potessi avere” e “Terra rossa e calda”), Michele Aletta (“Un perfido intrigo” e “La mia poesia”), Salvatore Baldassarre (“Vivo la vita a piccoli sorsi” e “Buio”), Amor Belarbi (“L’alba” e “Tentazione”), Domenico Cante (“In morte della madre”, “Al mio amore” e “T’amerò in eterno”), Rosario Curatoli (“Orizzonte”, “La libertà”, “Napul’ è”, “Aspietteme”, “Rarità” e “So’ tutte mamme”), Giuseppe De Fenza (“Autogrill”, “Voglia d’amarti” e “Donna”), Vincenzo De Simone (“Abbacinamenti”, “Rive” e “Il labirinto”), Nicola Di Febbraro (“Cric Crack”, “Mattonella”, “Papà” e “Anime vaganti”), Bartolomeo Festa (“7 gennaio 2016”, “Solitudine” e “Terra di mezzo”), Luigi Forino (“Regnerà la paura”, “Benvenuto” e “Madre”), Ciro Formisano (“A mia moglie”, “La tristezza” e “Il mare”), Attanasio Liguori (due poesie senza titolo), Angelo Mariani (“HV30” e “Sola andata”), Sebastiano Pelle (“Carcere”, “A mio padre” e “Respiro”), Nicola Pisano (“Vita”, “Stai attento” e “Vorrei”), Giovanni Pistillo (“L’ansietà”, “Perché” e “Confine”), Pasquale Ruffo (“Che cos’è la libertà”), Gennaro Russo (“‘A mamma”, “All’improvviso” e “La madre”), Gennaro Russo (1984), Giuseppe Tartaglia Carandente (“‘O politico”, “Orizzonti”, “Oriente” e “Tecno”) e Pietro Vollaro (“Occhi”, “Terrore” e “La solitudine”). Se cercate l’Utopia potete trovarla sull’Aquarius e nella cella di Dell’Utri di Piero Sansonetti Il Dubbio, 10 luglio 2018 Alcune grandi idee - come la libertà, l’uguaglianza, la fraternità - sono idee assolute, per esempio, non riferite a un gruppo di interessi o a un gruppo sociale. L’utopia è quella parte dell’impegno politico che si fonda sulle grandi idee, non su interessi specifici. Utopia non è il contrario del realismo, è il contrario della realpolitik. Il realismo e la realpolitik non sono la stessa cosa. La realpolitik è la politica asciugata dalle idee e ridotta a sola tattica e amministrazione. Non è guidata dai principi ma solo ed esclusivamente dai propri obiettivi. Gli obiettivi ammettono qualunque mezzo. Il realismo è una cosa diversa: mette la politica con i piedi sulla terra, non gli permette di volare nel mondo dei sogni e di liberarsi da ogni responsabilità. L’utopia è realista, non è sogno. E chiama a fortissime responsabilità. Tommaso Moro - che inventò l’utopia moderna - testimoniò la sua utopia pagandola con la sua vita sul patibolo. Oggi credo che in politica l’utopia sia scomparsa. Da diverso tempo. La sinistra è rimasta orfana del comunismo, e da 25 anni vaga nel bosco alla ricerca di idee- guida che non trova. La destra paga la crisi del neoliberismo, del reaganismo, della scommessa persa sul mercato geniale, umano e invincibile. Anche la destra si è accorta che il mercato non è né geniale né umano. Probabilmente neppure invincibile. E però - così come la sinistra non è riuscita a produrre una critica di sinistra al comunismo - la destra non è riuscita a produrre una critica liberale del mercato. E si è vista soppiantata da una nuova destra reazionaria, sovranista, nazionalista, che sembra non dargli scampo. Così è scomparsa l’utopia. Parlando di queste cose, al festival di Popsophia, ho provato a dire dove, secondo me, si può provare a far rinascere l’Utopia. Ho detto che si può farlo sul ponte dell’Aquarius e nella cella di Dell’Utri. Già, non è vero che sono luoghi così lontani. Sono vicini. Confinano. Sono i luoghi della sofferenza, e dell’oppressione, e della negazione dei diritti. Sono i luoghi dove il potere è vissuto come sopraffazione, perché è sopraffazione. Tra Marcello Dell’Utri malato e in prigione e i migranti africani (i “negri”: si i “negri”, li chiamano così) che chiedono il diritto a vivere e a migrare, non c’è molta differenza. La differenza sta nel fatto che i migranti sono sostenuti solo dalla sinistra, che odia Dell’Utri. E Dell’Utri quasi solo dalla destra, che - in gran parte - odia i migranti. L’utopia è rimettere insieme queste due battaglie. Far capire che il Diritto è il Diritto è il Diritto (come la rosa della Steiner) e ce n’è uno solo, indivisibile, e se ne infischia della sinistra e della destra, e delle simpatie, e delle ideologie trasformate in tifo. I diritti di un detenuto sono come quelli del migrante. Non solo perché è detenuto - e quindi debole, fragile, ultimo - ma perché è una persona. I diritti del ricco sono uguali al diritto del povero, e viceversa. Attenzione: E viceversa. Se questa idea inizierà a farsi largo, se la passione per la vendetta sui nemici compirà qualche passo indietro, allora nascerà qualche spazio nuovo nel quale potrà ricominciare a fiorire l’utopia. Per ora l’utopia resta lì: sull’Acquarius e nella cella - ora, per fortuna, vuota - di Marcello Dell’Utri. Le mani legate della flotta Ue sulla rotta libica di Gianandrea Gaiani Il Messaggero, 10 luglio 2018 Dopo le Ong anche le navi militari Ue di Eunavfor Med e dell’agenzia delle frontiere Frontex verranno bandite dai porti italiani se vorranno sbarcavi migranti soccorsi in mare. L’occasione per aprire l’ennesimo fronte nella