I volontari in carcere: “certezza della pena, non della galera” Redattore Sociale, 9 giugno 2018 XI Assemblea della Conferenza nazionale volontariato giustizia. Confronto sui “tentativi infiniti di dare sostegno alle persone in carcere”. Castellano (Dipartimento Giustizia minorile): “È giusto che chi sbaglia paghi. Il problema è come”. “Chi sbaglia paghi”: è uno degli obiettivi che, in materia di giustizia, il nuovo governo porta avanti con convinzione. Ma come deve pagare? Necessariamente con il carcere? E con quale carcere? Sono alcune delle domande che si è posta la Conferenza nazionale Volontariato Giustizia, ieri riunita a Roma, presso Palazzo Valentini, nella sua XI Assemblea. “70 volta 7” il titolo “evangelico” scelto per l’incontro: perché “il volontariato tutto, laico e cattolico - spiegano gli organizzatori - ha ben chiaro cosa sono quelle settanta volte sette: sono i tentativi infiniti di dare sostegno alle persone in carcere, di aiutarle a costruirsi un percorso verso la libertà, di seguirle quando faticosamente riescono ad accedere a una misura alternativa, di passare attraverso cadute e sconfitte senza arrendersi”. Una questione che ha per prima declinato Ornella Favero, presidente di Cnvg, aprendo i lavori di stamattina. “Siamo specialisti in disastri”, ha esordito, riferendosi alla complessità del carcere e delle storie di chi ci vive. “Ma ci sono cambiamenti che le istituzioni potrebbero fare, all’interno del carcere, senza dover mettere mano alle leggi. E il volontariato in questo gioca un ruolo di primo piano, ma deve unire le forze e farsi portatore di un pensiero comune”. Favero ha preso ad esempio il tema, fondamentale, dell’affettività: “L’uso di Skype, l’aumento del numero di telefonate ai familiari sono tutti semplici cambiamenti, che abbiamo provato a fare, ma su cui poi, almeno noi a Padova, stiamo tornando indietro, proprio per la nostra debolezza nel portare avanti un progetto comune. La diffusione di Skype, per esempio, che ha aperto una grande speranza e una concreta possibilità di ritrovare e rinsaldare gli affetti: ma abbiamo condotto una battaglia timidissima, sia come volontariato che come istituzioni, con una circolare che ‘invitava’ i direttori ad autorizzare l’uso di Skype, ma non forniva indicazioni e indirizzi. Si è così persa una grande occasione: perché rinsaldare gli affetti significa, tra l’altro, prevenire i suicidi”. Un buon lavoro è stato invece fatto con il progetto “A scuola di libertà”, che “sta diventando sempre più importante - ha riferito Favero - per superare la distanza, la rabbia e l’odio della società verso chi ha commesso reato, raccontando in modo diverso la realtà di ‘quelli che stanno dentro’ e delle loro famiglie. In questo caso - ha affermato ancora Favero - il volontariato ha dimostrato tutta la sua capacità di pensare difficile, che è anche il nostro compito”. Facendo poi riferimento al programma del nuovo governo, Favero ha dichiarato che “certezza della pena non deve significare certezza della galera. Dobbiamo aprire invece il territorio a tutte le possibilità che spettano a ‘chi sta dentro’. Perché sono queste possibilità differenti che, soprattutto, creano responsabilità. Responsabilità dei detenuti, che devono assumersela rispetto alla loro storia; ma anche responsabilità delle istituzioni, che devono offrire luoghi e modi di rappresentanza, per esempio: perché, attraverso la rappresentanza, le persone detenute imparano a occuparsi degli altri. E questo è, appunto, il primo passo verso la responsabilità. Lo dimostra l’esperienza del carcere di Bollate, dove forme di rappresentanza sono ormai acquisite: abbiamo provato a esportarle a Padova, ma si è bloccato tutto - ha denunciato infine Favero - per tornare a quella ‘età della pietra’ che è l’estrazione a sorte”. A raccontare “da dentro” la realtà del carcere di Bollate, è intervenuto quindi il direttore della Casa circondariale, Massimo Parisi, riferendo soprattutto sulla questione della recidiva. “Dobbiamo costruire progetti strutturali per il dopo carcere, creando un vero e proprio programma di dimissioni, emanando direttive e creando collegamenti tra il carcere e i servizi sociali, per esempio, in una connessione costante con il territorio. E dobbiamo attivare tutti quei servizi, solo apparentemente secondari, per l’esercizio dei diritti: per esempio, la patente, l’invalidità ecc. Ci sono poi le misure alternative, che pure devono essere frutto di un’impostazione organizzativa precisa. Al Bollate, abbiamo circa 300 detenuti l’anno ammessi a queste misure. Ma abbiamo anche un’organizzazione che supporta questa possibilità: come il servizio educativo presente fino alle 21. È questo un esempio di quella “sicurezza integrata” che tutti siamo interessati a costruire”. Sono questi alcuni degli strumenti necessari per “costruire quella giustizia concreta di cui ci ha parlato il nuovo ministro, incontrando noi amministratori della giustizia lunedì scorso - ha riferito Lucia Castellano, dirigente generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. “Questa esigenza di concretezza è anche una nostra esigenza - ha detto - Ma cosa significa “giustizia concreta”? - ha domandato - significa giustizia veloce, innanzitutto, che dà risposte alle vittime e agli autori di reato in tempi rapidi, altrimenti non è credibile; è poi una giustizia commisurata, in cui ci sia proporzionalità tra offesa e reazione punitiva. Ed è anche una giustizia in cui la misura alternativa non va ancorata al concetto di premio o beneficio, deve essere inquadrata comunque come una pena e non essere “chiassosa”, come spesso accade. Dobbiamo insomma costruire una pena di comunità che abbia senso, attraverso programmi in cui si senta la punizione ma non la vessazione e soprattutto la persona si contamini con la parte sana e bella della nostra società. È questo il senso delle convenzioni con le diverse associazioni. Ed è qui che il volontariato gioca un ruolo chiave. Il nuovo governo chiede spesso che ‘chi ha sbagliato paghi’: è un principio giusto, ma il problema è: come si paga? Se la traduzione diventa ‘chi sbaglia va in galera’, dobbiamo essere consapevoli che questo non aumenterà la sicurezza sociale. Perché anche il carcere migliore del mondo non riuscirà ad abbattere la recidiva”. Il motto del volontariato in carcere? “70 volte 7” Vita, 9 giugno 2018 A Roma l’XI Assemblea nazionale della Conferenza nazionale Volontariato giustizia. Nelle sette sessioni temi quali la recidiva e il lavoro, il ruolo dei garanti, il carcere minorile, come pure i diversi fronti di impegno dei volontari. Senza dimenticare la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. Si è svolta ieri a Roma l’XI Assemblea nazionale della Conferenza nazionale Volontariato giustizia che ha scelto un titolo che è di per sé un programma: “70 volte 7”. Un titolo strano, ammettono gli stessi proponenti perché oggi appare strano e impopolare dire che bisogna “70 volte 7” aiutare le persone che escono dal carcere a rientrare nella società attraversando cadute e sconfitte senza mai arrendersi. “Una società che ha paura e che immagina che il carcere “cattivo” ci renda più sicuri. Alla politica chiediamo di ascoltare le nostre esperienze e di capire che la sicurezza si crea aiutando le persone che hanno commesso reati a costruirsi una vita dignitosa e non ricacciandoli ai margini della società civile” spiega la Cnvg che sottolinea come il volontariato tutto, laico e cattolico ha ben chiaro cosa sono quelle settanta volte sette (il riferimento è al passo evangelico in cui Gesù alla domanda di Pietro “quante volte dovrò perdonare a mio fratello se pecca contro di me?” risponde “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”): “sono i tentativi infiniti di dare sostegno alle persone in carcere, di aiutarle a costruirsi un percorso verso la libertà, di seguirle quando faticosamente riescono ad accedere a una misura alternativa, di passare attraverso cadute e sconfitte senza arrendersi”. Sette le sessioni in programma dopo l’apertura dei lavori da parte della presidente della Cnvg Ornella Favero - presenti Santi Consolo, Capo del Dipartimento Amministrazione penitenziaria e Mauro Palma, presidente dell’Autorità Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Nelle sessioni si affrontano temi quali “Cosa fare perché sia sufficiente dare una seconda possibilità” con l’intervento del direttore della casa di reclusione di Milano - Bollate Massimo Parisi o la necessità di raccontare a una società spaventata che più “apertura” del carcere crea più sicurezza. La riforma mancata dell’Ordinamento Penitenziario, che toglieva un po’ di ostacoli ai percorsi di reinserimento delle persone detenute, è stata bloccata facendo credere alla gente che “svuotava le carceri” e moltiplicava i rischi per la società. Previsti gli interventi di Fabio Gianfilippi magistrato di Sorveglianza a Spoleto, già membro della Commissione per la riforma dell’Ordinamento penitenziario. Nell’ultima sessione della mattina il Volontariato “interroga” i garanti con gli Interventi di: Gabriella Stramaccioni, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Roma - Roma Capitale e Stefano Anastasia Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Regione Lazio e regione Umbria?? Nel pomeriggio i lavori riprendono affrontando una sessione dal titolo “Come prendersi cura dei ragazzi più disastrati” dedicata a quanti finiscono al carcere minorile con gli interventi di Gianluca Guida, direttore dell’Istituto penale di Nisida, Ettore Cannavera, volontario nell’Istituto penale minorile di Quartucciu, dove per anni è stato cappellano, fondatore della Comunità La Collina (Serdiana). Le ultime tre sessioni guardano dentro l’azione del volontariato: “Vittime e carnefici: quando il volontariato sa farli dialogare” e Quando il Volontariato contribuisce ad “aprire dei silenzi” con l’intervento di Stefano Raimondi poeta e critico letterario, laureato in Filosofia (Milano). Ha numerose pubblicazioni al suo attivo, fra cui Soltanto vive. È tra i fondatori della rivista filosofica Materiali di estetica, ha svolto laboratori di poesia all’interno della C.R di Opera e si chiude con l’ultima sessione dal titolo Il Volontariato che non ama la parola “fallimento”, analizzando uno degli strumenti che più aiuta a dare un senso a vite frantumate quale la scrittura. Le conclusione dell’assemblea sono affidate alla presidente Ornella Favero. Bonafede in tv chiude gli spiragli su carcere e intercettazioni di Errico Novi Il Dubbio, 9 giugno 2018 I rischi di un governo che sui media si fa estremista. Ci sono due governi. E il secondo rischia di fare ombra al primo. Il governo numero uno è quello che parla per vie ufficiali, si confronta con i soggetti istituzionali (avvocati e magistrati, nel caso della giustizia) e se dà interviste, lo fa sulla carta stampata con una dose di realismo nei limiti dell’accettabile. Poi c’è il governo gialloverde “ombra”. Di se stesso. È quello che va in tv. E che deve mostrarsi più cattivo. Aderente alle attese dell’elettorato più arrabbiato e giustizialista. Ecco, lo schema rischia di condizionare in modo particolare il nuovo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Che, sulla capacità di rinunciare alle lusinghe mediatiche, si gioca anche il rischio di una rivolta dei penalisti a Bari, come si vedrà tra un attimo. E che l’altro ieri sera, nella sua prima apparizione in un salotto televisivo, a “Piazzapulita” su La7, ha sì mantenuto il profilo che ne fa una delle espressioni meno irrequiete dell’esecutivo, ma ha dato segnali decisamente più “radicali” su riforma del carcere e intercettazioni. Nel primo caso, in vista di una riscrittura del decreto Orlando, ha criticato un aspetto che, nell’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano giovedì, non aveva messo nel mirino: il rischio che, con il provvedimento predisposto dal suo predecessore, si faccia “solo svuota carceri”, laddove “le pene alternative vanno razionalizzate, mirate solo a chi merita”. Senza tenere in conto, evidentemente, che la riforma penitenziaria rimasta in sospeso provvede esattamente a questo: eliminare sì le preclusioni nell’accesso ai benefici ma anche, e soprattutto, i relativi automatismi. Nel secondo caso, relativo alle intercettazioni, Bonafede ha sollevato davanti alle telecamere de La7 un’obiezione pure tenuta da parte nell’intervista al quotidiano diretto da Travaglio: “Se il giornalista ritiene che un’intercettazione è di interesse pubblico deve avere la libertà di pubblicarla”. Ma il decreto Orlando non introduce divieti in proposito, anzi: consentirà ai cronisti di ottenere copia integrale delle ordinanze. Se però Bonafede trova comunque un “bavaglio” in quelle norme, vuol dire che non gli stanno bene neppure le precauzioni minime introdotte per evitare la “sputtanopoli”, ossia l’obbligo pm e giudici di limitarsi a riportare i soli passaggi “essenziali” delle intercettazioni. In tv, insomma, il nuovo ministro sembrerebbe voler lasciare a disposizione dei giornalisti tutto quanto può servire loro a entrare anche nella vita privata degli indagati. C’è uno scarto evidente nel linguaggio e nei messaggi. Si tratta di capire se il governo “ombra”, quello televisivo, si imporrà su quello vero anche negli atti ufficiali. Nel caso di Bonafede lo si potrebbe verificare a breve. C’è uno snodo decisivo rispetto alla questione del Tribunale di Bari finito sotto le tende: i poteri straordinari, che il ministro della Giustizia non vorrebbe istituire ma che sarebbero, spiega il presidente dell’Ordine degli avvocati di Bari Giovanni Stefanì, “il solo strumento in grado di superare gli ostacoli urbanistici nella individuazione di un nuovo immobile all’interno della città”. Bonafede ha ribadito di non voler assolutamente nominare un commissario straordinario. “Sarebbe molto meglio anche per noi se sollecitasse un decreto legge che conferisse a lui stesso i poteri per andare in deroga e superare i problemi di destinazione d’uso emersi per almeno due immobili proposti da altrettanti imprenditori”, spiega Stefanì. L’impressione però è che il guardasigilli non voglia sentir parlare di commissari straordinari non perché non comprenda le ragioni degli avvocati, ma perché quella soluzione evoca mediaticamente altre stagioni e ben altre vicende. Ad esempio l’era Bertolaso. La via d’uscita per Bari sembra dunque in conflitto con esigenze di carattere mediatico esattamente come le valutazioni su carcere e intercettazioni. Si tratta di capire se Bonafede sarà in grado di affrancarsene. E, nel caso di Bari, riuscire così a evitare lo “spezzatino” della giustizia: senza i poteri straordinari, infatti, gli uffici penali finirebbero smembrati in due piccoli immobili, uno dei quali addirittura fuori città, a Modugno. È contro questo incubo che sono mobilitati i penalisti del capoluogo pugliese: per lunedì hanno convocato un’assemblea straordinaria destinata a proclamare iniziative clamorose, se da via Arenula si insisterà con il trasloco sdoppiato. Il presidente della Corte d’appello Franco Cassano è dalla parte della Camera penale, e ha costituito una conferenza permanente. Da Roma, presidente e segretario dell’Unione Camere penali, Beniamino Migliucci e Francesco Petrelli, scrivono a Bonafede e gli chiedono “con la massima urgenza un incontro, al fine di poterle rappresentare le specifiche esigenze e le proposte di tutti i colleghi baresi, facendoci responsabilmente carico di ogni possibile futura mediazione”. In pratica: vediamoci e troviamo un accordo se no a Bari la situazione sfugge di mano. Esito evitabile. Basta che le logiche del governo ombra non prevalgano su quello vero. Tutela della vittima e rieducazione del sex offender di Veronica Manca* Il Dubbio, 9 giugno 2018 Un equilibrio tra l’approccio giuridico e quello medico è complicato da luoghi comuni e stereotipi. Partiamo, innanzitutto, dai luoghi comuni, miti e stereotipi sui reati a sfondo sessuale per tentare, dati alla mano, di interpretare in modo più corretto ed equilibrato il fenomeno. In primo luogo, viene normalmente ritenuto che i reati sessuali vengano compiuti da sconosciuti. Tale è una supposizione che non trova, tuttavia, riscontro dal punto di vista statistico, atteso che i dati pubblicati dal più recente studio nazionale in tema denominato “Indagine sulla sicurezza delle donne” - condotto dall’Istat nel 2006 e poi nel 2014 (è stato annunciato una nuova edizione, in corso nel 2018) hanno dimostrato come le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner, parenti o amici. Gli stupri vengono commessi nel 62,7% dei casi dai partner, nel 3,6% da parenti e dal 9,4% dagli amici. Per quanto riguarda gli abusi subiti da minori di anni sedici, la situazione non muta: le violenze sono, per la maggior parte, commesse da parenti (l’80,4% dai padri, 73,2% dai fratelli, 59,5% dai nonni e il 55% dagli zii). Ulteriore luogo comune: si ritiene che i reati sessuali non vengano sanzionati penalmente in modo così effettivo quanto la “certezza della pena” lo richiederebbe. In realtà, il problema è a monte, dato che solo una parte marginale degli autori dei reati sessuali viene realmente perseguita, in quanto il c.d. “numero oscuro” è, purtroppo, ancora altissimo: ben il 95% dei casi preferisce non denunciare! Ancora. Si pensa che i reati sessuali siano commessi solo da uomini, ma la criminalità/ devianza al femminile (per quanto minoritaria) non è del tutto sconosciuta alla cronaca nera e, pertanto, non deve essere sottovalutata. Il profilo comune dello stupratore dovrebbe coincidere - secondo l’opinione diffusa - in un soggetto di una certa età, profondamente disturbato: secondo le statistiche più recenti, invece, l’abitudine a molestare le donne (ma anche i bambini) inizia generalmente verso i 15/ 16 anni d’età (Ferraris-Graziosi, L’identikit del pedofilo, 11 dicembre 2013, associazionepromoteo.org). Di più. Risulta difficile ammettere che i giovani commettano efferati crimini sessuali: ma, in realtà, secondo le informazioni disponibili, il 47% gli autori di reati minorenni hanno un’età compresa tra i 14 ed i 16 anni, mentre il 52% ha un’età tra i 16 ed i 17 anni. Si è convinti, inoltre, che la maggior parte degli autori di reati sessuali sia straniero, quando, a ben vedere, un’indagine condotta dall’Istituto Demoskopika ha rivelato che tra i denunciati il 61% è di nazionalità italiana, mentre l’8,6% comunitari (rumeni), il 6% extracomunitari (marocchini), l’1,3% tunisini. Dall’analisi dei dati risulta difficile, quindi, fornire una descrizione unitaria (un profilo criminale) dei c. d. sex offenders (detti anche, SO). Si ricorre in criminologia e nel contesto della giustizia penale al termine sex offenders per definire una serie di soggetti il cui comportamento patologico diventa penalmente perseguibile; nello specifico, si tende ad indicare coloro che vengono ritenuti giudizialmente responsabili di reati sessuali. Dai sex offenders devono essere distinti i c. d. sex addicter, quegli individui che risultano essere affetti da dipendenze sessuali che non necessariamente sfociano in condotte illecite. Da un punto di vista medico-scientifico, la categoria dei sex offenders rimanda al quadro delle parafilie, ossia alle pulsioni sessuali connotate da manifestazioni di attrazione o eccitamento nei confronti di oggetti o situazioni ritenute “anormali” (ove vengono incluse anche tutte le aberrazioni connotate da abusività, continuità e compulsività). Da un punto di vista giuridico, invece, il panorama si complica. Ad oggi il legislatore italiano ha esteso tale categoria, fino a ricomprendervi dal gravissimo delitto di violenza sessuale di gruppo, ai sensi dell’art. 609-octies c. p., alla condotta meno riprovevole, ma pur sempre perseguibile penalmente, della detenzione di materiale pornografico, ai sensi dell’art. 600- quater. 1 c. p.: lo statuto del c. d. “diritto penale sessuale” è particolarmente repressivo e punitivo, nel complesso le fattispecie sono caratterizzate da pene elevate, con cornici edittali notevolmente ampie e severe, sia nel minimo che nel massimo della pena; forte inoltre la risposta sul piano delle pene accessorie, oltre che a livello di misure di sicurezza. Il “diritto penale sessuale” si caratterizza, altresì, da termini di prescrizione raddoppiati, da un regime di procedibilità ad hoc e da un “doppio binario cautelare”, differenziato rispetto alla generalità dei delitti. La risposta ferrea dell’ordinamento prosegue anche in fase esecutiva, dove il sex offender - nel corso degli ultimi decenni - è stato assimilato, sul piano del trattamento penitenziario, all’autore di reati inerenti alla criminalità organizzata: nelle trame dell’ordinamento, si coglie immediatamente l’avversione per tali tipi di reato (rectius, forse più che per i reati, per gli autori), perché con tali atti il colpevole va a sfregiare la parte più intima, pura e vulnerabile della nostra società, la donna ed il minore, e, come tale va punito severamente a tal punto da non meritare soluzioni alternative al carcere (se non in termini assolutamente marginali e più difficili). Nei loro confronti, lo Stato sembra aver limitato drasticamente la tensione rieducativa a cui dovrebbe - in ogni caso - tendere la pena (si pensi alle limitazioni di cui all’art. 656 c. p. p., ovvero all’inserimento dei delitti sessuali all’interno dell’art. 4- bis Ordinamento penitenziario), dato che prevale l’istanza securitaria unita a esigenze preventive (la collocazione degli stessi nella categoria dei “protetti”, rimanda all’istanza special- preventiva negativa, della pura neutralizzazione). La completa neutralizzazione e il totale isolamento in una sezione apposita di persone affette da problematiche affini, senza alcun supporto trattamentale specifico, davvero può rappresentare una soluzione pubblica ottimale? In tali termini, anche soluzioni estreme - non accettabili in un ordinamento costituzionale in cui che si voglia o no al centro colloca pur sempre la persona sia essa libera, detenuta, vittima o colpevole - potrebbero essere rivendicate, ma in un sistema che tende costituzionalmente alla rieducazione, ovverosia, con toni più semplici, al recupero all’interno della società comune di tali soggetti, è indispensabile un intervento statale, che predisponga degli strumenti utili e fornisca i mezzi necessari per operare correttamente in una prospettiva futura, funzionale anche alla sicurezza della collettività, oltre che del singolo. Meritori, quindi, i progetti trattamentali diretti al potenziamento della attività trattamentali (come dell’introduzione di figure professionali specialistiche, lo psicoterapeuta), che siano in grado di riorientare i comportamenti deviati, responsabilizzare gli autori (anche con percorsi di giustizia riparativa, tramite l’incontro con la vittima reale o semplicemente virtuale), sensibilizzare le famiglie e il contesto sociale di riferimento, senza pregiudizi, sentimenti di avversione e odio. Sul punto tanto è stato fatto, moltissimo viene svolto in modo egregio ogni giorno (dal Progetto pilota presso la Casa di reclusione di Milano Bollate, alle numerose iniziative territoriali, in parte sostenute direttamente dal terzo settore e dal volontariato penitenziario), ma molta strada deve essere ancora percorsa - una sfida quotidiana - per la ricerca di un giusto equilibrio tra la tutela della vittima e la presa in carico dell’autore di reato verso la costruzione di una società condivisa, che non si nasconde dietro ai mali più oscuri, ma ne prende atto e li affronta per superarli. *Avvocato del Foro di Trento e responsabile della Sezione Diritto Penitenziario per Giurisprudenza Penale Sotto sequestro di Mattia Feltri La Stampa, 9 giugno 2018 La forza illimitata, quasi brutale con cui lo Stato esercita il diritto di indagare i cittadini, processarli e incarcerarli è una forza legittimata dagli stessi cittadini. Sono i cittadini a delegare allo Stato quella forza a tutela di tutti, delle vittime e dei colpevoli, perché lo Stato ne faccia un uso e non un abuso. Tocca cominciare con questo fervorino siccome pare in voga l’idea che si debba fare giustizia per le vittime, quando invece si fa giustizia per le vittime e anche per i colpevoli, che siano presunti o conclamati (senza considerare i casi non rari in cui i colpevoli si rivelino a loro volta vittime, e della giustizia stessa). Vengono in mente queste considerazioni - ovvie, come al solito - perché a Bari succede l’incredibile: il palazzo di giustizia cade a pezzi ed è stato sgomberato, e le udienze si tengono a rilento in tende da campo. Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini, per evitare che le lungaggini mandino a monte i processi, ha proposto di sospendere la prescrizione. È già stato fatto per L’Aquila, ha detto Legnini. Davvero stupefacente. All’Aquila c’era stato un terremoto, a Bari invece è lo Stato che per sciatteria non riesce a garantire i tempi prestabiliti, e ne riversa le conseguenze sugli imputati. La prescrizione è stata pensata perché il cittadino, posto sotto sequestro (anche solo psicologico) dallo Stato, sia giudicato entro tempi ragionevoli. Se per manifesto sfacelo non è in grado di farlo, il patto coi cittadini è rotto, e l’uso di forza diventa un intollerabile abuso. La giustizia in Italia è solo per i ricchi di Paolo Biondani L’Espresso, 9 giugno 2018 Prescrizione per i reati economici, privatizzazione dei processi, costi legali inarrivabili. Così in Italia i vip restano impuniti. Più sicurezza, più carcere, più armi contro la criminalità. Più diritti, più tutele, più risarcimenti per le vittime della crisi. In un’Italia sprofondata in una campagna elettorale permanente, le questioni giudiziarie sono al centro della propaganda politica. E i cittadini si vedono tempestare di promesse. Nuove leggi miracolose. Progetti di riforma a costo zero. Soluzioni facili e immediate per problemi complicati. Slogan e comizi fanno leva quasi sempre sulle emozioni scatenate da un singolo caso di violenza spettacolarizzato dai media: l’omicidio impressionante, la rapina nella casa di famiglia, l’attentato terroristico tra la folla. Di giustizia civile, che secondo tutti gli esperti è la vera e cronica emergenza italiana, nell’arena elettorale si parla pochissimo. Ma anche sul fronte della lotta al crimine, raramente si confrontano le promesse, e le paure dei cittadini, con la realtà del nostro sistema giudiziario. Tutti parlano di legalità e sicurezza, ma i dati oggettivi sembrano interessare solo a magistrati e professori. Un esempio? La recidiva: è il termine tecnico che descrive la ricaduta nel reato. Fotografa chi torna a delinquere dopo aver finito di scontare una precedente condanna. È un problema enorme: ogni mese dalle carceri italiane, secondo l’ultimo studio statistico del ministero della giustizia, escono dai duemila ai tremila ex detenuti. Tranne i casi eccezionali di ergastolo “ostativo”, ogni pena ha una durata massima: quasi tutti, prima o poi, tornano in libertà, anche i condannati per omicidi, violenze sessuali, mafia e altri reati gravissimi. Ma quanti ex detenuti hanno cambiato vita? E quanti invece tornano al crimine? “Più del 70 per cento, purtroppo”, risponde Francesco Cascini, pm antimafia a Roma ed ex numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). “Per avere cifre esatte, servono anni di studi statistici, ma trovare un dato generale, a livello nazionale, è semplice: basta interrogare il sistema informatico del Dap e chiedere, per ogni nuovo detenuto, se è già stato in carcere. L’ho fatto molte volte: le risposte affermative variano dal 70 all’80 per cento. Quindi parliamo di decine di migliaia di persone a rischio di recidiva. Questo significa che il nostro sistema penale non realizza la sua funzione di rieducazione, recupero, reinserimento nella vita civile, che sarebbe imposta dalla Costituzione. Dopo i famosi pacchetti sicurezza, abbiamo avuto punte di 70 mila detenuti, con carceri sovraffollate, invivibili; oggi, dopo le ripetute condanne dell’Italia per violazione dei diritti umani e le conseguenti misure legislative, abbiamo comunque più di 50 mila reclusi. Eppure quasi nessuno si chiede che fine fanno gli ex detenuti. Scontata la pena, cosa fa l’assassino? E il rapinatore di banche? E il pedofilo? Il carcere e i processi costano. Ma la recidiva ha costi sociali molto più alti”. Il magistrato, dopo anni di antimafia in Calabria e Campania, è stato anche capo del Dipartimento della giustizia minorile, che segue logiche rieducative: la reclusione è un’eccezione per i casi più gravi, la regola è un percorso di formazione, scuola, lavoro, recupero personale e familiare. “Per chi ha meno di 18 anni si parte dal presupposto, accettato, che il tempo della pena serve a ricostruire il futuro. Lo Stato e molti enti locali, ma anche la Chiesa e le associazioni offrono risorse: in media gestiamo circa 20 mila minori in esecuzione esterna, cioè fuori dal carcere. In certe zone d’Italia l’assenza di politiche per i giovani crea un paradosso: l’assistenza sociale arriva solo dopo l’arresto”. E nell’umanitaria giustizia minorile qual è il tasso di recidiva? “La metà degli adulti: 30-35 per cento”. Il mito della linea dura è incrinato anche dalle statistiche internazionali verificate dall’Istat. Le nazioni con il più alto numero di detenuti in rapporto alla popolazione, cioè le repubbliche baltiche e gran parte dei paesi dell’est, hanno tassi di omicidio molto superiori alla media europea: il rischio di morire ammazzati è da due a nove volte più alto che nell’Italia di oggi. Quindi più carcere non significa più sicurezza. Anzi, le manette facili sembrano aumentare la propensione alla violenza. I pensatori progressisti, da Beccaria a Turati, non avevano bisogno di statistiche per insegnare che un carcere disumano è una scuola di delinquenza. Chi entra spacciatore ne esce narcotrafficante, il ladro diventa rapinatore, il criminale comune è reclutato dalla mafia. Oggi l’unico grande penitenziario per adulti dove la rieducazione non è una favola è Milano-Bollate: una struttura moderna, inaugurata nel 2000, con più di mille detenuti inseriti in programmi di formazione e lavoro anche esterno. Un mese fa due autorevoli studiosi, Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese, hanno pubblicato la prima ricerca scientifica sui detenuti trasferiti da altre prigioni a Bollate: il risultato più vistoso è che, per ogni anno trascorso in questo carcere più umano, la recidiva crolla del 10 per cento. Questo significa che, in 18 anni di attività, il modello Bollate ha evitato all’Italia migliaia di gravi reati. Meno omicidi, più paure - In questi anni molti leader politici hanno parlato di giustizia per attaccare indagini, arresti e sentenze di condanna, se coinvolgono la classe dirigente o personaggi famosi. In realtà proprio nel sistema penale c’è il settore che funziona meglio e ottiene risultati riconosciuti e studiati anche all’estero: la lotta alla criminalità. In Italia i reati più gravi sono in continuo calo (vedi tabelle). Gli omicidi sono al minimo storico: come dimostrano 150 anni di statistiche pubblicate dal professor Marzio Barbagli, dall’unità d’Italia ad oggi il rischio di morire ammazzati non è mai stato così basso. Tra il 1988 e il 1991 si contavano, in media, tre delitti al giorno. Il tasso di omicidi era quattro volte più alto di oggi. Anche le rapine sono in calo. Nell’ultimo decennio si sono quasi dimezzate, soprattutto le più gravi, come gli assalti a banche e uffici postale organizzati da bande armate. Nelle mappe della criminalità diffusa aumentano solo i furti in casa, senza violenza sulle persone (altrimenti diventano rapine), con una crescita continua fino al 2014 e un lieve calo successivo. Non sembra trattarsi di un effetto della crisi e nemmeno degli sbarchi di profughi al sud: i ladri colpiscono soprattutto nelle regioni del nord dove c’è meno disoccupazione, molte seconde case sfitte e abitazioni di famiglia che si svuotano perché tutti vanno a lavorare. Un altro problema che non ha soluzioni semplici è la crescita allarmante delle percentuali di femminicidi e delitti tra familiari e conoscenti. I giudici dei divorzi, a Milano, segnalano un parallelo “aumento impressionante della litigiosità e cattiveria nelle cause tra coniugi, che spesso strumentalizzano i figli”. Stando ai dati, insomma, la sicurezza bisognerebbe imporla prima di tutto dentro le case. Fuori, la criminalità cala: magistrati, poliziotti, carabinieri e finanzieri hanno raggiunto risultati storici. A spiegare il crollo sono soprattutto le indagini antimafia. Nel 1990 nel sud dominato da cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta c’erano tassi di omicidio spaventosi: in Sicilia 8,2 delitti ogni centomila abitanti, in Calabria 15,1. La media nazionale oggi è precipitata a 0,66. Le regioni più a rischio restano (nell’ordine) Campania, Puglia, Sardegna e Calabria, ma il dato più negativo oggi è 1,42. Meno di un decimo del record di trent’anni fa. La lotta alla mafia ha ridotto anche altri reati, dalle estorsioni ai morti per droga, mentre i sequestri di persona sono quasi scomparsi. Anche gli effetti delle indagini sono diversi. In media vengono arrestati oltre il 90 per cento degli assassini di familiari e il 70-80 per cento dei rapinatori che sparano e uccidono. Negli omicidi di mafia invece il tasso scende al 20 per cento (con punte massime di 30), quindi i killer restano liberi di commettere altri crimini. I maxi-processi alle organizzazioni mafiose, dunque, hanno un effetto moltiplicatore della sicurezza. Nonostante la riduzione oggettiva della criminalità violenta, tra gli italiani cresce da anni la paura, misurata dai sondaggi sulla percezione del rischio. La crescita non è lineare, ma altalenante: i dati dell’Istat fanno ipotizzare che la sensazione di insicurezza aumenti nei periodi di scontro politico, propaganda elettorale e martellamento mediatico. Rovesciando l’esempio, questa ipotesi si rafforza. Nella storia d’Italia, il tasso più allarmante di omicidi (esclusa ovviamente la seconda guerra mondiale) risale agli anni dell’affermazione della dittatura fascista. Oltre a incarcerare gli oppositori e abolire la libertà di pensiero, il regime censurava perfino la cronaca nera, per non smentire la retorica dello Stato forte. Il rischio di morire ammazzati era enormemente più elevato di oggi, ma nessuno poteva farlo percepire al popolo italiano. Il rovescio della medaglia è la prescrizione, che garantisce una sostanziale impunità per tutti i reati dei colletti bianchi: evasioni fiscali, scandali economici, disastri ambientali, morti sul lavoro, illeciti bancari e finanziari, truffe e corruzioni. Prescrizione significa che il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma sono scaduti i termini massimi di punibilità del colpevole, che in Italia sono bassissimi. Quindi per i ricchi e potenti le regole del diritto si rovesciano: chi sbaglia non paga. In media, ogni anno, vengono così annientati circa 130 mila processi penali. E ogni sentenza di prescrizione può cancellare decine di reati. Un privilegio italiano che si è aggravato dopo il 2005 (vedi tabella) con la legge “ex Cirielli” varata dal governo Berlusconi, poi in parte riformata dal centrosinistra con il ministro Orlando. Più di metà delle prescrizioni scattano già alla fine delle indagini: il processo muore prima di iniziare. L’anomalia più assurda (all’estero non esiste) è la prescrizione dichiarata nelle sentenze di tribunale, appello e cassazione: il processo si fa e dura anni, ma non si condanna nessuno. E tra i pochi colpevoli conclamati di reati da ricchi, rischiano il carcere solo i peggiori delinquenti: sotto il limite dei quattro anni di pena, l’ex incensurato resta fuori di galera, o torna subito libero, perché ha diritto di ottenere l’affidamento ai servizi sociali. Tribunali di classe - Fra tante polemiche pubbliche sulla giustizia, i cambiamenti più profondi stanno passando sotto silenzio. Tra i 9.543 magistrati italiani, più di metà (5.061) sono donne. Tra i capi degli uffici dominano ancora i maschi, soprattutto ai livelli più alti, ma la quota femminile è in continua crescita. Alessandra Cerreti, pm antimafia a Milano (e prima a Reggio Calabria), evidenzia un altro cambiamento: “L’età media di ingresso nella magistratura, quando feci il concorso, era di 25 anni. Oggi, dopo la laurea, è obbligatoria una lunga formazione: i corsi privati costano, con tutti i problemi e rischi conseguenti, l’età media è salita a 31 anni e continua a crescere. Quindi nelle procure e tribunali non arrivano più i giovani, ma persone sposate, con figli. Questo incide sulla propensione al sacrificio, ad accettare carichi di lavoro straordinari, ma anche sulla composizione sociale della magistratura: quanti genitori di ceto medio-basso possono permettersi di far studiare i figli fino a 30 o 35 anni, in attesa di un concorso difficile, che non dà certezze di trovare lavoro?”