questione migratoria l’ha offerta lo sbarco in Sicilia di oltre100 clandestini soccorsi dal pattugliatore irlandese “Beckett”, assegnato ad Eunavfor Med. L’annuncio del ministro degli Interni, Matteo Salvini, che al summit con gli omologhi europei chiederà formalmente di recepire questa nuova direttiva, ha determinato qualche irritazione nel governo, specie alla Difesa dove si ricorda che Eunavfor Med è un’operazione militare gestita dai ministeri di Esteri e Difesa. Diatribe che si sarebbero potute evitare se l’annuncio di chiudere i porti anche ai migranti imbarcati sulle navi militari Ue fosse giunto da Palazzo Chigi invece che dal Viminale, anche se avere ben quattro ministeri coinvolti nelle diverse operazioni in atto tra la Libia e la Sicilia (c’è anche quello delle Infrastrutture, da cui dipende la Guardia Costiera) non aiuta, come già era emerso l’anno scorso con l’iniziativa di Marco Minniti. La missione di Eunavfor Med, come quella di Frontex, venne varata nel 2015 su richiesta di Roma per affiancare le forze navali italiane, usurate dall’intenso impiego e dall’operazione di soccorso Mare Nostrum. La flotta di una mezza dozzina di navi posta sotto il comando dell’ammiraglio Enrico Credendino, ebbe l’ordine da Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Ue, di “contrastare il modello di business” dei trafficanti. Compito indecifrabile sul piano militare e infatti in tre anni Eunavfor Med ha raccolto molte informazioni d’intelligence sui trafficanti ma non ha mai potuto combatterli davvero perché non autorizzata a penetrare nelle acque libiche, né a intercettare i cargo commerciali che portano da Malta alla Libia i gommoni “made in China” utilizzati dai trafficanti. La flotta europea, che deve anche contrastare i traffici di armi, l’export illegale di petrolio libico e addestrare la Guardia Costiera di Tripoli, ha appena imbarcato una cellula di Europol e in tre anni ha affondato 551 gommoni e barconi dopo aver soccorso e sbarcato in Italia 45 mila migranti che si trovavano a bordo. Meno del 10 per cento di quanti sono sbarcati negli ultimi tre anni ma pur sempre un numero ragguardevole, soprattutto tenendo conto che il soccorso non rientra tra i compiti della flotta Ue, nata per combattere i trafficanti ma che porta il nome, Sophia, di una bimba somala venuta alla luce a bordo di una nave militare tedesca. Anche l’operazione navale di Frontex (prima Triton, ora Themis) dovrebbe “aumentare la sicurezza delle frontiere esterne attraverso il controllo dei flussi migratori irregolari e il contrasto della criminalità”, ma di fatto ha contribuito a soccorrere i migranti e sbarcarli in Italia. Difficile quindi sostenere che le missioni Ue non rientrino anche nelle competenze del ministero degli Interni se quelle navi hanno sbarcato in Italia decine di migliaia di migranti illegali e pure il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, ha espresso la necessità di cambiare gli accordi che hanno finora visto Roma accogliere tutti i migranti illegali. Del resto nel giugno 2017 fu il governo Gentiloni a minacciare di chiudere i porti alle navi straniere cariche di migranti e Minniti disse con un filo d’ironia delle flotte Ue che sarebbe stato ancora più orgoglioso dell’Europa se ogni nave, dopo avere salvato i migranti, invece di sbarcarli in Italia “almeno una volta li portasse in un altro porto europeo”. L’Italia oggi ribadisce quindi che non è più disposta ad accogliere migranti illegali correndo il rischio che venga meno la già precaria solidarietà dei partner e che molti Stati ritirino le navi dalle flotte Ue oppure pongano dei “caveat”, rifiutando di impiegarle in soccorso a gommoni e barconi. Eunavor Med è composta da navi francesi, irlandesi, tedesche, spagnole e slovene guidate dall’ammiraglia italiana “San Giusto”. L’eventuale ritiro di alcuni partner decreterebbe la fine dell’operazione, palesando ancora una volta la solitudine dell’Italia e accentuando la crisi tra Roma e la Ue. Il ripristino del Trattato di amicizia italo libico del 2008, chiesto da Tripoli, potrebbe offrire una soluzione con la consegna ai libici (che già pattugliano un’area per la ricerca e soccorso e riceveranno presto nuove motovedette italiane) dei migranti soccorsi da navi militari europee e che verranno poi rimpatriati dall’Onu. Si tratta dell’unica opzione in grado di chiudere la “rotta libica” ma il 2 luglio la portavoce della Commissione Ue per la migrazione, Natasha Bertaud, ha affermato che “non ci saranno mai dei rimpatri dell’Ue verso la Libia o navi europee che rimandano i migranti in Libia”. “Illegale lo stop agli sbarchi”: Spataro attacca, l’ira della Lega di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 10 luglio 2018 Il procuratore capo di Torino: “Respingere i rifugiati è contrario alla convenzione di Ginevra del 1951”. La replica del ministro dell’Interno Matteo Salvini: “Pensa che l’intera Africa possa essere ospitata in Italia? Sulla politica dell’immigrazione è scontro tra il procuratore capo di Torino Armando Spataro e il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Per il primo “non si possono respingere i migranti: se un barcone attraccasse ai Murazzi del Po e agli stranieri venisse impedito di sbarcare, l’episodio diventerebbe oggetto di un’indagine. Respingere i rifugiati è contrario alla convenzione di Ginevra del 1951”. Chiaro il riferimento del magistrato alla scelta del governo di chiudere i porti italiani. La replica del vicepremier non si fa attendere: “Forse il procuratore capo pensa che l’intera Africa possa essere ospitata in Italia? Idea bizzarra”. E ancora: “Sono sorpreso dalle parole del procuratore, che decide cosa può fare e cosa non può fare un governo eletto da milioni di italiani. Bloccare i porti non è un diritto, ma un dovere. Se qualcuno la pensa diversamente, può presentarsi alle prossime elezioni”. A innescare il botta e risposta è la nuova circolare con cui Spataro ridisegna le priorità della Procura di Torino: i reati a sfondo razziale diventeranno materia di un pool di magistrati che si specializzeranno in queste fattispecie giuridiche. E i pm dovranno anche evitare di “chiedere l’archiviazione per particolare tenuità del fatto”. “Abbiamo assistito a episodi di minacce aggravate, manifesti e scritte sui muri contro immigrati spesso accompagnati dalla passività delle persone presenti - spiega il procuratore capo -. Siamo di fronte a reati odiosi e insopportabili”. A rincarare la dose contro la politica del Viminale è anche il procuratore generale Francesco Saluzzo: “L’idea che sia cambiato qualcosa nell’approccio al fenomeno migratorio e che si possa pensare di avere sponde di vario genere, politiche e intellettuali, ingenera in alcuni l’idea che sia venuta l’ora di passare al contrattacco con sistemi più brutali. Questi comportamenti sono reati e devono essere perseguiti”. Migranti. “È la fine del diritto di asilo, diventerà una concessione per pochi” di Carlo Lania Il Manifesto, 10 luglio 2018 Salvatore Fachile (Asgi). “Pur di fermare i richiedenti asilo in un Paese terzo sicuro, l’Unione europea si prepara ad aggirare la Convenzione di Ginevra”. La “rivoluzione copernicana” - se davvero di questo si tratta - è durata poco. Annunciata dal cancelliere austriaco Sebastian Kurz come la novità che avrebbe modificato la gestione dei migranti e dei profughi in Europa, la proposta di vietare che le richieste di asilo vengano presentate nel territorio del vecchio continente, anticipata domenica a Vienna, sarebbe già sparita dalla bozza del documento che verrà discusso giovedì a Innsbruck al vertice dei ministri degli Interni dei 28. Al suo posto ci sarebbe la proposta di aprire in paesi terzi sicuri “centri per il rimpatrio” dove inviare chi si trova illegalmente nell’Unione europea. Ma se il divieto - biglietto da visita della neo-presidenza austriaca dell’Ue - è decaduto, il solo fatto che se ne sia parlato conferma una volta in più la volontà di Bruxelles di impedire anche ai profughi, e non solo ai migranti economici, di mettere piede in Europa. Magari con qualche espediente utile a scavalcare la Convenzione di Ginevra. “Stanno tastando il terreno, ma sostanzialmente le due linee principali da seguire sono già state scelte”, spiega l’avvocato Salvatore Fachile, legale dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “La prima è di creare una lista europea dei Paesi terzi sicuri dove poter rimandare i migranti. Paesi attraversati durante il viaggio, magari anche solo per un giorno, e nei quali chi vuole potrà fare richiesta di asilo. Candidati a essere inseriti nella lista oltre alla Turchia, già considerata Paese terzo sicuro, ci sono i Paesi del Nord Africa e, in una prospettiva futura, probabilmente anche Paesi come il Niger dove non c’è una guerra in corso ed esiste una ratifica della convenzione di Ginevra. In seguito alcune di queste persone potrebbero essere reinsediate in Europa”. E la seconda linea? È legata più direttamente ai resettlement, ai reinsediamenti. L’idea è di creare dei luoghi come in Niger dove bloccare le persone - anche quelle evacuate dalla Libia - nei quali far presentare le domande di asilo e solo chi riceverà risposta positiva verrà reinsediato in Europa. E queste saranno le persone che rispondono a requisiti di conformità ai valori europei, come chiede l’Austria. Tutto questo non contrasta con la Convenzione di Ginevra? Si tratta di un aggiramento della Convenzione. Non proprio una violazione letterale, perché il Paese terzo sicuro è già previsto nel direttiva procedure e la lista deve essere solamente ampliata. In questo modo l’Europa non deve accordare al profugo la protezione ma limitarsi a trovare un luogo sicuro dove potrà presentare la sua richiesta. Formalmente quindi non c’è nessuna violazione della Convenzione, ma nella sostanza si se ad esempio quello scelto è un Paese come l’Egitto dove il rispetto dei diritti umani esiste solo sulla carta. Tutto questo è possibile ovviamente solo sulla base di accordi bilaterali come quello siglato con la