. Anac. Cantone: “dopo tre anni l’Italia è un Paese diversamente corrotto” di Alberto Custodero La Repubblica, 9 giugno 2018 “Sì a Daspo e ad agenti sotto copertura”. Il presidente dell’Anac ospite a Circo Massimo su Radio Capital assicura che “l’incidente con il premier è archiviato”. “Una volta dall’estero ci chiedevano cosa fosse la corruzione. Oggi vogliono copiare il nostro modello di anticorruzione”. “Incidente certamente archiviato. Il presidente Conte mi ha spiegato il senso delle sue parole: si trattava di una frase estrapolata da un contesto, il quale invece andava in un senso diverso, cioè che l’Autorità è un punto di riferimento nel contrasto alla corruzione”. È il commento del presidente dell’autorità anticorruzione (Anac) Raffaele Cantone, ospite a Circo Massimo su Radio Capital, dopo la telefonata, ieri, con Giuseppe Conte in cui ha potuto chiarire le affermazioni del premier martedì alla Camera (“Non abbiamo i risultati che ci attendevamo, forse abbiamo investito troppo sull’Anac”). L’Italia è un Paese più corrotto o meno corrotto a distanza di 3 anni? “È un Paese diversamente corrotto. C’è attenzione e rispetto del mondo nei nostri confronti. Dopo l’incidente con Conte, ho ricevuto molti attestati sul piano internazionale. La Francia vuole imitare il nostro modello, i nostri controlli sull’Expo sono considerati best practice dall’Ocse. Oggi, dopo tre anni, siamo invitati all’estero a parlare del modello italiano non per spiegare come funziona la corruzione. Ma come funziona l’anticorruzione” Percepisce intorno alla sua Autorità un clima non positivo da parte del nuovo governo e della nuova maggiorana? Sembra esserci un cortocircuito: da un lato la volontà di un rilancio forte caro al M5s della lotta alla corruzione, ma dall’altro lato forse non c’è una convinta adesione a quello che avete fatto in questi anni? “La mia idea è che l’Anac nasce nel momento in cui è stato deciso che, oltre alla repressione penale, deve essere dato più spazio alla prevenzione. Se questa opzione cambia, è una scelta della politica. Io credo che la prevenzione sia indispensabile non in alternativa ma in aggiunta alla repressione”. Ormai sono tre anni che la sua autorità è in campo, c’è qualcosa che doveva o poteva funzionare meglio nella lotta contro corrotti e corruttori? “Noi non facciamo la lotta alla corruzione o ai corruttori. Il nostro ruolo è far rispettare le regole di prevenzione alla corruzione. Il nostro è un lavoro diverso da quello che deve fare la magistratura. Si poteva fare di più in alcuni ambiti? Sì, su alcuni aspetti. Per esempio sui tempi di risposta agli imprenditori o ai richiedenti alle stazioni appaltanti in tema di pre contenzioso, sulle vigilanze fatte molto più velocemente. Ma va detto che siamo l’unica Autorità indipendente a cui è imposto un limite di bilancio. Non nel senso che abbiamo poche risorse, ma (difficile da spiegare) che ne possiamo spendere poche. In sostanza, siamo autofinanziati dal mercato. Ma i soldi che abbiamo li possiamo spendere con grande difficoltà”. Sul tema del codice degli appalti anche il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli ha delle perplessità. Cosa ha da dire? “Toninelli mi ha detto che è un dossier che vuole studiare con attenzione. Sia il premier che il ministro mi hanno detto che c’è esigenza di rendere più fluido il meccanismo degli appalti. Ma non è il nostro codice dell’Anac, è stato votato dal Parlamento e dal Governo. Molte di quelle norme sono state approvate con consenso trasversale soprattutto nelle Commissioni. Sì, è possibile una deregulation. E noi faremo la nostra parte. Ma il codice degli appalti è competenza di governo e Parlamento” Jean Paul Bellotto: “Siamo stati colpiti dalla notizia che in Spagna l’ex tesoriere del partito popolare è stato condannato a 33 anni di carcere per corruzione. Cosa impensabile in Italia. Un possibile inasprimento delle pene potrebbe avere un effetto di deterrenza, da noi, o no?” “L’inasprimento delle pene c’è stato nel precedente governo, ma siccome non funziona in modo retroattivo non si sono ancora visti gli effetti. Da noi i responsabile dei crac bancari se la cavano con la sospensione condizionale della pena, negli Usa vengono condannati a 20 anni. Ma non è una questione di pene: possiamo avere risultati se impediamo a corrotti e corruttori di continuare a fare quello che facevano”. Il Daspo per corrotti e corruttori e l’introduzione dell’agente sotto copertura... “Il Daspo per corrotti e corruttori si può intendere come una serie di misure tali per cui se sei un politico condannato non puoi tornare alla politica. Ma bisogna stimolare anche gli imprenditori che spesso si giustificano sostenendo che ‘non potevamo fare diversamentè. La corruzione è un reato bilaterale, entrambi devono essere puniti. Quindi sì ai politici e amministrativi fuori dalla politica. Ma anche gli imprenditori fuori dagli appalti. In questo senso ben venga un Daspo, però vogliamo vedere come”. “Sono favorevole all’agente sotto copertura - afferma Cantone - distinguendolo dall’agente provocatore, figura particolarmente pericolosa. Riprendo quel che ha detto il procuratore Ielo: l’agente provocatore tende a creare nuovi casi di corruzione artificiale, ci bastano quelli veri”. Può essere un problema il fatto di essere stato nominato dal governo Renzi, lei sa che i nuov arrivati tendono a esecrare tutto ciò che è stato fatto in passato? “Io sono stato nominato dal governo ma la mia nomina fu votata all’unanimità, e quindi anche dai 5Stelle e dal centrodestra. Rivendico di essere equidistante, i nostri maggiori datori di lavoro, in passato sono stati esponenti del mondo 5 Stelle ma anche tanti del centrodestra e della Lega perché è più comodo occuparsi di corruzione quando si fa opposizione. Abbiamo ricevuto tantissimi esposti. E abbiamo avuto tanti attestati di stima. Se si cambia idea va bene. Ma noi siamo un’autorità indipendente e la nostra durata va oltre quella del mandato di governo”. Omicidio stradale. I giudici tra dubbi di costituzionalità e maxi-condanne di Emilio Randacio La Stampa, 9 giugno 2018 La nuova legge sull’omicidio stradale è troppo severa? I giudici di Torino sembrano esserne convinti. Tanto che ieri hanno accolto l’istanza di “legittimità costituzionale” presentata dall’avvocato Riccardo Salomone, difensore del guidatore che, il 22 aprile 2016 ha investito una anziana signora di Moncalieri, provocandole lesioni guaribili in sessanta giorni. Il ricorso alla Consulta - accolto dal giudice Modestino Villani - vuole indicazioni precise sul trattamento previsto dalla legge. La norma - anche per un caso come questo in cui non c’è una vittima - così come è stata formulata dal legislatore, secondo il ricorso, limita la discrezionalità del giudice provocando un aumento “sproporzionato e irragionevole della condanna”. Poi il legale contesta la sanzione accessoria della revoca della patente che può scattare in caso di condanna - perfino di fronte a un patteggiamento della pena - e che impedisce di ridare l’esame di guida per i primi cinque anni. Troppo, secondo il ricorso. L’incidente era avvenuto con l’autista e il pedone, che erano entrambi passati con il semaforo rosso. Una circostanza che ha spinto la procura a ipotizzare “un concorso di colpa”. Revoca della patente a vita Se a Torino si invoca la Consulta per valutare l’equa sanzione, a Milano, un pirata della strada, oltre a una condanna a sei anni e mezzo, si vede anche revocare la patente a vita. Due casi opposti. A Milano, il giudice dell’udienza preliminare Natalia Imarisio ha nei fatti sostanzialmente vietato la patente a vita per l’imputato. Era finito in carcere alla fine del gennaio scorso, per avere travolto e ucciso con il suo Suv, il pensionato di 88 anni Sandro Orlandi. Dopo averlo investito, non solo non lo aveva soccorso, ma era scappato per evitare di essere identificato. Alessandro Ghezzi, 45 anni - una sfilza di precedenti per reati contro il patrimonio - si trova ancora agli arresti domiciliari e doveva rispondere di omicidio stradale aggravato dalla fuga e dalla guida in stato di ebbrezza. I rilievi avevano stabilito che aveva nel sangue un tasso alcolemico tre volte superiore al limite (1,58).Il pubblico ministero Francesco De Tommasi, aveva chiesto una condanna a 7 anni e ora i familiari della vittima potranno cercare di ottenere un risarcimento dal Fondo di garanzia per le vittime della strada. “Considerato lo sconto previsto dal rito abbreviato”, ha chiarito il legale della famiglia della vittima, Domenico Musicco, “è una condanna in linea con le nuove norme sull’omicidio stradale che anche la nostra associazione ha contribuito a far approvare”. “Difficilmente”, ha concluso - “si poteva avere una pena maggiore, considerato anche il rito scelto dalla difesa”. Sicilia: penitenziari svuotati ma con tanti agenti, i sindacati chiedono di chiuderne quattro di Romina Marceca La Repubblica, 9 giugno 2018 Le carceri siciliane scoppiano e i poliziotti penitenziari sono sempre di meno. È allarme sicurezza nei penitenziari dell’Isola per le poche forze in campo. Per 6.300 detenuti nelle 23 carceri siciliane ci sono circa 3.500 poliziotti, un agente ogni due carcerati. E, adesso, sono proprio i poliziotti penitenziari a chiedere la chiusura di quattro strutture vicine ai capoluoghi di provincia per recuperare colleghi e rinforzare i controlli sui fronti più scoperti. “Il nostro organico è sotto di 500 unità, c’è un 30 per cento di malati cronici e colleghi che stanno per andare in pensione. Giarre, Piazza Armerina, Favignana e Gela sono da chiudere - dice Mimmo Nicotra, il segretario nazionale del sindacato Osapp - perché accolgono pochi detenuti a fronte di numeri spropositati di agenti penitenziari”. Nel carcere di Favignana, dal quale nell’ottobre del 2017 evasero tre detenuti, fino a poche settimane fa c’erano 15 carcerati secondo i dati raccolti dall’Osapp. I poliziotti penitenziari impiegati in quella casa circondariale sono 81. “Uno scandalo - dice Nicotra - quando a Trapani c’è un altro carcere che invece ospita 532 detenuti e ha a disposizione 300 poliziotti”. Il sindacato chiede un intervento urgente al provveditore per le carceri Gianfranco De Gesu e ha proclamato lo stato di agitazione. La situazione si preannuncia ancora più drammatica in estate. Il decreto Madia del 2 ottobre 2017 ha già avuto i suoi effetti con il taglio del 30 per cento del personale. “Il provveditore ci ha incontrati oggi (ieri, ndr) e ci ha comunicato che ha richiesto personale al dipartimento centrale ritenendo grave la situazione siciliana. È insufficiente quello che ha fatto, deve essere lui a prendere urgentemente delle iniziative”, aggiunge Mimmo Nicotra. Il pericolo è anche quello che possa abbassarsi la guardia nell’osservazione dei detenuti a rischio radicalizzazione. “Solo per fare un esempio - dice Dario Quattrocchi, segretario regionale Osapp - fummo noi a segnalare Anis Amri, il terrorista di Berlino, come persona sospetta quando si trovava al carcere Ucciardone. Era molto silenzioso. In tutta la Sicilia ci sono diversi casi simili a quello di Amri, tutti sotto la nostra attenta osservazione. Questo per dimostrare l’alta professionalità degli operatori della polizia penitenziaria che sta soffrendo una situazione di grave carenza”. Situazione di emergenza anche a Siracusa, altro carcere che scoppia. I detenuti al 31 maggio erano 610 (la capienza è di 529), gli agenti 249. E il 50 per cento dei carcerati è ad alta sicurezza. “Il personale si è autoconsegnato per oltre un mese nei giorni scorsi - spiega Mimmo Nicotra - e al termine del servizio rimaneva dentro al penitenziario abbandonando le proprie famiglie in segno di protesta. La situazione non è ancora cambiata nonostante la nostra mobilitazione”. Non va meglio a Palermo dove all’Ucciardone ci sono 463 detenuti e 367 poliziotti penitenziari, al Pagliarelli invece i carcerati sono 1.270 (oltre 100 in più rispetto alla capienza) e 732 agenti. Numeri che stridono col passato. Nel 2014 gli agenti in servizio all’Ucciardone erano 438 mentre al Pagliarelli erano 887. Marche: nelle carceri 1 detenuto su 3 ha disturbi psichiatrici marchenotizie.it, 9 giugno 2018 Nelle Marche il 2% delle persone convive con una fragilità psichiatrica, per un totale di oltre 3 mila 600 pazienti (il 54% donne) e più di 72 mila prestazioni solo nel 2017. Una situazione che nelle carceri della regione diventa allarmante: più di 1 detenuto su 3 è infatti in cura per una malattia mentale, come disturbi psicotici, della personalità e depressione. Gli esperti ne hanno parlato ieri a Pesaro, nella casa circondariale Villa Fastiggi, in occasione della tappa marchigiana del progetto nazionale “Insieme - Carcere e salute mentale”, promosso dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, dalla Società Italiana di Psichiatria e dalla Società Italiana di Psichiatria delle Dipendenze con il supporto incondizionato di Otsuka e di Lundbeck. Il progetto ha permesso di sviluppare un nuovo Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (Pdta) per una migliore gestione e trattamento dei detenuti che soffrono di malattie mentali. A Pesaro gli assistiti dal Dipartimento di Salute Mentale sono 1903 su circa 95mila abitanti. A Villa Fastiggi il 30% dei detenuti è in cura per disturbi psichiatrici. “In carcere il disturbo mentale può assumere diverse forme e vari livelli di gravità. C’è da considerare, infatti, che la sola privazione della libertà rappresenta una condizione di estrema fragilità. I disturbi psichiatrici più frequenti - afferma Leo Mencarelli, direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Pesaro e dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura di Fano, Area Vasta 1, Azienda Sanitaria Unica Regionale delle Marche - sono quelli psicotici, della personalità e correlati all’uso di sostanze. Per una buona gestione è fondamentale l’integrazione tra diverse figure professionali come i magistrati di sorveglianza, gli psichiatri, gli assistenti sociali e gli agenti di polizia penitenziaria. Il nuovo Pdta va proprio in questa direzione, perché favorisce la collaborazione del personale e permette inoltre di evidenziare le aree problematiche, favorendo così un costante adattamento e miglioramento della gestione dei disturbi mentali”. Concorda Armanda Rossi, direttrice della Casa Circondariale Villa Fastiggi: “Un percorso capace di integrare i punti di forza e il know how del personale sanitario e di quello penitenziario è fondamentale per garantire i massimi benefici sanitari e riabilitativi a ogni paziente detenuto che convive con un disturbo psichiatrico”. La partecipazione al progetto “Insieme” e la discussione sul nuovo Pdta sono due esempi dell’impegno delle Marche nei confronti delle persone che soffrono di malattie mentali. “La nostra Regione mette a disposizione numerosi servizi per chi è costretto a convivere con una fragilità psichiatrica. Ad oggi - spiega Leonardo Badioli, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Urbino e Servizi Territoriali di Fano, Av1 - sono attivi tre centri di salute mentale, un ambulatorio per i disturbi alimentari, due strutture residenziali riabilitative e alcune comunità protette. Tutto ciò è pensato per poter offrire ai nostri pazienti un’assistenza continua attraverso servizi e strutture distribuite in maniera capillare su tutto il territorio”. Attraverso il coinvolgimento di numerosi professionisti provenienti da diversi istituti penitenziari di tutta Italia, il progetto “Insieme - Carcere e salute mentale” ha sviluppato un nuovo Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale (Pdta) per una gestione unitaria e multidisciplinare dei disturbi psichiatrici nelle carceri italiane. Tra le novità introdotte dal Pdta ci sono la valutazione e il monitoraggio della salute mentale del detenuto fin dal suo ingresso in carcere, l’utilizzo dei trattamenti di ultima generazione, la realizzazione di gruppi di sostegno tra i detenuti e la messa appunto di iniziative capaci di garantire la continuità assistenziale dopo la scarcerazione. “L’evento di Pesaro - commenta Giuseppe Quintavalle direttore Generale Asl Roma 4 e componente del board di “Insieme” - si colloca all’interno di un progetto che vuole delineare in maniera chiara e precisa, a livello nazionale, i compiti, gli aspetti e le funzioni che fino a poco tempo fa venivano svolte in modo autonomo dai vari soggetti che, nelle carceri, si occupano della gestione delle malattie mentali. In poco tempo il Pdta sta dando buoni risultati e sta diventando un punto di riferimento in molti piani regionali di prevenzione del rischio suicidario in carcere”. Calabria: l’osservatorio antiviolenza di genere muove i primi passi corrieredellacalabria.it, 9 giugno 2018 La struttura, nata recentemente anche in Calabria, ha promosso un incontro a Palazzo Campanella per mettere a punto un piano regionale per il contrasto alle violenze. Di fronte ai dati dei casi di femminicidio e dei maltrattamenti sui minori che vedono la Calabria ai primi posti tra le regioni italiane si rende necessario potenziare le iniziative di contrasto di questo allarmante fenomeno. È stato questo il tema dell’incontro tenutosi in consiglio regionale dal neo costituito Osservatorio regionale sulla violenza di genere che ha visto la partecipazione dell’assessore regionale alle Politiche sociali Angela Robbe. L’assessore dopo aver manifestato il proprio apprezzamento per la nascita dell’Osservatorio, ritenuto strumento strategico nel monitoraggio e nella prevenzione della violenza, ha dichiarato la propria disponibilità a lavorare sinergicamente con l’organismo per costruire insieme un Piano regionale per il contrasto alla violenza. Si è deliberato di avviare un monitoraggio capillare, che porti soprattutto all’emersione del sommerso, di relazionarsi con le Forze dell’Ordine, gli Uffici Giudiziari, le Asp e i consigli degli Ordini degli Avvocati. Si chiederà, pertanto, la sottoscrizione dei protocolli per il contrasto alla violenza già esistenti presso le Prefetture, così da accelerare la fase del monitoraggio, propedeutica alle azioni per il contrasto. Su aspetti specifici, come il diritto alla riserva di alloggi del patrimonio edilizio dei comuni per donne vittime di violenza si è deliberato di intraprendere un’iniziativa congiunta con l’Anci e con l’Aterp per la stipula di un protocollo d’intesa di recepimento della legge regionale 20/2017 e favorire così i processi di autonomia e di reinserimento lavorativo e sociale delle donne. Sulla problematica delicata del trattamento degli uomini maltrattanti, sulla scia di esperienze già avviate in Calabria, ci sarà un’attenzione particolare per potenziarli anche con il coinvolgimento dell’avvocatura e dei servizi socio-sanitari. Anche sulla problematica della violenza assistita che riguarda i minori è iniziato un confronto con il garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza Antonio Marziale che porterà a forme di collaborazione per la loro tutela. È stato, infine, approvato il regolamento attuativo dell’Osservatorio che ha portato alla nomina del vice Coordinatore nella persona dell’avv. Giovanna Cusumano che compone l’Ufficio di Coordinamento insieme al Coordinatore Mario Nasone e sono stati attivati 4 gruppi di lavoro su monitoraggio, prevenzione, sostegno e tutela giudiziaria. I gruppi di lavoro saranno aperti alle associazioni ed agli esperti presenti sul territorio regionale che vorranno offrire il loro contributo e per valorizzare tutto il privato sociale che opera nel territorio regionale. L’obiettivo è quello di fare diventare l’Osservatorio una vera cabina di regia per tutte le realtà che a vario titolo si occupano del fenomeno della violenza per calibrare meglio le azioni di prevenzione e contrasto nei vari territori calabresi non tutti coperti adeguatamente da servizi di ascolto e di presa in carico. Per favorire questa comunicazione è stato anche attivata una sezione nel sito istituzionale del Consiglio regionale. Il coordinatore Mario Nasone, a conclusione dei lavori, ha espresso a nome dell’Osservatorio vivo apprezzamento per l’impegno dell’assessorato guidato da Angela Robbe e dalla dirigente per il settore Edith Macrì le quali, nonostante le esigue risorse a disposizione, hanno svolto un importante lavoro di coordinamento assieme ai centri anti violenza attivi in Calabria. Napoli: da detenuti a acconciatori e massaggiatori napolitoday.it, 9 giugno 2018 Promossi 15 allievi nel carcere di Poggioreale. I corsi sono stati erogati da Aciief nella struttura penitenziaria nell’ambito del programma Garanzia Giovani. Nove acconciatori, sei massaggiatori estetici: in totale 15 qualifiche professionali regionali spendibili nel mondo del lavoro. Ma soprattutto una seconda opportunità per ragazzi che hanno commesso degli errori in passato e che non vogliono sbagliare più. Si sono conclusi nelle scorse ore i due corsi Garanzia Giovani organizzati dalla scuola di formazione Aciief nell’istituto penitenziario di Poggioreale. I corsi, della durata di 200 ore, sono stati destinati a giovani inoccupati tra i 18 e i 29 anni non impegnati in altre attività nella struttura penitenziaria, e si sono conclusi oggi con l’esame finale brillantemente superato. In nove sono diventati acconciatori, e hanno appreso le basi di taglio e messa in piega. Altri sei allievi invece hanno partecipato al corso Massaggiatore Estetico, diventando una figura professionale completa che non opera solo nel settore del benessere ma anche in ambito sportivo. “Aciief - dichiara la direttrice didattica Dolores Cuomo - ritiene che l’artigianato potesse essere la migliore occasione per dare una seconda opportunità, al termine del periodo detentivo, a questi giovani. Abbiamo molta fiducia nella collocabilità di questi giovani, in quanto riceviamo richieste ogni giorno sia dall’Italia che da Francia, Inghilterra e Germania di queste figure professionali”. Ciro Proto, vicedirettore dell’istituto penitenziario di Poggioreale, ha affermato durante la mattinata d’esami: “Siamo molto felici per due motivi: il primo è che iniziative del genere mostrano quanta umanità c’è nella nostra struttura anche all’esterno. L’altra è la possibilità per noi operatori di attuare il dettame costituzionale che, ricordiamo, afferma che le pene devono tendere alla rieducazione e la risocializzazione del detenuto”. Alla consegna degli attestati dopo l’esame non è voluta mancare l’assessore alla Formazione Professionale della Regione Campania Chiara Marciani che a margine ribadisce: “Mi sembra importante dare l’opportunità di Garanzia Giovani anche a chi è dentro questa struttura penitenziaria. Il riconoscimento conseguito dentro queste mura ci auguriamo possa essere l’inizio di una vita diversa una volta fuori”. Aosta: zafferano di ottima qualità, lo coltivano i detenuti di Sandra Lucchini corrierequotidiano.it, 9 giugno 2018 Tra i due cancelli della Casa Circondariale di Brissogne c’era un’area dismessa, inutilizzata da tempo. L’abbiamo rivitalizzata con la coltivazione di zafferano a cui si dedicano quattro detenuti. Il prossimo anno speriamo di ampliare le colture grazie ad un sostegno economico promesso dalla Compagnia di San Paolo”. Maurizio Bergamini, presidente dell’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario, esprime il classico sogno nel cassetto: “Vorrei una detenzione il più utile possibile. Vorrei anche che l’opera dei volontari fosse sostenuta anche dalla società civile per rendere la pena non una vendetta, ma una vera e propria ricostruzione della persona, dotata degli strumenti necessari ad un reingresso concreto nella società, nel lavoro, in famiglia”. Ancora: “L’ormai consolidata attività di apicoltura impegna cinque giovani. Ad oggi, non possiamo contare sulla commercializzazione delle nostre produzioni, considerata la scarsa quantità. Ci limitiamo a venderle ad amici, parenti, al personale carcerario e fra noi volontari. Il ricavato viene reinvestito nell’acquisto di beni di prima necessità per i detenuti”. Abbigliamento e articoli per l’igiene. Acquisti finalizzati alla salvaguardia della dignità della persona. Diritto inalienabile di ogni cittadino in qualunque situazioni si trovi. Dignità che coincide anche con l’aggancio ad una occupazione quale incentivo al recupero del proprio Io. Il lavoro, colonna portante su cui poggiano le solide basi per una effettiva svolta di chi ritorna in libertà. Occupazione che, nell’Istituto penitenziario valdostano, viene proposta anche sotto l’aspetto culturale. Detenuti appassionati di giornalismo, impegnati nella redazione trimestrale di Pagine Speciali. “Sono dieci ragazzi che, con grande entusiasmo, dedicano molte ore al giornale - assicura Bergamini -.La loro passione per lettura e scrittura potrebbe trasformarsi in un impegno stabile una volta fuori da queste mura. Il problema, però, continua ad essere costituito, nella stragrande maggioranza dei casi, dall’impatto sociale, non superabile con facilità”. Scogli insormontabili, rocce granitiche con cui il confronto risulta impari. Dei 200 detenuti, ad oggi, nella Casa Circondariale di Brissogne (il numero