Turchia. E funziona finché parliamo di qualche decina di migliaia di persone, ma salta completamente se si tratta invece di centinaia di migliaia. Ma il numero basso di arrivi viene garantito da accordi come quello che abbiamo noi con la Guardia costiera libica. È la fine del diritto di asilo? È la fine del diritto di asilo. Così come i resettlement, ovvero la possibilità di bloccare il migrante prima del suo arrivo in Europa e solo in seguito decidere se accettare o meno la sua richiesta di protezione internazionale. In questo modo quello che fino a oggi è considerato un diritto, la possibilità di chiedere asilo, viene trasformato in una concessione. Migranti. Hotspot Lampedusa, tunisini discriminati per richieste d’asilo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2018 Le associazioni Cild, Asgi, Indiewatch e Actionaid denunciano gli ostacoli che vengono creati. “I migranti ospitati nell’hotspot di Lampedusa, in particolare i cittadini tunisini, continuano a subire una limitazione arbitraria della libertà personale, restando confinati nel centro o sull’isola, anche in assenza di norme specifiche”. Lo denunciano in una nota Cild, Asgi, IndieWatch e ActionAid, alla luce delle attività di monitoraggio del progetto pilota “In Limine”. Il progetto ha l’obiettivo di realizzare indagini sulle dinamiche di arrivo, sull’accoglienza e sull’accesso alla protezione internazionale dei migranti che si trovano nell’hotspot di Lampedusa. Prevede, inoltre, l’utilizzo dello strumento del contenzioso strategico per contrastare le violazioni dei diritti umani. Ricordiamo che la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la Sentenza Khlaifia e altri contro Italia del 15 dicembre 2016, si è espressa riscontrando diverse violazioni da parte dell’Italia (la privazione di libertà personale e la mancanza di mezzi effettivi per ricorrere contro le condizioni di accoglienza, tra le altre). Il governo italiano l’11 settembre 2017 e il 12 gennaio 2018 ha inviato al Comitato dei ministri due comunicazioni, indicando le misure adottate per prevenire il ripetersi delle violazioni rilevate dalla Corte. Entrambe le comunicazioni non sono state ritenute sufficienti dal Comitato dei ministri che ha richiesto ulteriori informazioni entro il 30 giugno 2018. In attesa di leggere le motivazioni, il progetto “In Limine” ha prodotto le considerazioni sopracitate e le ha inviate al Comitato dei ministri attraverso un’ articolata controrelazione che evidenzia come, appunto, nell’hotspot di Lampedusa continuino a verificarsi violazioni significative. Secondo le testimonianze raccolte dal progetto In Limine, “i cittadini tunisini subirebbero prassi discriminanti: mentre per i cittadini provenienti dai Paesi dell’Africa Subsahariana sembrerebbe essere quasi automatico l’avvio delle procedure per la richiesta di asilo, ai cittadini tunisini verrebbero posti ostacoli all’accesso a tale procedura e non riceverebbero adeguate informazioni”. Le associazioni spiegano che “queste procedure, spesso attuate soltanto in ragione del paese di provenienza, sono propedeutiche al rimpatrio forzato in Tunisia”. Conclude la nota che “tali rimpatri avverrebbero in violazione della normativa vigente e sarebbero di natura collettiva”. A tal proposito è bene ricordare l’ultima relazione presentata al Parlamento da Mauro Palma, il Garante nazionale delle persone private delle libertà. Si evidenzia la necessità di strutture di detenzione differenti, di minore capienza, ma soprattutto rispettose dei diritti delle persone “ristrette”, non assimilabili al carcere. Il Garante ha posto l’accento soprattutto sul nodo hotspot che nascono dalla natura giuridica incerta di questi posti, che rispondono a funzioni diverse che ne modificano continuamente il carattere e la disciplina. “Se da un lato, infatti, - ha spiegato Palma - appaiono come luoghi a vocazione umanitaria per le attività di primo soccorso, assistenza, informazione e di prima accoglienza per chi ha manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale, dall’altro sono luoghi di svolgimento delle procedure di identificazione/ foto- segnalamento e di avvio delle operazioni di rimpatrio forzato. Procedure che impongono agli ospiti il divieto di allontanarsi dal centro fino alla loro conclusione e il ricorso alla coercizione nell’esecuzione dei provvedimenti di respingimento differito”. Migranti. E a Roma sgomberano i rifugiati politici del Sudan di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2018 Da quattro giorni i migranti che occupavano da 13 anni lo stabile di via Scorticabove sono in strada. Valige ammassate in un angolo, cartone e materassi ai margini della strada. Sono ormai quattro giorni e quattro notti che i migranti sgomberati dallo stabile occupato di via Scorticabove, nella periferia di Roma, sono lontani dai riflettori. Sono un centinaio i rifugiati politici sudanesi, molti dei quali provenienti dal Darfur, che sono regolarmente presenti in Italia ma abbandonati a se stessi. Lo stabile, inizialmente, era