fluttua con rapidità) una ventina di questi ha oggettive possibilità di uscire e di reintegrarsi, a pieno titolo, lasciandosi alle spalle le tribolazioni di ieri. L’oggi e, soprattutto, il domani possono ripresentarsi con un “volto luminoso”. “Gli otto detenuti assunti con tanto di contratto e stipendio nella panetteria e nella lavanderia carcerarie usciranno con la qualifica di operai specializzati - sottolinea Maurizio Bergamini -. Ci sono tutti presupposti per un futuro scandito da un’attività in proprio o dipendente. Una autentica nuova vita”. Questa nobile attività svolta da 30 dei 40 iscritti all’Associazione colma, in molti casi, il vuoto esistenziale di coloro che vedono il mondo dietro le sbarre. Ogni giorno qualcuno dei volontari varca i pesanti portoni in ferro del carcere regionale e incontra, dialoga, ascolta chi ha necessità o desiderio di confidare il proprio tormento, le angosce a persone che non giudicano, ma aiutano e offrono solidarietà morale e materiale. “Possiamo anche contare sull’aiuto economico del cappellano - ricorda il presidente dei Volontariato Carcerario -.Fondi destinati a chi non può permettersi neppure di acquistare una scheda per telefonare ai propri cari o agli avvocati. In carcere si paga tutto. Ad eccezione di vitto e alloggio. Anche i contributi della Crt e i rimborsi annuali garantiti dalla Regione ci permettono di acquistare articoli urgenti. Farmaci, occhiali, prodotti di parafarmacia e per la cura personale. L’indispensabile”, conclude Maurizio Bergamini. Firenze: Compagnia di Sollicciano, gli attori detenuti interpretano “Kan Ya Makan” gonews.it, 9 giugno 2018 La Compagnia di Sollicciano, formata da attori detenuti, con la regia di Elisa Taddei va in scena lunedì 9 e martedì 10 luglio alle 21:00 presso il Teatro del Carcere di Sollicciano, con la nuova produzione in prima nazionale, Kan Ya Makan. “Questo lavoro è nato dal desiderio di portare nello spazio di un carcere, vero regno del brutto, tutta la meraviglia e la bellezza della fiaba” afferma la regista Elisa Taddei di Krillteatro “con il piacere di raccontare una storia, senza dimenticare di far emergere anche quella parte oscura fatta di inganno, violenza, angoscia, atrocità che nella fiaba affonda le radici.” Kan Ya Makan, in arabo “c’era una volta”, porta in scena una delle fiabe più celebri della raccolta più famosa del mondo arabo Le Mille e una notte: “Aladino e la lampada magica”. Una storia che parla di desiderio, di amore e di morte, di avidità e sete di potere. La compagnia costituita da attori di varia nazionalità, per la maggior parte nordafricana, ha portato una qualità in più a questo lavoro, valorizzata dai suoni e dalla melodia dell’arabo, in un tempo in cui questa lingua non vuole essere ascoltata perché associata a qualcosa che fa paura. Nel lungo processo delle prove, la sala del teatro si è trasformata in un giardino fantastico, in un castello meraviglioso, in una caverna buia dove trovare una lampada magica e incontrare l’amore. La struttura drammaturgica dello spettacolo ha mantenuto quella a scatole cinesi caratteristica delle mille e una notte, in cui ogni storia ne contiene al suo interno un’altra; “questo ci ha permesso” continua Taddei “di giocare su due livelli, quello fantastico della fiaba e quello reale legato a momenti di vita vissuta da alcuni attori della compagnia.” Il progetto “Teatro a Sollicciano”, accolto dalla Direzione del Carcere di Firenze, nasce nell’ottobre del 2004 sotto la guida di Elisa Taddei. Nel 2004 viene approvato dal Coordinamento Teatro e Carcere, promosso dalla Regione Toscana, a cui aderiscono le principali realtà artistiche che operano nel settore teatro e carcere, presenti sul territorio regionale. Da allora, la compagnia di attori detenuti del carcere di Sollicciano ha prodotto ogni anno un nuovo spettacolo. A partire dal 2005 questo progetto viene sostenuto dalla Fondazione Carlo Marchi, che opera “per la diffusione della cultura e del civismo in Italia”. Fino ad oggi la Compagnia di Sollicciano ha realizzato diciannove spettacoli, risultato di percorsi annuali di lavoro e ad essa hanno partecipato più di duecentosettanta detenuti tra attori, scenografi, assistenti al suono e alle luci. Negli ultimi anni la compagnia è riuscita ad ottenere i permessi per uscire dal carcere e ha potuto presentare i suoi lavori in teatri come il Ridotto del Teatro Comunale, il Teatro del Cestello, il Teatro Everest, il Teatro Studio di Scandicci. Dal 2014 si è avviata una collaborazione stabile con Murmuris Teatro e con il Teatro Cantiere Florida e nel 2016 la Compagnia ha partecipato alla rassegna Scena Libera, organizzata da Murmuris Teatro, sul teatro in carcere. Il biglietto dello spettacolo servirà a retribuire la prestazione degli attori-detenuti. Si ringrazia la Fondazione Carlo Marchi, la Regione Toscana, Murmuris Teatro, la Direzione di Sollicciano, la Polizia Penitenziaria. Un ringraziamento speciale a Lucia Bindi e alla Segreteria Educatori, a tutti gli agenti del Reparto Attività e della Mof, all’Associazione “Insieme per Brozzi” - Gruppo 334. Il progetto è sostenuto da Fondazione Carlo Marchi e Regione Toscana - organizzazione Murmuris Lo spettacolo è inserito negli eventi di Estate Fiorentina 2018 Razzismo e populismo, la semplicità contro la banalità di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 9 giugno 2018 Razzismo e populismo sono i due ingredienti principali del nuovo governo che unisce elettorati eterogenei e poco definiti sul piano del progetto. Se legassero bene tra di loro il risultato sarebbe catastrofico. Potrebbero legare perché, pur nella loro differenza (essendo il primo l’estroversione di un processo distruttivo della nostra relazione con il mondo e il secondo un rimedio peggiore del male alla precarietà delle relazioni di scambio), hanno la stessa origine: la rappresentazione banale della vita. La banalità è l’opposto della complessità. Si produce, come endorfina psichica, tutte le volte che l’approccio complesso alla realtà diventa complicazione. L’amore per la complessità - il suo investimento erotico, affettivo e intellettivo - implica il piacere dell’inconsueto e dell’imprevisto, la capacità di sostare in modo sperimentale nella propria esperienza e il “gusto” del vivere (l’”assaporare” come modo di sentire e di pensare). La precarietà delle relazioni sociali, quando gli scambi diventano sregolati, soggetti all’arbitrio, rende la permanenza nelle aree complesse dell’esistenza complicata. La complessità è vissuta come fluire profondo e intenso dell’esperienza che sa di leggerezza e di chiarezza. La complicazione è percepita come pesantezza, rompicapo che ostruisce le sensazioni e i sentimenti, viscosità dell’essere. La banalità crea un falso alleggerimento: riduce il rapporto con la realtà a una sua lettura operativa che concentrando la tensione, sotto forma di eccitazione, in alcuni schemi di azione, ne favorisce la scarica. Più che un agire vero e proprio, l’interpretazione banale della vita produce un pensiero-azione, opposto a ogni trasformazione e finalizzato a congelare la propria concezione del mondo. La banalità ha la sua forza di persuasione nell’effetto di ottundimento delle emozioni, che agisce come antidolorifico, e nella coltivazione dello spirito di adattamento. L’essere umano si abitua anche alle circostanze peggiori e più invivibili, attiva, in mancanza di altre soluzioni, le forze inerziali della sua esistenza le quali, conformandolo a ciò che lo circonda, l’aiutano a sopravvivere. Non in attesa di “tempi migliori”, di circostanze favorevoli alla propria capacità di iniziativa e di invenzione, ma nella perenne “ripetizione del medesimo”, la materia prima del tanto acclamato “senso di sicurezza”. Il pensiero-azione banale non ha un legame diretto con la distruttività, il suo effetto soporifero sembra piuttosto blandirla. È la stagnazione, depressione psichica che produce a trovare sbocco in esplosioni terribili di violenza. Tali esplosioni sono una reazione “vitalizzante” al senso di morte che invade la psiche depressa o un’identificazione temeraria con la morte stessa. Il razzismo è un nemico identificabile - l’evoluzione distruttiva della banalità divenuta “male” - e lo si deve combattere a viso aperto. È necessario, tuttavia, bonificare la pigrizia mentale e emotiva da cui nasce e dentro la quale prospera. Questa pigrizia non si bonifica con battaglie generiche contro il populismo. Tale fenomeno (l’inganno del popolo con la riduzione dei suoi desideri in bisogni) è la parte confusamente visibile di un processo sotterraneo ben più ampio: una cultura di disimpegno dalla vita che non risparmia nessuno. Alla complicazione dell’esistenza bisogna opporre la semplicità: la dislocazione dello sguardo che fa uscire la vista dalla trappola del puro adattamento alla realtà e rimette in gioco la complessità. Se l’opposizione al populismo rinforza la sua fonte principale (la precarietà), i conti non tornano e non sarà la banalità (l’austerità) a salvarli. Telefono Azzurro: “crescono i bambini maltrattati, sia priorità del nuovo governo” La Repubblica, 9 giugno 2018 I dati a 31 anni dalla prima chiamata: sono state 72mila le richieste di aiuto (nel 2017 in netto aumento), la metà per violenza da parte dei genitori. Preoccupazione per bullismo e atti di autolesionismo. “Alla luce del disinteresse generale mostrato sul tema della tutela dell’infanzia, anche nelle recenti consultazioni alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica, dove nessun gruppo parlamentare ha toccato l’argomento, Telefono Azzurro chiede che tra le priorità del nuovo Governo ci sia l’attenzione legislativa ai temi legati all’infanzia e all’adolescenza”. È questo l’appello fatto dal presidente di Telefono Azzurro, Ernesto Caffo, nel giorno in cui si festeggiano 31 anni di chiamate al numero di soccorso per l’infanzia. Attraverso quelle telefonate fatte da bambini e adolescenti impauriti nel corso di trent’anni, si legge l’Italia che cambia, le emergenze, i comportamenti violenti nelle famiglie, a lungo nascosti, tenuti segreti e poi finalmente denunciati. Richieste di aiuto fatte di nascosto dai genitori, da chi avrebbe dovuto proteggerli e invece ha trasformato la loro infanzia in un inferno. Sono passati oggi 31 anni da quando Telefono Azzurro ricevette la sua prima chiamata l’8 giugno 1987, da quel giorno migliaia di bambini si sono rivolti all’associazione, che in queste decadi ha aiutato e assistito 72 mila piccoli e adolescenti, più di 2.400 ogni anno. E il 2017 parla di richieste di aiuto in aumento, in netto aumento. E se la metà dei casi riguarda violenza subita da adulti, crescono i casi di bullismo tra coetanei e gli episodi di autolesionismo. Se nei primi 6 anni monitorati (1989-1994) i casi presi in carico da Telefono Azzurro sono stati 5.243, negli ultimi 7 (2010-2017) sono arrivati a 16mila. La prima generazione chiedeva aiuto principalmente per problematiche legate alle relazioni con adulti o coetanei (il 45% dei casi gestiti tra 1987 e 1994) e per situazioni di violenza domestica (percosse e maltrattamenti fisici rappresentavano il 10% circa delle chiamate). Oggi insieme alle chiamate sono in aumentano le casistiche di aiuto: non più solo violenza domestica ma anche violenza tra coetanei come bullismo e dating violence e violenza contro se stessi intesa come autolesionismo. A ciò si aggiungono le minacce del web - il 6% del totale - frutto di un utilizzo poco consapevole ed inadeguato delle nuove tecnologie: invio e condivisione di immagini e video sessualmente espliciti autoprodotti (sexting), ricatti legati a questi invii (sextortion), adescamenti di minori ad opera di sconosciuti (grooming). L’analisi è confermata dai numeri. La violenza domestica - fisica, psicologica e sessuale - è ancora oggi la principale forma di abuso denunciata dal 50% di chi si è rivolto a Telefono Azzurro nel 2017 (incidenza del 58% per la linea 1.96.96; 41% per 114 Emergenza Infanzia; 42% per segnalazioni via chat) e i genitori (47,7% madre e 34,4% padre) i principali presunti responsabili delle situazioni riferite. Oltre la metà della casistica ha riguardato bambini sotto i 10 anni, prevalentemente di nazionalità italiana (85.5% dei casi). Negli ultimi anni, l’Associazione ha riscontrato un aumento di situazioni di violenza tra coetanei, che rappresenta circa 1 caso su 10. Le forme più diffuse sono bullismo, cyberbullismo e dating violence. In crescita anche gli atti di violenza contro se stessi, con 306 richieste di aiuto arrivate all’Associazione nell’ultimo biennio (il 6,1% del totale). Solo nei primi 6 mesi del 2017 i consulenti di Telefono Azzurro hanno offerto sostegno e intervento in 118 casi, il 9,5% del totale. Migranti. Ira di Salvini contro Malta e Ong, ma Fico li difende di Valentina Errante Il Messaggero, 9 giugno 2018 Il primo strappo si consuma a una settimana dal giuramento: Fico versus Salvini. La polemica è solo sotterranea, non c’è uno scontro diretto, ma che sui migranti Cinque Stelle e Lega avessero posizioni diverse era noto. Da un lato, c’è il vicepremier e ministro dell’Interno che, al primo sbarco “respinto” da Malta, tuona: “Certe Ong non fanno volontariato, ma affari, fungono da taxi” e il regolamento voluto da Minniti va rivisto perché non consente “di intervenire in maniera efficace”. Dall’altro, c’è il presidente della Camera che incontra una delegazione di Medici senza frontiere - è proprio l’Ong che lo scorso anno si è rifiutata di sottoscrivere il codice di condotta che adesso Salvini trova blando - e commenta: “Chi fa solidarietà ha tutto il supporto dello Stato. Lo Stato deve essere vicino a chi soffre, ai più deboli, a chi viene considerato ultimo. La loro sofferenza è la mia sofferenza, la loro ricerca di dignità è la mia ricerca della dignità”. La Valletta replica - In chiusura della campagna elettorale, il ministro dell’Interno arriva a Como per portare solidarietà agli autisti del bus aggrediti da alcuni richiedenti asilo (uno dei quali sarà espulso) e attacca, ribadendo la linea dura sui migranti. Dice che la Nato deve difenderci da “migranti e terroristi”, perché l’Italia “è sotto attacco da sud, non da est” e Malta “non può sempre dire no a qualsiasi richiesta d’intervento”. Poi aggiunge: “Sto studiando e lavorando per chiudere i rubinetti a monte: porte aperte per chi scappa veramente dalla guerra, porte sbarrate per tutti gli altri”. Parole che scatenano la replica de La Valletta: “Accuse false, rispettiamo in ogni momento tutti gli obblighi, compresi quelli internazionali”. Ma Salvini ribatte: “Ci dicano gli amici maltesi quante navi che trasportavano migranti hanno attraccato nei loro porti nel 2018, quante persone sono sbarcate, quante domande di asilo sono state esaminate e quante accolte”. E aggiunge: “l’Italia vuole risolvere i problemi, non crearli”. Il presidente della Camera - Se l’opposizione, con il segretario reggente del Pd, Maurizio Martina invita Salvini a “smettere di dichiarare e mettersi a lavorare”, e l’ex ministro degli Esteri, Emma Bonino, sollecita il vicepremier a “trovare il tempo per studiare”, Roberto Fico passa ai fatti: prima incontra i rappresentanti di Amnesty e poi quelli della Ong. Preferisce evitare di rispondere a chi gli chiede cosa pensi della posizione del ministro dell’Interno: “Sono la terza carica dello Stato e non entro nella questione”. Ma poi rimarca: “Anche nel Mediterraneo vanno supportate le persone e le organizzazioni che aiutano gli altri”. E non è un caso che lunedì Fico abbia garantito la sua presenza a San Calogero, dove è stato ucciso Soumayala Sacko. Un annuncio che arriva dai parlamentari calabresi M5s, Parentela, D’Ippolito, Nesci, Tucci e Morra, gli stessi che presenteranno un’interrogazione proprio a Salvini per chiedere che lo Stato “scavi a fondo sull’omicidio”. Il pacchetto di misure - Salvini, intanto, continua a studiare un pacchetto di misure politico-amministrative, come l’apertura di un Centro per i rimpatri in ogni regione e il dirottamento dei fondi dall’accoglienza alle espulsioni. Ma il programma prevede anche provvedimenti che richiederanno un intervento legislativo: dall’allungamento dei tempi di permanenza nei Cpr da 90 giorni a 18 mesi, all’espulsione dei richiedenti asilo che commettano alcuni reati specifici. L’altro punto su cui si sta lavorando è l’accelerazione delle pratiche per il riconoscimento dello status d’asilo. “Lavoreremo sulla riduzione dei tempi e dei costi, perché stiamo perdendo tempo per gente che sta scappando dalle guerre”. Per questo, nei prossimi giorni Salvini incontrerà i 50 presidenti delle commissioni territoriali e i 250 nuovi funzionari amministrativi, entrati in servizio il 21 maggio, che saranno destinati proprio alle Commissioni territoriali ed alla Commissione nazionale. Migranti. Irregolari invisibili, solo seicento nei Centri di rimpatrio di Alessandra Ziniti La Repubblica, 9 giugno 2018 Forse è la volta buona che Najib Hamidi riescono a rimandarlo a casa. Per incredibile che sembri, questo tunisino di 41 anni negli ultimi 12 di sua permanenza in Italia da irregolare è riuscito a collezionare nove arresti e un discreto numero di provvedimenti di espulsione. L’ultimo, qualche settimana fa a Padova dove lo hanno beccato ancora una volta (ed era uscito dal carcere appena due mesi prima) con un po’ di hashish nello zaino. Ma a rimpatriarlo non c’è mai riuscito nessuno. Forse in un Cpr, uno dei soli cinque centri per il rimpatrio presenti in Italia (al Nord funziona solo quello di Torino), Najib non c’è nemmeno mai finito e fino ad ora è stato uno delle centinaia di migliaia di quelli che il ministro dell’Interno Salvini chiama clandestini che adesso il Viminale si propone di rimpatriare alla svelta. Cinquecentomila dicono, anche se la cifra è impossibile da definire proprio perché della stragrande maggioranza di questi stranieri irregolari che dovrebbero lasciare il suolo italiano si sono perse le tracce da tempo. Liberi, con in tasca un foglio di espulsione che intimava di loro di andar via dall’Italia entro sette giorni, ovviamente non si sa dove siano. È probabile che molti siano già fuori dal Paese, gli altri vivono ai margini, nelle baraccopoli improvvisate, nelle città dormitorio delle periferie urbane, nei fatiscenti casolari-lager delle campagne dei caporali, sotto i ponti. Certamente non stanno nel circuito dei centri di accoglienza (in quelli trovano ospitalità solo i richiedenti asilo) e pochi, pochissimi (non arrivano a 600) stanno nei centri per il rimpatrio in attesa dunque di essere identificati ufficialmente dalle autorità dei Paesi di origine che devono anche accettare il loro ritorno in patria. E al momento l’Italia ha accordi di questo genere solo con quattro Paesi: Tunisia, Egitto, Marocco e Nigeria. Dove sono dunque i 500.000 che Salvini annuncia di voler rimpatriare in tempi rapidi? Per andarli a recuperare il Viminale dovrebbe dare il via a retate di massa, come si fece per un certo periodo ai tempi della Bossi-Fini. Poliziotti in strada a caccia di immigrati. Chi viene trovato senza permesso di soggiorno dovrebbe essere rinchiuso nei Cpr. Che, appunto, al di là delle annunciate adesioni di alcuni governatori del Nord (gli stessi che fino ad oggi si sono opposti all’apertura dei nuovi centri per i rimpatri già previsti dal decreto Minniti-Orlando del 2017), non ci sono. In mancanza di posti dove rinchiuderli (perché da sempre, per legge, i Cpr sono strutture detentive da cui non si può entrare e uscire), si notifica agli irregolari un nuovo decreto di espulsione che, nella maggior parte dei casi, resta ineseguibile. I 500.000 irregolari dunque sono, al momento, un esercito di invisibili. Come dimostra anche la grande forbice tra questo numero, citato nel Contratto di governo Lega-M5S, in linea con l’ultima stima della Fondazione Ismu che indica in 491.000 gli stranieri irregolari in Italia e quello indicato dalla Direzione centrale dell’immigrazione del Viminale, nel rapporto denominato “Riepilogo nazionale relativo al rintraccio di stranieri irregolari e ai provvedimenti di allontanamento. Dossier che, per il 2017, indica in appena 45.000 quelli rintracciati, che salgono a 66.000 se si considerano gli ultimi tre anni. Dove per “rintracciati” si intende immigrati trovati senza regolare permesso di soggiorno. Una cifra ben lontana dai 500.000 di cui parla il ministro dell’Interno, che appunto non si sa dove siano. E, per il momento, senza neanche il posto dove rinchiuderli. Sulla carta i Cpr istituiti sono dieci per 1.600 posti, tanti ne prevede il decreto Minniti-Orlando del 2017 ma la strenua opposizione dei governatori (soprattutto del Nord) ha di fatto impedito la loro apertura. E dunque, aggiornando l’ultima radiografia ufficiale effettuata l’anno scorso dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, presieduta nella scorsa legislatura da Luigi Manconi, i Cpr in attività in Italia risultano essere solo cinque: a Torino, Roma, Brindisi, Bari e Potenza. I 359 posti del gennaio 2017 sono stati portati a poco più di 600. Dato alle fiamme durante una rivolta a dicembre e dunque al momento inagibile quello di Pian del Lago a Caltanissetta, la mappa dei Cpr secondo il Viminale prevede l’apertura di nuove strutture a Gradisca d’Isonzo, Brescia, Modena, Iglesias, Mormanno e Santa Maria Capua Vetere fino ad arrivare a 1.600 posti. Ma si tratta di edifici da ristrutturate e adeguare. Sbaglia poi chi pensa che in questa cifra ci siano solo i migranti che arrivano con gli sbarchi. Almeno 100.000 dei 500.000 da rimpatriare sono colf e badanti, arrivati in Italia per lo più via terra dall’Europa dell’est. In teoria bisognerebbe richiudere anche loro nei centri per il rimpatrio. A meno che la Lega non pensi ad usare due pesi e due misure e non metta in campo una grande sanatoria. Cannabis. In Canada sarà festa del raccolto di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 9 giugno 2018 Con il sì del senato il Canada si avvia a diventare il primo paese G7 che legalizza la cannabis “ricreativa”. Via libera previsto per l’autunno (con le piante in fiore), ma il business è già partito. Il Canada ha accolto ieri i membri del G7 come primo paese fra i “7 grandi” ad avere di fatto legalizzato la cannabis ricreativa. Giovedì sera infatti, con un voto a larga maggioranza (56 favorevoli, 30 contrari e 1 astenuto) e dopo 6 ore di discussione in aula, il Senato canadese ha approvato il testo del Cannabis Act. Il provvedimento del governo Trudeau ha superato quindi lo scoglio più difficile e, una volta avuto il via libera definitivo, farà del Canada il secondo stato sovrano (dopo l’Uruguay di Muijica) a definire un impianto legislativo per la regolamentazione legale della cannabis ricreativa. Il Cannabis Act prevede la legalizzazione della produzione, distribuzione, vendita e possesso di piccole quantità (30 gr.) di cannabis ricreativa per gli adulti, la decriminalizzazione per i minori e la possibilità di coltivare sino a 4 piante per famiglia per uso personale. Il testo è frutto di un processo partecipato che ha coinvolto prima una task force tecnica, poi 30.000 fra soggetti portatori di interessi, cittadini e associazioni. Esso definisce un quadro legislativo nazionale in cui si inseriscono le normative locali, lasciate all’autonoma decisione delle province e dei territori canadesi. Questi hanno più o meno già deciso, spesso con percorsi di consultazione pubblica, il loro framework. Il modello appare come una via di mezzo fra quello fortemente statalizzato uruguaiano, e il modello più commerciale che vige in 9 stati Usa. Lo Stato concederà le licenze per la produzione, ma distribuzione e vendite, anche on line, saranno regolate a livello locale. In alcuni casi, come in Ontario e Quebec, queste saranno gestite da aziende di proprietà pubblica (che già gestiscono ad esempio l’alcol), in altri lasciate all’iniziativa privata come in Alberta. British Columbia e altre province faranno invece coesistere i due canali di vendita. Vi saranno differenze anche rispetto ai luoghi dove si potrà fumare: in Alberta e in altre province si potrà consumare cannabis ovunque si possa anche fumare tabacco, mentre ad esempio in Ontario sarà consentito solo l’uso all’interno della residenza o della propria proprietà. Quella di giovedì è certamente una vittoria per il premier Justin Trudeau, anche se non è ancora definitiva. Infatti il Senato, dopo una estenuante terza lettura durata quasi sette mesi, ha approvato una quarantina di emendamenti al testo che ora dovrà tornare indietro alla Camera dei Comuni per l’approvazione definitiva. Il Senato canadese non è elettivo: i senatori sono nominati dal premier di turno e rimangono in carica sino a 75 anni. I 33 membri conservatori hanno fatto di tutto per rallentare l’iter. Non ha aiutato certo il processo, avviato da Trudeau, di