gestito dalla cooperativa “Casa della solidarietà” che poi non ha più pagato l’affitto: lo sgombero, infatti, è stato eseguito per morosità. Il comune di Roma non aveva inviato alcuna comunicazione, nonostante fosse stato preallertato dell’iniziativa di sgombero. “Il nostro appello va direttamente alla sindaca di Roma, Virginia Raggi - dice Aboubakar Soumahoro, l’attivista del sindacato Usb - venga qui e si confronti con noi. Sono tutti rifugiati del Sudan, vivono qui da 13 anni, hanno protezione internazionale e nel loro Paese non possono tornare. Abbiamo chiesto a suo tempo un tavolo di confronto, ma non abbiamo mai avuto risposta. Questo è il nuovo che avanza? La Raggi deve prendersi le sue responsabilità”. Mentre chi nel giro di poche ore ha perso quella che considerava una vera e propria casa, non sembra intenzionato ad andare via: “Noi restiamo qui”. E infatti ci sono rimasti, fuori, ai margini della strada. Hanno deciso di resistere e di chiedere che il loro desiderio di comunità e soprattutto il loro diritto alla protezione internazionale venga rispettato. Con l’assessora Laura Baldassarre, secondo quanto si apprende, l’appuntamento è fissato per giovedì prossimo. Nel frattempo però la forza di questa comunità sta venendo fuori in queste ore proprio in via Scorticabove. A supportare i rifugiati accampati tanti romani e tante associazioni. Di ieri l’appello di Anpi Roma alle istituzioni. “L’Anpi provinciale di Roma esprime profonda preoccupazione e contrarietà per l’azione messa in atto lo scorso 5 luglio nei confronti di 120 rifugiati sudanesi a Via Scorticabove a Roma. Al momento non abbiamo notizia di nessuna soluzione prevista per queste persone, sopravvissute alle guerre, alle persecuzioni e alle torture. Non possiamo tollerare, come cittadini, come antifascisti e come essere umani che per l’ennesima volta, in questa città, gli interessi privati vengano prima delle persone e che centinaia di uomini, donne e bambini vengano buttati in strada senza un’alternativa”. La comunità viveva in quello stabile fin dal 2005. La cooperativa, nel 2015, l’abbandonò e i migranti si sono organizzati autogestendosi. L’associazione romana “Alterego Fabbrica dei diritti”, fa sapere che i rifugiati avevano creato al loro interno la cassa comune di mutuo- soccorso, una cassa di sostegno che serve per permettere a tutti di avere il minimo indispensabile per poter vivere degnamente. Molti di loro, infatti, pur avendo delle competenze e dei curricula di tutto rispetto, sono costretti a lavorare in condizione di sfruttamento nelle campagne; altri non hanno un’occupazione fissa e fanno saltuariamente gli ambulanti. Allora, ecco, l’idea di una cassa comune in cui ciascuno mette quello che può per il sostentamento di tutta la comunità. “Non stupisce, dunque - scrive Alterego - il senso di fratellanza e di condivisione che si respira appena si giunge nell’attuale presidio permanente di via Scorticabove, dove i rifugiati hanno deciso di rimanere ad oltranza fino a quando non sarà loro fornita un’alternativa alloggiativa degna”. L’Associazione spiega che i 120 sudanesi non si sono scomposti neanche durante lo sfratto, nonostante “si sono visti sfondare la porta di casa, essere buttati giù dai loro letti, aprire i loro armadi e comodini, distruggere i loro sanitari”. Questa comunità, eppure, ha reagito con una dignità enorme: chiedendo di verificare il verbale di sfratto; pretendendo di recuperare le loro cose; decidendo di rimanere in presidio permanente davanti a quella che è la loro casa. Da giorni, quindi, si trovano per strada e pronti ad affrontare l’ennesima notte senza un tetto. Carcerati italiani all’estero detenuti “in condizioni disumane” di Fabio Polese osservatoriodiritti.it, 10 luglio 2018 Più di tremila carcerati italiani all’estero sono detenuti in situazioni “spesso disumane, in termini di diritti umani, igiene, rapporti con altri detenuti e salute”. I problemi sono enormi. “E il governo potrebbe fare tante cose, spesso a costo zero”. Ecco l’analisi dell’avvocata Francesca Carnicelli della Onlus Prigionieri del Silenzio. “Le condizioni carcerarie degli oltre tremila italiani detenuti all’estero sono spesso disumane in termini di diritti umani, igiene, rapporti con gli altri detenuti e salute”. A parlare in esclusiva a Osservatorio Diritti è Francesca Carnicelli, avvocata della Onlus Prigionieri del Silenzio che, dal febbraio 2008, si occupa di aiutare i nostri connazionali arrestati oltre confine. “Ciò in cui troviamo spessissimo difficoltà è proprio l’invio di farmaci o la possibilità di effettuare visite specialistiche. Il carcere non ha determinati tipi di medicinali e non fa entrare quelli inviati dalla famiglia o addirittura quelli consegnati direttamente dal Consolato”. Quanti sono i carcerati italiani detenuti all’estero? Il numero è costante negli anni e si aggira sempre intorno alle tremila persone, tra quelli in attesa di giudizio e i definitivi. Carcerati in attesa di giudizio… Come in Italia, in tutto il mondo, sono previste misure cautelari, cioè limitazioni della libertà personale per i soggetti che sono indagati/sospettati e che devono ancora essere processati, oppure sono in attesa del secondo o terzo grado di giudizio. È bene precisare in alcuni Stati, con la condanna di primo grado, si viene considerati già condannati. Queste limitazioni sono giustificate da esigenze quali il pericolo di fuga o di inquinamento probatorio. In molti Stati stranieri le garanzie per i destinatari della misura e i limiti di applicazione sono molto diversi rispetto alla legislazione italiana, indubbiamente molto garantista. In che zone si trovano principalmente i detenuti? Tra le i Paesi extraeuropei la zona più calda è il Sud America ma, numericamente, la maggior parte dei detenuti si trova in Europa. La nazione con più detenuti è la Germania - circa mille - e seconda è la Spagna. Quali sono i reati più contestati ai carcerati italiani? Le vicende riguardano tutti i tipi di reati. Statisticamente le violazioni in materia di stupefacenti sono le più numerose. Significativo anche il numero di reati contro la persona. Ci sono trattati bilaterali per scontare la pena in Italia? In realtà esiste la Convenzione di Strasburgo (1983) avente ad oggetto il trasferimento delle persone condannate, firmata da 70 nazioni, oltre ad alcune convenzioni bilaterali (Albania, Cuba, Hong Kong, India, Kazakhstan, Perù, Repubblica araba di Egitto, Repubblica dominicana, Romania e Tailandia). È già stata ratificata, ma non è entrata in vigore, quella con il Marocco. Purtroppo le procedure sono, comunque, complesse, lente e necessiterebbero di modifiche che limitino la discrezionalità nella concessione del beneficio. I trattati e le convenzioni esistenti sono rispettati? Lavorare sui rientri dei condannati è un’attività complessa perché l’iter non è esclusivamente giudiziario ma anche - direi principalmente - politico, in quanto le richieste e le autorizzazioni passano sempre dai ministeri e, purtroppo, subentrando la politica e la burocrazia i tempi si dilatano in modo davvero significativo. Non direi che vi sia il mancato rispetto dei trattati o delle convenzioni, piuttosto ritengo che le tempistiche siano eccessivamente lunghe, soprattutto ove si consideri che trattasi di vicende relative a persone detenute, lontane dai propri cari e, sovente, ristrette in condizioni certamente peggiori rispetto a quelle che si trovano negli istituti penitenziari italiani. C’è una mala-gestione da parte della nostra diplomazia? La questione è estremamente complessa, in quanto gli elementi critici variano da nazione a nazione, da caso a caso. Nella mia esperienza posso dire di aver trovato sia uffici diplomatici efficientissimi sia inefficienti. Molte lentezze sono dovute al fatto che il personale è pochissimo e deve coprire territori e criticità enormi e la spending review (il taglio alla spesa pubblica, ndr) operata negli ultimi anni ha aggravato enormemente questo problema. Cosa potrebbe fare il governo italiano per i carcerati? Potrebbe fare moltissime cose, tante a costo zero. Ad esempio, potrebbe istituire una lista di interpreti volontari che si mettano al servizio dei concittadini che entrano in contatto con il circuito penale straniero. Oppure istituire liste di legali di riferimento: nei siti di molte ambasciate già si trovano ma, nella maggior parte dei casi, non si riesce a comprendere (né a sapere) quale sia la specializzazione degli avvocati e il livello di affidabilità, in quanto la procedura di accreditamento non è chiara. Certamente il governo dovrebbe stabilire un obbligo per gli uffici in terra straniera di seguire, se richiesti, tutte le udienze e, in generale, i procedimenti penali che riguardano gli Italiani, perché la presenza in tribunale di un funzionario italiano significa che lo Stato italiano c’è. Bisognerebbe cercare un sistema, simile al patrocinio per i non abbienti, per aiutare non soltanto il cittadino bisognoso ad usufruire di una difesa tecnica corretta e dignitosa, ma anche i familiari a mantenere i contatti con lui, per esempio facendoli usufruire di voli gratuiti o con tariffe speciali. Lei è l’avvocata di Prigionieri del Silenzio. Di cosa si occupa l’associazione? L’associazione, da oltre 10 anni, si occupa di italiani detenuti all’estero, supportando le famiglie in Italia, aiutando sia i detenuti che i loro cari ad interfacciarsi con il ministro degli Affari esteri e, se necessario, anche con gli avvocati locali. Ci occupiamo di segnalare la violazione di diritti umani anche sollecitando l’intervento della varie autorità consolari affinché intervengano per risolvere i problemi. Abbiamo affrontato ogni tipo di questione: dalla mancanza di farmaci al diniego di consegna della corrispondenza dei familiari perché non tradotta in lingua locale, sino a vicende in cui abbiamo dovuto segnalare le gravi torture perpetrate come nel noto caso di Roberto Berardi. Quanti detenuti italiani all’estero state seguendo? Ne seguiamo sempre almeno qualche