affrancamento dei suoi membri dagli schieramenti classici che ha reso impossibili richiami a discipline di partito. Non è passato inosservato come nell’ultima settimana il primo ministro, che contava solo su 15 senatori Liberali, abbia nominato 3 nuovi membri del Senato, anche se indipendenti. Molti degli emendamenti approvati sono di natura tecnica: 29 sono quelli presentati dal relatore, il senatore indipendente dell’Ontario Tony Dean. Questi dovrebbero avere l’ok del Governo e quindi non correre rischi di ping pong fra i due rami del parlamento. Altri invece sono politicamente più rilevanti, come la possibilità da parte della singola provincia o territorio di proibire la coltivazione ad uso personale senza rischiare ricorsi (Quebec e Manitoba hanno già deciso in questo senso). Poi c’è il divieto, introdotto con un emendamento conservatore, di vendere merchandising connesso alla cannabis, cosa non certo ben vista dalle aziende che vorranno posizionarsi e identificare il proprio marchio nel nuovo mercato. Secondo un rapporto recente il business della cannabis ricreativa nel 2019 potrebbe valere solo in Canada circa 2,8 miliardi di euro, da sommarsi al miliardo abbondante di quella medica. Il Canada, grazie a un forte sviluppo delle industrie legate alla cannabis terapeutica (270.000 pazienti registrati, 6 tonnellate di produzione mensile fra infiorescenze e oli) ha già un tessuto imprenditoriale pronto ad entrare nel mercato ricreativo. Si tratta di oltre 100 aziende, che in questi mesi hanno letteralmente galoppato in borsa, protagoniste anche di operazioni di acquisizione e espansione. L’indice dei titoli legati alla cannabis è aumentato del 125% nell’ultimo anno, alcuni quadruplicando il loro valore. Dopo la California, che rappresenta il quinto Pil mondiale, il Canada (11°) è la seconda importante economia che regolamenterà l’uso ricreativo della cannabis. Negli Usa però la cannabis rimane vietata dalle leggi federali, fatto che crea grossi problemi anche per la gestione finanziaria delle imprese: le banche Usa non possono accettare i depositi da attività illegali a livello federale (problema che interessa in parte anche l’Uruguay). In Canada invece si potrà testare l’emersione completa del mercato della cannabis, anche dal punto di vista strettamente finanziario. In attesa di conoscere quale sarà l’esito del dibattito alla Camera sulle modifiche, e anche con le rassicurazioni rispetto a una rapida eventuale rilettura al Senato, lo slittamento della data di partenza prevista inizialmente per il 1° luglio è già una certezza. Una volta che la legge avrà il via libera e otterrà il visto della Regina Elisabetta, il governo federale ha infatti già anticipato che ci vorranno altre otto o dodici settimane prima che le province e le altre parti interessate possano essere pronte per le vendite al dettaglio. Sarà una vera e propria festa del raccolto, quest’autunno in Canada. Russia. Mosca distrugge le schede sui detenuti nei Gulag di Rosalba Castelletti La Repubblica, 9 giugno 2018 Dopo gli arresti e le esecuzioni di milioni di cittadini sovietici durante gli anni delle Grandi Purghe staliniane, un nuovo genocidio. Quello della memoria. Gli archivi di tutta la Russia stanno distruggendo le famigerate “kartochki”, le schede dei detenuti dei Gulag, sulla base di una direttiva segreta del 2014. “Mantenere i documenti che riguardano quel periodo storico è estremamente importante”, ha denunciato il direttore del Museo della Storia del Gulag Roman Romanov chiedendo in una lettera al leader del Cremlino Vladimir Putin e a Mikhail Fedotov, il presidente del Consiglio per i diritti umani, d’intervenire. Quando un detenuto moriva nel Gulag, la sua cartella veniva archiviata a tempo indeterminato, spiega Romanov. Se invece era liberato, la cartella veniva distrutta, ma la kartochka - la scheda con dati anagrafici e informazioni sulla carcerazione - veniva conservata. È solo dall’esame di queste schede che si può scoprire se un condannato è sopravvissuto o è stato trasferito da un campo a un altro. Persa la scheda, finisce nell’oblio. A fare la scoperta è stato Serghej Prudovskij, ricercatore del museo. Mesi fa cercava notizie su Fjodor Ciazov, contadino vittima delle repressioni staliniane, condannato a 5 anni di carcere e deportato nella regione di Magadan. Ha fatto richiesta al dipartimento regionale del ministero degli Interni. “Mi hanno risposto che la cartella era stata distrutta già nel 1955 in conformità alle direttive dell’epoca, ma che mancava anche la kartochka”, ha raccontato a Kommersant. Quando Serghej ha chiesto il perché, è venuto a conoscenza dell’esistenza di un ordine inter-dicasteriale classificato “per uso interno” datato 12 febbraio 2014 e firmato da 11 agenzie statali tra cui il ministero degli Interni, della Giustizia, della Difesa, nonché dall’Fsb, erede del Kgb, e dal Servizio d’intelligence internazionale (Svr). La custodia delle schede, dice la direttiva, scade al compimento degli 80 anni degli ex detenuti. Fjodor li avrebbe compiuti nel 1989 e perciò la sua scheda è stata distrutta nel 2014. Come Fjodor, tanti ex detenuti avrebbero superato gli 80 anni. Le vittime delle repressioni staliniane sarebbero state oltre 12 milioni, secondo l’ong Memorial che cerca giustizia per i crimini della polizia segreta sovietica. Missione malvista nella Russia odierna che ricorda Stalin solo come fondatore della grandezza dell’Urss. Tanto che due anni fa è stata bollata come “agente straniero”. Interpellato da Kommersant, Fedotov promette d’intervenire: “È d’importanza fondamentale perché parliamo di un mezzo per contrastare la falsificazione della storia. Quando non ci sono documenti, puoi inventare quello che vuoi”. Turchia. Il leader curdo in cella che sfida Erdogan al telefono di Marco Ansaldo La Repubblica, 9 giugno 2018 Selahattin Demirtas utilizza i colloqui per tenere comizi di dieci minuti. “Ciao tesoro mio, come stai?”. Sono le uniche parole personali che il leader curdo, candidato presidente, si permette al telefono con la moglie. Il resto è un discorso politico. Non c’è tempo da perdere: i 10 minuti concessi al telefono sono quelli del colloquio settimanale, e vanno sfruttati tutti. Siamo in Turchia, fra poco più di due settimane si vota, e lo sfidante forse più pericoloso per il capo di Stato Recep Tayyip Erdogan si trova da un anno e mezzo in cella con l’accusa di terrorismo. I curdi e la sinistra laica e liberale delle grandi città dell’Ovest turco, Istanbul, Smirne, Bursa, alle ultime elezioni lo hanno premiato prima con il 13 e poi con il 10 per cento dei consensi, ben oltre l’altissimo sbarramento elettorale qui a doppia cifra. Ma dopo l’arresto, il processo, la revoca dell’immunità parlamentare, no alla campagna elettorale e nessun comizio. Selahattin Demirtas, 45 anni, da molti è considerato il politico più duttile e aperto del Paese. Non così dal gruppo conservatore di ispirazione religiosa da 16 anni al potere, che lo accusa di non avere completamente reciso i legami fra la sua compagine politica, il Partito democratico dei popoli (Hdp), e il Pkk di Abdullah Ocalan in guerra con l’esercito. Il leader curdo, che rischia 142 anni di reclusione, ha deciso di scendere in campo ugualmente. Cominciando da quei 10 minuti di colloquio permessi in carcere. Dalla prigione di Edirne, vicino al confine greco, si è collegato per telefono con la moglie Bashak che sta a Diyarbakir, dalla parte opposta della Turchia. E il suo audio si è diffuso via Twitter. “Mi reputo fortunato - ha detto mentre scorrevano le immagini di casa Demirtas - penso di essere il primo candidato presidenziale al mondo a tenere la campagna elettorale dal carcere, al telefono con la moglie. Purtroppo, la Turchia è stata trasformata in una prigione semi-aperta. Stanno cercando di creare una società basata sulla paura, tentando di governare attraverso la paura. Io sono un ostaggio politico, ma rimango ottimista. Non è Demirtas la persona che sta in cella. Siete voi. Abbiate fiducia in voi stessi”. Erdogan rispondeva dalla città di Sakarya, in un grande comizio con la piazza tutta per lui. “Non potete votarlo - diceva dello sfidante senza nominarlo - è un terrorista. E un terrorista non può fare il candidato alla presidenza. Il fatto che questa persona, responsabile per la morte di 53 fratelli curdi, sia in corsa per la presidenza, non ne dimostra l’innocenza”. Il Sultano lo accusa di essere responsabile della morte di decine di persone nelle proteste scoppiate nel 2014 in Turchia per la vicina città di Kobane, in Siria, assediata dai jihadisti del sedicente Stato Islamico. Kobane fu poi liberata dalle forze curde. Oggi il partito che ha le sue radici nel Sud est dell’Anatolia ha deciso di fare campagna al posto del proprio leader, sfilando per le strade sotto lo slogan “Demirtas siete Voi”. Dietro le sbarre ci sono molti dei maggiori dirigenti, tra cui la co-presidente Figen Yuksekdag, secondo il sistema di amministrazione curdo guidato in coppia da un uomo e una donna. Sono i vertici di un partito falcidiato, ma non domo. Demirtas tra l’altro è noto per l’autoironia. “Quando in cella faccio un sondaggio - ha twittato - ottengo sempre il 100% dei consensi. Una volta, però, che mi ero stufato di me stesso ho votato contro, ho ottenuto comunque il 50%”. Basterà? Transparency International in un suo report ha osservato che nei principali telegiornali turchi Demirtas ottiene in media 3 secondi di tempo al giorno. Contro i 105 minuti di Erdogan. Yemen. Attacco al porto degli Houthi. L’Onu: si rischia la catastrofe di giordano stabile La Stampa, 9 giugno 2018 Le forze appoggiate dagli Emirati arabi uniti hanno stretto il cerchio attorno alla città di Hodeidah. La guerra nello Yemen, dopo oltre tre anni di stallo, ha subito una improvvisa accelerazione che rischia di provocare un disastro umanitario di proporzioni ancora più spaventose. Le forze appoggiate dagli Emirati arabi uniti hanno stretto il cerchio attorno alla città di Hodeidah, l’unico porto in mano ai ribelli Houthi, usato per sbarcare aiuti umanitari ma anche, secondo Abu Dhabi, armi di contrabbando fornite dall’Iran. La coalizione a guida saudita spera che con la presa di Hodeidah, senza più rifornimenti, i guerriglieri sciiti finiscano per collassare. Ma gli Houthi hanno opposto una resistenza accanita. Una serie di contrattacchi è costata la vita a decine di soldati governativi e gli emiratini sono stati costretti a chiedere aiuto militare diretto agli Stati Uniti. Abu Dhabi chiede aiuto agli Usa - L’Amministrazione Trump è divisa. Il Wall Street Journal ha riportato le preoccupazioni di un funzionario del dipartimento di Stato, rimasto anonimo, che ha espresso dubbi sull’intervento perché “non siamo sicuri che la coalizione sia in grado di evitare una catastrofe” in caso di attacco. Il presidente sarebbe più propenso a rischiare, anche perché ha già autorizzato un aiuto diretto su un altro fronte, quello al confine fra Arabia Saudita e Yemen, dove accanto ai militari sauditi operano le forze speciali dei “Beretti verdi”. Un aiuto che ha permesso a Riad di stabilizzare la situazione. Ma la battaglia di Hodeidah è nel cuore del conflitto e della crisi umanitaria. Abu Dhabi avrebbe chiesto l’aiuto di droni e consiglieri militari, e forse dell’aviazione Usa, per evitare un bagno di sangue fra le sue truppe, come quello subito dai sauditi che hanno già avuto oltre 600 morti e migliaia di feriti. Otto milioni alla fame - Contraria all’assalto è invece l’Onu: se l’assalto dovesse interrompere del tutto l’afflusso di aiuti, come probabile, sarebbe una “catastrofe umanitaria senza precedenti”. L’ong Oxfam ha precisato ieri che Hodeidah passa “il 70 per cento delle medicine e beni essenziali per salvare vite”, mentre tre yemeniti su quattro, 21 milioni di persone, hanno bisogno immediato di assistenza, e 8,4 milioni sono alla fame. La prossima settimana, per disinnescare la battaglia ormai alle porte della città, l’Onu presenterà il piano di pace redatto dal nuovo inviato speciale, Martin Griffiths. Punta alla sospensione dei raid della coalizione in cambio delle rinuncia degli Houthi ai loro missili balistici e tutte le armi pesanti. Seguirebbe un “governo di transizione”, rappresentativo “di tutte le parti”. Segno che il presidente legittimo Abd Rabo Mansou Hadi, cacciato dagli Houthi nel febbraio del 2015, è sempre più isolato, anche fra i suoi alleati di Riad e Abu Dhabi.