decina, alcuni in modo serrato e nei quali presto la mia opera come difensore, e altri in modo più blando, nel senso che ci attiviamo esclusivamente se il detenuto o la famiglia segnalano problemi. Quali sono le maggiori difficoltà nel seguire questi casi? Quella di conferire compiutamente con il detenuto, l’ostruzionismo della nazioni straniere, talvolta, come dicevo prima, le lentezze dei consolati o delle ambasciate. Quali le difficoltà più diffuse per i carcerati? Quando una persona è tratta in arresto o incarcerata ogni problematica si amplifica enormemente perché già essere privati della libertà personale è una pena e far valere i propri diritti da una condizione di “cattività” è molto complicato. Indubbiamente, però, il più grave è il problema della lingua, perché nella maggior parte dei casi il cittadino non conosce la lingua locale o, comunque, non in modo tale da potersi districare in questioni giudiziarie e in emergenza. Spesso l’interprete non viene concesso e, anche quando è presente, non si ha mai certezza del livello di preparazione. Si pensi per esempio a un lavapiatti non scolarizzato che viene chiamato soltanto perché ha imparato la nostra lingua lavorando in Italia, è chiaro che non sarà in grado di comprendere appieno il significato delle parole neanche nella propria lingua, figuriamoci di tradurle. Spesso gli arrestati sono convinti a firmare dichiarazioni confessorie illudendoli che saranno scarcerati, mentre in realtà decretano la morte della loro difesa. I difensori, spesso, approfittano della condizione di straniero e chiedono parcelle esorbitanti per difese inefficaci, se non addirittura dannose. La distanza da un difensore con cui comunicare compiutamente, dai propri familiari e, spesso, dall’autorità italiana, sono elementi che complicano ogni aspetto di queste vicende, dalla elaborazione di una corretta difesa tecnica alla sofferenza per l’isolamento in cui si ritrovano a vivere, isolamento dovuto alle barriere linguistiche e culturali. Vi è poi un altro aspetto da considerare: le famiglie dei detenuti non sanno come interfacciarsi con le autorità italiane e straniere e si trovano sempre in grandissima difficoltà per comprendere quale sia la situazione in cui si trova il loro congiunto, cosa si possa fare e chi si debba contattare. Myanmar. Indagavano sui crimini contro i rohingya: incriminati due giornalisti di Riccardo Noury Corriere della Sera, 10 luglio 2018 Era difficile immaginare che sarebbe andata diversamente. Ieri, in una giornata nerissima per la libertà di stampa, due giornalisti birmani dell’agenzia Reuters sono stati formalmente incriminati per violazione della legge sui segreti di stato. Ora rischiano fino a 14 anni di carcere. Wa Lone e Kyaw Soe Oo (da sinistra a destra nella foto) hanno fatto ciò che ogni giornalista investigativo coraggioso dovrebbe fare: dopo lo scoppio della crisi nello stato di Rakhine, che ha causato la fuga di oltre 700.000 civili rohingya in un crescendo di violenze e brutalità da più parti definiti crimini contro l’umanità, hanno cercato di raccontare la verità. Per questo, il 12 dicembre dello scorso anno sono stati arrestati nell’ex capitale Yangon, con ogni probabilità attirati in una trappola dalle forze di sicurezza di Myanmar. Da allora Amnesty International chiede la loro immediata e incondizionata scarcerazione. L’incriminazione di Wa Lone e Kyaw Soe Oo, gravissima di per sé, rappresenta anche un segnale nei confronti dei loro colleghi: non occupatevi di cose che non vi riguardano. Marocco. Manifestazione a Casablanca per liberazione detenuti gruppo al Hirak al Shabi Nova, 10 luglio 2018 Centinaia di persone hanno manifestato a Casablanca ieri in una marcia di solidarietà per chiedere la liberazione dei 54 membri del gruppo giovanile al Hirak al Shabi, condannati il 26 giugno scorso dalla camera penale della Corte d’appello della città a pene detentive che arrivano a 20 anni di reclusione. La mobilitazione segue quelle tenute nella scorsa settimana a Rabat, al Hoceima, Nador e nella stessa Casablanca, a volte degenerate in scontri tra i manifestanti e le forze di sicurezza. Le manifestazioni sono organizzate dai partiti di sinistra all’opposizione in Marocco, da associazioni per i diritti umani e dai parenti dei detenuti. Durante la marcia da al Hoceima a Casablanca, distanti circa 238 chilometri, è stata chiesto l’immediato rilascio dei membri di Hirak al Shabi detenuti e sono scanditi slogan contro il governo marocchino. Inoltre, i manifestanti hanno chiesto l’adozione di misure a favore della popolazione della regione del Rif in Marocco settentrionale. Ad al Hoceima, uno dei centri principali del Rif, è in corso da mesi una protesta guidata da al Hirak al Shabi, legata alla mancata realizzazione di una serie di progetti di sviluppo lanciati nel 2015 nella regione. Tra i sostenitori della mobilitazione figurano anche ambienti locali legati alla produzione di cannabis, per cui il Rif è noto a livello internazionale. Iran. Quando anche danzare è un crimine di Tiziana Ciavardini Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2018 L’Iran è ancora un Paese troppo difficile per le donne. Le autorità iraniane qualche giorno fa hanno arrestato una giovane ragazza di 19 anni, Maedeh Hojabri, con l’accusa di aver postato sul suo account Instagram una serie di video che la ritraevano in casa, mentre ballava. La tv di Stato, la Irib - la stessa che ha criticato aspramente le mie dichiarazioni sulle proteste dei giorni scorsi a Tehran - ha trasmesso un video in cui si vede la giovane ammettere di aver violato le “norme morali” dell’Iran e in cui spiega che non era affatto sua intenzione. Confessione fatta attraverso intimidazioni e contro la sua volontà come le tante che spesso vengono fatte rilasciare a molti detenuti per esercitare una sorta di convincimento nell’opinione pubblica. La giovane Hojabri aveva oltre 43mila follower e aveva postato circa 300 video, molti dei quali in cui ballava senza velo. I suoi video avevano spesso il sottofondo di canzoni occidentali e spesso anche musiche persiane. Il suo account Instagram è stato chiuso e le autorità hanno annunciato che chiuderanno altri account rendendo sempre più complicato l’accesso ai social network. Sebbene, una delle tante contraddizioni iraniane consiste proprio nel divieto e nella facilità di arginare la censura su internet, attraverso filtri speciali, i Vpn e i proxy esterni scaricabili anch’essi in Iran. Nonostante la censura e i blocchi imposti dalla polizia informatica e dall’intelligence, sono centinaia di migliaia gli iraniani che comunicano attraverso il web spesso proprio per rivendicare il proprio malcontento e denunciare le numerose privazioni alle quali vengono sottoposti. Per capire meglio la situazione di quest’ultimo episodio discriminatorio nei confronti di una donna in Iran, ieri ho avuto uno scambio di informazioni con l’attivista Mashin Alinejad, la giornalista esule che qualche anno fa ha fondato My stealthy freedom, la campagna su Facebook nata per dare sostegno alle donne iraniane obbligate a indossare il velo. Nella nostra conversazione Mashin mi ha detto che la giovane ragazza ha 19 anni e non 17 come erroneamente era stato riportato ed è stata rilasciata su cauzione. Le è stato detto che non può rilasciare interviste o dichiarazioni e che non potrà avere un account su Instagram. Ha confermato di aver dovuto confessare in tv di aver danzato, atto considerato un “crimine”. Anni fa lo stesso procedimento era stato utilizzato nei confronti di sei ragazzi che vennero arrestati con l’accusa di aver “offeso la castità pubblica” per aver postato la clip di una versione del tormentone americano Happy. Il filmato mostrava tre uomini e tre donne senza velo che cantavano, ballano nelle strade e sui tetti di Teheran la canzone di Pharrell Williams. I ragazzi furono costretti a confessare sulla tv di stato “le loro azioni criminali”. Vennero rilasciati poco dopo e ricevuti dal presidente Hassan Rohani in segno di solidarietà. Stessa cosa sta avvenendo in questi giorni in Iran, in cui proprio alcuni religiosi si sono esposti recriminando l’arresto della ragazza contro i metodi della magistratura. La vera solidarietà però sta arrivando in particolare da tante donne, che stanno postando i loro video mentre danzano senza velo, con quell’eleganza e quella grazia che solo le donne persiane possono esibire. Un gesto visto non solo in supporto di Maedeh ma in sostegno di tutte quelle donne che attendono un cambiamento, che auspicano la parità di genere e lottano ogni giorno per il raggiungimento di una sempre lontana libertà. In Iran (e non solo) la danza da sempre è un modo per esprimersi, per poter dire la propria e dare la propria visione del mondo. La danza spesso è espressione di voglia di libertà, ma nella Repubblica Islamica non è ammesso nemmeno mostrare il proprio malessere; non è contemplato protestare e raccontare al mondo quanto sia difficile vivere in un Paese, in cui la donna è considerata subalterna all’uomo. Sicuramente dal 1979 a oggi le donne in Iran hanno subito notevoli cambiamenti e ottenuto enormi successi ma ancora non sufficienti per definirle “libere”. Proprio in questi giorni é arrivata la condanna per Shaparak Shajarizadeh la ragazza che lo scorso dicembre aveva rimosso il velo in segno di protesta partecipando alla campagna della Alinejad #WhiteWednesday. La pena inflitta è di 20 anni, di cui 2 anni in carcere e altri 18 in custodia in cui non potrà rilasciare dichiarazioni. Altre donne sono in carcere con la stessa accusa e si attendono i verdetti. C’è da chiedersi però come mai un Paese al collasso, con imminenti sanzioni dagli Stati Uniti e guardato con perplessità del mondo occidentale, continui imperterrito a mantenere e mettere in pratica leggi obsolete che, oltre danneggiare il futuro del popolo, altro non fanno che attirare nuovamente quell’immagine negativa che per anni abbiamo tentato di cancellare. Il dubbio che sia per spostare l’attenzione da qualcos’altro rimane.